Prof Samizdat (prova 1)


Tabea Nineo, Caduta, bassorilievo in creta, 1980

Narratorio. Versione  2020.

di Ennio Abate

Non erano  inferme  le albe del 1978. Somigliavano a quelle  di sempre. Ma  giovani sentinelle appostate su piramidi rilucenti freddarono un sogno. Vento, molto vento. Poi cervici divelte  da corpi ancora frementi, sì. Muschi d’organi squarciati, sì. Torcigli di visceri raccolti in stracci sporchi. E però in Occidente altri vissero  miti e tranquilli. Sull’oscuro pavimento degli anni restò,  color carbone, soltanto uno sgorbio. Per assenza di grida, tutti finsero  che il sogno non era stato di umani percossi da altri umanissimi. Che si fosse trattato  soltanto  di bestie  macellate in quell’autunno, dicevano. 

Mente che indaghi, quel tempo  grumoso è lo stesso che i freezer  televisivi ogni giorno surgelano.

 Oh, tazebao del ’68 alla Statale, proteggete la sua pia fedeltà all’Ombra della Grande Causa! Conservava in cantina persino alcuni di quei geroglifici. Per i figli? Per i nipoti? Puah! Se li troveranno tra carte e le foto, strabuzzeranno gli occhi. Come quel suo studente di 4B fisici quando si vide mettere sul banco il capitolo del manuale sullo sterminio degli ebrei: Toh, leggi e poi ne parliamo. Sì, sì, le sue archeologie: internazionalismo, non neutralità delle scienze, apparati scolastici di Stato, trasformazioni del lavoro! Cercò di farle durare  scovando pretesti per far polemica con colleghi e studenti. Buonsensai, a noi? Un provocatore! Un piacere ad aggredire e a farsi aggredire. Come  i suoi compagnuzzi, ma con più garbo, tenendo in piedi la sintassi almeno. Tenace il suo occhio utopico! Ma intorbidato – eccome! – dalla sconfitta. Erano gli ultimi spasimi del loro sogno giovanile. Poi andarono in pensione.

Languidi si spegnevano anche nella nostra scuola di periferia i docenti lumini che furono un dì Rinnovatori! Ma lui e i suoi sempre lì a mantenerli a riaccenderli. Quante volte gli consigliai prudenza. Dissentirai ancora oggi pomeriggio in collegio? Per i tempi che arrivano (e non capisci) è pericoloso. Non vedi? S’è già sciolto (nell’acido) il partitino – il vostro mondo a parte. L’avevano messo su con lo sputo – diciamo – nella prima metà dei Settanta. E lui patetico: Solo un bimbo amico, in bilico sul muro / continuò a incitare./ Non cadde nello stagno, non si distrasse / e quando,  tu / timoroso,  riapristi gli occhi / ti era accanto. Qualcosa ancora e sempre si protendeva. Diceva. Su, su. E cercava di diventare parola, frase, discorso, movimento, storia. Dall’interno? Dall’esterno? Da dove? Non rispondeva più.  E, comunque, metti almeno una maschera! – gli dissi. Non la tua – mi rispose. Voleva sopravvivere senza tradire, senza dimenticare compagni e compagne. Fai pure, allora. Giocherella col tuo manuale per la sopravvivenza nella scuola che crepa. Accosta e confondi sopravvivenza della tua Idea e tua sottovivenza reale in  quel buco di periferia. A questo ti sei ridotto,  sconcio teorico di una rivoluzione fallita prima di cominciare! 

 Dal fiume uscirono nuotando in due, lo storico e prof Samizdat. Lo storico si asciugò e poi se ne andò in disparte sotto un albero. Inforcò gli occhiali e, aperta la borsa di cuoio marrone ancora gocciolante, tirò fuori e prese a riordinare volantini, giornali, documenti, cassette video e registrazioni delle voci di quegli anni. La sua mente prese a lavorare, profondamente assorta in quel passato e insensibile al fluire dell’acqua che continuava a scorrere. Sopportava bene la sua separazione dall’elemento acquoso e torbido nel quale fino a pochi attimi prima era stato immerso e che l’aveva messo in difficoltà non di poco conto.

Prof Samizdat, invece, rimaneva sotto un’arcata di ponte della metropolitana che, sventrando interi quartieri di  condomini popolari,  avevano portato fin lì, in periferia. Niente, non voleva entrare nella grande sala illuminata dal neon, dove  una folla ascoltava un conferenziere che parlava degli “anni di piombo”. Temeva  le menzogne di quel convegno , ma si fece forza e entrò.  Appena però ascoltò le prime voci al microfono, scappò via. Cominciò a camminare per una stradina semibuia. Arrivò  in un  cinemino intitolato a Giuseppe Impastato. Proiettavano un film “Storielle di periferia”.  S’incuriosì, pagò il biglietto e  entrò. Di spettatori  pochi, dispersi qui è la tra le file delle poltrone quasi tutte vuote.

PRIMA PARTE
PROF SAMIZDAT E LE BIDELLE

I temi, che vuoi, erano sempre quelli. L’eterno burocratico che ritorna, ritorna. La contingenza cronachistica che stenta a farsi storia. E dunque, dai! Attaccava i suoi cartelli di polemica alla bacheca vicino alla porta d’ingresso della sala professori. Ieri contro i propagandisti della pena di morte. Oggi contro gli intrallazzi della commissione orari. Domani di sicuro in difesa dello sciopero della fame di alcuni compagni carcerati. Dopodomani contro l’indifferenza della sinistra verso gli operai di  Solidarność. Eccetera. Li firmava ‘Samizdat’. E non per caso. Non era più l’epoca del Grande Movimento firmato col Grande Plurale Noi.

Anche quel giorno  all’ingresso della scuola salutò con affetto complice le bidelle nel gabbiotto di vetro. Erano là, vicine al termosifone. Rannicchiate tutte in un angolo. Gli ricordarono le donne del dopoguerra – zie e cugine del suo paese – nella stanza di campagna dove lavoravano da sarte. O le galline accovacciate nel pollaio dei Bonomo o in quello di zi’ Assuntine. Gallinelle/ assopite e belle/scusate/ se qui nella stalla/accanto a voi/ pipì  farò. Le bidelle gli sembrarono silenziose e spaurite. Da quando? Da un po’ di giorni. E stavolta nel saluto sentì un affetto quasi disperato.

Nulla o quasi sapeva di loro. Se le immaginava come sorelle o compaesane ignote del Sud, finite chissà come in quella scuola. Forse venivano da  uno di quei paesi spopolati e scoloriti che nessuno nominava più. E chissà  che storie o bocconi di vita amara avevano schivato. E crolli di sogni e sbandamenti. Come lui, del resto. I momenti di gioia? Di sicuro spellati di dosso per adattarsi al lavoro. E non li avrebbero ritrovati mai più. Dentro quei goffi camici azzurri – mica tutte belle figliole eh! –  bruciavano ancora passioni? Forse. Come in lui. Forse. Farci l’amore? Spogliarle dei loro camici, delle maschere di fidanzate stralunate o mogli scontente o calme? Sarebbe stato troppo. Insuperabile distanza. E non solo con le bidelle, anche con le colleghe. Non per superbia sua. Non perché fosse uno castigato, perbenista o serioso. Ma no. Aveva orecchiato persino i discorsi sulla “rivoluzione sessuale”. E non aveva mente e occhi  così rivolti “altrove” (alla rivoluzione? alla politica? allo studio?) da non  badare ai loro corpi seducenti.  E gli appigli con certe le bidelle come con certe colleghe c’erano. Certe cadenze di voci dialettali! Quelle, sì,  gli arrivavano immediatamente riconoscibili, familiari. Ma venivano  travolti. No, proprio non ce la faceva né a immaginare né a costruire simpatie, sogni,  amori. E in quegli anni poi, che già tutto si deformava in tresche, conformismi, cortigianerie, competizioni.

Massim era un giovanotto basso, robusto, volto calmo. Quando Milano e i paesotti dell’hinterland erano state un ronzare di manifestazioni, grida, canti e – ciao, ciao! – riconoscimenti, prof Samizdat l’aveva intravisto in  cortei e assemblee. Ai tempi del movimento. Ora s’era fatto assumere al Pacco Nord come bidello supplente. Con la raccomandazione del portiere di casa sua, socialista. E fumava e lo salutava quando lo vedeva. Orientaleggiava e haschisceggiava. Un giorno però lo fermò. E sornione  gli parlò del rospo che da giorni nel gabbiotto di vetro aveva azzittito le bidelle prima così chiacchierone. Commesse  nel Comune di Cinis  e d’improvviso  in sovrappiù, qualche funzionario le aveva provvisoriamente piazzate in quell’Itis messo su dal Provveditorato accorpando il biennio di Sestosangiò e il triennio di Cesmad. Erano supplenti come lui, ma temevano di perdere il posto, sostituite da personale in graduatoria con più punteggio di loro.  Massimm era sulla ventina e non se ne preoccupava più di tanto. Avrebbe trovato un’altra occupazione. Loro più avanti con gli anni, sì. Parlottarono. Continuava a fumare Massim. E a un certo punto  disse: le mandano via  e noi non fiatiamo? E i suoi occhi dicevano pure: sei o no  un prof-compagno? ti sei mica venduto o rincoglionito? e facciamolo  un tazebao di denuncia, no! Prof Samizdat proruppe al richiamo. Senza esitare, senza sottilizzare. Obietto soltanto: – Noi chi? Loro due, chiaro. E chi altri? Partiamo noi due, poi si vedrà.

Erano pur sempre  due schegge  del Gran Movimento, del Gran Vento. Sì, ora s’era fermato.  Ma qualche spiffero poteva tornare. Sempre pronti a farsi agitare assieme ad altri, eh. Pochi, molti, non smettevano di ragionare, rimuginare. Mai  sconfitti, eh.  E leggevano tanto loro: libri di politica, di storia, di poesia, giornali.  E da lì prof Samizdat passava ai questionari d’italiano e storia per  i suoi studenti. Come fosse facile!  Non ce la facevano a  star  buoni, tranquilli E non ci fosse più stato nessun Vento o Evento? Niente, prof Samizdat la voglia di ribellione  se l’andava a cercare in  un suo meridionalissimo pozzo d’oscuro passato del secondo dopoguerra. Ah, l’infanzia nel Sud! Eppure sapeva bene che lì c’erano stati solo ribelli  e briganti cu a coppole sconfitti e massacrati.  E non l’aveva conosciuta la gente magramente contadina  e spesso in abiti da  lutto, la   testa rassegnata rivolta  al Passato, ai Re e ai Papi? Eh, come non sapeva! E come non ne aveva conosciuta! E un’eco dolente e rassegnata non veniva adesso dalle bidelle? In dialetto la sentiva lui: Cumme e foglie, Assunti’! Ca’ fra poche chiove e nui simme debboluccie assaie. Arrivane chille ra graduatorie e a nui chi nge aiuta? A nuie o viente nge scioscia fore, annure, cu na mane annanze e un’arrete. E l’ascoltava, non si sentiva  di cancellarla. Anche se –  questo pure lo aveva imparato –  il dialetto al Nord non bastava.

4 pensieri su “Prof Samizdat (prova 1)

  1. “Sull’oscuro pavimento degli anni restò, color carbone, soltanto uno sgorbio.”

    Naturalmente, non è così. Perché da quegli anni continua a provenire bellezza, come ad esempio questo racconto appassionato e appassionante. Complimenti e grazie.

    … ma questo tempo incomprensibile
    per noi che non abbiamo ali
    e che stupidamente
    non dormiamo sugli alberi…

    Roberto Amato, “Le cucine celesti”

  2. Chi è Prof Samizdat, clandestino per antonomasia?
    Ne abbiamo avuto un assaggio – da Prof Samizdat 2006 – nella presentazione della rubrica quasi-omonima: una maschera, o più probabilmente un doppio, che compare nei ritagli di tempo (del tempo), va avanti e indietro nel tempo, non se ne va mai. Sicuramente fuori tempo, fuori luogo, ma insistente, petulante perfino – inutilmente scostato dai servi in livrea.
    Ma qui abbiamo una struttura complessa, con delle distinzioni: riquadro azzurro-citazione, corsivo, tondo.
    Cominciamo dal riquadro azzurro. E’ una citazione? un’autocitazione? Ha valore di (lungo) esergo? Lo scivolamento nel gore non è eccessivo? Proporzionato a ben altre catastrofi? Non è che, a quelli che “vissero miti e tranquilli”, può sembrare un’esagerazione che toglie fede al resto e ridimensiona i tormenti di Prof Samizdat alle fissazioni di un originale? Chiedo.
    Il corsivo indica la riflessione dell’ “ora” (genericamente) sul “prima”. E’ il tono che sento di più. Di fondo, è il tono dell’heautontimoroumenos, del simpateticamente autoflagellantesi per un fallimento al quale però non crede; gira il coltello nella piaga per arrivare sempre di nuovo alla conclusione che però la ragione era dalla sua (dalla loro), e che la ragione, essendo ragione, non potrà mancare di ricomparire.
    La parte in tondo, per quel che posso giudicare, è il racconto. Ma anche qui con una divisione netta: la prima parte, dove prof Samizdat e lo storico emergono dal fiume è fortemente metaforica, quasi un’allegoria (e mi piace molto); questa conduce, attraverso il passaggio nel “cinemino”, a una “storiella di periferia” che invece è realistica – anzi dopo l’entrata in scena di Massim molto, forse troppo, realistica.
    Anche qui quello che apprezzo maggiormente sono le rese metaforiche: le bidelle-gallinelle ritirate in gruppo attorno al termosifone, spaventate, azzittite dalla graduatoria (la “grammatoria”, come diceva un’antica bidella amica mia). Mi piace che emerga l’aspetto solo apparentemente garantista democratico legalitario della graduatoria.
    Trovo però che stilisticamente ci sia un salto un po’ arduo (da rompersi una gamba) fra il tono generale marcatamente metaforico e il realismo cronachistico (cronaca di parte, detto senza polemica, come semplice annotazione “narratologica”) del penultimo paragrafo. Naturalmente è questione di orecchio. Io ci sento un salto che sbilancia.

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