Il merlo del Perù

di Rita Simonitto

Giorni addietro, senza che facessi nulla per riattivare questa memoria (o forse un contesto particolare me ne aveva fornito gli stimoli) mi sorpresi a canticchiare una filastrocca dal testo un po’ bizzarro. Ricordo che la cantava mia madre. Forse si trovava in uno di quei momenti in cui una specie di bonaccia inframezzava tempeste virulente di ordine sia familiare che di disagio sociale. E, come in un film, accompagnate da questa ‘colonna sonora’, scorrevano immagini provenienti da un mio passato infantile sovraccarico di emozioni contrastanti: disperazioni rabbiose ed ebbrezze magiche.

Ed ecco un cestino di vimini color acqua marina che usavo per portare la merenda alle elementari e che, come un contenitore fatato, volevo sempre con me. E allora capitava che, in certe particolari occasioni me lo tenessi ancora più stretto. E così, sedute su un prato primaverile, mia madre ed io, mentre io lo riempivo di pratoline lei, rammendando qualche cosa, cantava: “C’era una volta un merlo, il merlo del Perù. Era senza saperlo un modello di virtù. Un giorno il merlo disse purtroppo sono solo, almen se prendo moglie, la notte mi consolo. Allodola mia bella tu sei una mia sembiante, allodola mia bella sarai la mia amante”. E senza dubbio le strofe continuavano, ma per quanto mi sia sforzata di recuperare quel seguito, il tentativo è andato a vuoto.

Piuttosto ricordo che anni dopo, ormai ben più grandicella, casualmente riconobbi l’aria su cui si poggiava quella filastrocca. Aveva a che fare con il Fra’ Diavolo: “Quell’uom dal fiero aspetto, guardate sul cammino/lo stocco ed il moschetto/ha sempre a lui vicin./ Guardate un fiocco rosso/ei porta sul cappello/e di velluto indosso/ricchissimo mantel.//Tremate!/Fin dal sentiero del tuono/dall’eco viene il suono/”Diavolo, Diavolo, Diavolo.” La musica era proprio quella!

Che avevano da condividere questi due mondi completamente diversi? Mah!

Se ripenso ad allora, quella canzoncina mi arrivava disinvestita di particolare attenzione, impegnata com’ero a raccogliere margheritine per farne braccialetti da portare alla maestra elementare (una suora, suor Enrica, che spesso intercalava i discorsi con il suo “vabbene vabbene ggià ggià”). Eppure credo che, inconsciamente, mi si infiltrassero domande su come immaginarmi questo merlo del Perù, così speciale da essere un “modello di virtù”, dato che i merli che capitavano sotto il mio sguardo, pur apprezzati per i loro gorgheggi, non mi sembravano niente di che. Certamente c’era il becco di un arancione singolare che spiccava come una lama sul lustro piumaggio nero. Oppure gli occhietti mobilissimi bistrati di giallo. Ma non finiva lì. Se mi sforzo di ricordare, quell’alone di mistero si confrontava con altre esperienze singolari legate alle rare passeggiate nei campi assieme a mio padre, il quale si reggeva a stento sulle gambe quando tornava emaciato dai permessi temporanei che gli venivano concessi da un qualche sanatorio. Poi lui sembrava rivitalizzarsi, eccitandosi quando incocciavamo in un nido di merlo nascosto in una rosta. E allora gli prendeva una specie di frenesia, dovevamo subito allontanarci per evitare che la mamma merla, insospettita dalla nostra presenza, abbandonasse la cova. E doveva strattonarmi via dal mio desiderio di prendere in mano uno di quegli ovetti screziati, misteriosi perché dentro c’era una vita. E mi sgomentava la sua collera quando mi opponevo: “Così li uccidi, così li farai morire tutti!”. Passare per assassina non era certo il massimo così mi mettevo a piangere. Ma oggi mi chiedo, in quei suoi scoppi d’ira a quali assassini faceva riferimento? Chi potevano essere stati per lui i veri turbatori di nidi?

Poi la calma tornava e mi raccontava dei diversi periodi di cova, quando la merla passa, proprio per proteggere le sue uova, dal collocare il nido tra gli anfratti del terreno, perché gli alberi sono ancora spogli, alle nidificazioni successive ad altezze sempre superiori per essere protette dalla vegetazione. E mi parlava del merlo, il suo compagno, che stava di vedetta e vigilava, quando mamma merla si allontanava per cercare cibo: e se c’era un pericolo mandava un richiamo particolare. Ero affascinata da queste storie al punto tale che avrei voluto provocarle: sentire com’era fatto lo zirlo del merlo in presenza del pericolo, ma mi bloccava il timore di produrre delle catastrofi a causa della mia irrispettosa curiosità.

Ciò nonostante, percorrendo le frammentarie strade dell’inconscio, il merlo del Perù continuava ad alimentare i misteri e io non osavo porre domande anche perché, in quella sua nenia, sembrava che mia madre fosse persa in qualche suo sogno, mentre io, dall’altra parte, pur presa dalla mia attività di confezionatrice di monili floreali, non riuscivo a distogliermi da quella presenza enigmatica che lei rappresentava… Forse che lei da qualche parte aveva visto il merlo del Perù? Era forse lei quell’allodola che cantava con voce così armoniosa e…

O invece quel canto, come per magia, aveva il potere di far sparire la miseria nera del dopoguerra, le tragedie familiari di mariti-soldati tornati feriti non solo nel corpo ma anche nello spirito… pensava a questo mia madre mentre con sua figlia piccola accanto a sé cantava e chissà sognava un mondo di armonia nella natura o, tutt’al più, il vendicatore degli oppressi, Fra’ Diavolo? E perché il merlo del Perù si sentiva solo: era incomprensibile, a maggior ragione essendo lui un modello di virtù. Perché, perché, perché… Ma la stagione dei perché era finita da un bel pezzo. Non ininfluente il fatto che mio padre mi diceva: “invece di domandare sempre in modo così precipitoso, osserva, ascolta!” Ovviamente attitudini che lui non metteva in pratica!

E avrei voluto chiedergli che cosa si potesse fare poi con le osservazioni e con gli ascolti, ma ormai era già partito per altri ricoveri ospedalieri!

Ma come mai oggi mi tormenta non soltanto questa filastrocca ma il fatto di non ricordarne il seguito? Che cosa rispose l’allodola?

Forse perché la giornata di oggi è uggiosa di fuori e anche di dentro. O forse l’aver letto la statistica drammatica dell’entità crescente dei suicidi tra ragazzi mi ha sconvolto fin ogni dire. Uno su sette, si legge. In aggiunta, il drammatico quadro di nascite ridotte… e poi di quei figli che pur sono arrivati e che però abbandonano la partita mi scava dentro una ferita. Che sta succedendo? O che cosa può succedere quando non c’è un’idea di futuro? E nessun accompagnamento verso il futuro?

Una certa vulgata punta il dito accusatore sulla pandemia, sul come è stata gestita, i lock down limitativi … ma non credo che si tratti solo di questo. Perché tutto questo ha rappresentato l’emergente, la punta dell’iceberg… sotto c’era la parte nascosta che, non vedendosi, permetteva a tutti di continuare a ballare spensierati, come avvenne sul Titanic, fino all’ultimo secondo. Quello che non si vede (o non si vuole vedere) è come se ‘non ci fosse’. E ci si accorgerà della sua presenza solo quando il tragico impatto sarà avvenuto!

Ecco il ronzio del cellulare, un mio collega, ciao, ciao Guido, come va?

I soliti ‘rompighiaccio’ di prammatica. E’ da un po’ che non lo sento. Da quando si è trasferito di Regione. Ha immaginato che tornando là dove era cresciuto e aveva vissuto per molti anni sarebbe stato più in contatto con il territorio, con le sue peculiarità, “sai, nel nostro lavoro, anche questo è importante! Come parlare con la nostra lingua madre”.

Ne convengo. Anche se pure la lingua dei padri ha il suo peso, non solo psicoanaliticamente parlando, ma anche sotto l’aspetto della trasmissione dei valori. Si tratta solo di salvare nidi? O non anche di riconoscere ciò che diceva J. W. Goethe: “Ciò che avete ereditato dai vostri padri, guadagnatevelo, in modo da poterlo possedere”? Ma non ho voglia di parlarne con Guido adesso. La ‘dissonanza cognitiva’ (L. Festinger) oggi imperante, mi inibisce anche il più sano desiderio di confronto. So già che lotterò ad armi impari.

“Sei un po’ moscia, ti è successo qualche cosa?”

“No, no. Non mi è successo niente”.

Eppure qualche cosa si è mossa dentro di me. Ma non so come articolarla, come mettere assieme frammenti di passato ed una realtà che, violenta, fa irruzione in un quotidiano che sembra sonnecchiare, o, tutt’al più, avere rigurgiti di operatività, “dobbiamo fare qualche cosa”, “faremo così e così”. Ma sempre a valle e mai a monte. Mai un pensiero a monte. E allora l’esperienza storica (sì, anche quella personale) a che cosa ci serve?

Nel mio piccolo privato, come faccio a far stare assieme (ammesso che ci stiano assieme) e poi a comunicarlo, il “merlo del Perù” – con tutto l’apparato fantastico/storico che l’accompagna – con la crudezza apparentemente insensata di un suicidio giovanile? Non lo so. Forse sto, come si suol dire, partendo per la tangente? Forse, si!

Così il dialogo con Guido prosegue senza scarti emotivo/cognitivi di rilievo al di là della sua interessante idea di propormi per un tavolo di lavoro che coinvolga, trasversalmente, sociologi, psicologi e amministratori sanitari per la gestione della situazione pandemica (e, si auspica, post pandemica).

Nel mentre parlo, camminando su e giù per la stanza con il cellulare in mano, mi sorprendo a fermarmi ad una finestra che di fronte contempla un gelso, ormai vetusto, il quale, in modo surreale, sembra protendere i suoi nodosi rami, ormai depauperati dalle foglie, contro i vetri, verso di me: è una scena lugubremente minacciosa, tant’è che mi ritraggo spaventata da quegli artigli …

“Ehi, Giovanna, che c’è? Giovanna, Giovanna!” grida Guido.

“No. No. Non è niente. Solo il passato che ritorna”, gli rispondo, criptica.

Chiudiamo la conversazione che cerchiamo di stemperare con qualche battuta di spirito sulle odierne vicende politiche (la pensiamo diversamente ma ciò non ci impedisce di confrontarci, prendendo ciò che possiamo prendere e senza ostilità. Forse fa da base un antico affetto che ci lega). Solo che mi sovrasta l’immagine di quei rami di gelso, quelle scheletriche braccia che prepotentemente vogliono entrare nella stanza e mi sento tremendamente sola.

“Ah, Guido… Ascolta! Ma no, no. Ciao!”

E che? Gli avrei cantato le strofe del merlo del Perù? Magari ci avrebbe fatto su una sghignazzata. Soprattutto al passaggio “Un giorno il merlo disse, purtroppo sono solo, almen se prendo moglie la notte mi consolo”.

La grassa risata del mio amico che dilaga e contagia i presenti! Nello stesso tempo avrei voluto uscire dalla filastrocca e chiedergli: “Si consolerebbe davvero con la sua ‘sembiante’? Con quella che lui desidera come suo ‘simile’? Ma quale similitudine? Nel canto, forse? Tutti d’amore e d’accordo? Ma se tutti sono d’accordo, non c’è conflitto, non c’è evoluzione! E poi le sue merle, o la ‘sua’ merla?”. Voleva una avventura diversa? Già. Quanti veloci pensieri si sbattono impazziti nella mente…

E poi mia madre, la mia dolce madre, così fragile e indifesa, ragionevolmente stufa dei disagi all’interno di una coppia segnata dalle disastrose conseguenze di una guerra, forse avrebbe voluto per sé un amante, con cui cantare le stesse canzoni, vivere all’unisono in tutto e per tutto? Due cuori e una capanna?

E io? Che posto avrei avuto io in quel sogno così avviluppante, che li avrebbe stretti, avvolgendoli, su e su, di gorgheggio in gorgheggio fino a divenire due puntini nella vastità del cielo?

E dunque, io? Frutto invece dell’incontro importante tra due diversità… allora non ci sarei stata? E bla, e bla e bla.

Ma non avrei potuto parlargli di queste cose: “ah, ah, ah, ih, ih, ih” – la sua multiforme ridariola (tradotto in un più colto fou-rire, sfrenato) – “dai, Giovanna. Non stare ad arzigogolare! Concentrati sui problemi! Quelli ‘veri’, ‘minchiolina mia!’ (perché mi chiami ‘minchiolina’ non l’ho mai capito, né lui me l’ha mai saputo spiegare).

No, certo. So che non gli parlerò di questo, abbiamo tante altre cose su cui confrontarci. Non me la prendo, sicuramente! Ma percepisco un limite nel confronto, limite verso il quale sono (un po’, ma solo un po’) attrezzata. Oltretutto posso attingere ad altre risorse, la fantasia non mi manca. Pensarla diversamente rispetto ad un pensiero ‘unificato’ ovviamente mi dispiace ma non mi sconquassa.

Ma un giovane di oggi? Che cosa può fare se deve confrontarsi con un massiccio modello uniformante? Che fa? Chi trova a sostenerlo? Si omologa? Entra in guerra? E con chi? Con se stesso perché si sente inadeguato? Diventerà lui il suo nemico da abbattere? E il suo corpo diventerà il suo campo di battaglia? Vincitori o vinti? No, non voglio continuare da sola con queste domande che ho già tentato di proporre ma con scarso o nullo successo.

Fuori è salito un vento turbinoso e freddo: mai vista una stagione così stranita, anche le tartarughe che dovrebbero apprestarsi al letargo sembrano disorientate da questi sbalzi di clima, dovremo tenerle d’occhio perché non possiamo metterle nel terrario per il loro sonno semestrale né troppo precocemente né troppo tardi.

Tutto sembra drammaticamente sovvertito! Sovvertito? Sì. Ma non perché c’è stata una legittima ‘rivoluzione copernicana’, in cui si condensano studi, sperimentazioni, ecc. ecc. No. E’ solo… no, non lo posso dire e quindi mi taccio!

I rami del gelso graffiano contro i vetri, spinti da quella forza rovinosa contro la quale non fanno resistenza. Sembra essere nella loro natura assecondarla.

Io, no.

Chiuderò gli scuri!

Conegliano 15.10.2021

7 pensieri su “Il merlo del Perù

  1. Rita Simonitto ci fa entrare, senza preamboli e con molta maestria, in una sequenza di ricordi personali che si incrociano con pensieri sull’attualità…A innescare una serie di minacciose considerazioni ed immagini la rievocazione di una “ingenua” filastrocca dell’infanzia, cantata dalla madre della narratrice, rimasta troppo sola nell’accudire la figlia bambina…Un solitario merlo del Peru’ viene associato al terribile brigante Fra’ Diavolo, una presenza che si preannuncia da lontano, con un’eco spaventosa, simile al boato del tuono…Altre presenze si affacciano dal passato: la suora maestra a cui fare doni floreali, il padre assente perchè malato, un fantasma dal comportamento contrastante…Nel flusso di pensieri, nella realtà irrompe pure un collega, ma non adatto a ricevere confidenze su stati d’animo estremi, inconfessabili…forse per la sua troppo sonora risata. Infine, cuore di tenebra, a chi parlare dei giovani sempre piu’ numerosi che si tolgono la vita? Per effetto chiusure in pandemia, ma non solo…Non si puo’ tollerare! tra tutti i segnali premonitori di qualcosa di veramente mostruoso che ci sovrasta e vuole distruggerici, il peggiore…”Chiudero’ gli scuri”, bastasse!
    Si’, terribile! Ho letto anch’io dei numerosissimi giovani, in testa i giapponesi, suicidi…non si riesce ad realizzarne l’enormita’! Ti vergogni di essere invecchiata…grazie

  2. “I rami del gelso [che] graffiano contro i vetri, spinti da quella forza rovinosa contro la quale non fanno resistenza” mi ha ricordato una scena del film Il Dottor Živago quando, dopo il funerale della madre, il bambino Jurij viene svegliato nel cuore della notte da un ramo che sbatte contro il vetro della finestra. Nel romanzo la scena è la seguente: “Un colpo alla finestra destò Jurij durante la notte. L’oscura cella era magicamente illuminata da una guizzante luce bianca. Jurij corse in camicia alla finestra e appoggiò il viso al vetro gelido. Fuori non c’era più la strada, né il cimitero, né l’orto: solo la tormenta che infuriava, l’aria fumigante di neve. Quasi che la tormenta si fosse accorta del ragazzo e, consapevole del proprio terrificante potere, godesse dell’impressione che gl’incuteva. E fischiava e ululava, tutta affannata a richiamare la sua attenzione. […] Non era rimasta che la tormenta al mondo, sola e incontrastata. Il primo impulso di Jurij, scendendo dal davanzale, fu di vestirsi e di correre in strada: occorreva fare qualcosa.”
    Lo spavento del bambino è ovviamente altra cosa dall’angoscia della protagonista del racconto di Rita Simonitto – angoscia che, per quanto misteriosamente legata all’emergere casuale di un ricordo, poggia poi su cause e dati molto concreti: cronache, statistiche. In entrambi i casi però, per il bambino e per la donna non più giovane, la reazione emotiva o ragionata è identica: bisogna fare qualcosa.
    Su che cosa sia necessario fare Giovanna, la protagonista del racconto, ha un’idea ma non ce la confida; ci viene detto soltanto che ripetute iniziative in quel senso, da parte sua, non hanno trovato attenzione e non hanno avuto seguito. Se però la “cura” rimane non detta, il “male” è chiaro: è la perdita, da parte dei giovani e giovanissimi, di quello spontaneo essere proiettati in una prospettiva futura che permette di reggere ansie, delusioni e ostacoli. L’indebolirsi della prospettiva futura è già duro da sopportare nella vecchiaia; nei giovani è una cosa contro natura e suggerisce scenari allarmanti. Nel racconto, l’angoscia per una gioventù che si percepisce “senza futuro” si salda con l’angoscia della protagonista per un suo fondo di delusione che si indovina, per aspettative solo parzialmente colmate: la proposta di Guido, al telefono, è “interessante”, quindi non negativa; ma la telefonata si chiude sull’impossibilità di abbordare il vero problema. Ne risulta una sensazione di solitudine, amplificata dal finale “Chiuderò gli scuri!”, che porta la protagonista a identificarsi col merlo del Perù, solo nonostante (o forse a causa di?) tutte le sue virtù, e a interrogarsi vanamente sulle sue reali possibilità di prender moglie.
    Così, a ritroso, la scena primaverile e la filastrocca perdono lo smalto dell’idillio (già incrinato dal craquelé di “tempeste virulente di ordine sia familiare che di disagio sociale” e dalle “intermittenze” del padre) e si caricano dell’ambiguità dell’incerto e del possibile (Cosa sarebbe stato se… Cosa avverrà ora se non…). Ma a me pare che né nel reale, né nell’incerto e possibile si palesino vie d’uscita per l’angoscia della protagonista.

  3. Un racconto che parte da impotenza a capire e giunge a eludere la comunicazione. La parola sovversione (lo smarrimento individuale del film dei fratelli Taviani) al posto di rivoluzione (che scommette su un oltre di senso) evoca uno schermo che sbarra il mondo. Se le scheletriche braccia dei rami di gelso dall’esterno “prepotentemente vogliono entrare nella stanza”, il suicidio giovanile invece letteralmente *incarna* la forza rovinosa che assale. Non ci sono più le figure sul fondo della caverna, proiettate da un fuoco. Gli “scuri” isolano: per non assecondare, è resistenza.

  4. @ Rita Simonitto
    Per mera curiosità: a proposito della filastrocca:
    “C’era una volta un merlo,
    il merlo del Perù.
    Era senza saperlo
    un modello di virtù.
    Un giorno il merlo disse
    purtroppo sono solo,
    almen se prendo moglie,
    la notte mi consolo.
    Allodola mia bella
    tu sei una mia sembiante,
    allodola mia bella
    sarai la mia amante”.
    *
    Se non si tratta di finzione e gioco letterario ma davvero di un ricordo autobiografico e reale, questa filastrocca dovrebbe essere una variante anonima e inedita della seguente di cui riporto il testo intero:
    *
    C’era una volta un merlo.
    un merlo del Perù
    ch’era, senza saperlo,
    un mostro di virtù .
    Sapea le lingue morte,
    leggea Fedro in latino,
    sonava il pianoforte
    col becco e lo zampino.
    Alle burle e ai tranelli
    aveva fatto il callo :
    era un merlo, di quelli
    nati col becco giallo.
    La volpe, ognor maestra
    d’astuzia e di mendacio,
    lo scorse alla finestra
    con in becco un gran cacio.
    E ripensò di botto
    alla sua furba arcavola,
    che lo cavo di sotto
    al corvo della favola.
    « Merlo dal becco giallo,
    sei degli uccelli il re,
    ma so: d’un pappagallo
    ch’è più bravo di te.
    «Parlami, un po’ in francese
    in greco: o in ottentotto,
    e annunzierò al paese
    che parli come un dotto! »
    Il merlo, ch’era merlo,
    subito aperse il becco;
    ma la volpe, a vederlo
    restò di princisbecco.
    E il merlo le gridò:
    «Volpe, per chi m’hai preso?
    Or io ti proverò:
    che quel ch’è fatto è reso.
    «Volpe dei favolisti,
    tu m’hai creduto un pollo;
    ma il cacio che appetisti
    l’ho qui legato al collo!»
    *
    L’autore o l’autrice si firma con lo pseudonimo di Guy e la filastrocca, col titolo «La volpe e il merlo. Favola modernista», è pubblicata nel «Corriere dei Piccoli», anno 1, n. 30, 18 luglio 1909, pag. 2.
    *
    Le variazioni anonime di filastrocche del «Corriere dei Piccoli», spesso in senso satirico e/o con allusioni sessuali erano abbastanza frequenti e costituiscono, si potrebbe dire, un capitolo del folclore del Novecento.

  5. Non so come ringraziare L. Aguzzi per avermi fatto tornare alla mente quella strofa che spiegava per quali ragioni il merlo del Perù potesse essere un modello (il mio ricordo non dice ‘mostro’) di virtù: “Sapea le lingue morte,/leggea Fedro in latino,/sonava il pianoforte/ col becco e lo zampino.” Anche qui il mio ricordo recita: “Sapea le lingue morte/, di greco e di latino”, forse per adattarla meglio alla musica del Fra’ Diavolo. Ma, in una versione o nell’altra, figurava sempre come un ‘intellettuale’! Tragicamente ‘solo’!
    Però non ricordo la parte legata al merlo e alla volpe come appartenente a quel contesto: conoscevo sì la favola, però appresa da altre fonti. Quello che continua a incuriosirmi (curiosità inevasa) riguarda sia la parte attinente all’allodola e sia l’utilizzo della musica del Fra’ Diavolo! Li aveva aggiunti mia madre travolta da qualche suo entusiasmo creativo? Allora ‘chapeau’! Ma non credo. Brava come sarta, sì, ma…
    L’altro regalo che mi ha fatto L. Aguzzi è stato aprirmi una finestra su una parte della mia infanzia (che ho ‘prestato’ a Giovanna, la protagonista del racconto, che se l’è giocata a modo suo) e cioè quando ha citato il Corriere dei Piccoli, una specie di parola chiave che ha toccato un mondo di ricordi. Infatti, quand’ero piccola, dai sei/sette anni in su, mia madre si assentava spesso per recarsi in Ospedale dov’era ricoverato mio padre per malattie contratte in tempo di servizio militare. Allora venivo ‘parcheggiata’ o dalla Gilda, una signora mingherlina che in paese gestiva una specie di ‘bazar’ dove vendeva di tutto, materiale per cucito (i colorati bottoni e le ‘spagnolette’ di filo dalle incredibili nuances, le scatole di perline), qualche ‘tegameria’, grembiuli da casa ma, soprattutto i quotidiani, i settimanali tra cui il Corriere dei Piccoli. E i fotoromanzi da una cui copertina scoprii, con un certo disappunto, che c’era una bella differenza fra la Gilda – che amorevolmente supportava le assenze di mia madre – e la Gilda (Rita Hayworth) che pubblicizzava il suo film omonimo! Oppure, in altre occasioni, mi lasciava in osteria (sì, in osteria!) alle prime luci dell’alba, dove il mio caffellatte era impregnato dall’olezzo del vino e dove i quaderni portavano sul retro qualche segno del tondo di qualche bicchiere. O, ancora, nella migliore delle ipotesi, ma questo avveniva solo per qualche merenda del pomeriggio, da Donna Matelda, la Contessa a cui mia madre confezionava i vestiti. Lì, facevo conoscenza con i maestosi Cedri del Libano dalle pigne lucide e con gli antipatici pavoni che, a coda ‘spianata’, mi rincorrevano con il loro lugubre singhiozzo.
    Come dire: un’infanzia spericolata! Meno male che non c’erano le Assistenti Sociali che mi avrebbero fatto perdere tutto quel ben di Dio (si fa per dire!). Compreso appunto il Corriere dei Piccoli, che dalla Gilda leggevo a sbafo, e a partire dal quale, posso dire, si è sviluppata la mia formazione, letteraria, mitologica, religiosa, ludica, ecc. ecc. Era più che un settimanale: era una miniera.
    Ma per tornare al mio racconto, volevo anche ringraziare le altre commentatrici perché hanno colto, nelle pieghe, degli aspetti che, messi assieme, ci pongono di fronte a degli interrogativi non da poco.
    *Annamaria Locatelli: “Non si puo’ tollerare! tra tutti i segnali premonitori di qualcosa di veramente mostruoso che ci sovrasta e vuole distruggerci, il peggiore…”Chiudero’ gli scuri”, bastasse!” Ma la protagonista chiude gli scuri, si ritira, perché non accetta né l’intrusione violenta che viene dall’esterno e nemmeno la passività dei rami che si piegano (e che ne possono, loro!).
    *Cristiana Fischer si interroga sulla elusione della comunicazione. “La parola sovversione (lo smarrimento individuale del film dei fratelli Taviani) al posto di rivoluzione (che scommette su un oltre di senso) evoca uno schermo che sbarra il mondo”…“Gli “scuri” isolano: per non assecondare, è resistenza”. Una resistenza passiva, quasi Gandhiana, verrebbe da ipotizzare? O forse è soltanto temporanea in attesa di poter capire meglio come muoversi? Non cedere agli impulsi?
    * Più complesso il commento di Elena Grammann, un tentativo di mettere assieme delle considerazioni per fronteggiare le “tempeste virulente” che possono assalirci in qualsiasi stagione della nostra vita. E, magistralmente, sceglie un passo tratto dal Dott. Zivago quando il bambino Jurij si trova in mezzo a due eventi turbinosi, quello interno (la perdita della madre) e quello esterno che – attraverso la visione spettrale di un mondo gelidamente ‘morto’ – tenta di impossessarsi di Jurij (Fuori non c’era più la strada, né il cimitero, né l’orto: solo la tormenta che infuriava, l’aria fumigante di neve). Senza dubbio “lo spavento del bambino è ovviamente altra cosa dall’angoscia della protagonista del racconto”, anche se, per il fatto che comunque continuiamo ad essere portatori, consapevoli o meno, delle nostre emozioni infantili, “per il bambino e per la donna non più giovane, la reazione emotiva o ragionata è identica: bisogna fare qualcosa”. Per queste ragioni, afferma Elena, se, a fronte di una protagonista reticente alla comunicazione “la “cura” rimane non detta, il “male” è chiaro… L’indebolirsi della prospettiva futura è già duro da sopportare nella vecchiaia; nei giovani è una cosa contro natura e suggerisce scenari allarmanti.” Ricordo che, a volte, quella che può apparire come “reticenza” è solo una temporanea sospensione valutativa.
    Comunque la spinta che accomuna i tre commenti sembra quella di un orientamento verso il “fuori”, il ‘sociale’, anche se lì sta urlando la bufera e le perplessità legate alla comunicazione sono ancora impegnative perché ancora corredate da pochi elementi – come testimonia la protagonista Giovanna. Di contro, si prospetta la deriva pericolosa rappresentata proprio dal Merlo del Perù. Il suo solipsismo (l’essere un modello di virtù) può portarlo a non accettare né sfide nè confronti con chi può non essere d’accordo con la sua ‘elevatezza’. Infatti cerca l’allodola in quanto una sua sembiante, ma solo nel gorgheggio. Oppure può coltivare nostalgie degli idilli infantili dove, appunto, non si può cambiare nulla (i momenti magici del “mammina, mammina” che paralizzano il tragico protagonista Il’ja Il’ič Oblomov nel libro omonimo di I. A. Gončarov, pubblicato nel 1859). Certo che “la scena primaverile e la filastrocca perdono lo smalto dell’idillio” (E. Grammann) quando si confrontano con il passare del tempo!
    Per concludere, a volte può capitare che una angoscia in merito al proprio futuro – che si presenta sempre più ridotto nei tempi e nelle prospettive – possa sovrapporsi all’angoscia del futuro che possono avere i giovani (“angoscia per una gioventù che si percepisce “senza futuro” si salda con l’angoscia della protagonista per un suo fondo di delusione che si indovina, per aspettative solo parzialmente colmate”, come scrive Elena Grammann), ma la sovrapposizione sarebbe un grave errore. Rilevare delle difficoltà, delle problematicità non immediatamente risolvibili non significa essere delusi ma spingerci ad attingere alle nostre esperienze, testarne la loro validità, aggiornarle, se possibile. E, a volte, anche chiudere gli scuri di fronte a frastuoni che non ci permettono di pensare liberamente, può essere importante. Come importante è pensare che la vita possa continuare anche dopo di noi e diversamente da come abbiamo vissuto noi.

    1. Come *concretamente* possiamo “pensare che la vita possa continuare anche dopo di noi e diversamente da come abbiamo vissuto noi”? Se non che quella *vita* siano vite singolari e identificate e non un flusso generale e confuso con quello animale, meteorico, vegetale (infiniti alberi da piantare per assorbire CO2), senza la mediazione di concrete creature umane la vita in generale sfugge. Il vitalismo è correlato alla folla, alle masse primo novecento. La questione femminista nella versione della affermazione personale antagonista rispetto alla maternità ha svuotato quella possibile mediazione umana costituita dai bambini da allevare. Gli 8 miliardi di viventi si ammassano perlopiù in luoghi definiti dove le donne devono scegliere tra sé adulta e i bambini (e i vecchi). Occorre un difficile esercizio razionale per immaginare come la vita possa continuare anche dopo di noi… rimandando alle categorie generiche che se ne occuperanno, sanitari, educatori… migranti.

  6. MEMENTO PER INVECCHIATI

    “Da vent’anni a Milano tutto è identico. Dunque comico. Sono perciò di buonumore. Non m’interessa quel che sogna l’algerino assiderato nelle sue scatole di cartone, il travestito brasiliano che butta vomito contro il muro della stazione, il vecchio poeta suonato che succhia la sua recensione, il redattore che qualcosa ha pur dovuto redigere nella sua redazione, la dama stagionata ch escogita qualche inattesa posizione. M’interesserebbe sapere piuttosto che cosa pensano i ragazzi e le ragazze di diciott’anni tra un’ora scolastica d’inglese e una di storia. Che cosa in profondo si promettono di odiare a morte o di amare a vita. Conta quel che non noi ma essi hanno fatto o subito nel 1990. A loro come da una spina minima ne verrà inspiegabile per sempre un tormento salutare. Non da quel che probabilmente in buon italiano sta scritto nelle nostre carte di vecchi.”

    (da F. Fortini, E venne il tempo del declino, “Corriere della Sera, 30 dicembre 1990, in “Un dialogo ininterrotto, Interviste 1952- 1994, pagg. 604-605, Bollati Boringhieri, Torino 2003)

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