Riflessioni rapsodiche su “Il giardino dell’Eden”

di Franco Romanò

È consueto per il pensiero rivoluzionario immaginare l’utopia rivolgendosi al passato, specialmente quando il presente appare talmente desertificato d’avere almeno apparentemente cancellato tutte le tracce di utopie precedenti possibili. È quello che Walter Benjamin, nelle sue Tesi sulla storia, proponeva di fare in uno dei momenti più tragici per l’Europa alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. Il filosofo tedesco aggiungeva però che occorre andare molto indietro nel tempo per ricercare i semi di una nuova utopia: Spartaco, oppure – citando Flaubert – resuscitare Cartagine. Il motivo, che si intuisce fra le righe di quello scritto così estremo, è che se si rimane troppo prossimi al momento storico che ci tocca di vivere, si rischia di rimanere impigliati, a volte senza rendersene ben conto, nelle code di pratiche politiche ormai esauste.


Che Paolo Di Marco sia ricorso ai raccoglitori e cacciatori per immaginare un’utopia concreta odierna (qui) la considero una scelta felice, un lume piccolo ma resistente, capace cioè di forare il buio profondo in cui siamo immersi. Il paradosso non sfugge a lui stesso che lo nomina esplicitamente, con una punta di dolcezza:
È tragicamente ironico che questa possibilità coincida con un’epoca in cui l’ingordigia del profitto e della sua logica (nota v Di Marco) ci stanno portando ad una fase di catastrofe irreversibile. Ma noi speriamo che ce la caviamo e facciamo lo stesso un po’ di altri conti.

Tralascio di commentare le parti che condivido del saggio di Di Marco e pongo alcuni interrogativi su punti specifici, avendo a cuore un ulteriore approfondimento di questo discorso, che – per le sue caratteristiche fortemente e felicemente sintetiche – presenta dei passaggi, la cui interpretazione è aperta a un ventaglio d’ipotesi possibili. La prima riguarda la seconda osservazione e in particolare la sua parte finale.

Seconda osservazione: La legge del profitto così come espressa non è in realtà valida se non indicativamente: vi è infatti l’utilizzo di due unità di misura diverse, valori e prezzi, di cui Marx presuppone una semplice convertibilità che invece non esiste. Gli unici tentativi efficaci di conversione (basati sul prendere in considerazione il percorso del valore per cicli successivi /Sraffa, Pala/) non consentono però di mantenere le equazioni e le leggi invariate, se non in modo qualitativo (nota i Di Marco).
Di Marco sfiora qui un’annosa questione – la convertibilità fra valori e prezzi – che ha occupato pagine e pagine di riflessioni; ma lo fa uscendo dalla diatriba storica in ambito marxista, citando Sraffa (conosco di meno Pala e questo è un mio limite) e introducendo un elemento che mi sembra decisivo nelle conclusioni, cioè l’uso dell’aggettivo qualitativo, che sottrae la necessaria misurazione economica alle rigidezze del calcolo, introducendo – a me pare – un concetto assai importante che si ritrova anche in Keynes. Tuttavia è su Sraffa che si concentra qui la mia attenzione, convinto come sono che, nell’insieme del suo sterminato archivio oggi disponibile e non solo in Produzione di merci a mezzo merci, sia possibile individuare un suo andare con Marx oltre Marx che mi sembra poter rappresentare un segmento di quelli che nella frase conclusiva del suo saggio Di Marco indica come … percorsi che rendano possibile far sì che questa memoria (dei raccoglitori cacciatori ndr) magari un po’ diversa, più ricca forse, ci appartenga di nuovo.

Del punto 2 intitolato Il dominio del profitto isolo questa parte:

… Ma nell’epoca attuale molte ambiguità si sono dissolte: da un lato il mero rapporto quantitativo tra capitale finanziario e capitale industriale (tra 100 e 1000/1) mostra come non si possa più parlare dell’industria se non come una delle tante branche della riproduzione del capitale. Dall’altro in tutto il mondo rimangono pochissime isole escluse dal ciclo del capitale (tribù indigene isolate in riserve e simili), sia per la produzione diretta e indiretta, sia per la circolazione, sia per tutte le attività accessorie al ciclo riproduttivo; il lavoro dipendente è sempre più una sola delle tante forme del dominio sul tempo e dell’estrazione di pluslavoro. L’omogeneizzazione mondiale nella frenesia della ricerca del profitto e della continua rincorsa ad allargarne i confini anche da parte dei lavoratori (iii) insieme ad una ‘morale’ appiattita su di esso è ormai luogo comune di una sociologia che ha smesso di stupirsi. Ma se non ci sono più limiti al capitale non ci sono neanche più limiti a chi ha diritto di chiamarsi soggetto rivoluzionario. Tutto il tempo ci è stato sottratto, anche quello che una volta si chiamava libero.

Ci sono diverse questioni rilevanti in questo passaggio, che andrebbero viste una per una. Tre mi sembrano quelle più rilevanti. La prima riguarda l’impossibilità del lavoro dipendente a farsi carico del passaggio intermodale da un modo produzione a un altro: questa possibilità si esaurì a dire il vero dagli anni ’20 del secolo scorso, nella parte occidentale del mondo (Gramsci docet). La seconda riguarda l’universalità dell’estrazione di pluslavoro che, per quanto mi riguarda, porta a tutta la problematica femminista della riproduzione sociale e della vita stessa. Detto in uno slogan: c’è maggior pluslavoro e quindi indirettamente plusvalore nell’ora di una nonna che si occupa del nipote, che nella parte eccedente del lavoro precario svolto dai genitori nella stessa unità di tempo. La terza riguarda il tempo stesso, intorno al quale peraltro mi sembra graviti l’intero saggio di Di Marco.
La nota conclusiva è per Keynes. Leggendo il saggio ho pensato subito a una pubblicazione recente di Anna Carabelli sul sito Kritica e ripresa anche da Sinistra in rete (qui). Su Keynes si scrivono molte bufale che andrebbero contrastate e proprio l’aspetto del suo pensiero messo in evidenza da Di Marco e la riflessione di Carabelli sono quanto mai preziose in questo senso; ma ci riportano ancora una volta anche a Sraffa.
Mettiamoci dunque al lavoro, pardon al non lavoro.

4 pensieri su “Riflessioni rapsodiche su “Il giardino dell’Eden”

  1. Intervento ricco e piacevole..tanto che accennerò solo ad alcuni dei temi trattati.
    Innanzitutto penso che per cogliere i frutti della vite che abbiamo in giardino sia necessario far pulizia dei rovi ed erbacce che si sono accumulati. Uno l’idea che la natura umana sia egoista e violenta, con tutto quel che ne consegue per la teoria economica da un lato e il ruolo dello stato dall’altro. E i Ju/’Hoansi vengono solo a rinsaldare un discorso già di Levi-Strauss e Margaret Meade, sulla cultura che si traveste da natura e assolutizza i caratteri. E se a questo uniamo le riflessioni di Damasio sulla cultura come processo omeostatico ne viene fuori non solo un’analisi materialistica (non volgare) dei percorsi storici ma anche una soluzione del dilemma classico del ’68 se veniva prima la società nuova o prima l’uomo nuovo.
    Il secondo sfrondamento dal lavoro inutile permette di togliere alla nostra vite una liana asfissiante che era andata sotto il nome congiunto di socialismo e dittatura del proletariato restituendoci la libertà di parlare dei nostri sogni a testa alta. E, sottovoce, di ristabilire quell’alleanza con l’anarchia che era stata alla base della terza internazionale. Qui comincia l’utopia…
    Su Sraffa e Keynes molto sarebbe da dire, e assai interessante è il saggio di Carabelli: proporrei uno spazio apposito, con molte ghirlandi alle pareti e molte dimensioni in più delle solite.

  2. pure io trovo molto interessante il commento di Franco Romano’ all’articolo di Paolo Di Marco…per entrambi gli autori l’Utopia “possibile” -se il tempo non esiste puo’ diventare possibile- di un ritorno al passato in cui l’essere umano viveva in uno stato di anarchia egualitaria dove la giustizia distributiva veniva osservata da tutti. Raccogliere frutti e cacciare per poi, senza spinte egoistiche, distribuire secondo le necessità, per natura…Certo se questo stato di cose, pre agricoltura, lo confrontiamo con la realtà presente, la società dell’accumulo, ci viene quasi da sorridere…Eppure se cessasse il surplus di armi a difesa del capitale e il surplus di lavoro schiavizzato, sarebbe possibile…Cosa ci separa dall’Utopia? Valorizzare il lavoro delle nonne? Il non lavoro?…Oppure già è in corso, ma non molto visibile, il “lavoro” di chi va alla ricerca di frutti “altri”, di chi caccia prede “altre”…L’inversione di tendenza puo’ essere solo molto lento, non misurabile con i tempi di poche generazioni, ma comunque in atto…Speriamo

  3. Vi ringrazio entrambi per i vostri ulteriori interventi che accolgo come un invito a continuare questa riflessione. In particolare nell’ultima parte di quanto scritto da Paolo e che riporto qui di seguito: “Su Sraffa e Keynes molto sarebbe da dire, e assai interessante è il saggio di Carabelli: proporrei uno spazio apposito, con molte ghirlandi alle pareti e molte dimensioni in più delle solite” lo prendo come un invito a discuterne in modo pi ravvicinato. Se oltre alle ghirlande ci fosse anche dei vino o della birra o entrambi, penso la riflessione ne risentirebbe positivamente. E’ un invito che faccio anche a Ennio perché faccia da tramite. Lui ha anche il mio numero telefonico.

  4. SEGNALAZIONE-

    Rachel Carson
    (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/tra-scienze-umane-e-naturali)

    Carson ritiene che la «nature literature» sia indispensabile, che abbia un ruolo e un valore e possa anche avere un ampio pubblico, perché quest’ultimo è ansioso di conoscere i meccanismi insiti nella natura. È sbagliato ritenere che la letteratura sulla natura sia diretta solo ad un pubblico di esperti. Nell’era della crisi ambientale deve aprirsi al mondo, deve far sentire la sua voce, usando un linguaggio, uno stile, una forma che siano comunicativi e comprensibili. È questo un compito che i moderni naturalisti devono assumersi, evitando di rimanere solo nei confini della comunità scientifica. Tale questione è sempre attuale. Nell’Ottocento la scienza e la letteratura si aiutavano per intercettare il pubblico. Darwin usava figure retoriche, utilizzava tecniche narrative e non esitava a citare scrittori noti per rendersi credibile. Nella separazione dei due mondi, avvenuta con la specializzazione della scienza, la letteratura ha perso parte della sua autorevolezza. La scienza ha assunto il ruolo di portavoce della verità, una verità che però non sempre riesce a comunicare efficacemente, ma nonostante ciò teme la possibilità di utilizzare altri linguaggi. Una delle ragioni per cui gli scienziati si sentono a disagio ad usare la narrazione è il fatto che le storie tendono a creare una «zone of tension», [3] una dimensione caratterizzata dall’ambiguità e dall’insicurezza, uno spazio di esplorazione e non uno di verità certa. Il nature writer ed etnobiologo Gary Nabhan osserva però che spesso nella nostra esperienza quotidiana ci troviamo di fronte a quesiti per i quali non vi è una semplice e unica risoluzione e che ci obbligano ad accettare l’incertezza e a mantenere una «multi-perspective view». [4] Aggiunge inoltre: «I think that those tensions can’t necessarily be explained entirely by linear, expository logic. A story can keep a multi-sided domain intact in our mind». [5] La divisione tra mondo delle scienze e delle humanities non ha prodotto un vincitore, semmai ha diminuito l’influenza, la completezza e correttezza di interpretazione della realtà di entrambi. Anche Nabahn ritiene che: «science needs to be communicated in a variety of genres to a variety of audiences. A good scientist these days has to be able to blend scientific expertise with other disciplines». [6]

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