femminismo postumano  

di Cristiana Fischer

La questione che mi riguarda e mi interessa, per cui ho percorso alcuni libri e articoli di Rosi Braidotti tra i più recenti, è il rapporto che lei riconosce tra il femminismo e la propria posizione come pensatrice e scrittrice.
Essere donne nel mondo è stato il punto di partenza per una pratica e un pensiero che hanno dato il segnale, negli anni ’70, circa i mutamenti reali in corso nella nostra epoca. Mutamenti di cui si sono fatti protagonisti anche i movimenti e i pensatori antirazzisti e anticoloniali.
La premessa teorica del femminismo, scrive, è la “soggettività radicata nella materialità corporea del sé”. Il postumano, mentre lascia indietro il vecchio umanesimo incentrato sull’Uomo Vitruviano (che rappresenta nell’individuo europeo bianco, sano e razionale l’ideale di una umanità che esclude più di quanti comprenda) richiede una nuova teoria della soggettività, all’altezza della complessità e delle contraddizioni dei nostri tempi. Nel postumano siamo entrati per prendere atto delle amplissime  interrelazioni con il mondo animale, naturale, geologico, che il problema ecologico e lo sviluppo scientifico e tecnologico ci costringono ad affrontare.-
Il postumano è la sfida alla nostra umanità che il mondo postumano stesso ci pone:  “Stiamo andndo al passo con i nostri sé postumani, o vogliamo continuare a indugiare in una cornice teorica e immaginativa sospesa e confusa rispetto all’ambiente reale in cui viviamo?”
La filosofia di Rosi Braidotti è un materialismo vitalista, che poggia “sull’ontologia politica neospinozista del monismo e dell’immanenza radicale”. La vita è una energia cosmica “impersonale e inumana nel senso mostruoso e animale di una radicale alterità: è *zoe* in tutta la sua potenza”. Ognuno di noi è desiderio vitale, materia incarnata, localizzata e nomade in una rete di relazioni vegetali, animali, biotecnologiche. La soggettività incarnata è attività incessante, che metabolizza le influenze esterne e  dispiega all’esterno gli affetti, guidata da un’etica di responsabilità e relazionalità, una richiesta di comunità e di appartenenza.
Tuttavia la materia corporea umana è sempre già sessuata e la differenza non è un problema ma la posizione da cui partire. Ecco come il femminismo è stata la leva che ci ha fatto entrare nel postumano.[1] Scrittrici, scienziate e politiche lo hanno annunciato fin dagli anni ’70 del secolo scorso. Oggi artiste, performers, cantanti realizzano un cambiamento radicale nell’immaginario: “l’immaginario è il legame invisibile ma fortissimo che collega il dentro al fuori di sé.”
Il mito della donna-madre è un tema critico per il femminismo. Valorizzata in quanto creatrice di genealogia femminile, o respinta come riduzione del nostro sesso a naturalismo biologico, la maternità esibisce la asimmetria radicale dei corpi sessuati.
Le nuove tecnologie  propongono una visione funzionale degli organi, come si potessero considerare isolati dal corpo. E quindi: perché una madre non dovrebbe poter gestire i figli concepiti da sua figlia (parafrasando Gertrude Stein: un utero è un utero, è un utero…)?  Perché respingere la Gpa (gravidanza per altri) che pure il mercato offre? E, cavità per cavità, perché non pensare che l’addome dell’uno valga l’utero dell’altra e viceversa? Gravidanze maschili. Macchine femminili.
Braidotti sostiene che “abbiamo bisogno di rivalutare la potenza generativa del corpo delle donne”.  Oggi dopo il femminismo la nostra potenza generativa non si fa rinchiudere nella macchina binaria dei generi e della famiglia eterosessuale. “Proprio perché ignoriamo cosa possono fare i nostri corpi postumani, non possiamo neppure immaginare cosa le nostre menti postantropocentriche e incarnate saranno davvero in grado di pensare”.

Rosi Braidotti Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi, 2020

Rosi Braidotti Materialismo radicale. Itinerari etici per cyborg e cattive ragazze, Meltemi, 2019

Rosi Braidotti Nuovi soggetti nomadi, Luca Sossella editore, 2002
 

Nota

[1] transumano, postumano
Il miglioramento umano è una nozione cruciale per la riflessione transumanista; le chiavi principali per accedere a tale obiettivo sono individuate nella scienza e nella tecnologia, in particolare per eliminare l’invecchiamento e migliorare le capacità intellettuali, fisiche e psicologiche. https://humanityplus.org/transhumanism/philosophy-of-transhumanism/

La soggettività postumana che Braidotti difende è “materialista e relazionale, natural-culturale e capace di autorganizzazione, cruciale per elaborare strumenti critici adatti alla complessità e contraddizione dei nostri tempi”.

https://www.posthumans.org/posthuman-italian-network.html

su youtube anche un corso sul Postumano tenuto da Francesca Ferrando, autrice di Philosophical Posthumanism, Bloomsbury Publishing PLC, 2019.

 https://www.youtube.com/watch?v=zi6APy0oW9A&list=PLAXeXR1DbC1rvnBtdo2-ol-3V8ePmr7jp

7 pensieri su “femminismo postumano  

  1. Collaterale ai temi che sta trattando Cristiana…

    SEGNALAZIONE DALLA PAGINA FB DI PIERLUIGI FAGAN
    https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/10224423809038373

    UN GAY NERO, POVERO, DI RELIGIONE ISLAMICA, DI BASSA STATURA E BRUTTINO (e pure ANTIPATICO) … Nel 1989, una femminista afro-americana, K.W.Crenshaw, presenta la sua teoria dell’intersezionalità. Al di là del nome un po’ complicato, la teoria enuncia l’ovvio ovvero che ogni individuo è collocato nell’arena sociale in base a logiche di gerarchia, ma le gerarchie sono tante e diversi tipi, ad esempio: anagrafica, sessuale, di genere, di razza, di etnia, di classe o casta, di religione, di aspetto fisico etc. In ogni individuo, queste diverse gerarchie si sommano determinando lo status sociale finale.
    Il quadro analitico l’abbiamo definito “ovvio” perché riteniamo che la lettura della storia sociale planetaria (quindi non solo “moderna” e non solo “occidentale”) confermi il fatto che, dalla loro nascita cinque-seimila anni fa), le società complesse si formano in base al principio di gerarchia, prima inesistente o più debole o reversibile. Ma quello che a noi sembra ovvio, per altri non lo è.
    Escluso ci sia qualcuno che pensa che le società umane non siano gerarchiche, il dissidio è tra chi ritiene i valori che danno luogo a gerarchie “naturali” e chi “culturali” e tra costoro, tra chi li ritiene frutto di alcuni ordini specifici (ad esempio il “capitalismo” sarebbe gerarchico per classe sociale cosa ritenuta “naturale” per i liberali che invece si battono contro le gerarchie di determinazione individuale ad esempio sesso-genere, razza etc. ) che in genere fondano quei sistemi di pensiero, ordini che determinerebbero da soli il resto della partizione gerarchica e la sua più o meno problematicità.
    L’intersezionalità invece, somma i principi che danno luogo a diversi tipi di gerarchie. Quindi le femministe generiche non definite per etnia pensano che la gerarchia fondamentale (assunta come principio metodologico) sia uomo-donna, le femministe nere pensano sia uomo-donna+etnia, le femministe nere lesbiche pensano sia uomo-donna+etnia+orientamento sessuale, quelle nere lesbiche e povere pensano siano uomo-donna+etnia+orientamento sessuale+classe sociale e così via, da leggere al di là dell’ordine con cui le ho riportate.
    La questione ha rilevanza nell’ambito degli studi sull’eguaglianza-diseguaglianza, in analisi e prognosi. In prognosi, laddove si ritiene che una partizione sia generativa di tutte le altre. Ad esempio, chi crede che la gerarchia sociale sia determinata dal fattore economico (ricchezza), sarà portato a pensare che, se non risolto, attenuato questo fattore si attenueranno anche tutti gli altri. Si formano così gruppi culturali e poi politici che combattono l’ineguaglianza una per una, ritenendo quella del loro “principio metodologico”, la prioritaria e generativa di ogni altra.
    Ma se invece il “principio di gerarchia” è analitico e non sintetico, se è un portato consustanziale le società da una certa complessità in su (data in primis, dalla semplice dimensione del gruppo sociale), ognuna di queste teorie della diseguaglianza risulterebbe parziale e sottodimensionante il problema. Ammesso lo si ritenga un problema, i “diseguaglianti naturali” ad esempio, lo ritengono un non problema in quanto fatto naturale e come tale “giusto”.
    Lo pongo come fatto-problema da discutere, assieme ad un altro.
    Qual è la ragione prima dell’esistenza così vasta, longeva e profonda del “principio di gerarchia” nelle società complesse? Si dirà “la differenza con l’Altro”. Laddove l’Altro è differente genera sospetto, è potenzialmente un problema. Ma cosa esattamente dell’Altro genera sospetto, cosa motiva il sentimento di potenziale diffidenza se non paura preventiva del differente?
    Il “principio di gerarchia” potrebbe esser un facilitatore sociale, un semplificatore. Bene quelli simili a me, gli altri … è da vedere. I simili a me sono prevedibili, comprensibili, intuibili, gestibili perché ho gli strumenti per relazionarmi con loro (abbiamo cioè la stessa “teoria della mente”), con gli altri non lo so. Ed in base a ciò potrebbe esser un ordinatore ovvero stabilire le relazioni di potere tra gruppi all’interno del sistema sociale comune, quelli come me stanno su o prima, gli altri stanno giù o dopo. Un “come me” relativo s’intende. Come cristiani ci intendiamo di più e ci intendiamo di meno complessivamente con i musulmani, ma poi al nostro interno come cristiani ricchi ci intendiamo di più che non con i cristiani poveri o di più tra cattolici vs protestanti o tra cattolici conservatori più che con i cattolici progressisti così via.
    La gerarchia avrebbe dunque una funzionalità semplificante e procedurale dei flussi di relazione (potere) nel sistema sociale. Ma sembrerebbe poggiarsi per sostanza, sulla differenza di immagine di mondo. Ogni individuo che è sempre dotato di una identità sfumata e composita (principio di identità complesso), ha una mentalità definita quindi differente con chi ne ha un’altra. L’appartenenza comune ad un gruppo (a esempio “i maschi” di sesso e genere) dà preventivamente garanzia di condivisione di certe parti dell’immagine di mondo: “abbiamo (più o meno) degli interessi comuni e comuni modi sentire e pensare riguardo certe cose”.
    Le società complesse, col loro “principio di gerarchia” avrebbero portato due nuovi problemi. Il primo fu il ridurre la complessità interrelazionale di ognuno con tutti ad una partizione gruppale (quelli come “noi” comandano gli Altri) gerarchica, l’altro il doverlo fare anche per esplosione delle differenti immagini di mondo. Le due cose abbinate ed auto-rafforzanti.
    L’argomento è radioattivo e difficile da discutere. Avendo immagini di mondo a volte incommensurabili (senza “misura” comune, basate su differenti principi che danno vita a differenti organizzazioni di pensiero), può mancare il terreno comune per la discussione, ad esempio il significato dei termini e dei concetti oltreché ovviamente dei valori e dei giudizi. In più, se è poi questa la radice del problema come ipotizzato, la discussione stessa è gravata dalla difficoltà di essere parte del problema stesso. Ma invito a provarci lo stesso.
    1) Le gerarchie nelle società sono facilitatori di ordine (chi ha diritto di comandare chi)?
    2) Si basano su condivisioni di immagini di mondo (quelli che sono come noi, la pensano come noi)?
    A Voi le parole, fatene buon uso …

  2. Tra “le” differenze Fagan elenca il sesso, e pure il genere (realmente immateriale, come si sa).
    Ho tenuto a precisare che Braidotti ha una filosofia: materialista, monista. Cui corrisponde un’etica relazionale e incarnata. Se, come lei dice, ogni corpo è da sempre sessuato, cioè non c’è un corpo-bambolotto cui si aggiunga il sesso (e tantopiù il genere!) ma il corpo è da sempre sessuato, e io condivido questa filosofia, allora la differenza sessuale non è proprio come quella di classe o di religione. (Vero è che, come ci si può convertire, oppure -per civilizzazione- superare la differenza di etnia, si può anche -in alcuni paesi è legge!- dichiararsi di altro sesso rispetto alla corporeità naturale. Anzi si può anche tornare indietro… ma deve almeno passare qualche mesetto. Parlo della Spagna e, ahi!, di Podemos.)
    Questo è un primo punto. Altro tema, squisitamente politico, lo faccio dire direttamente a Braidotti:
    “Risonanze, armonie e colori si mescolano per dipingere il paesaggio finalmente diverso di un soggetto che, non essendo Uno, funziona come snodo per una serie di intersezioni intensive e incontri con l’alterità molteplice. Inoltre non dovendo più essere Uno, una tale soggettività può immaginare forme di resistenza e azione politica complesse e a più livelli. Essa diventa così luogo di un divenire empirico trascendentale.”
    “Il soggetto-donna femminista è uno dei termini in un processo che non deve e non può essere costretto in una semplificazione che lo riduca a una forma di soggettività lineare e teleologica. Esso andrebbe visto come l’intersezione del desiderio soggettivo e della volontà di trasformazione sociale. Ed è per questo che voglio arrivare a sostenere che la differenza sessuale permette di affermare forme alternative della soggettività politica femminista: le femministe sono le donne post-donna.”
    (dai libri che ho citato sopra in nota)

  3. Articolo molto interessante, che mi lascia con delle domande inevase.
    Cerco di immaginare il postumano ma faccio fatica. Il transumano è abbastanza facile da pensare, e così pure l’inumano. Ma dove si situa il postumano? A quello che capisco, più che un postumano è un posteuropeo e un altrove-dall’-Europa, con un occhio, mi pare, ai nativi americani di entrambe le Americhe (e assimilati). In che misura questo “occhio di riguardo” abbia a che fare coi sensi di colpa, è qualcosa che ci si potrebbe chiedere.
    Inoltre il postumano è legato al femminile: le femmisiste sono state, e le post-donne sono o saranno, le alfiere del postumano.
    Perché? perché in tutto lo sviluppo dell’umano-europeo non hanno contato niente, relegate com’erano al mero ambito della generazione e della cura – ambiti considerati “meccanici” dalla vola-più-in-alto ragione? Con qualche ragione: generazione e cura offrono scarse possibilità di astrazione, la pentola è concreta e le necessità, fisiche e psichiche, dei bambini pure.
    O perché, visto che fino a tempi recenti non hanno avuto accesso al potere, le si considera meno aggressive dei maschi? In natura pare che le più cattive siano le femmine (proteggere la prole?). Io stessa non faccio che attirarmi attestati di perfidia, forse perché sono allergica a parole come “sogni”, o frasi del tipo “la cattedrale dell’undicesimo secolo con la meravigliosa Deposizione dell’Antelami”, in un certo senso tipiche del linguaggio femminile.
    La vocazione a generare e dunque alla maternità si può presupporre nelle donne sulla base del sesso? in una maggioranza? nel 50%? E quelle che la vocazione non ce l’hanno, e tuttavia non sono maschi ma, grosso modo, donne eterosessuali con scarsa vocazione alla generazione? In che scomoda posizione si trovano! Non vorrei che l’uomo post-umano fosse in realtà più escludente dell’uomo vitruviano (proprio Leonardo, il mago dell’androgino in pittura!)
    L’androgino mi pare sponsorizzato dal transumano, mentre il postumano non molla sulla distinzione, salvo capovolgere le priorità di generazione-ragione. Credo che avrò bisogno di un surplus di spiegazioni…

  4. Sono io pure guardingo-irritato-sgomento di fronte a certa nuova terminologia ( postumano, transumano). Anche se non voglia respingerla per una sorta di partito preso. La vedo come sintomo di mutamenti che possono al momento essere colto solo da “avanguardie”: menti piazzate in prestigiose università e sicuramente più informate e capaci di teorizzare rispetto a quella mia e delle persone che effettivamente frequento). (E mi collegherei anche a quanto ho scritto a Di Marco sulla faccenda sapere scientifico- sapere popolare o conoscenza-ignoranza).

    Subito dopo, quasi per caso e a conferma di questo maninstream di un sapere “globalizzato”, m’imbatto in questi altri che parlano di “Poesia e militanza nel Misantropocene. Una conversazione con Lorenzo Mari” (https://www.nazioneindiana.com/2021/07/05/poesia-e-militanza-nel-misantropocene-una-conversazione-con-lorenzo-mari/). E la terminologia e le ambiguità mi paiono non dissimili. Qualcosa non mi quadra. E pensare che intervistatrice e intervistato sembra abbiano domande e preoccupazioni analoghe alle mie. Per esemplificare, ecco due stralci:

    1.
    « Manca l’unità di classe? Ci stiamo spegnendo in un’agonia di smunte false solidarietà, false ripartenze? È ancora possibile superare la separazione e l’avversione, come dimensioni interumane costitutive della nostra attuale società, o si tratta di una nostalgia fuori tempo massimo?

    Nell’introduzione di #Misantropocene ho voluto sottolineare la capacità maieutica del testo: credo che nell’intendere l’Antropocene come Capitalocene – come Clover e Spahr, del resto, sembrano fare – la prassi dell’autocoscienza come base di una nuova coscienza di classe sia, se non necessaria, perlomeno ancora disponibile come tale. Certamente, un tuffo nostalgico in un passato che non può tornare, così com’è designato già nel testo come “melancolia occidentale”, è un rischio da tenere ben presente, per il suo portato idealizzante, utopico e deresponsabilizzante. Allo stesso modo, lo scarto tra individuale (e per “individuale” intendo anche: la prassi politica ecologista come atto individuale, spesso autoriferito e autolegittimante) e collettivo (come militanza non solo ecologista, ma orientata anche su tanti altri temi che definiscono il conflitto politico così com’è attualmente, a partire dal “declino del movimento operaio” da te citato) è un passaggio altrettanto necessario.»

    2.
    «#Misantropocene termina con un trionfo dionisiaco, coronato dall’immagine polivalente di Saffo, che da cantrice eterea e privilegiata dell’hotel a cinque stelle (com’era in apertura) diviene furia primordiale: simbolo di chi grida e incendia e taglia ma con il proprio corpo, in un duello biologico in cui persino le odiose creature artificiali e colossali sono fatte di lacerti di carne e organi senzienti (la membrana pleurica dei fusibili, la cloaca – organo riproduttivo femminile di alcuni pesci – attribuita alle navi container) in un incitamento alla rovina e alla dissoluzione di evidente matrice simbolica, in cui tutto tornerà alla carne, mescolandosi di nuovo nel caos di creazione e distruzione, ripudiando l’artificiale e il tossico, riaffermando l’epidermico, il corporeo, l’essere animale; ritorna, qui, come un pensiero fuggevole, Tarsia/Coro:
    «[per quanto uno si sia letto deleuze e il suo divenire/diventare altro, con guattari che si limita – come félix – a rimare]»
    Ma è davvero questo il significato della parte finale? Ritieni che un immaginario nichilista possa portare in sé invece un germe di fattività, un impulso non a demolire ma a mutare la realtà attuale in un avanzamento di civiltà?

    La tua interpretazione della conclusione di #Misantropocene come “trionfo dionisiaco” e implicita possibilità palingenetica o pseudo-tale (tramite il ritorno all’epidermico, al corporeo, all’animale, etc., ma anche verso nuove configurazioni sociali ed ecologiche) mi piace molto ed è probabile che gli autori, come molti altri che si sono interrogati sull’Antropocene e la sua decadenza, abbiano operato all’interno di quest’orizzonte. Per quanto mi riguarda, lo stesso divenire-animale teorizzato da Deleuze e Guattari (e richiamato ironicamente nei versi che hai citato) non è proiettato nel futuro, né all’orizzonte di una particolare costruzione poetico-filosofica di stampo antropocenico o post-antropocenico, ma è in aperta contraddizione con la materialità del presente, rispetto al quale quella del “divenire-animale” è un’opzione che mi sembra talvolta appartenere a un passato irrecuperabile. Oppure recuperabile solo in chiave nostalgica, o melancolica: come già per Clover e Spahr, insomma, la “melancolia occidentale” si colloca al polo opposto del campo da gioco. Per poter affrontare a tutto campo questo gioco, è dunque necessario un movimento dialettico del pensiero e della scrittura che – è sempre questo il mio auspicio, sia come autore che come traduttore – occorre mantenere sempre attivo.»

  5. Devo premettere che postumano è una categoria importante nel pensiero accademico nord americano, si veda il libro di Francesca Ferrando. Ma è qualcosa che da noi non ha lasciato finora troppe tracce, mi pare. Il sito italiano di posthuman.org è appunto una sezione del sito madre. Se ne occupa Braidotti perchè all’università di Utrecht ha fondato e dirige il Centro per le scienze umane. La critica, la decostruzione, una nuova idea filosofica delle scienze umane si chiama Postumanesimo. C’è quindi quasi una consequenzialità meccanica tra umanesimo e postumanesimo, lei forse non può non tenerne conto.
    Proprio perchè è materialista afferma che il corpo è sempre sessuato, quindi la differenza sessuale è originaria. Il rapporto tra Postumano e femminismo è la questione che poni, mi pare, e quel rapporto è quanto mi è interessato approfondire. Per fortuna Braidotti è una filosofa neospinoziana e materialista (cita volentieri anche Negri). In più parti dei libri che ho letto discute di sesso e genere:
    “intendo prendere le distanze dall’uso, comunemente praticato nel femminismo anglosassone, di sex e gender come categorie distinte, per seguire invece la tradizione del femminismo europeo continentale che prevede un approccio alla sessualità come istituzione *al contempo materiale e simbolica* (c.vo mio).”
    Il corpo femminile sessuato è slegato dalla maternità, così come sostiene il femminismo della differenza che non ha mai messo in opposizione donna e madre.
    Sul perchè Braidotti valorizzi le donne come “alfiere del postumano” per usare la tua espressione: perchè le donne sono sempre state l’Altro dell’Umano universale neutro-maschile. Perché sono naturalmente intersezionali, non-Uno insieme all’altro delle razze, delle culture, degli animali, dell’interazione con la tecnologia. Braidotti ha scritto fin dal ’91 l’Introduzione al libro di Donna Haraway “Manifesto cyborg”. Cyborg è anche un umano con il pacemaker, per intenderci.
    Accade però che “gli enormi mutamenti che stiamo vivendo sul piano biotecnologico siano agiti all’interno di uno scenario che è il piú reazionario possibile dal punto di vista ideologico. Non è stupefacente il modo in cui il conservatorismo patriarcale riesce ogni volta a ricreare le condizioni ottimali per la sua sopravvivenza? È in questo modo che si ribadisce la *priorità del (non)sesso riproduttivo* (c.vo mio) sul piacere mentre la sessualità viene subordinata agli imperativi delle società a capitalismo avanzato.”
    Per questo la filosofia di Braidotti sviluppa un’etica situata, della nuova soggettività. L’etichetta di Postumanesimo critico e materialista le femministe della differenza non la hanno mai adoperata, ma l’impostazione politica, quella, è la stessa.

  6. Tutto l’articolo è dannatamente provocatorio sia per gli uomini che per le donne…

    SEGNALAZIONE

    Avatars. Il desiderio di essere femmina
    di SERGIO BENVENUTO

    https://antinomie.it/index.php/2021/07/04/avatars-il-desiderio-di-essere-femmina/

    Stralcio:

    Per capire la differenza tra padronanza e signorilità basti pensare al tipo di piacere che ci danno le opere tragiche, a quelle in particolare che si concludono con la sconfitta dell’eroe o dell’eroina. Da secoli ci si chiede: “Che cosa ci fa godere negli spettacoli tragici? Perché piangere la triste sorte degli eroi a cui ci identifichiamo ci dà un piacere struggente? Che cosa è questa misteriosa catharsis, di cui parlava Aristotele, ovvero il godimento finale che ci dà l’opera tragica?” È comunque un godimento connesso proprio alla rinuncia alla padronanza, al potere, che nel caso del “sesso tragico” è rinuncia al potere fallico[6]. Ma questa rinuncia al potere fallico – che il maso-feticista mette platealmente in scena – segna l’accesso all’Aufhebung, elevazione, a una padronanza di ordine superiore, che chiamerei signorilità. È il piacere che ci danno le visioni pessimiste, ad esempio, come quella di Leopardi: accettare una visione scettica, disincantata, del mondo, è atto di padronanza suprema. Al piacere della padronanza si sostituisce il godimento della signorilità.

    In questo senso, l’esaltazione della donna super-fallica di oggi è l’altra faccia di una compassione per la donna, una compassione per il suo esser-oltre la prestazione fallica. Da una parte si dice “la donna deve essere eguale all’uomo, cioè fallica”, ma d’altra parte l’uomo invidia nella donna qualcosa che all’uomo appare, se non precluso, ben più difficile da raggiungere: quella Gelassenheit nel lasciar essere il mondo. Dietro la fulgida e invincibile donna combattente, è il suo (di lei? di lui?) desiderio di essere semplicemente una donna ciò che attrae.

    1. Il presupposto -falso- su cui poggia l’argomentazione dell'(intero) articolo di Benvenuto è che il femminismo “insiste sull’eguaglianza tra uomini e donne”. Il femminismo della seconda ondata (non più quello dei diritti politici e sociali del primo novecento, vero è che ormai qualcuno conta la terza, quarta, quinta ondata…) al contrario ha affermato la differenza dei sessi, nella stessa stagione in cui i filosofi poststrutturalisti francesi procedevano alla critica dell’Uno universale maschile.
      La eguaglianza -comunque- destituisce già alla base la non espressa ma diffusa idea, soprattutto maschile, sulla superiorità femminile.
      Che Benvenuto acutamente collega con un desiderio maschile di essere femmina. Qui l’analisi si fa sottile, e qui arriva in aiuto il concetto di Avatar. Una frase di Benvenuto espone la questione nei termini fondamentali: “La donna ha socialmente due sessi, l’uomo uno solo.” L’articolo si diffonde sulle fioriture letterarie, cinematografiche e politiche, sulla donna guerriera e fallica così come sulle fantasie maschili di possedere una vagina.
      E’ la femmina a possedere due sessi, o è il maschio a possedere i due sessi attraverso i suoi avatar femminili?
      La femmina fallica, guerriera, sostanzialmente parificata al maschio, è solo l’avatar del maschio, come la Sposa di Kill Bill. Tuttavia Benvenuto sottolinea “che il film finisca con un tenero tu per tu tra madre e figlia, grida come un manifesto: la donna-guerriera non rinuncia affatto al sesso (non è pulzella come Giovanna d’Arco) né alla maternità”.

      Non condivido la conclusione dell’articolo, quella dei due periodi che Ennio riporta. Scrive Benvenuto: “In termini psicoanalitici, diremmo che la donna ha una valenza fallica, anzi super-fallica, non da meno dell’uomo, ma ha anche una valenza opposta, non fallica. Chiamerei questa valenza con i termini dei mistici renani, Gelassenheit, l’abbandono, il lasciar andare, il lasciar essere”.
      Una donna che rapidamente Benvenuto presenta per avere esplicitato la superiorità del sesso femminile è Margherita Porete, arsa nel 1310 perché eretica. Non si chiede Benvenuto perchè una femminista della differenza come Luisa Muraro abbia studiato e scritto su Porete. Brevemente: Amore, al femminile e al maschile, è l’interlocutrice di Porete nel suo “Specchio delle Anime Semplici”, ed è Dio. Uno dei 15 articoli incriminati tratti dal libro recita: “che l’anima annientata nell’Amore di Dio non si cura più delle consolazioni o dei doni di Dio, avendo Dio in se medesima” (cito da pagina 21 del libro di L. Muraro, Lingua materna scienza divina). In Dio l’anima viene condotta da Amore, sul rogo ce la mandano i canonisti della cattedrale di Parigi.
      Si può identificare avere Dio in se medesima con la Gelassanheit? Perlomeno Margherita non ha risposto alle accuse né ceduto alle offerte di pentirsi dei suoi persecutori. Il quietismo non le apparteneva.

      Oggi il problema del maschile trionfante, quello dei teologi che hanno condannato Margherita, non si pone. Benvenuto individua un conflitto tuttora esistente dei maschi nei confronti delle donne, un conflitto interno: “si identifica alla donna, nel senso che anche lui si sente vittima, inerme, rispetto a un super-maschio che può dominarlo”. Da una parte “la donna oggi viene particolarmente encomiata e invidiata per la sua iper-fallicità”; dall’altra parte, avendo rinunciato alla padronanza sulla donna, il maschio si identifica, quasi a risarcirla, come donna in pratiche masochiste.
      Accanto a queste, la conversione della padronanza in un livello superiore: la signorilità. Il maschio invidia alla donna qualcosa per lui molto difficile da raggiungere: lasciar essere, lasciar andare, la Gelassenheit. Che è d’altra parte per Benvenuto l’unica possibile alterità che identifica le donne.
      La signorilità è una posizione scettica, disincantata, pessimista, tutta interna a un solo soggetto, quello maschile. Non siamo lontani dall’Uomo Universale leonardesco, l’Unico. La donna, come sapeva Lacan, non esiste.

      Nota bene: anche se Benvenuto cerca di mascherare questo Uno, con una interrogazione tra parentesi proprio nell’ultima frase: “Dietro la fulgida e invincibile donna combattente, è il suo *(di lei? di lui?) desiderio di essere semplicemente una donna ciò che attrae”.
      Si può ragionarci sopra: è anche il desiderio di lei di essere una donna? Quindi cosa è? C’è?

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