Delfina Provenzali, la perseveranza del testo

di Mariella De Santis

Forse tra chi legge queste righe, qualcuno ha incontrato Delfina Provenzali  in Promemoria di Caproni:[1]

Brasserie du Morvan.
L’indomani, Beaubourg.
Luzi, Sereni, Frénaud.
La Provenzali. Esteban.

Il 5 giugno del 1978 Delfina leggeva al Beaubourg con gli autori citati nella poesia. A Parigi aveva seguito il marito che aveva lì impegni professionali e nonostante una sua distinguibile riservatezza, su spinta di Vanni Scheiwiller, a cui fu presentata da Carlo Betocchi che ne conosceva il silenzioso lavoro di scrittura, contattò alcuni poeti francesi dei quali diventò, da quel momento,  la traduttrice dei  loro libri[2].                                                                         

Delfina era una chimica, nata nel 1920 a Palermo e vissuta sin dalla sua giovinezza a Torino. Era stata staffetta partigiana, amica di Primo Levi, regalava colori al bimbo che diventò Alighiero Boetti e all’età di trent’anni, mentre aspettava il secondo figlio sentì il desiderio di esplorare la parola poetica attraverso la propria scrittura. Negli anni parigini curò rassegne di poesia italiana al Beaubourg a partire dalla scuola poetica siciliana che lei amava molto, sino ai contemporanei.  Mi accorgo che sto cercando di disegnare una cornice dentro la quale inserire il lavoro poetico di Delfina che però è davvero difficile distinguere dalla persona. Le domande che lei si poneva sulla poesia erano le domande che si poneva sull’esattezza del vivere, la raffinatezza compositiva che le viene riconosciuta era la naturale delicatezza che aveva nella vita quotidiana e l’inquietudine di testi che voleva perfetti era la medesima con cui stava nella vita. Era una donna saggia ma non diceva a nessuno come vivere, aveva solo imparato ad ascoltare tanto e con attenzione. A guardare come i composti si formano, compongono e scompongono e a ritrovare quei processi negli umani e nell’umanità. E così era la sua poesia:

Depositari di nessun segreto[3]

Depositari di nessun segreto
abbandonati a se stessi
illuminati
         indugiano
                  illuminando.
Da figlio in figlio
progressione processione
fino alla curva
          ultima
                  del possibile.
Lontani da metodi e dottrine
infide distruzioni
annientamenti
         e morte
                  avanzano.
Vulnerabili nell’alone del tempo
iridi ignare
vagano alla ricerca del segno
           del Luogo
                   inaccessibile.

Come leggiamo in questo testo, distruzione e morte si abbattono inevitabili al di là delle forme storiche della vita ma l’umanità (iridi ignare) ha il dovere di cercare. Il Luogo non è un’entità metafisca ma uno spazio di coscienza a cui tendere. Il tema della consapevolezza, della coscientizzazione, dell’inequità entrano in poesie che apparentemente si muovano tra minerali, bande umane silenti, scosse date al vuoto:

XXI

D’ogni uomo potrei ritrarre il volto
e dei rami i segni del vento 
e dell’inverno.
Di te                                   solo la mano
che nell’aria inscrive
cerchi inquietanti di silenzio.             

Il silenzio da cui la Provenzali era spaventata era quello dell’incomunicabilità. Credeva nella dialettica delle idee e direi delle azioni senza né essere una polemista né una barriccadera ma potrei raccontare di molte sue scelte assolutamente conseguenziali ad un’idea della vita in cui tutti avevano diritto alla dignità.

Delfina Provenzali era minuta, con gli occhi neri piccoli e mobilissimi, riservata e timida ma senza complessi di alcun genere. Se apriva la sua casa e la sua amicizia si potevano vivere ore di qualità. Aveva una passione per l’incisione grafica e i fossili e questo a volte mi sembrava fosse un suo modo di meditare. I segni lasciati su lastre di metallo, producono acqueforti, acquetinte discrete e intense e i fossili lì a ricordare un passato lontano che deve essere sempre in contatto col presente perché si tenti un equilibrio. So quanto Delfina lavorasse su ogni testo perché per circa dieci anni ci siamo incontrate una volta al mese, a Milano, con altri amici poeti a confrontarci sul lavoro di poesia che stavamo facendo. Non le importava il successo nel senso volgarmente inteso ma avrebbe voluto che la poesia fosse un bene comune. Avrebbe voluto che tra poeti non ci fossero sgambetti, rivalità come “per arrivare a fare il dirigente d’azienda”. Era una di quelle persone che viveva in una condizione borghese ma non ne era condizionata e questo si avverte sia nella sua scrittura che nelle scelte di traduzione operate. Oltre ai libri di poesia pubblicati con Scheiwiller sin dal 1973 e con altri avvertiti editori[4], ha pubblicato plaquette di grafica, saggi su poeti, sulla traduzione e tradotto dal francese autori e saggi d’arte. Ineccepibile il lavoro per il catalogo della mostra sul grande e poco frequentato Nicolas De Staël alla Fondazione Magnani Rocca. Non si limitò a tradurre i testi critici ma prima lo studiò così tanto che ne diventò un’esperta e questo era il suo metodo di lavoro. In prosa esiste un libro di Delfina Provenzali che suggerisco di reperire e leggere per acutezza e gradevolezza: Incontro M.me Destouches. La madame in questione era la vedova di Céline e lei era attratta da questa insegnante di danza contemporanea (un’altra danzatrice le fu grande amica, Maria Cumani Quasimodo) inaccessibile e misteriosa e per avvicinarla le chiese di iscriversi ai suoi corsi di danza ma M.me Céline intuì che qualcosa non tornava e non se ne fece nulla, tempo dopo per avventurose strade, le due si incontrarono e ne venne fuori un libro delizioso in cui Delfina pone la danzatrice nella sua luce di innovatrice  ma al contempo ci lascia entrare in una sorta di retrobottega emotivo nel quale il contraddittorio, ingombrante e adorato consorte ancora dominava.   

Nei testi inediti più recenti (Delfina muore a Milano nel 2002) i contenuti si fanno più espliciti, l’Autrice avverte il bisogno di dichiarare anche in poesia il rapporto che avverte verso il dolore del mondo:

Non ricordano il colore dei prati[1]
l’odore salmastro del mare
il tepore delle case.
                Capo reclinato
                braccia attorno a ginocchia inerti   
                persi gli occhi
 
                           viaggiano
Senza illuminare           obliquo
si stenderà  il giorno
lungo l’alzana del Walletjs
i murales del Bronx.


[1] In Menhir, tutte le poesie e le traduzioni, a cura di Gilberto Finzi e Mariella De Santis, Archivi del ‘900, 2004.

Questa è una poesia scritta negli anni in cui la diffusione dell’eroina riempiva le strade di giovani consumati dalla dipendenza e il voluto riferimento al Bronx ha una valenza sia di collegamento universale ma anche dichiara delle responsabilità politiche in quella che è stata la strage di una generazione. Viaggiare era per lei un modo di entrare in contatto con sensibilità e forme di vita non altrimenti raggiunte e sempre degli anni più recenti sono Le Renne, poesie elaborate dopo un viaggio in Finlandia che la impressionò molto per le condizioni in cui era ridotto il popolo nativo a causa dello sfruttamento subìto:

V [6]

Kulmasatz:
           <<Tarakas
               vicino è il lupo
                vicina la volpe
                lemming radono la brughiera.
                Torniamo sui monti>>
Ottar:
           << Padre  non bere  
                torniamo sui monti
                Cerchiamo una pietra più bianca
               un dio buono.>>
                                              Una renna
                                             Il figlio dello sciamano
                                            lo sciamano

Come si può vedere anche nei testi recenti i segni ortografici sono utilizzati al minimo. Il punto chiude quello che è il momento di arrivo di un’elaborazione mentre non ci sono virgole e sono gli spazi intratestuali ad forzare il dinamismo espressivo.  

Delfina Provenzali era anche una grande fotografa e una pittrice autodidatta molto essenziale, amava la musica e soprattutto il jazz. Aveva un marito, dei figli, dei lutti e ad ogni cosa dedicava una cura composta e delicata. Due anni dopo la sua morte io e Gilberto Finzi, suo grande amico ed estimatore curammo l’opera omnia Menhir, fortemente sostenuta da Luigi Olivetti che la pubblicò nelle sue edizioni Archivi del ‘900. Rileggendo oggi quel libro, lo definisco una piccola traccia per un grande viaggio alla scoperta de: la Provenzali.

Note


[1] Giorgio Caproni, Erba francese, I Meridiani, Mondadori,Milnabo,1998.

[2] Tra i poeti tradotti ricordiamo Céline, Michaux, Mallarmé,du Bouchet, Dupin, Esteban, Guillevic.

[3] Da Omphalos, Editrice Nuovi Autori, 1987.

[4] Il giorno fermo, all’insegna del pesce d’oro,Scheiwiller,1973, L’incisione dura, idem, 1978, Omphalos, Editrice nuovi autori,1987, La parola muta, All’insegna del pesce d’oro, Scheiwiller,1995.Escono postume le poesie giovanili Noi resi a noi stessi, Nicolodi 2003 e Reciproco dialogo in versi con Giuseppe Caracausi, Edizioni del porticciolo, 2009.

[5] In Menhir, tutte le poesie e le traduzioni, a cura di Gilberto Finzi e Mariella De Santis, Archivi del ‘900, 2004.

[6] Ibidem.

20 pensieri su “Delfina Provenzali, la perseveranza del testo

  1. Mariella De Santis ci offre un nuovo e interessante profilo di scrittrice, traduttrice e artista formatasi in studi scientifici, che seppe, nella sua opera, coniugare il rigore scientifico con la delicatezza della scrittura …La sua una vita ricca di esperienze molteplici, affrontate con una sensibilità raffinata e nello stesso tempo semplice, aperta all’ascolto, al riconoscimento della sofferenza degli ultimi. Nelle poesie pubblicate sembra essere onnipresente e di sostanziale importanza “lo sguardo” di volta in volta sottolineato dall’autrice…
    Uno sguardo, declinato in vari modi: impegnato in una difficile ricerca di consapevolezza, che fori il determinismo della materia (Depositari di nessun segreto D. P.)…oppure uno sguardo alla ricerca di un dialogo respinto da una mano “che nell’aria inscrive/ cerchi inquietanti di silenzio”, sul tema dell’incomunicabilità (XXI…) …oppure lo sguardo spento e ripiegato di chi, vivo, ha cessato di vivere tra gli umani, come i molti giovani travolti dal consumo da droghe pesanti, non nascondendosi le forti responsabilità politiche (da Menhir)…
    Delfina Provenzali dimostrava anche di possedere, dalla recensione di Mariella che le fu amica, un raro senso della misura, una delicatezza nella cura dei suoi componimenti poetici, come delle persone e delle cose, come i fossili e le incisioni che tanto amava. Grazie

  2. Grazie Annamaria per il tempo dedicato alla condivisione della tua sentita riflessione.Spero che tu possa trovare cose di Delfina da leggere.La discrezione in questo mondo chiassoso non deve portare all’oblio.Un sorriso,Mariella

  3. grazie Mariella, ricambio il sorriso. Farò una ricerca, quando mi sarà possibile, sugli scritti di Delfina Provenzali…

  4. Non ho sottomano il libro-intervista sulla moglie di céline: la traduzione del “mea culpa” allegato, è della stessa provenzali?

  5. Grazie Mariella, la nota finale del link chiarisce ulteriormente:
    * La poetessa e traduttrice (Palermo 1920, Milano 2002) racconta come è riuscita, con tenacia e fantasia, a farsi ricevere dalla danseuse Lucette Destouches Almansor, l’inavvicinabile vedova di Céline, per ottenere da lei l’autorizzazione a pubblicare il pamphlet “Mea Culpa”, riprodotto in questo preziosissimo volumetto.*

    Da qui si deduce l’obiettivo primario di Delfina.
    “Incontro Madame Destouches” (Vanni Scheiwiller, Milano 1977), in 300 copie per gli amici, è introvabile.
    In compenso “Mea culpa”, trad. di Delfina Provenzali (62 pp. con testo a fronte) era uscito due anni prima, 1975, sempre per Scheiwiller, e si trova nelle biblioteche.
    un lustro dopo, 1982, da Guanda esce “Mea culpa ” trad. di Giovanni Raboni con un saggio di Jean-Pierre Richard, sempre in biblioteca.

    l’edizione originale (con Semmelweis) è acquistabile qui https://www.edition-originale.com/it/letteratura/prime-edizione-e-preziosi-libri/celine-mea-culpa-suivi-de-la-vie-et-loeuvre-1937-69252

    per i cristiani invece, aggratis, qui http://dndf.over-blog.com/article-2365129.html

    1. Lo dico con disagio perché temo di essere condizionata da fattori extraletterari ( esistono? Hanno diritto ad essere considerati?) ma io dopo un po’ che leggo Céline ho un rigetto. Ho provato a concentrarmi solo sullo stile, come mi diceva un mio amico, ma ho avuto la conferma che lo stile serve una concezione del mondo. E io nello stile ( e suppongo nella concezione del mondo ) di Céline, non ci sto bene.
      Mea culpa?
      Sopravviverò anche a questo …

      1. @ Mariella

        Su questo nodo (letteratura/extraletteratura, visione formalistica/ visione contenutista) tentai di chiarirmi e chiarire le idee in un confronto/scontro con Leonardo Terzo quando collaboravamo nel Laboratorio Moltinpoesia. Forse potrebbe servire ancora oggi? Qui sotto uno stralcio e il link…

        SEGNALAZIONE
        Da quali nemici e falsi amici
        si devono guardare i poeti (esodanti)
        [ Seconda puntata]
        di E. A.
        https://moltinpoesia.blogspot.com/2011/02/ennio-abate-da-quali-nemici-e-falsi.html#more

        Stralcio:

        Raggiunta una forma innovativa, ne discenderebbe per Terzo che il discorso letterario (o una poesia o l’arte) avrebbe in teoria le “carte in regola” per diventare «politicamente efficace». Poi, se non lo diventa, questo dipende più dai lettori che dall’autore. Per me no: il nuovo, l’originale in poesia o in arte non è di per sé automaticamente positivo o politicamente efficace. È semplicemente nuovo. È semplicemente originale. Non è detto cioè che novità o originalità o bellezza o autenticità raggiunte in poesia o nell’arte costituiscano un valore quasi assoluto che sfugga di per sé all’ambiguità strutturale della poesia. La poesia o ’arte non riesce a fare tale “miracolo”. Resta solo «promessa di felicità» e, come si sa, le promesse possono aleggiare nel vuoto per secoli e indurre effetti narcotici.

        5. Ecco perché c’è da insistere di più sull’ambiguità della forma. Non basta raggiungerla. Bisogna interrogarsi su che tipo di forma è stata raggiunta e che funzione ha e che uso essa stessa già induce o suggerisce. Perché non è neutra o univoca. Proprio perché ambigua e perché invia ai lettori un messaggio polisemico e – aggiungo con Fortini – contraddittorio. Proprio perché è un “assaggio” (promessa) di felicità ma non è felicità. E poi va considerata l’ambiguità degli stessi lettori, che comunque la percepiscono (quando effettivamente ci riescono) attraverso altri filtri distorcenti: quelli della loro ideologia di riferimento o dell’immaginario che hanno ereditato. Ideologia e immaginario dei lettori interferiscono parecchio con il processo conoscitivo “normale” previsto dagli specialisti. Normale non lo è quasi mai. In quanti casi avviene? Cosa vede in Guernica un professore di storia dell’arte e un turista di una comitiva di massa o un turista europeo o un turista giapponese o africano? Davvero, come sostiene Terzo, una poesia o un’opera d’arte è sempre capace di «rivelare uno spostamento di visione in un’altra prospettiva»?

        6. La fiducia nella potenza della forma mette, secondo me, sullo sfondo o oscura troppe cose che finiscono per addolcirne o occultarne l’ambiguità. Basti pensare al fatto stesso che i giudizi (solo) estetici, pur non essendo completamente arbitrari, sono «necessariamente condizionati dal contesto sociale e ideologico» e «possono essere sottoposti a confutazione e revisione» (Terzo). Oppure agli effetti derivanti dal fatto che «arte e ideologia non sono sfere irrimediabilmente separate e antagonistiche» (Terzo). O che «la letteratura e la dimensione estetica possono prestarsi all’utilizzazione politica o resistervi» (Terzo). O ancora al fatto che «la complessità e la difficoltà interpretativa si prestano a de-familiarizzare la cornice ideologica entro cui operano, ma sia da posizioni conservatrici che da posizioni radicali» (Terzo). In quest’ultimo caso è come dire che la cornice ideologica di un testo non viene mai del tutto meno e che l’opera può essere tirata sempre da una parte o dall’altra da critici e lettori comunque sotterraneamente spintonati anch’essi dalle loro ideologie e dai loro immaginari: essere, dunque, valorizzata ora per i suoi elementi “conservatori” ora per quelli “innovatori”.

        7. E allora preferisco chi, come Fortini, mi mette la pulce nell’orecchio. In maniera decisa egli insisteva sul fatto che la forma – anche quando è o proprio perché è forma (e quindi efficace, coerente con il contenuto, magari anche “bella”) – non smette mai di avere a che fare con un universo ideologico e storico pervaso dal conflitto; è comunque essa stessa impregnata di tale conflitto; e, proprio perché vi può alludere comunque solo in modo ambiguo, suscita reazioni diverse e prevede letture diverse, tutte da considerare e valutare. Per questo diffido soprattutto dei “formalisti puri” (Terzo non mi pare che lo sia davvero) così propensi ad autonomizzare in assoluto la forma (la poesia o addirittura la Poesia) dal resto, da ciò che forma non è, da ciò che non raggiunge la forma, da ciò che va messo da parte o cancellato o rimosso o dimenticato perché ci sia forma. Fortini diceva con chiarezza estrema sia che la forma è ambigua sia che, di conseguenza (e non solo per processi soggettivi del lettore) essa suscita due modi di riceverla, di leggerla che egli giudicava entrambi «fondamentali e antagonisti» e che, mutuando i termini da Hegel, chiamava signorile e servile. Il primo, diceva Fortini, legittima l’esistenza formale (fa della forma l’elemento centrale). Il secondo, quando non la nega del tutto (nei casi più “ingenui” o “rozzi”, quando si fa confusione tra arte e vita, politica e poesia), chiede soprattutto «messaggi e non forme». Perciò i lettori della poesia, quelli “ingenui” e quelli “raffinati”, hanno per lui – ripeto – due atteggiamenti entrambi significativi («fondamentali») e non facilmente conciliabili («antagonisti»): c’è chi bada al contenuto (o di più al contenuto) e chi «contempla il gioco della superficie verbale» (o soprattutto questo). E questo dissidio fondamentale e antagonista lo vivono, credo, gli stessi poeti.

        8. A differenza di Terzo (ma anche di Adorno) che sembrano voler quasi espungere la «referenzialità» dal testo poetico o la considerano secondaria, per cui più l’artista è innovatore quanto più da quella referenzialità (storica, sociale, politica, ecc.) si distacca, Fortini riconosceva (meno dogmaticamente, meno partigianamente, meno corporativisticamente, pur essendo stato un critico letterario di valore riconosciuto) il valore e il limite di questa ambivalenza intrinseca della poesia (e dell’arte) e la legittimità e problematicità delle due letture (signorile e servile) che la storia della società in un certo senso continua ad imporre e dalle quali non è facile liberarsi. Egli manteneva aperto e approfondiva il discorso là dove Terzo lo interrompe per predilezione dell’estetica e del formalismo. E non a caso mentre Terzo chiede il rispetto del “privilegio” della comunicazione artistica, Fortini vedeva uno dei segni di grandezza di un’opera di poesia e d’arte nella capacità di scartare gli “amici della poesia” (gli esteti) e di puntare ai suoi “nemici” apparenti, cioè a quelli che s’aspettano «messaggi e non forme». Non accettava per questo il loro “rozzo pregiudizio”, ma come poeta e come critico si assumeva in pieno il compito di misurarsi con la dimensione non-letteraria e non-poetica, con la pressione”barbarica” che mette in discussione i propri otia:

        «Chi ha valutato positivamente quella pressione “barbarica” (Goethe tutti i classicismi) ne ha tratto che esistono “soggetti” buoni o cattivi, temi e forme di “destra” o di “sinistra” e che l’esito formale, l’intima coerenza eccetera non sono il criterio dell’eccellenza ma solo una sua frazione» (Poesia e antagonismo, in Non solo oggi, p. 204) [sottolineatura mia].

        Terzo in modi professorali tende a chiudersi proprio almeno a un certo tipo di pressione “barbarica”, a ridimensionarla se non a demonizzarla. Fortini, invece, richiamandosi ad Hegel e ricordando che per il filosofo tedesco «la vita può mantenersi solo in prossimità della morte», sosteneva non una semplicistica separazione tra arte e vita, ma una tensione continua tra poetico ed extrapoetico ( tra arte e vita, tra arte e politica):

        «Il discorso poetico può mantenersi solo se accetta la propria continua contestazione compiuta dal discorso extrapoetico ossia da una lettura comunicativa-pratica» (Poesia e antagonismo, in Non solo oggi, p. 205)

  6. questa sopra è una nota intervista a lucette del 1969, tradotta appunto in italiano.

    L’intervista a lei di delfina è invece come se non fosse mai esistita, in quanto è circolata solo privatamente.
    la cosa fondamentale sarebbe che Mariella la pubblicasse qui su poliscritture, facendo veramente un’opera di bene per i lettori e gli studiosi di tutto il mondo, oltre che per lucette e céline.

    1. Caro Dario, certo, potrei scansionare il libro ma cosa devo fare per non incorrere in problemi di copyright? Oggi come oggi non saprei a chi chiedere la liberatoria…Il figlio di Delfina me ne aveva inviato un’ultima copia a cui era interessato Valerio Magrelli. Se troviamo il modo di non avere problemi legali, certamente metto il testo a disposizione su PS. Ne vale la pena.
      Grazie e abbraccio,
      Mariella

    1. Della traduzione di Le belle bandiere non ho mai sentito parlare da Delfina e mi pare strano perché ho anche curato la sua opera omnia con Gilberto Finzi e non abbiamo mai trovato traccia di questo lavoro.
      https://www.libreriauniversitaria.it/menhir-provenzali-delfina-archivi-900/libro/9788873350187

      Il libro intervista con la Destouches è uno solo ed è quello del 1997 che in alcune librerie on line è ancora reperibile ( come pure Menhir).

  7. x mariella

    l’ho preso a 25 euro (facendo uno strappo) , e mi pare che sia pubblicabilisssimo.
    nella mia personale classifica 1 inedito (e tale è sostanzialmente da considerare un volumetto che finora ha circolato solo privatamente) vale 10 studi critici, 100 lenzuolate e 1000 linkate, perché ha un valore aggiunto di democrazia inestimabile.
    perciò io direi che tu e poliscritture non dovreste lasciar perdere un’occasione così importante di dare al mondo intero una cosa inedita di/su/con céline, postandola appunto.

  8. nulla osta alla pubblicazione in rete dell’intervista di Delfina.
    se poliscritture si arrocca su fortini snobistici e torri di massa
    non dando a tutti la possibilità di leggere 1 inedito céliniano,
    prenderò atto e la darò io volentieri altrove. dadario bborso.

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