Un ragazzo del secolo scorso


di Ennio Abate

Stamattina appena letto questa perla saccente del giovane critico Matteo Marchesini:”Come correttivo all’inserto del “manifesto” su Mario Tronti, consiglio il ritratto veridico e spietato che ne ha fatto Alfonso Berardinelli in “Stili dell’estremismo”” ho lasciato su POLISCRITTURE 3  FB  questa nota:

MORS NOSTRA, VITA LORO

Metodici, ironici, ben aggettivati i nuovi “stili dell’estremismo” dei nipotini berardinelliani contro le “nostre verità” (Fortini). Ogni occasione – ora i novant’anni di Mario Tronti – è buona per sfoggiarli sul Foglio. Che, ovviamente, non è né di destra né di sinistra ma è il crogiuolo della pura intelligenza critica contro chi osò parlare di comunismo.

P.s.
Sì, ce l’ho ancora a morte con Berardinelli et les intellectuels stronzones du sessatuit:
https://www.ospiteingrato.unisi.it/critici-senza…/

Poco fa ho avuto modo di leggere questa benedetta intervista al novantenne Tronti e ho selezionato  per una ulteriore riflessione  questa SEGNALAZIONE, che forse va incontro -certo con modi suoi – anche all’esigenza posta da Cristiana Fischer in un recente commento (“il primato della consapevolezza di classe, 100 anni dopo, va anche profondamente e criticamente attraversato”):

Mario Tronti: «Che Fare?»

https://ilmanifesto.it/mario-tronti-che-fare/?fbclid=IwAR3VP73hRX63_Bxg4gnerWlJZn0SY4lK2iHQWKNZMsuDcANC6j7eJOdxWj0

Stralci:

1.
Ho sempre parlato di una società divisa in due, in ogni tempo e in varie forme. Per questo mi ha affascinato l’irrompere del femminismo della differenza e l’ho seguito con grande curiosità intellettuale. L’idea del due che spezza l’eterno uno maschile dell’essere umano è stata una rottura teorica del paradigma emancipazionista sulla strada della liberazione femminile. Poi, c’è il discorso più generale. La politica, moderna, non è polis, non è agorà, come gaiamente si ama dire. È rapporto di forza, è potenza contro potenza, è appartenenza a un campo contro un altro campo. Chi non l’ha capito, direbbe Weber, è politicamente ancora un fanciullo. E francamente arrivo a preferire quelli che fingono di esserlo, dei fanciulli, a quelli che addirittura lo sono. Quando fai politica in realtà sei chiamato a dominare il demone della storia, perché hai a che fare con il kantiano legno storto dell’umanità. La grande storia del movimento operaio ci ha insegnato che si può fare questo, si deve fare questo, senza guerra. Chi ha concepito la lotta di classe come violenza ha radicalmente sbagliato, capi, regimi o gruppi che siano. È necessario usare la civilisation borghese per imporre la Kultur operaia, morta in croce nel suo venerdì santo ma che ha bisogno della sua pasqua di resurrezione, reincarnandosi nel mondo del lavoro oggi frantumato, disperso, dimenticato, alienato e pur vivo. Questo non avverrà per spontaneità dal basso: qui sta il mio rifiuto di ogni luxemburghismo. È un mondo che va riunificato socialmente, soggettivato politicamente, motivato passionalmente, riarmato teoricamente. Ecco il chiarore del giorno che vedo nella notte insonne del mio pessimismo antropologico.

2.
Lenin ha scritto «Che fare?». Come si risponde, oggi, a una domanda simile?
Il «che fare» leniniano è purtroppo mancato troppo presto, come a mio parere troppo presto si è rinunciato all’esperimento. Settant’anni sono un soffio nella «lunga durata» dei processi storici. Bisognava forse resistere e saper radicalmente cambiare, ma i riformatori di lì, come del resto, sappiamo bene, i riformisti di qui, sono stati e saranno sempre nient’altro che dei deboli cuochi di ricette per la cucina del presente, ogni volta inevitabilmente travolti dall’urto delle cose. Piuttosto prendiamoci le colpe, immense, del movimento operaio occidentale, che per non fare allora «come in Russia», ha finito per fare poi «come in America». Guardateli gli indegni eredi di oggi: tutti pazzi per Biden, come ieri per Clinton e Obama. Non più americanismo e fordismo, ma americanismo e atlantismo. Ricordo con nostalgia le infinite discussioni, all’Istituto Gramsci, e altrove, sul concetto di transizione, come passaggio dal capitalismo al socialismo, con in mano i testi di Dobb, Sweezy, Schumpeter. Oggi si parla di transizione ecologica, di transizione digitale, si istituiscono nuovi ministeri per questo. Ecco, una sinistra che arriva al governo dovrebbe prima di tutto istituire un ministero per la transizione politica da questa formazione economico-politica sociale a un’altra, opposta. Rivoluzione e riforme non vanno contrapposte come in passato. Solo con la minaccia di un superamento di quello che una volta si diceva l’ordine costituito, non gridato ma praticato con relativa forza in grado di realizzare l’obiettivo, costringi il tuo avversario a concedere riforme di sistema a favore della tua parte. È accaduto nei «trent’anni gloriosi» del Novecento in presenza della maledetta Urss. Paradossalmente si sta ripetendo oggi qualcosa di simile. Si apre, si concede, perché la paura viene ancora da Oriente, in competizione economica, tecnologica, ideologica. Lo nominano come presente autoritarismo, in verità lo temono per quel poco che ricordano di un passato che non passa.

3.
Purtroppo la riproposizione di un nuovo «che fare?» è al momento in gravi difficoltà. Questo si rivolge di regola a un soggetto antagonista già in campo. Esattamente quello che manca. Viviamo in finsteren Zeiten “in tempi oscuri”, come quelli di Brecht. Con una differenza sostanziale: che sono anche tempi artificialmente illuminati, che nascondono la notte con la luce dei lampioni. Ma la notte è qui, anche di giorno, solo che non si vede. I lumi del mondo moderno e postmoderno, il più avanzato che ci sia mai stato per l’umanità, sono accecanti. E non basta una pandemia a spegnerli. Anzi, questa rischia di essere l’occasione per sostituire, come mi pare stia avvenendo, quelle vecchie con lampade più potenti. Nei casi migliori, siamo regrediti da Lenin a Marx, dalla rivoluzione da organizzare con azioni decise alla rivoluzione da auspicare con pensiero forte. Impossibile «il che fare», rimane possibile un «che pensare». Questo non ce lo possono togliere. E forse bisogna ripartire da qui. Ma dobbiamo essere consapevoli di vivere da esiliati in patria.

4.
Al momento trovo l’esilio una categoria più appropriata di quella di esodo. Perché noi che volevamo «cambiare il mondo», adesso siamo come emigrati interni, con diritti ma senza riconoscimento, in senso hegeliano, confinati dentro questo mondo, che è cambiato per conto suo, il mondo del mercato e del denaro, della tecnologia avviata a esiti postumani, della comunicazione al posto del pensiero, dell’individuo senza persona, della massa senza popolo, del popolo senza classe

5.
Per chi si trova a vivere, male, a disagio, in conflitto, dentro una società capitalistica, il comunismo è irrinunciabile. Non trovo altra parola, altro concetto, altra postazione non solo politica ma generalmente umana, che dica con altrettanta fondata precisione l’essere contro. La marxiana critica di tutto ciò che è non gode certo di una sua attuale fortuna. Prevale nel campo della contestazione la critica a qualcuna tra le cose che sono, e che non vanno.

6.
Non credo che socialismo sia parola più utilizzabile di comunismo. Forse fa meno paura. Ma questo non è un pregio, è un difetto. Io credo di sapere con certezza una cosa: che solo i comunisti hanno messo veramente paura ai capitalisti. Nessun altro: i sessantottini, i movimentisti, gli operaisti, gli autonomi, i gruppi, tanto meno quelli armati che sciaguratamente hanno da ultimo infangato quel nome. I comunisti hanno promosso, nella pratica non solo nella teoria, l”assalto al cielo”, nel tentativo di costruzione del socialismo, sia pure eroicamente in un paese solo, e con la messa in campo di un blocco di potenza che ha fatto tremare, per la prima e forse per l’ultima volta, le basi del dominio capitalistico mondiale. Hanno fallito, hanno sbagliato più di una cosa nel tentativo, accerchiati e combattuti, ma questo non è la prova del fallimento di un’idea. I socialisti, diventati democratici, non ci hanno nemmeno mai provato. Per abbattere quell’assalto c’è voluta una terza guerra mondiale, la guerra fredda, caldissima dal punto di vista ideologico.

7.
Ci sarebbe un immenso fare urgente: questa è la speranza, l’utopia concreta di Ernst Bloch al tempo di tutte le passioni spente. La disperazione è che non è in vista chi lo faccia. “Pensare estremo, agire accorto”, va letto così. Così va letta la mia contestata, del resto sempre marginale, postazione politica. Io guardo dove vedo un minimo di possibile forza agente. Non solo dall’idea di comunismo, anche dalla pratica di organizzazione dei comunisti, ho appreso una volta per tutte che il minoritarismo non serve. Ti mette a posto con la coscienza di stare nel giusto. Ma io non devo rispondere alla mia coscienza, devo rispondere ai bisogni della mia parte. La mia scelta di campo non è etica, è politica. Il discorso sull’autonomia del politico è un altro passaggio, dopo l’operaismo, e proprio in conseguenza di quella esperienza. Lì mi accorsi che tra operai e capitale, in mezzo, c’era qualcosa che impediva lo scontro decisivo diretto. In altre parole, che la gamba del conflitto doveva camminare con la gamba della mediazione. Questa è l’altra politica, la soggettività delle istituzioni, la presenza della forma-Stato, la funzione del partito. Poi, ho avuto la fortuna di incontrare nel cammino – ed è stato come il colpo di fulmine in amore – la tradizione del realismo politico moderno, del grande pensiero conservatore, della cultura della crisi anti-illuministica. Mi è servito tanto quanto mi è servita non solo la conoscenza, ma in questo caso l’appartenenza, alla lunga storia sovversiva delle classi subalterne. Nel mio bagaglio Oliver Cromwell e Thomas Müntzer stanno benissimo insieme. Come si fa, se no, a passare da classe subalterna a classe dominante?

8.
l’ho detto, sta lì, nel troppo scrivere, nel troppo pensare e nel troppo poco fare, e agire, organizzare: che riconosco essere un grave limite del mio ormai lungo passato politico. Per come risponderò non mi rimane molto tempo. Sono concentrato sul come rispondere oggi: sapendo che oggi la risposta è assai più complicata di ieri e soprattutto dell’altro ieri. E non so se c’è ancora spazio. È vero che siamo nel deserto, ma perché «hanno fatto il deserto e l’hanno chiamato pace».

9.
Se la storia non è finita, allora l’Antico ritorna. Dunque, per Tesi: 1) La sinistra di governo dice e pratica la coesione sociale. Rimettere al contrario, palla al centro, il conflitto sociale. 2) Il conflitto va organizzato, sindacalmente, politicamente. Lavorare su una nuova forma di partito/movimento, che assicuri radicalità ma anche durata. 3) Trovare un vaccino che consenta di sconfiggere una volta per tutte l’epidemia ad alta diffusione dell’antipolitica. Non bastano più le mascherine per combatterne gli effetti, occorre intervenire sul ceppo originario, che va scovato e attaccato nella fine, avvenuta e voluta, della politica/progetto/passione/vocazione. 4) Recuperare la memoria delle lotte, come principio di educazione, pedagogica, rivolto alle nuove generazioni. Basta demonizzare il Novecento, lasciamo stare il grande e il piccolo Novecento, magari ci capitasse ora la fortuna di un nuovo Sessantotto! La feroce reazione antinovecentesca è stata base fondante dell’età di Restaurazione che stiamo vivendo da fine anni anni Ottanta fin qui. 5) Non la recita della litania: le donne e i giovani, ma l’atto di volontà: differenza e militanza. 6) Ernesto Laclau ci indicava: costruire il popolo. Accanto, costruire nuove classi dirigenti, ricostruire un ponte di comando, assicurare una direzione ai processi con forze fresche, intellettualmente e praticamente. 7) Guardare al mondo. Studiare, praticare, introiettare la geopolitica. Altro che sovranismo! Lotta di liberazione dell’Europa dall’atlantismo. Parola d’ordine: Europa libera! Autonomo ponte di civiltà tra Occidente e Oriente, tra Nord e Sud del mondo.

5 pensieri su “Un ragazzo del secolo scorso

  1. sembra un discorso di raro buon senso; così come il richiamo fondamentale al far politica.
    solo che i precetti su come farla restano di evanescente genericità, così come d’altronde erano, da altri pulpiti, quelli recenti di Viale e altri apparsi sul manifesto o quello sulla Comune di Negri.
    anche perchè non si chiarisce bene l’obiettivo nè i soggetti interessati, e si rimane alle formule di un comunismo che nessuno sa più bene cosa sia e di un partito che si vede solo nel regno dei cieli.
    almeno però non fa predicozzi inutili e, per attrazione del vuoto, ci fa vedere cosa manca

    1. Non sarebbe meglio analizzare i singoli problemi che l’intervista affronta, le risposte che OGGI dà Tronti, dire in cosa si sbaglia, indicare un “che fare” più concreto e coerente di quello che indica?
      E’ lo scopo con cui cerco di scegliere gli stralci.
      Non capisco perché parlare di “precetti”. “Un comunismo che nessuno sa più bene cosa sia”? Ma già usare ancora oggi il termine o annegarlo nell’indefinitezza mi pare orientare la ricerca in una direzione che ha almeno una storia alle spalle su cui discutere (certo se uno sente che ne vale la pena).
      Quanto al partito anche porlo come un’esigenza indica una direzione di ricerca.
      Nella discussione che ho avuto con Luciano Aguzzi sul destino di Cuba ( POLISCRITTURE SU FB (https://www.facebook.com/groups/1632439070340925/posts/3089158434668974/ ; metto il link anche se non sono sicuro che si apra per chi non è registrato a FB) questo problema l’ho riproposto, perché non mi pare per nulla “nel regno dei cieli”:

      Ennio Abate

      “Chi oggi desidera più libertà, più democrazia, più giustizia, più diritti politici e umani, più uguaglianza, più partecipazione popolare alla gestione del Paese, non può guardare a Cuba” (Aguzzi)

      Concordo, ma qualsiasi rivoluzione avviene sempre in condizioni predeterminate e con rapporti di forza diseguali e SEMPRE a svantaggio dei rivoluzionari, che saranno costretti a una qualche scommessa e anche a compromessi inevitabili. I loro comportamenti e le loro scelte non automaticamente possono essere qualificati come tradimenti. Che ci possono essere ma non è così facile stabilirli. Quanti si sono illusi su una possibile riforma interna del regime sovietico? Perché non riconoscere che anche Castro ci abbia creduto e solo da un certo punto ha mirato esclusivamente a conservare il potere che si andava ossificando?
      I rivoluzionari non sono dei maghi e possono sia sbagliare che (ad un certo punto) tradire.
      L’altra via, però, mi pare illusoria in partenza, se si guarda alla storia concreta, o un facsimile di una religione, mai veramente smentibile perché non vuole mutare la realtà ma affiancarle un mondo perfetto. E potrebbe essere soltanto quella della speranza indefinita in un qualche sol dell’avvenire, dell’attesa di una maturazione assai improbabile di una situazione ( teorie “crolliste”, ecc.) che “gradualmente” o “naturalmente” o “evoluzionisticamente” pareggi o addirittura ribalti quello squilibrio storico tra dominati e dominanti.

      Luciano Aguzzi

      Alla rivoluzione cubana ho creduto anch’io e lo testimoniano le mie prese di posizione pubbliche, da un articolo del 1962 sul quindicinale nazionale della Federazione Giovanile Socialista al mio libro del 1973 (Educazione e società a Cuba) e altri scritti. Non ho visto subito gli errori, quelli di fondo e non quelli riparabili e temporanei, perché anch’io avevo ancora in testa il “modello” leninista. C’è poi un’altra ragione: vedevo Cuba (dove ho passato l’estate del 1961 per la raccolta del materiale del mio libro) e i cubani sensibilmente diversi dall’Urss e dai Paesi socialisti dell’Europa dell’Est e solo a poco a poco mi sono accorto che quella diversità era soprattutto una diversità storica, di cultura e tradizioni, di caratteri e costumi ecc. Il popolo cubano è diverso da quello russo o da quello polacco o rumeno e questa diversità ha nascosto, ai miei occhi, le troppo rassomiglianze del modello politico. Ma poi, nella lunga distanza, con l’accumularsi dei decenni, con il ripetersi delle domande, con la ricerca di risposte più pertinenti e convincenti, ho cominciato a vedere meglio la serie storica degli eventi e soprattutto ho capito che vi era incompatibilità fra quel modello leninista e varianti successive nel mondo e il socialismo e comunismo libertario. Mentre prima mi sembrava che ci fosse una maggiore compatibilità, almeno con il Lenin fino al 1921 e (parzialmente) con Mao e meglio con Castro e Guevara. Mentre con Stalin non ho mai avuto dubbi sulla sua estraneità al comunismo. Nel 1960 Marx era morto da 77 anni, nel 2021 gli anni sono diventati 138. Quasi il doppio. E la prospettiva storica, per chi non rimane legato al suo vissuto giovanile, cambia molto, come lo dimostra la produzione storiografica. Certi applausi possono cambiare e diventare aspre critiche, più fondate storiograficamente degli applausi giovanili. Purtroppo.

      Ennio Abate

      “ho capito che vi era incompatibilità fra quel modello leninista e varianti successive nel mondo e il socialismo e comunismo libertario.” ( Aguzzi)

      Per me il modello leninista è stata una risposta concreta al problema della rivoluzione nella Russia zarista e alla crisi della socialdemocrazia della II Int. Ha dato certi frutti un po’ ovunque. Lo si può anche abbandonare ma per un altro modello che sia altrettanto o più concreto di quello. Non mi pare che il comunismo libertario, aspirazione più che progetto, lo sia.
      Per caso sto leggendo Extrema ratio di Fortini e mi imbatto in questo brano che pone proprio questo problema:
      “Se una formazione ideologico-politica che si assume il compito di rappresentanza democratica di una parte della società non vuole costituirsi nel microstato combattente, confessante e autoanalitico che ha avuto come sua forma storica quella leninista, quale sarà la parte della società ( e in quali sue istanze) che avrà il compito di interpretare, decostruire, oltrepassare e trasformare in consapevolezza l’enorme cumulo di falsa coscienza prodotto dalle ideologie reazionarie o conservatrici (o, all’occorrenza, “progressiste” o “rivoluzionarie”) e dal controllo dei media e dei processo (come vengono chiamati) di “paura” e di “cinismo”?” ( pag. 90)

  2. quello che in Tronti ma anche Aguzzi manca è la storia, nel suo senso pieno alla Braudel di formazione di strutture, condizioni, di un panorama a molte dimensione nei cui valloni i popoli e i soggetti sono incanalati; con scelte anche da compiere, sforzi per deviare i corsi, ma tutte operazioni che richiedono di conoscere il terreno.
    Invece ripetono formule, da partito a comunismo che nessuno, ripeto, ha più idea di cosa esattamente rappresentino.
    Questo mi sembra lo sforzo preliminare che val la pena compiere. In qualche modo le cose che scrivo in ‘uscire dal tempo’ sono anche un tentativo di iniziare a riflettere su questo in termini più adeguati.
    Molto c’è da fare, ma non con la sola volontà.
    Se restiamo ai 10 comandamenti di Tronti siamo fritti.

  3. “Se restiamo ai 10 comandamenti di Tronti siamo fritti.” ( Di Marco)

    Ma chi li prende per “comandamenti”? A parte il fatto che le sue tesi sono 7 (punto 9). E non è vero che “manca la storia”. (Come se la storia fosse solo quella alla Braudel).

  4. ma perche’ non discutete dell’opera di Roberto Calasso, morto oggi?
    Almeno nel prossimo futuro, diciamo tra settembre e ottobre.
    Oppure delle ballate dello scrittore ceco ERBEN? – Non e ‘ difficile.7

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