Il mio posto di vacanze

Piazza Duomo a Bisaccia

NOTE DI FINE ESTATE (1)

 di Donato Salzarulo

Non ho luogo migliore per le vacanze estive del mio borgo natio. Lontano dall’afa milanese, ormai pensionato, m’immergo per due mesi nel liquido amniotico di parenti e amici. Faccio ciò che per il resto dell’anno non faccio: siedo al bar, passeggio avanti e indietro in piazza Duomo, accompagno quasi ogni giorno l’amico Michele al Convento. Ha dieci anni più di me ed è tormentato dal corpo che non vorrebbe arrendersi, ma qua e là già cede e si deprime. L’ipocondria non affligge soltanto il poeta Arminio (altro mio amico). È una malattia diffusa come la malinconia che spesso ci afferra e paralizza.  Del resto, oltre all’età, la pandemia ancora imperversante non regala certo slanci ed entusiasmi.
«Ho grande nostalgia dei miei “Sonetti d’agosto”», mi capita di confessare a Michele uno dei primi giorni, mentre scendiamo per via Mancini.
«Non li conosco bene, non me li hai mandati e non li hai mai pubblicati.»
«Vero. Li scrissi qua, a Bisaccia: uno al giorno, come la mela del proverbio che toglie il medico di torno…Li scrissi nel 1987. Avevo 38 anni. In quei versi circola una grande energia. È di questa che avremmo bisogno e di cui ho nostalgia…»
«L’età è importante, molto importante…»«Sì, però anche il contesto sociale, culturale e politico conta…»
«Indubbiamente…Ma fammi sentire l’energia… Te ne ricordi qualcuno?…»
«Figurati!… Me li ricordo tutti. Allora scrivevo versi che dovevano essere memorabili, anche in senso letterale. Nel senso che la memoria doveva poterli ricordare facilmente…Ero convinto, infatti, che una poesia riuscita doveva essere musicale, imprimersi ben bene nell’orecchio e lasciare nella mente una sensazione piacevole su cui riflettere…»
«Un po’ come ci succedeva da studenti, quando imparavamo a memoria almeno quindici poesie all’anno…»
«Sì, un po’. Ma, al di là di questo utilissimo esercizio, il rapporto tra poesia e memoria è secondo me un tema fondamentale, costitutivo del linguaggio poetico…»
«Dai, allora, recitami uno di questi Sonetti…»
«Ti recito il terzo…Fa così:

 Non fuggo più, non sfuggo la calura
Io ti ricerco nella tua dimora
Non ho paura della tua statura
Non voglio che si affoghi nella gora

 Di spire in spire vengo alla tua altura
Di fragile splendor mi nutro ancora
Dei tuoi piedi conosco l’andatura
L’orrore bruci, vada alla malora

 Chiaro tormento luce di furore
Del tuo dolore antico mi coloro
Di questa storia penetro il rancore 

Le prugne acerbe colgo ed io m’indoro
Odoro tutti i petali del cuore
Così viepiù di te io m’innamoro.

«Mi piace…Sono le parole di un Io esuberante, baldanzoso, che intende innamorarsi sempre più della lingua poetica. “Di spire in spire vengo alla tua altura” è un verso bellissimo…Ridimmela di nuovo…»
Gliela torno a recitare; intanto passiamo attraverso le ortiche della Valle e cominciamo a salire lungo via Rollo. Tra poco spunteremo in piazza, dove Lina, la moglie di Michele, lo sta già aspettando amorosamente in macchina.
Domani è un altro giorno.

PROGETTI SFUMATI

Quando ai primi di luglio, parto per Bisaccia, ho in testa due o tre progetti di scrittura. Caccio nella mia borsa da viaggio una decina di libri (o forse più) per aiutarmi a realizzarli.
Quest’anno ho con me due libri di Berger sul guardare e sugli sguardi, uno di Didi-Huberman sull’immagine, un altro di Pinotti e Somaini sulla cultura visuale, uno di Dal Lago e Giordano sui mercanti d’aura e un altro di Gombrich su immagini e parole, quello assai noto di Sontag sulla fotografia e quello, altrettanto noto, di Foucault sulla pipa di Magritte che non è una pipa. L’intenzione è di andare avanti con la mia rubrica su Poliscritture.
Ma per non rinchiudermi nei miei “Punti di fuga”, nella borsa metto pure un “Ritorno a Francoforte” e alla sua Scuola di Giorgio Fazio e una conversazione di Nancy Fraser con Rahel Jaeggi sul capitalismo. Questi due libri un po’ me li sono cercati da solo, un po’ mi sono stati suggeriti dagli articoli di Cristiana Fischer sulla sua rubrica.
Poi, siccome ho scritto, oltre trent’anni fa, un testo poetico (inedito) intitolato “Sogno della casa”

– «Io meditavo
premeditavo
come scoprirti
seno fiorito» –  

e recentemente ho letto di scrittori e filosofi che hanno affrontato il tema da par loro, sistemo in borsa il libro di Coccia sulla “filosofia della casa” e quello di Andrea Baiani sull’abitare le case; proprio come volevo fare io con quelle, in affitto o in proprietà, abitate dalla mia nascita ad oggi.
Sia chiaro, non ho nessuna invidia per Bajani. Ho comprato il suo libro e sono contento che l’abbia scritto su un tema così caro. Naturalmente sono curioso di capire come lui l’ha affrontato…
Poi, per non farmi mancare niente, butto dentro, all’ultimo momento, un libro di Barenghi su Calvino; e il Siti di “Contro l’impegno”, che Elena Grammann ha recensito su Poliscritture. N’è nato un dibattito sulla letteratura che ho seguito un po’ con la coda dell’occhio, anche se il libro l’avevo leggiucchiato a maggio a Pietra Ligure.
Siccome nella mia mappa mentale (assai semplificata e sicuramente sbagliata) ho visto stagliarsi dietro le figure di Pasolini e Fortini, voglio rinfrescarmi le idee su Calvino… «Se una notte d’inverno un viaggiatore»…
Insomma, con tutti questi libri in borsa, la mia lunga vacanza nel borgo feudale sarebbe stata proficua ed operosa. Qualcosa di cui andar fieri. Avrei letto, scritto, commentato. Avrei fatto ciò che fanno gli intellettuali seri, mica gli influencer…Avrei.
Invece, come accade dall’estate del ‘68, – primo anno di ritorno a casa da emigrato (allora portai con me quasi una valigia di libri) – non ne ho letto quasi nessuno.
Per la cinquantesima volta (in due o tre occasioni non sono tornato al borgo) il comportamento si è ripetuto. Cosa da manicomio.
I libri sono i miei oggetti transizionali: la coperta di Linus, il mio orsacchiotto…
Vi prego, figliole, quando morirò, mettetemene qualcuno nella bara!…
Non desidero commentare oltre questo mio modo di fare.
Dovrei affidarmi ad uno psicologo, a uno psicoterapeuta o a uno psicoanalista, ma l’età lo sconsiglia.
Spero che prima della morte si compia il miracolo di partire con la borsa vuota o, addirittura, senza.
Anche perché nella casa del borgo ho di che leggere.
Infatti, anche quest’anno, mentre scanso accuratamente, le pagine dei libri portati, a un certo punto, non so perché, mi lancio su Moby Dick e la balena bianca, libro venduto due anni fa col Corriere della Sera prefato da Trevi e tradotto da Ottavio Fatica…
Bizzarrie della psiche, in balia della curiosità, delle seduzioni e dei dibattiti del momento…Quest’anno Trevi ha vinto il premio Strega.

Non sono un libro. E se lo fossi,
avrei molte pagine illeggibili
e tantissime altre – le più inquietanti
completamente bianche.

6 pensieri su “Il mio posto di vacanze

  1. in questo lento racconto di Donato in vacanza nel suo paese natio con la valigia piena di libri, ti arriva addosso un cavallone di mare, forza 7, per lasciarti inzuppata di sale…e beneficamente consapevole di essere tanto tanto ignorante! Care “figliuole” è molto carino!

  2. Ammiro il tuo sapere e le tue emozioni che arrivano da una… Borsa, non sola di libri, ma da vita vissuta. Riesci con i tuoi scritti a far riflettere e ricordare i miei sogni, quando vivevo nel borgo a te.. vicino.Un abbraccio forte forte

  3. Caro Domenico, mi piace assai l’idea che anche i libri “hanno bisogno di cambiare aria e vanno in vacanza”…Peccato che siano pesanti…E, cara Annamaria, non preoccuparti. A portarli avanti e indietro anch’io rimango beneficamente consapevole della mia ignoranza. “Vita vissuta”?…Si, vita vissuta, caro Antonio, e sono contento che i miei scritti ti aiutano a riflettere e ricordare i tuoi sogni. Cosa saremmo senza pensieri e senza sogni?…Grazie per i vostri commenti.

  4. Già sospettavo di non essere l’unica a replicare la “cosa da manicomio” di predisporre piani di lavoro (con lavoro conseguente da mulo di trasporto) su vie fantasiose di percorsi mentali… che sboccano poi in un altro casuale, e in realtà compimento definitivo, Moby Dick o Sommersi e Salvati che sia. Ma gia’ si è detto, che i libri maturano nella mente anche solo comprati e riposti tutto attorno al tavolo di lavoro, figurarsi poi viaggiando insieme con noi!
    Anche se poi il prodotto finale: affresco narrativo, è tuttaltra cosa, sostenuto comunque fermamente, come colonne… dai titoli!

  5. Chi legge i libri che si è portato in vacanza? Devono essere ben tristi personaggi. Non voglio essere pedante e richiamare l’etimologia della parola, non è necessario: la vacanza svuota. Poi, se si è fortunati, il vuoto viene riempito da altre cose, generalmente esitanti, che in situazioni favorevoli mettono piccole radici. Se si è meno fortunati la sensazione di vuoto rimane come un sottofondo fastidioso e, a essere sinceri, non si vede l’ora di indossare di nuovo le consuete abitudini nelle quali si rientra già con un po’ di impaccio. Ma proseguire in vacanza il progetto ben ponderato del sé? Impossibile.
    Altra cosa il ritorno al paese, di cui ora non posso più fare esperienza poiché vi risiedo stabilmente. Ma quando anch’io tornavo ero giovane, i libri erano libri per un esame incombente e si coprivano di polvere in un angolo della stanza, come un rimorso.
    Rimangono il libri-coperta di Linus di cui parla Donato; quelli che ti porti dietro per l’attesa anche quando vai a fare la tac. E ne leggi pure qualche pagina: il cavo di sicurezza che ti collega alla realtà più stabile.

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