l’invenzione dell’egoismo

di    Paolo Di Marco

Ju/'Hoansi del nord Kalahari

1- le tribù dei raccoglitori-cacciatori
Nell’Aprile del 1966 la conferenza ‘Man, the Hunter’ (l’uomo, il cacciatore), convocata a Chicago dall’antropologo Richard Lee fu molto affollata; si era sparsa la voce che i risultati presentati sarebbero stati sorprendenti. Partecipavano i classici rappresentanti dell’antropologia accademica, compreso Levi Strauss, ma anche molti dei giovani antropologi che negli anni ’60, stanchi della pochezza dei dati forniti dagli studi archeologici avevano deciso di buttarsi nel campo a studiare i pochi sopravvisuti dei popoli di raccoglitori-cacciatori dell’antichità.
In quel periodo la saggezza convenzionale era che i popoli primitivi vivessero una vita di stenti, passando tutto il tempo a cercare uno scarso cibo che raramente li sfamava e morendo giovani sempre di stenti. E che quindi i pochi rimasti fossero un caso fortuito di nicchie di miserabile sopravvivenza.
Insieme a Lee che era stato nel Kalahari tra i Ju/‘Hoansi c’erano antropologi che avevano seguito lo stesso percorso nell’Artico, in Australia, in Asia sudorientale. E furono tutti concordi nel rovesciare il paradigma: nonostante la siccità che nello stesso periodo aveva costretto le popolazioni agricole della zona a sopravvivere di aiuti paracadutati, gli Ju/‘Hoansi avevano mantenuto un livello ottimale di alimentazione di 2104 calorie al giorno (il 10% in più di quanto oggi si raccomanda per persone della loro statura).
E questo con uno sforzo modesto: procurando il cibo 17 ore la settimana (esclusi anziani e bambini) e facendo altre attività (dal cucinare al riparare gli utensili) per 20 ore. Una media pari alla metà di un adulto americano.
E nonostante Lee avesse i conti più dettagliati la sostanza della sua analisi era condivisa da tutti gli altri antropologi sul campo.
Per inciso, come già rimarcato ne ‘Il giardino dell’Eden’, la vità della tribù era improntata ad una prassi rigorosamente comunitaria, senza proprietà privata né gerarchie di alcun tipo.
Per 300000 anni questo tipo di vita continuò con successo; i reperti archeologici mostrano che le comunità erano durevoli e mantenevano le stesse dimensioni, senza quindi carestie nè eccessi.
E non venivano neppure create riserve: ogni giorno si raccoglieva/cacciava solo ciò che serviva nell’immediato. Ed era una scelta precisa.
Per comprenderla occorre guardare all’ambiente come parte integrante ed attiva della comunità. Mentre Conrad nel suo Cuore di Tenebra, in preda alle allucinazioni della malaria e della dissenteria, descriveva la foresta intorno a lui come incubo vivente, popolato di bruti e di istinti dimenticati (ma nel mezzo del più brutale e vigliacco saccheggio che i bianchi abbiano mai perpetrato, grazie al re Leopoldo), i BaMbuti, che questa stessa foresta abitavano, la descrivevano come madre amorevole e protettrice.
In un rapporto di scambio reciproco ed equilibrio che il sovrasfruttamento o la sovrappopolazione avrebbero spezzato, minando la sopravvivenza stessa del popolo.

BaMbuti del Congo

2- le tribù degli economisti
In quel convegno erano presenti anche gli antropologi sociali che si occupavano di economia, divisi nelle due tribù dei formalisti e dei sostanzialisti.
Per i primi le economie primitive come quella dei Ju/‘Hoansi erano versioni elementari delle economie capitalistiche, basate sugli stessi impulsi e desideri primitivi, e alla base l’elemento universale che le accomunava erano la scarsità e la concorrenza. La definizione di economia come allocazione di risorse scarse diventa fatto naturale. La concorrenza e la volontà di ciascuno di perseguire il proprio interesse innanzitutto diventano anch’essi istinti e tendenze naturali. (Per gli economisti marginalisti).
I sostanzialisti, il cui rappresentante più interessante è Karl Polanyi vedono piuttosto come universale l’hybris dei sostenitori dei mercati e la razionalità della concorrenza come un sottoprodotto culturale dell’economia di mercato.
Al convegno era presente Marshall Sahlins, con qualche esperienza sul campo ma ferrato nelle questioni di economia, e la sintesi che ricava è sostanzialista: gli Ju/‘Hoansi erano la vera ‘società del benessere’.
E in effetti è stata l’economia di maggior successo della storia umana: per 300000 anni gli uomini sono stati bene, hanno lavorato poco, si sono spartiti equamente i prodotti del lavoro, sono stati in equilibrio fra di loro e con l’ambiente.

3- libertà vo cercando..
Mentre questo avrà sviluppi importanti per la teoria economica val la pena soffermarsi su come l’ideologia abbia falsato la nostra immagine del mondo e dell’uomo stesso, dando come elementi costitutivi della natura umana elementi che erano invece culturalmente indotti o semplicemente ipostatizzati.
Ed è ancora strettamente legata all’economia, reale e definita, l’idea di libertà che viene declinata in tutte le forme e accenti.
Mi resi conto di quale groviglio di elementi comprendesse quando tantissimi anni fa, supplente in un Istituto Tecnico in un periodo di agitazioni e occupazioni, diedi ai miei studenti un tema sul potere apparentemente semplice: ‘elenca tutte le persone che hanno potere su di te’. Ne venne di fuori di tutto: dai genitori al bidello agli insegnanti al bigliettaio del tram al prorietario della casa dei genitori al poliziotto ai vigile al finanziere che speculava sui terreni vicino a casa al prete al segretario della sezione giovanile a…..
Personaggi abitanti livelli diversi, con ruoli diversi, con cui però le sue possibilità di scelta si incontravano/scontravano. A volte direttamente, altre solo da lontano.
Ma se vogliamo portare avanti un discorso che non veda la libertà come pulsione interiore o ideale ma come fatto concreto dobbiamo iniziare a misurarla con le scelte possibili, un po’ come fa la definizione di informazione. E quindi rapportarla a tutti i cammini e i bivi di questi su ognuno dei piani che compongono la nostra vita.
Sembra complicato, e questo è però anche il nocciolo del discorso: viviamo in una società complessa, il cui funzionamento è legato all’interazione tra tutti i suoi elementi. Immaginare che ci sia una definizione semplice è illusorio. Immaginare che esista ‘la libertà’ è illusorio.
Se riguardiamo l’insieme dei cammini su piani diversi di cui è composta la nostra vita, e di tutte le scelte che su ognuno di essi possiamo fare, quand’anche dessimo massimo peso a un piano o un altro non possiamo che immaginare la libertà come una tabella di valori che bene o male vorremmo massimizzare. Senza ancora tener conto del peso di queste scelte sugli altri, di quanto siano accettabili per loro e anche per noi.
Dato che bene o male sopravviviamo ci siamo costruiti fin dall’infanzia una serie di meccanismi automatici, di abitudini, o altri le hanno scelte per noi e sono diventate parte di noi. Come per il multiverso le molte scelte possibili può darsi che si semplifichino, riconducano a pochi elementi, ma assai difficili da valutare.
Pensiamo nella storia degli Stati Uniti a due tipi di anarchici: quelli ‘di destra’ del Texas, alla Clint Eastwood, cresciuti fieri della propria indipendenza, convinti di essere autosufficienti senza bisogno né di altri né di autorità né dello Stato. Chiudendo gli occhi al fatto che la luce, le strade, le ferrovie, le automobili, i fucili glieli forniscono altri, che la loro autosufficienza è più uno stato dell’animo che un fatto reale. E che la terra su cui galoppano è stata rubata ai messicani e agli indiani.
E i wobblies, gli anarcosindacalisti rivoluzionari dell’IWW (l’erede della Prima Internazionale), convinti che la propria libertà è solo il frutto di una storia e una lotta collettiva, che nelle miniere e nelle fabbriche lottano per la libertà di sindacato e per una paga e una vita non ancora libera ma degna di essere vissuta.
Nei due casi condizioni materiali ed economiche diverse creano le basi per due idee di libertà antinomiche, al di là delle pulsioni individuali.
Ma il convegno di Chicago ci ha insegnato una cosa: non fidarsi mai quando ci dicono che qualcosa è innato, che fa parte della nostra natura. La gran parte dei nostri ‘istinti’ sono prodotti culturali: non siamo né lupi per gli altri uomini né pusilli atavici: possiamo cooperare o possiamo scannarci, non siamo costretti dalla nostra natura a scegliere nessuna delle due vie.
E così la ‘libertà’ è spesso vessillo per tutt’altro, dimenticando ogni volta nel modo più conveniente tutti gli strati di scelte da cui è composta. E riducendone dimensioni e scelte in modo tale da renderla una (minuscola) caricatura (come nel caso del bollino verde).
È anche stato di voga per qualche tempo parlare del ‘carattere’ degli italiani (come del resto di altri popoli), volta a volta poetico o codardo od opportunista: facile modo di eludere un’analisi delle condizioni materiali delle scelte e delle forze in gioco. Ma involontariamente forse rafforzando i pregiudizi ottocenteschi, dal positivismo lombrosiano alle superiorità razziali..fino alla naturalità del capitalismo e del suo mercato dai denti affilati.

La difficoltà di conciliare egualitarismo e libertà individuale nei raccoglitori-cacciatori è stata risolta riducendo al minimo la complessità: l’orizzonte temporale è ridotto al solo giorno della raccolta/caccia; non ci sono pianificazioni né le gerarchie che ne conseguono, non ci sono provviste colle funzioni aggiuntive che implicano. E la libertà dell’individuo di muoversi come meglio gli aggrada viene compensata dal sistema della ‘condivisione su domanda’ (demand sharing): quando qualcuno ha oggetti che interessano ad altri, e questi glieli chiedono, la norma sociale (la ‘buona educazione’) richiede di accontentarlo. Cosicché l’egualitarismo è assicurato.

In un sistema complesso questo equilibrio non funziona più: tribù più grandi (come quelle del Nord America ricco di salmoni) hanno introdotto la conservazione del cibo e le gerarchie.   C’è quindi un ultimo elemento che va detto sulla libertà oggi: se è composta di molte scelte il suo esercizio comporta molte conoscenze. E c’è quindi un’asimmetria inevitabile tra sapienti ed ignoranti.
Varrà questo sempre, anche in un altro tipo di società? Probabilmente no, perché nel caso che il nostro mondo sopravviva e nell’improbabile eventualità di un’uscita dal capitalismo cesserebbe quello che Marx chiamava il ‘regno della necessità’ e con esso la gran parte delle interdipendenze che ci legano. Il numero di piani e di cammini sarebbe cioè drasticamente ridotto, e molte delle scelte possibili sarebbero a somma positiva (io guadagno, tu guadagni) invece che a somma zero (io guadagno, tu perdi). Tornando ad una situazione analoga ai JU/’Hoansi. Si potrebbe allora parlare di libertà vedendola anche.
Altrimenti qualcuno potrebbe accontentarsi di quell’uscita dalla necessità che è l’uscita dal samsara, dal ciclo delle reincarnazioni o dalla ruota del tempo…ma lo vedo come un percorso molto privato.

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Tutti i dati di quest’articolo provengono dal libro :

James Suzman, Work, PenguinPress 2021

3 pensieri su “l’invenzione dell’egoismo

  1. Il caso vuole che aprendo oggi il NYTimes compaia un’intervista ad un archeologo ed un antropologo, David Graeber e David Wengrow, che nel loro libro appena uscito ‘The Dawn of Everything’ (l’alba del tutto) sostengono una tesi sovrapponibile, estendendo la fase egualitaria anche alle prime città e sottolineando il ruolo della complessità nella formazione delle stratificazioni sociali.
    Contribuendo a rovesciare in maniera decisiva la coltre di ideologia che l’800 del vapore e del capitalismo d’assalto ci ha lasciato e che ancora prospera nelle università di tutto il mondo.

    1. SEGNALAZIONE 1

      Pierluigi Fagan
      https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/10225051001037781

      INIZI DIVERSI, SVOLGIMENTI DIVERSI, PROGETTI DIVERSI. Più o meno una settima fa, è uscito “L’alba di ogni cosa” o meno letterale “L’alba di Tutto” come traduce il recensore (The Dawn of Everything), che promette di essere il magnum opus postumo di David Graeber, morto purtroppo prematuramente a Venezia un anno fa. Il libro di 700 e passa pagine, scritto dall’antropologo statunitense con il britannico David Wengrow che è archeologo, è precisamente recensito nell’articolo linkato che invito a leggere a fondo, se interessati al tema, ovviamente.
      Il libro non l’ho letto, ma so più o meno cosa contiene sia perché seguo Graeber da tempo, sia perché quanto sostiene fa comunque parte di un movimento più ampio di studio promosso anche da altri autori. In particolare, anche perché ciò che lamentano gli autori ovvero che i divulgatori del calibro di Pinker, Diamond, Harari, non sanno un sacco di cose specifiche e recenti frutto di scavi ed analisi specialistiche del campo ed in più sembrano voler coartare i fatti ad interpretazioni mainstream ancora molto moderniste, non si applica del tutto al mio caso. Non ho ovviamente la conoscenza che vantano i due, ovvio, ma nel mio piccolo sono abbastanza aggiornato delle scoperte recenti, altrettanto e forse anche più libero da condizionamenti academici e disciplinari, altrettanto spinto a ricomprendere gli “inizi” per capire le traiettorie che ci sono state e quali altre potrebbero esserci nello spazio-tempo che avremo davanti.
      Ma su questo ultimo punto penso ci sia una divergenza di fondo con Graeber, lui è anarchico, io no (pur simpatizzando col pensiero anarchico, da quando avevo l’età della ragione). Perché questa precisazione? Perché si scrivono libri e si sostengono teorie con un fine ed il fine, in questo caso, è ideologico-politico. Va quindi considerata la preferenza ideologico-politica degli Autori perché questa fa da punto di fuga dell’intera immagine di mondo che sceglie i fatti, li presenta in un modo piuttosto che un altro, li accompagna con implicite o esplicite interpretazioni e giudizi.
      Si dirà, ma Fagan, a noi esattamente cosa dovrebbe fregare il fatto che tu che non sei certo Graeber a livello di studioso, non sei del tutto d’accordo su ancora non abbiamo ben capito cosa? Giusto, andiamo con ordine.
      G&W, sostengono in base alle più recenti documentazioni di scavo ed interpretazioni alcuni punti nuovi che decostruiscono del tutto la narrazione standard sulla nascita delle civiltà, i tempi precedenti, lo statuto umano di mentalità ed azione sociale in questo primo e nel dopo, la nascita della gerarchia sociale, delle diseguaglianze, il ruolo dei modi di sussistenza, forse delle stesse ideologie e molto altro. Su ognuno di questi punti, sono in perfetto accordo con G&W.
      In breve, noi non siamo più intelligenti e sofisticati degli antenati, sia di quelli delle prime forme di civiltà, sia di quelli che vivevano prima dell’avvento delle civiltà. I pre-istorici vivevano in reti di contatto molto più estese del ritenuto, avevano forme federate di condivisione culturale e non solo, la narrazione standard sull’avvento dell’agricoltura come invenzione tecnica che trasformando i modi di sussistenza ha trasformato di necessità le società con tutte le note conseguenze è una boiata pazzesca. Ci furono forme di auto-organizzazione anche complessa senza gerarchie sociali, anche per aggregati di migliaia di persone, ci furono quindi anche città egalitarie e non solo piccoli gruppi di caccia e raccolta. Ruolo delle donne e delle cedenze condivise vanno esplorati molto di più di quanto non s’è fatto fino ad ora. A riguardo, segnalo il recente Marylène Patou-Mathis, La Preistoria è donna. Giunti, 2021 comprato l’altro giorno ed in attesa di lettura. Fin qui siamo allineati e coperti.
      Dove invece credo non lo siamo più e sull’interpretazione finalizzata e condizionata dalle preferenze ideologiche. D&W credo vogliano sostenere l’idea di una possibilità politica di distruzione dello Stato in favore di libere città-Stato confederate (o federate, ma qui la terminologia tende a far pasticci concettuali). Il pensiero anarchico contemporaneo, da tempo ruota intorno a questo ritorno al municipalismo à la Murray-Bookchin.
      Così i due pare sostengano quanto riporta il recensore così: “ci esortano ad abbandonare termini come società «semplici» o «complesse», per non parlare di «origine dello stato» o «origine della complessità sociale». Questi concetti presuppongono il tipo di pensiero teleologico contestato nel libro.” Chi scrive sta chiudendo la lunga revisione del suo prossimo libro e dedica più o meno alle stesse questioni ampio spazio tra cui un intero capitolo, il quarto (di quattordici), sebbene usi questi concetti dai due discussi, ma lo faccia senza alcuna teleologia e sicuramente in altrettanto ampio disaccordo con l’impostazione dominante. Per me le società complesse vs quelle semplici, nonché le origini di Stato, complessità sociale e diseguaglianze standard, sono fatti, fatti inequivocabili rinvenibili a grana grossa. La differenza qui è di grana.
      A gran fine hanno sicuramente ragione i due a contestare le narrazioni deterministiche e riduzionistiche che volevano segnare una sorta di meccanica sociale inevitabile che dal prima portava al dopo e dal dopo all’oggi con consequenzialità stretta. In effetti non è andata affatto così. A grana grossa però, ritengo sia indiscutibile che nelle medie si possa rinvenire un prima ed un dopo sebbene transitato da percorsi lunghi e non certo lineari, un prima relativamente più semplice rispetto ad un dopo relativamente più complesso.
      Ma qui bisognerà aspettare di leggere a grana fine le argomentazioni dei due per capire meglio quale tesi sostengano, sebbene creda di immaginarlo come premesso. Per me, lo Stato, è un fatto largamente consolidato, da cinquemila anni, dappertutto. Si sarebbe senz’altro potuto fare altro, ma non s’è fatto, questo è il “fatto”. Ci sono state senz’altro delle ragioni. Io non ho alcuna preferenza per lo Stato, lo prendo solo come fatto e come fatto sarà il caso di indagare perché risulta come esito unanime nello spazio-tempo della storia planetaria dell’umanità. Piaccia o meno non è un mio problema, il mio problema è capire perché di questo fatto. Quand’anche qualcuno voglia smantellarlo per fare altro, secondo me si dovrebbe capire meglio cosa l’ha portato ad essere in forme così intensive ed estensive. Il mio modello interpretativo che proporrò nel mio libro è molto esternalista. Leggo che i due ricorrono a nuove idee sulla formazione valoriale interna le società in merito alle chiavi del dominio sociale, tre tipi di libertà, critiche agli impianti interpretativi post-strutturalismo e post-umanismo. Nel mio caso invece, mi sono concentrato su quali variabili esterne alle società hanno spinto queste lungo un cammino che nonostante ampie e diverse velocità e variazioni hanno poi portato a certi risultati abbastanza omogenei.
      Quello che ho notato nei miei studi di questi anni, è che la nostra cultura è ancora molto internalista, sia parta da assunti socio-genetici duri, sia parta dalle forme culturali. Ma il lascito più importante dell’Origine della specie di Darwin citato dal recensore assieme al Dialogo di Galileo come standard a cui si collocherebbe il libro dei due (wow!), non è nella nozione di “evoluzione” come i più ritengono sfiorando di rischi deterministici e riduzionistici contro cui i due G&W tentano di lottare, ma in quella di adattamento. Adattamento è relazione tra un sistema ed il suo ambiente o contesto. La relazione convoca quindi l’analisi interna tanto quanto l’esterna. Ad esempio è indiscutibile che Çatalhöyük mostri una cittadina egalitaria di più di ottomila anni fa con si pensa 7000 abitanti, ma le condizioni ecologiche circostanti e soprattutto la densità abitativa nel circostante non era certo la stessa delle prime città mesopotamiche. I genotipi che fanno i fenotipi hanno finalità adattive, rispondono a logiche esterne, tocca capire quali esterni. Le immagini di mondo sono finalizzate a riflettere il mondo per potervi agire, ma spesso più che riflettere proiettano. Il “mondo” sarà anche un noumeno, ma questo è un motivo in più per vigilare verso le nostre proiezioni idealiste mantenendo un sobrio realismo.
      Ma insomma, capisco che non seguirete più di tanto il mio infervorarmi su questioni magari a voi poco chiare e perciò poco interessanti ed altresì non risulterà chiaro perché parlare qui contro una parte del lavoro di G&W, senz’altro due giganti sulle cui spalle chissà se saremo in grado di arrampicarci. E farlo soprattutto io senza neanche aver letto a fondo il loro libro e voi neanche e neanche quello che ancora debbo pubblicare.
      Era comunque anche una scusa per segnalare il loro lavoro atteso e senz’altro da compulsare quando uscirà qui da noi se non leggete in inglese. Segnalare comunque il fatto che la nostra narrazione delle origini è tutta sbilenca rispetto a quanto s’è scoperto in tempi recenti, così recenti che i paradigmi disciplinari e quelli anche di vigenza più ampia delle divulgazioni, non hanno ancor registrato i numerosi fatti nuovi. Non l’hanno fatto perché sono lenti, ma anche perché quei paradigmi sono fondati nella nostra più ampia immagine di mondo, ancora sebbene tardivamente del tutto moderna. Quindi “resistono”, sono conservatori in termini khuniani. Mi sono trovato a parlare con gente anche molto colta di Gobekli tepe e mi guardavano come fossi Giacobbo. Il danno fatto da quel cialtrone di Harari nei suoi libri che hanno l’ambizione di segnare una volta di più la narrazione delle origini senza sapere neanche l’abc dell’archeo-antropologia attuale sul tempo profondo è scandaloso.
      Ben venga quindi il tentativo copernicano di G&W, perché la Storia umana ha forte dipendenza dalle condizioni iniziali e comprendere queste è comprendere meglio come e perché è andata come è andata e soprattutto come potrebbe andare per la parte che dobbiamo ancora scrivere.

      SEGNALAZIONE 2

      L’origine di tutto
      Giulio Ongaro
      26 Ottobre 2021

      https://jacobinitalia.it/lorigine-di-tutto/?fbclid=IwAR2tB_ZnJ-ITvr802KfZJSd0mND0VblDKxkumJegeUi1UjePWMBJLB2ONg8

  2. Di fatto Graeber e Wengrow fanno un’operazione assai raffinata: portano avanti il rovesciamento di paradigma di Suzman, che aveva il suo fuoco sul lavoro, e lo estendono alla fase dell’agricoltura e delle città. Mostrano che il problema della gestione del surplus agricolo e della conseguente formazione di gerarchie è stato evitato in molti posti e per lunghi periodi, con città di 100000 abitanti che per 800 anni sono andate avanti senza templi nè regge. Quindi con la capacità culturale di domare la complessità. Questo in Sud America all’origine dei Maya e in Ucraina e Polonia di 35000 anni fa. Anche se per ovvi motivi il limite dell’archeologia è la scarsità di dati sociali : quando ho visitato Çatal Hüyuk, famosa anche per le immagini della dea-madre primitiva, quello che restava era poco più di quanto dice il nome: un monticello a forma di forcella scavato all’interno con pochi ambienti istoriati era ciò che restava della città di 7000 abitanti, come del resto Troia o molti altri siti, soprattutto dopo il passaggio di tombaroli e rapinatori travestiti da archeologi. Ciònonostante la quantità di indizi raccolti ed elaborati dagli autori fa da sostegno ad un discorso che dà sostanza attuale all’apparenza utopica delle comunità egualitarie della preistoria.
    E le preoccupazioni di Fagan per lo stato fanno in un certo modo parte anche loro della preistoria.

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