A Parma

di Elena Grammann

Ci sono cose che fa anche se sa che sono sbagliate, o che non hanno senso, o che non porteranno ad alcun risultato, o che porteranno a un risultato spiacevole. Generalmente le fa perché a un certo punto ha deciso di farle; non vede altri criteri per l’azione. Quando ha deciso magari le sembravano buone idee, che aprivano nuove prospettive, che potevano cambiare in meglio la vita. Man mano ha capito che non è così, che si tratta di tentativi patetici, fuori dal mondo; che quando lei non guarda la gente scuote la testa. Se ne rende conto ma fa ugualmente le cose che si è proposta di fare. Va fino in fondo, beve l’amaro calice, ostinatamente. Lo fa perché ha deciso di farlo, ma in fondo lo fa anche perché è inutile, perché è umiliante, perché non la porterà da nessuna parte, perché è fatica sprecata. Lo fa come si sacrifica una vittima a una divinità, rigorosamente, carni e visceri, e stiamo a vedere. Non vuol darla vinta alla realtà, non accetta di adeguarsi, non è in grado, ha un handicap, è un’abilità che le fa difetto; anzi, vorrebbe imporre le proprie di regole; e se la realtà non le assume tanto peggio. Tanto peggio per chi? Tanto peggio e  basta.

Come l’altro giorno, quando ha caricato il cane in macchina e è andata a Parma a vedere se trovava quella casa editrice. A zombare per Parma col cane, direbbe correttamente suo figlio. Tanto per incominciare, perché si è portata il cane, che rende tutto più complicato? È un cane nevrotico, traumatizzato dai frequenti cambi di proprietari, i quali non hanno retto perché è un cane insopportabile, e meno loro reggevano più lui diventava nevrotico. È un cane che se ne incontra un altro per strada si avventa e latra come un ossesso, come un furioso. Abbaia ai ciclisti, ai neri, ai cinesi, alle mussulmane infagottate in strati di eccellenza morale, ai venditori ambulanti, ai preti, e indistintamente a tutti quelli che gli stanno sui coglioni che peraltro non ha più perché gli sono stati asportati a cura di un precedente proprietario nel vano tentativo di farne una bestia tranquilla. E in ogni caso se mai dovrà andare a pisciare in un bar, col cane sarà complicato.

Perché lo ha preso su allora? Certo, le dispiace lasciarlo chiuso in casa al pomeriggio quando già c’è stato tutta la mattina, ma il motivo principale non è quello. Il motivo principale ha a che fare con l’impresa inutile, col sacrificio rigoroso di carni e di visceri, col passare per la porta stretta però soltanto se non va da nessuna parte, insomma con l’accrescere le difficoltà dell’offerta votiva, e stiamo a vedere.

Così parcheggiano e si fiondano giù dritti per strada Farini incrociando da un marciapiede all’altro secondo che spuntano cani, giù per tutta la lunga via vivace, che quasi quasi ci casca e comincia a sentirsi spensierata anche lei. Ci sono ancora dei tavolini fuori benché siamo ai primi di novembre; ma non fa freddo, è un bel pomeriggio autunnale poco prima dell’imbrunire. Questo fino a piazza Garibaldi grosso modo. Dopo prendono strada Cavour e lì cambia un po’; strada Cavour è più opprimente, più cupa, legata a ricordi di inanità e di angoscia. È che si è in centro precisamente, si è arrivati e ci si chiede cosa si è venuti a fare. Ma via, basta così, ora questo non c’entra, dritti allo scopo invece. Che è trovare quel vicolo dalle parti del duomo; e nell’ansia di trovarlo e portare a termine ciò che si è proposta, di portarlo a termine il più velocemente possibile, senza neanche pensare che si aveva in mente un qualche tipo di risultato, portarlo a termine e basta; nella paura di non trovare il vicolo e che si sia volatilizzato possibilmente, o delle volte non sia mai esistito, o che soltanto per lei non sia possibile trovarlo, in quest’ansia dà solo un’occhiata veloce, senza fermarsi, al battistero e al campanile con San Giovanni nello scorcio, un po’ sfumato di foschia, che sembra un sogno. Ah, via, via, Stendhal c’è già stato, non si può mica rifare Stendhal, via, via, cerchiamo questo vicolo. Vicolo medievale veramente, buio e contorto e pieno di portoni sprangati e assi inchiodate. Lo percorre tutto, poi deve tornare indietro fin quasi all’inizio prima di trovare quello che cercava. E sì che si vede: c’è un piccolo slargo e gli infissi sono nuovi fiammanti; è vero che le vetrine sono schermate, ma ci sono luci nel profondo e si intravede perfino un signore alla scrivania. L’ha distratta un cantiere nello stabile accanto, per quello subito non li ha notati; e la targa effettivamente è piuttosto piccola. Il cane – tracagnotto e ben nutrito – tira come un bue, così lei infila la porta per avventura spalancata con la naturalezza di un bastimento che entri in rada con una manovra ben eseguita, e il signore che era alla scrivania le si precipita incontro, probabilmente più per parare un’intrusione che per un eccesso di cortesia. Però, stabilito che si tratta solo di un’autrice in cerca di editore, si rivela molto cordiale, si rivolge anche affabilmente al cane, il quale gli abbaia contro, così, tanto per chiarire. La cortesia del signore non ne è inficiata e anzi è sì pronto a introdurla nei locali e presso un altro signore che si occupa appunto di manoscritti, che lei ha quasi l’impressione che proprio questo aspettino alle loro scrivanie illuminate: un autore che venga a offrire il frutto del suo ingegno.

Non si è preparata un discorso, questo no, non sarebbe da lei. Preparare un discorso presuppone un progetto, una distanza, la convinzione che le cose si formino a poco a poco e che sia possibile influire sul loro andamento, sul loro esito; ma questo lei non riesce nemmeno ad immaginarlo, l’idea di sviluppo le è estranea, è come i Masai che vivono unicamente nel presente. Per quel che la riguarda le cose non divengono: sono. Dunque non si è preparata alcun discorso, ma una cosa si è fermamente proposta: di non parlare dell‘unico libro che ha già pubblicato. Se lo è fermamente proposto perché sa che si tirerebbe la zappa sui piedi. Eppure dopo neanche mezzo minuto che parla col giovanissimo signore che si occupa di manoscritti (Dio, quanto è giovane!) il desiderio di non apparire del tutto una merda la spinge a dire quello che non dovrebbe, e cioè che ha pubblicato un romanzo con un editore della cittadina limitrofa. Ah, dice il giovanissimo signore, certo, lo conosciamo bene: ci lavorano due nostri ex-collaboratori!

Già, appunto, era precisamente il motivo per cui bisognava tacere; ora, se mai fossero interessati al suo manoscritto, basta che alzino il telefono per sentirsi dire che razza di stronza che è. Dal punto di vista dell’editore, naturalmente. Cerca di pezzarla come può, alludendo a equivoci e incomprensioni, vorrebbe portare il discorso su quello che sta scrivendo e ha intenzione di proporgli, ma questo – che in un certo senso è il senso della sua presenza lì – non sembra interessargli; soltanto ha un moto di allarme quando gli par di capire che lei voglia sottoporre un manoscritto non ancora concluso. Lo rassicura; lui le stampa il file con le procedure da seguire per presentare un testo. Ma li leggete poi? Certo, leggiamo tutto. Come no. Piega in quattro il foglio con le istruzioni e lo infila nella borsa. Ringraziamenti, saluti, e via, con grande sollievo del cane che non capiva cosa ci facessero lì dentro. A dir la verità nemmeno lei.

Nel vicolo faceva buio già prima, figuriamoci adesso; la piazza è del solito color cinerino; un po’ morta come piazza: una piazza da cui non si va da nessuna parte. Uff, è fatta! Via di lì, e decisi, tuffo nel Gran Caffè Cavour! Porta spalancata sulla strada, ma meglio sedersi dentro perché l’umidità comincia a pizzicare e comunque c’è troppo passeggio di cani e piccioni. Dentro è un po’ triste veramente, un po’ sala d’aspetto di lusso, genere ce la tiriamo perché abbiamo avuto Maria Luigia però in effetti è stato un sacco di tempo fa. Per l’aperitivo si regola come al solito: il prosecco e le olive a lei, i quadratini di schifezze al cane. Che però è impaziente, non sa aspettare, immagina che l’ingozzata di pizza rafferma e gnocco impastato con la sugna possa andare avanti all’infinito e ha sempre le zampe sul tavolo. Lei vorrebbe sorbirsi meditativamente il prosecco, tirare le somme, stabilire se ha in mano anche soltanto l’ombra di qualcosa di più di quando ha percorso strada Cavour all’andata; oppure semplicemente, le vin aidant, trasporsi in uno stato d’animo di elegiaca contemplazione. Si potrà, no? E invece no, non si può; intanto perché il prosecco, o dichiarato tale, è di parecchio troppo acido per qualsiasi meditazione, e poi perché il cane non dà pace. Tanto vale pagare e andarsene. Prima però si chiude nei quaranta centimetri quadrati del cesso e piscia col cane schiacciato in un angolo. Poco ducale il cesso, è il minimo che si possa dire.

Esce e decide che adesso che non ha più l’angoscia di trovare il vicolo ecc. può permettersi uno sfizio: invece che buttarsi di nuovo per strada Farini può prenderla larga, fare un pezzo di strada della Repubblica e poi giù a destra per strada XXII Luglio e di nuovo a destra in via Nazario Sauro. In via Nazario Sauro ci sono – o c’erano, è un po’ che non ci passa – un sacco di negozietti di bric-a-brac, di piccolo antiquariato, stampe, oggetti, cornici, cose così. È da quando aveva il bambino piccolo e lo caricava in macchina legato sul seggiolino, col passeggino piegato nel baule, che non ci va più. Cammina svelta come il suo solito, un po’ perché il cane tira, un po’ per sottrarsi alla confusione che le fanno in testa i negozi di abbigliamento, le profumerie e le farmacie. Lungo tutta strada della Repubblica non ci sono che negozi di abbigliamento, farmacie e profumerie, e questo le suscita alternativamente il senso di vergogna di una che non avrà mai il coraggio di entrarci, in quei negozi di abbigliamento, e un senso di oltraggio, un desiderio di lavare nel sangue la spudoratezza negligentemente polverosa (d’antan, anche quella) di creme, di piume, di orpelli. Taglia giù ancora prima di strada XXII Luglio, si butta in borgo Giacomo Tommasini che è una di quelle strade in cui i negozi raggiungono il massimo della rarefazione; nel senso che non si capisce nemmeno più cosa vendano, forse fette di vita allo stato puro, genere Champs Elysées, solo che il tratto fashion di borgo Giacomo Tommasini è più corto. Ed ecco, in fondo, via Nazario Sauro modestamente illuminata. La percorre mentre il prosecco comincia a farla sudare e il sudore si gela sulla nuca e sulla schiena. Botteghe di bric-a-brac ce ne sono ancora, sì, ce ne sono diverse, ma Dio! cosa vendono! Già, cosa vendono? Cose d’antan, non è vero? Be’, sì, di un antan un po’ recente magari … ma il punto non è quello; il punto sono i materiali: carta, cartoncino, il massimo della consistenza è latta. Impoverimento? Raffinamento? Non dimentichiamo che ci troviamo in una città che si spasima all’avanguardia, una città in cui anche l’accento è di design. È evidente che la parola d’ordine ha fatto il giro: bando ai fasti grevi! L’ora è all’immaterialità, alla levità.

Può darsi; tuttavia esiterebbe ad acquistare per denaro le grosse lettere del sillabario incollate su cartoncino o la pubblicità del detersivo Ava. L’ora è anche all’inconsistenza, e al bruciore del falso prosecco nello stomaco. Infila una via a caso, parallela a strada Farini, va verso la macchina che è ancora lontana.

Niente da fare, è una serata umida, la schiena sudata non si asciuga; nella via non ci sono quasi negozi, piega a destra ma anche lì non c’è nulla che le interessi, per tutta la lunghezza della via nessuna vetrina che anche soltanto alluda alla cosa in grado di cambiarle la vita. E d’altra parte quale sia, che aspetto avrebbe la pelle di zigrino, l’oggetto unico e inaudito in grado di cambiarle istantaneamente la vita non saprebbe dire, né ora a ciò concede un’attenzione più che marginale. No, ora è concentrata sul buio della sera e su questa cosa dell’inutilità che continua a incuriosirla: inutilità della mossa, dello sforzo, della presa di parola; come un movimento eseguito in un mondo parallelo, che non può avere conseguenze in questo; già, che cosa le assicura in fondo che lei sia veramente qui? Quali cambiamenti ha messo in essere la sua visita alla casa editrice? Nessuno, questo è certo. Le acque della città, neppure smosse, si richiudono sui suoi passi con un’impressione di sordità.

E mentre calpesta le foglie cadute di barriera Farini e il cane le annusa eccitatissimo e piscia sui mucchi per lasciare almeno quella testimonianza del loro passaggio, pensa che è vero: è soltanto in un senso molto debole, molto attenuato che lei si trova ora a Parma e ci ha trascorso parte del pomeriggio. Con un soprassalto di paura si rende conto (si rende conto? ma no, lo sapeva già …) che i luoghi in cui può dire di trovarsi in senso pieno sono ridottissimi e si restringono sempre più. Sta scomparendo in un certo senso; è una vita che sta scomparendo, è abbastanza a buon punto.

La macchina, se non altro, c’è ancora. Se ne tornano a casa nel buio percorrendo l’unica, trafficatissima strada; sempre quella dai tempi non della Asburgo-Lorena ma dei duchi Farnese o forse già della grande Matilde; la percorrono su un binario parallelo e infatti, benché guidi distratta dai molti pensieri sull’esserci il non esserci e lo scomparire, e a velocità sostenuta come è il suo solito, incredibilmente non si scontrano con altri veicoli né incorrono in alcun incidente; ma anzi in capo a poco più di mezz’ora il binario parallelo li depone soavemente  là dove recuperano qualche consistenza: a casa.

19 pensieri su “A Parma

  1. Mi sono scompisciata dalle risate, soprattutto quando ho letto creativamente del cane con le “zanne” sul tavolo…

    1. “le zanne sul tavolo”! – una botta di espressionismo, accidenti!

      Ho qualche perplessità sulla perfidia. Probabilmente sono ormai talmente corrotta da non percepire nemmeno più la mia perfidia.
      Ma dove la vedete tutta ‘sta perfidia?

      1. … nella mancanza di senso del proprio pervicace insistere, nell’orrore di un cane nevrotico traumatizzato insopportabile ossesso e castrato… come un bue, nella città sfumata sprangata e inchiodata, che si spasima… Siccome non è vero, siccome la città è abitata da gente normale, e la protagonista ha -come evidenzia Ennio- uno scopo, e il cane è il suo animale da compagnia, allora la prevalente pittura a tinte fosche è espressione aggressiva (le zanne!), è un filo di sangue nero che cola dal canino sinistro superiore, una vena di… perfidia, che altro?, che si spande, di colore perso, nella città: immaginaria ma non troppo. (Ma perfida attributrice potrei anche essere io, per spassarmela ancora di più.)

        1. “Siccome non è vero, siccome la città è abitata da gente normale” (C.F.)
          Cristiana, in letteratura (si parva licet) la gente normale non esiste.
          Però il “filo di sangue nero che cola dal canino sinistro superiore” è un’immagine potente. Pensare che fino a tempi non troppo lontani ero terrorizzata dal pensiero dei vampiri!

  2. Profonda e perfida nello stesso tempo. Profonda perché è una narrazione di solitudini, di inadeguatezza, di una vita che si lascia andare per seguire un sogno impossibile:pubblicare per far conoscere quello che hai dentro, per avere una relazione intensa col mondo. Perfida perché la situazione è vista con gli occhi di chi si limita ad una conoscenza superficiale delle cose, ha una cultura da luoghi comuni, la perfidia di chi critica per fare pettegolezzo e basta. Da questo mondo non si può che fuggire. Dove? A casa. Dove i sogni ancora sopravvivono.

    1. La ringrazio della lettura e del commento. Sono però un po’ perplessa sui motivi che individua sia per il giudizio di profondità che per quello di perfidia.
      D’accordo sull’inadeguatezza, rivendicata però piuttosto che subìta dalla protagonista, ma perché “una vita che si lascia andare”? A me sembra invece una vita consapevole e fedele a se stessa, oltre che ostinata.
      La parola “sogno” non fa parte del mio lessico; inoltre mi chiedo se c’è qualche elemento nel racconto che permetta di affermare che la protagonista desidera pubblicare “per far conoscere quello che ha dentro”, e per “avere una relazione intensa col mondo”. A me non pare.
      Sulla perfidia e superficialità non capisco bene. Chi è perfida perché superficiale? La protagonista o l’autrice? (e chi ha una cultura da luoghi comuni, chi ama il pettegolezzo ecc.?) Non mi è chiaro, ma in linea di massima posso dire che questo racconto ha un certo tono, sostanzialmente ironico, che può piacere o non piacere, ma che esclude i profondismi, proprio perché vorrebbe evitare il più possibile il patetico (“il sogno impossibile”). Ma precisamente là dove il racconto va più nel profondo – e dove non si tratta di sogni ma di spessore dell’esserci – lei vede la casa come il luogo “dove i sogni ancora sopravvivono”. Forse avrei dovuto essere più perfida.

    2. Grazie per aver letto e sottolineato le mie osservazioni. Confermo i concetti espressi. La profondità non è nella narrazione ma il testo suscita considerazioni profonde. La perfidia è di chi sta fuori di chi ha creato l’inadeguatezza e la superficialità di questa realtà, la volgarità di tutti, (a cominciare dall’editore) dal vino inacidito al cesso di 40 x 40. Il miracolo sociale sta nell’entrarci in due in quel cesso in barba a tutti i crismi e alle convenienze. La casa? Io l’ho vista come un elemento positivo. Sa oggi quanta gente c’è che vive in solitudine a casa propria e la considera un rifugio? Se ho capito male, forse sì, doveva essere più perversa. A me il racconto è piaciuto molto. Ha una sua dignità e non scade mai nel patetico.

  3. Un personaggio femminile votato ad un romanticismo ostinato e orgoglioso. Insiste ad agire d’impulso pur avendo imparato che la realtà non cede alle sue testate. Sembra condannato al sacrificio eroico e vano (“Va fino in fondo, beve l’amaro calice, ostinatamente.”) ma senza ragioni?

    Un cane, al quale il personaggio femminile è comunque ambiguamente legato. Pur essendo senza coglioni, è – nevroticamente e quasi classicamente – un “cane italiano” aggiornatissimo storicamente: “Abbaia ai ciclisti, ai neri, ai cinesi, alle mussulmane infagottate in strati di eccellenza morale, ai venditori ambulanti, ai preti, e indistintamente a tutti quelli che gli stanno sui coglioni”.

    Una città, Parma, che viene omaggiata (occupa da sola titolo) ma anche castigata e presa benevolmente in giro nelle sue pretese di città storica e letteraria un tempo gloriosa (“dà solo un’occhiata veloce, senza fermarsi, al battistero e al campanile con San Giovanni nello scorcio, un po’ sfumato di foschia, che sembra un sogno. Ah, via, via, Stendhal c’è già stato, non si può mica rifare Stendhal”; “ce la tiriamo perché abbiamo avuto Maria Luigia però in effetti è stato un sacco di tempo fa.”) o nelle sue ambizioni di modernità provinciale (“una città che si spasima all’avanguardia, una città in cui anche l’accento è di design”).

    Prosa dalla sintassi sciolta e con un lessico elegantissimo e spigliato (un solo campione: “un desiderio di lavare nel sangue la spudoratezza negligentemente polverosa (d’antan, anche quella) di creme, di piume, di orpelli.” ).

    Sotto il velo dell’ironia e dell’autoironia (di perfidia ne vedo meno) e, malgrado la leggerezza svagata del tono del racconto, si colgono (o io colgo) due desideri-messaggi contraddittori: la voglia di valorizzare la vera passione segreta e centrale del personaggio: è “un’autrice in cerca di editore”, impacciata ma decisa; e quella, altrettanto forte e angosciosa, di confermarsi proprio dell’inutilità dello sforzo di esistere e consistere nel mondo e non solo nella propria casa-io (“Quali cambiamenti ha messo in essere la sua visita alla casa editrice? Nessuno, questo è certo. Le acque della città, neppure smosse, si richiudono sui suoi passi con un’impressione di sordità”).

    P.s.
    Non ho afferrato bene il senso di questa frase: “che quando lei non guarda la gente scuote la testa”.

    1. Romanticismo: ben individuato (filologicamente e filosoficamente). Ragioni? Un ottimismo di fondo, forse? Anche quando capisce che non riuscirà a influire sul mondo il romanticismo non diventa pessimista, si limita a trasferire i suoi obiettivi in Atlantide. E non per niente l’ironia è romantica…
      Parma: rifiuto di un estetismo localizzato nel passato, al quale la protagonista è stata sensibile (Medio Evo et caetera), ma anche ridicolaggine di un estetismo proiettato nel futuro.
      Perfidia: grazie di vedercene meno. Mi sto facendo una reputazione tremenda. Tutto per amor di verità.
      “un’autrice in cerca di editore”: punto (centrale, ma non unico nel racconto) legato alle “ragioni”. Cristiana chiosa: “la protagonista ha -come evidenzia Ennio- uno scopo”. Preciserei: la protagonista aveva – quando ha preso la decisione – uno scopo. Ma all’inizio del racconto lo scopo è già volatilizzato, lo scopo non c’è già più; rimane la decisione – scollegata dallo scopo, al quale la protagonista sa che l’azione in nessun modo porterà. Più che una dinamica dello scopo è una dinamica del sacrificio, che vorrebbe estorcere alla grazia divina un risultato. La grazia divina, ovviamente, si astiene, se no non sarebbe divina ma umana, ma questo la protagonista non può non saperlo.
      Rimane la casa-io (perfetto) da cui si esce soltanto per raccontare gli inevitabili e ridicoli insuccessi dei tentativi di uscirne.

      “che quando lei non guarda la gente scuote la testa”: come per dire: “poverina, è fuori dal mondo”.

      Grazie del commento e degli apprezzamenti..

  4. mi risulta molto simpatico immaginare questa copietta che procede a zig zag per le vie di Parma, proclamata città della cultura un paio d’anni fa. La signora ne ha tanta e raffinatissima, cultura che a volte l’allontana dal famoso “principio di realtà”, mentre il suo momentaneo cavaliere, “Il cane – tracagnotto e ben nutrito- (che) tira come un bue” (E.G.), ne possiede a dismisura, sempre a perseguire i suoi sacrosanti bisogni primordiali…In realtà lei, mentre scorre con occhi disincantati vie, piazze, monumenti e storia della città, persegue, seppur controvoglia, un suo scopo, dirigersi presso la casa editrice che potrebbe accogliere il suo ultimo lavoro…Vuole e non vuole, indecisa e insicura…forse teme un’ennesimo buco nell’acqua, in fondo lo cerca…Il cane, invece, sa, non tentenna, riporta la siuazione alle sue giuste “proporzioni”, vive solo nel presente e questo per lei, che per natura si preoccupa di tutto, è un grande esempio…In fondo, se lo scopo semi-dichiarato di essere accolta come scrittrice non sembra essere stato raggiunto, la passeggiata con il cane per le vie di una città conosciuta e carica di ricordi, è assicurata e rassicurante…Uno scudo quel cane e una presenza irriverente, cosi’ è piu’ facile presentarsi davanti a un “capetto” e poi, in barba, consumare, insieme alla belva autosignificante, un aperitivo insieme tete à tete, condividere persino lo spazio di un cesso…Lui si’ che sa sorridere di tutto, per questo sembra che la signora l’abbia portato con sè…Un’umida serata novembrina, resta ancora il tempo di sbirciare nei negozi delle vie eleganti la mercanzia esposta, segretamente alla ricerca dell’oggetto “magico” che avrebbe potuto trasformare la sua vita, un retaggio dell’infanzia…lei merita almeno un regalino! Ma infine la signora avverte un senso di insignificanza, di smarrimento e vuole affrettarsi a tornare a casa…Ho trovato questo racconto di Elena tenero, con tanto umorismo e ironia, anche autoironico, infine scritto molto bene…

    1. Grazie, Annamaria, della lettura attenta, e in particolare di aver trovato il mio racconto tenero – in controtendenza, direi. E mi sembra che tu abbia visto molto bene – più di quanto vedessi io stessa – il ruolo del deuteragonista canino, che pur trascinato dalla padrona in un’avventura che non gli è chiara, controbilancia come può, marciando decisamente con quattro zampe per terra! Davvero un campione del “principio di realtà” che fa difetto alla signora…

  5. “Abbaia ( …) alle mussulmane infagottate in strati di eccellenza morale”. Ecco, è in sintagmi così che si vede la zampata dello scrittore (zampata? ops)

  6. Molto bello e interessante questo racconto sia dal punto di vista di capacità narrativa che di contenuto. Infatti Elena è riuscita con “equivoca” leggerezza a metterci in contatto con il mondo duro dell’ oggi dove si fanno le cose anche se si sa “che sono sbagliate, o che non hanno senso, o che non porteranno ad alcun risultato, o che porteranno a un risultato spiacevole.” Sia chiaro, non voglio generalizzare, ci mancherebbe, ma voglio soltanto evidenziarne una delle cifre di lettura.

    Vediamo entrare in questo viaggio la protagonista (alla ricerca di un futuro – editoriale – che però non riesce a programmare in quanto anche sfiduciata delle sue esperienze positive precedenti avendo alle spalle un’altra pubblicazione. E che si sente in difficoltà perché “preparare un discorso presuppone un progetto”), e il suo cane “senza coglioni”, ma nello stesso tempo molto invadente (una parte istintuale evirata nella ‘falsa’ aspettativa di renderla più ‘docile’ e remissiva).
    La città di elezione di questo viaggio è Parma, una città d’arte declinabile in tutti i sensi: storica, letteraria, architettonica, musicale, culinaria. Ma nel racconto ci viene mostrato come tutto questo patrimonio non venga recuperato e rielaborato bensì nudamente riconsegnato a civici nomi di vie; i monumenti sono citati anaffettivamente, senza alcuna partecipazione, alla stessa stregua di un book del Touring Club. E la “Storia?”. “Ah, via, via, Stendhal c’è già stato non si può mica rifare Stendhal”; e su Maria Luigia? “ce la tiriamo un po’”. Oppure si naviga nell’antiquariato dei negozietti bric-à-brac.
    La spietatezza di questo azzeramento culturale viene abilmente contemperata da una narrazione scorrevole che si legge tutta di un fiato, e che però fa trapelare in sottofondo una trama perniciosa (nessuna intenzione perfida!) dove tutto può essere vissuto come normale (“dove sta il problema?”) mentre così non è.
    Ma a un certo punto c’è un colpo d’ala da parte della scrittrice, quando, attraverso una citazione dotta – “E d’altra parte quale sia, che aspetto avrebbe la pelle di zigrino, l’oggetto unico e inaudito in grado di cambiarle istantaneamente la vita (La pelle di zigrino, La peau de chagrin di H. de Balzac 1831) – si vuole dissociare da quella ‘trama’ che vede come centrale il laissez-faire, il non prendere posizione, il lasciarsi andare qui ed ora allo stimolo (piacevole o meno che sia) di quel momento.
    Poi, certo, ci sarà il ritorno a casa, l’ovile sicuro.
    Ma molti dubbi si sono insinuati durante il percorso.

    1. Mujer
      Si puedes tú con Dios hablar
      Pregúntale si yo alguna vez
      Te he dejado de adorar
      Y al mar
      Espejo de mi corazón
      Las veces que me ha visto llorar
      La perfidia de tu amor
      Te he buscado dondequiera que yo voy
      Y no te puedo hallar
      ¿Para qué quiero otros besos, si tus labios no me quieren ya besar?
      https://youtu.be/WAZArp4_Gk4

    2. Una lettura interessante, incentrata, mi pare, sull’ “azzeramento culturale” in cui si inserisce, enfatizzandolo, la protagonista (che però è, o vorrebbe essere, scrittrice); la narrazione tuttavia “fa trapelare in sottofondo una trama perniciosa (nessuna intenzione perfida!) dove tutto può essere vissuto come normale (“dove sta il problema?”) mentre così non è”.
      Credo in effetti che il disagio della protagonista (la quale si è premurata di aumentarlo portandosi il cane) nasca da questa faglia fra situazioni percepite e gestite da tutti come “normali” e la sua incapacità di adeguarsi alla normalità. Di chi è la “anormalità”? Della protagonista, certo; ma la normalità degli altri non è semplicemente una felice attitudine a non percepire l’estraneità, l’alienazione? La sana ovvietà di chi gira sempre con la propria casa sulle spalle, come le chiocciole…

  7. Il mio ultimo commento era una risposta al commento di Rita Simonitto. Ho sbagliato a schiacciare “rispondi”.

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