Sull’altopiano di Verteglia

NOTE DI FINE ESTATE (3)

di Donato Salzarulo

 

Domenica Giuseppina dichiara sciopero: niente sugo, pasta comprata o fatta in casa, padelle da pulire, tavola da apparecchiare o sparecchiare.

«Non mi hai detto, l’altra sera, tornando da Montella, che è un luogo assai interessante da visitare?… Ebbene, io non ci sono mai stata. Mettiti d’accordo con Agostino e portatemi là. Ci sarà pure un ristorante, una trattoria, un luogo in cui assaggiare qualcosa di buono …»

Alcuni desideri di mia moglie per me sono ordini. Anche perché quando lei dichiara sciopero in cucina, io non sono come quei meravigliosi e invidiabili mariti, pronti a sostituirla e a dimostrare che sanno fare quasi meglio di lei. Il mio non è un vanto. È soltanto una costatazione. Ai fornelli sono poco meno di un inetto. Lo so, non devo neanche esagerare a dire questo. In più di mezzo secolo di matrimonio, potevo pur imparare qualcosa. Sì, tutto vero. Ma, come recita il proverbio, “Tra moglie e marito non metterci il dito”. Gli equilibri di una coppia sono spesso in bilico e va già bene se finora siamo riusciti a gestire i nostri conflitti con saggezza e qualche inevitabile sofferenza…

La nostra non è una guerra,
ma una lunga avventura,
una partita escogitata
per rivelarci ogni giorno
i segreti del vento,
il sorriso giocoso
dei nostri sguardi infantili.

Verso mezzogiorno, grazie alla bravura e alla fraterna disponibilità di Agostino, sistemati nella sua macchina, viaggiamo diretti verso l’Altopiano di Verteglia, frazione di Montella. Mangeremo al Ristorante “La Faja”, una bella struttura immersa nel verde.
Per arrivarci, ad un certo punto, ci lasciamo alle spalle la Statale 7 e ci inerpichiamo lungo la Statale 574. Però, prima di svoltare a sinistra e dirigerci verso il Terminio, sentiamo che la macchina perde potenza. Qualcosa non va.
«Nulla di grave…», ci rassicura Agostino, «devo spegnere per qualche minuto il motore e poi ripartire.» Si porta così nella prima area di emergenza.
Breve sosta. È una bella giornata di sole e scendiamo a respirare. Sotto gli occhi a destra abbiamo la vallata, a sinistra l’altura.
«Da queste parti stava zio Minguccǝ» ricorda improvvisamente mio cugino.
Zio Minguccǝ è mio padre, che si chiamava Domenico, ma per familiari e paesani era, appunto, Minguccǝ.
«Ma va’…Non ricordo bene, però mi pare che stesse dalle parti delle montagne di San Gerardo o di Calabritto…
«No, t’assicuro, stava da queste parti…».
Non insisto, mi fido di mio cugino. Conosce la Campania sicuramente meglio di me.

Dopo una decina di minuti, risaliamo in macchina. Avvia il motore. Tutto funziona bene, ci rimettiamo in carreggiata e affrontiamo una lunga salita.
Finalmente si apre allo sguardo un’ampia radura. Vediamo la bandiera del ristorante. Agostino parcheggia e, mettendo i piedi a terra, mi ricordo che soffro di cardiopatia ischemica. Non posso più superare certe altitudini. Controllo sul cellulare: siamo a 1230 metri. Un po’ mi rassicuro. Ma non del tutto. Mi viene in mente mia madre, cardiopatica a vita. Quando dalla pianura colognese tornava all’altura bisaccese (850 metri), smaniava per qualche giorno. Diceva di sentire il cuore accelerato. Chi gli stava vicino avvertiva chiaramente i suoi battiti. La valvola di Björk sembrava amplificarli. Anch’io mi porto ripetutamente la mano destra sul cuore. Intanto guardiamo le decine e decine di mucche nel parco ed ammiriamo le chiome dei tanti faggi nel bosco. Sul ciglio della strada, di uno di essi, mi attira il groviglio di radici nodose, venute allo scoperto fra le rocce.
Restiamo così per un po’ sospesi, quasi in pausa; poi, controllata l’ora, decidiamo di presentarci al ristorante.
«Magari, beviamo un aperitivo», dice mia moglie che, negli ultimi giorni, ha preso l’abitudine di gustare lentamente un crodino allungato con acqua minerale. Nulla da fare. Il ristorante non ha tavoli liberi all’aperto. Sono tutti occupati. Molte persone hanno pensato, come noi, di fare una gita in montagna.
Prendiamo, allora, posto all’interno, ci accomodiamo e leggiamo il menù che il cameriere si affretta a portarci. Cinque minuti per consultarci e ordiniamo due antipasti, tre primi e due secondi, una bottiglia d’aglianico ed una d’acqua minerale.

Abbastanza tradizionali gli antipasti: affettati (coppa, prosciutto crudo e soppressata), dei bocconcini, due fette di caciocavallo podolico – Montella è la patria di questo formaggio – e soffritto di verdure (peperoni e melanzane).
Ottimi i tre primi: tagliatelle ai funghi porcini per me e mio cugino, pasta pasticciata per Giuseppina.
Tagliata per me e agnello alla brace per Agostino sono i due secondi. La consorte assaggia l’uno e l’altra. Data la fatica che faccio per spezzettarla e mangiarla, confesso che la parte di manzo sistemata nel piatto e chiamata “tagliata” non mi sembra controfiletto…
Ottimo il vino e ottimi anche i dolci (torta al cioccolato e tiramisù) gustati da moglie e cugino. Giudizio finale: abbiamo mangiato bene. Il tutto ad un prezzo abbastanza abbordabile per una gita domenicale.

“Post prandium aut stare aut lento pede deambulare”. Scegliamo di fare un giretto lungo il parco dove le mucche pascolano tranquillamente o riposano.

Mentre usciamo, Agostino incontra un amico di Avellino e si ferma a parlare per qualche minuto. L’aspettiamo in cortile. Quando ci raggiunge, dice che si tratta di un ex compagno di Avanguardia Operaia. Gli ha detto che noi siamo i cugini “milanesi”.
«Ah, come quelli che hanno scritto la storia di Avanguardia Operaia a loro uso e consumo…». Convengo e racconto di Ennio che ha trattato con grande attenzione il problema su Poliscritture. (qui) Ha fatto dei rilievi e delle critiche che sostanzialmente condivido…
Andando avanti, incontriamo una coppia di bisaccesi (marito e moglie), salutiamo e procediamo.

Dopo una mezz’oretta “digestiva”, ritorniamo verso la macchina. Stabiliamo di scendere giù a Montella per mangiare un gelato. Al ristorante non ne vendono.
Giuseppina non ci tiene ad andare al Complesso monumentale di Santa Maria della Neve; tra l’altro, pare che non sempre sia aperto…
Lungo la strada incontriamo delle mucche. Agostino rallenta e manovra con prudenza.

Quasi la metà del territorio montellese è a bosco. Dall’altopiano al centro abitato dobbiamo scendere di oltre 600 metri di quota e, andando giù, si incontrano anche diversi castagneti.
Oltre che per formaggi e caciocavalli, Montella è famosa per le sue castagne. A me piacciono moltissimo quelle “del prete”.
Ecco di fronte a noi il monte di Santa Maria della Neve e a fianco quello del Santissimo Salvatore, patrono del paese. Stiamo per arrivare…

Tempo un quarto d’ora e ci sediamo all’aperto ai tavolini di un bar. A distanza sociale regolamentare, come prescrivono le norme anti-Covid, ci sono altri quattro clienti.
Noi mangiamo il gelato e loro stanno bevendo birre.
Tiene banco un signore un po’ su di giri, con un bastone vicino alla propria sedia e col piede destro fasciato e appoggiato su un’altra sedia. Parla al signore più anziano al suo fianco. Sta prendendo in giro un giovane che beve birra e non ama il vino. Siccome lui il vino lo ama assai (e si vede!), non riesce a capacitarsi di come ciò sia possibile.
Io sento parlare di vino e domando se possiamo comprarne qualche litro.
«Certo!…» fa il signore «Lo vende lui…» ed indica l’uomo al suo fianco.
Il compaesano conferma, ma continua a ripetere che non può venderlo perché la moglie non vuole. Da come ne parla sembra che abbia in casa una tiranna con potere assoluto.
«Ma si tratta di pochi litri» insisto.
Allora, il signore col piede fasciato, che, per inciso, dice di recitare in non so quale teatro napoletano, si propone come mediatore. Andremo insieme dalla moglie del suo amico e lui, che la conosce benissimo, le chiederà di venderci dieci litri di vino. Il signore anziano acconsente e facciamo così.«Una decina di minuti e siamo qui» dico a Giuseppina che rimane seduta al bar ad attenderci.
Non l’avessi mai detto.
Riusciamo a prendere, dopo aver superato apprensioni e diffidenze della signora, dieci bottiglie di vino, poi…Poi l’artista col piede fasciato e in difficile equilibrio si offre di portarci a comprare anche un provolone podolico – caciocavallo corregge Agostino -. Ce lo venderebbe un suo amico in campagna.
«Cinque minuti!… È vicino…Non è molto lontano da qui…»  continua a ripeterci, mentre la macchina da Montella continua a svoltare a destra e a manca, per un tempo interminabile.
Infine, arriviamo nella masseria di questo suo amico. Si trova nella confinante Bagnoli irpina (è il cellulare che me lo dice).
Quando scendiamo dalla macchina, stiamo attenti ai cani, che si mostrano non proprio pacifici e amici dell’uomo, e restiamo fermi in attesa. Ci viene incontro l’amico, un omone con la pancia che gli pende davanti come una larga borsa. Dal modo in cui lo saluta, si capisce che lo conosce.
Ci prega di aspettare perché stanno finendo di lavorare dei caciocavalli. Ha ragione. Mi affaccio sulla soglia e vedo un giovane in canottiera bianca che sta modellando la pasta.
«Ecco mio padre al lavoro, penso, ecco cosa imparava quando, ragazzo di nove anni, stava in qualche casone o in qualche masseria sicuramente peggiore di questa, senza mattonelle e senza piastrelle bianche sul muro.»
Compriamo due caciocavalli: uno per il cugino e uno per me. Non lo mangerò. Lo porterò a Torre Vado.
Altro che dieci minuti. Dopo un’ora abbondante, torniamo al bar. Giuseppina è più che preoccupata, ma non avendo con sé il cellulare non ha potuto telefonare. Delle cinque bottiglie di vino comprate, una la regalo all’artista “mediatore”.
Saliamo in macchina e prendiamo la via del ritorno a Bisaccia. Con Agostino ci salutiamo al quadrivio di piazza Duomo. Quando entriamo in casa, guardo il grande quadro di mio padre attaccato al muro. È il mezzo busto di un giovane soldato, un bel giovane pronto a partire per l’Africa orientale.

 

CRONOLOGIA ESSENZIALE DELLA VITA DI MIO PADRE

                                                                                                     Il gelso ancora attende
                                                                                                      il tuo ritorno ai campi,
                                                                                                      ancora il melo sbircia                                                                                                                                                       le tracce del tuo passo.

28 febbraio 1914: Nasce a Bisaccia. Quasi certamente in via dei Fiori. Non saprei dire con precisione dove: se sull’unica stanza sulla loggetta dove, durante la mia fanciullezza, ho sempre visto nonno Donato o se nei due vani di fronte dove stavano nonna Concetta (frequentemente) e zia Francesca (sempre). È il primo figlio della coppia.

fine 1913-1914: nonno Donato emigra clandestinamente negli USA, dove resterà fino al 1919.

1914-1919: Trascorre tutta l’infanzia solo con la madre. Di questo periodo resta una foto, forse fatta per essere spedita al nonno in America. Lui ha su per giù due anni. Sta ritto su una sedia di paglia e appoggia la mano destra sulla spalliera. Indossa una vestina con un colletto bianco. Ha nella mano sinistra un giocattolo. Guarda verso un punto che non è l’obiettivo del fotografo. Ha un bel visetto curioso e non mi sembra mal patito. La nonna è una giovane donna sui 27-28 anni. Ha un portamento superbo, bello. Non la diresti una popolana, una contadina.

!919: Al più tardi in autunno, nonno Donato torna dagli USA.  Pare che nelle lettere che la nonna gli mandava fosse espresso ripetutamente il lamento della sua condizione insopportabile di “vedova bianca” (“La carne vuole la sua parte”, sarebbero state, tradotte in italiano, le sue parole). Le date della partenza e del rientro segnalano un altro fatto rilevante: mio nonno non partecipa alla carneficina della prima guerra mondiale. Successivamente tenterà di ritornare in America clandestinamente, ma viene bloccato nel porto di Trieste e gli costa cara. Zia Francesca diceva che perse quasi tutto quello che aveva guadagnato nel suo primo espatrio. Da quel momento ambedue i nonni si dedicarono alla coltivazione della vigna di Valle fiumata e probabilmente di qualche altra terra in affitto. Misero anche al mondo un po’ di figli.

5 agosto 1920: nasce Maria Francesca, la seconda figlia della coppia. Con questa zia avrò un legame affettivo molto intenso. Sposerà zio Vito, un cugino di mia madre. Lo farà in municipio durante un breve congedo militare, mentre lo zio era in partenza per la rovinosa campagna di Russia (non ricordo se nel 1941 o 1942). Dichiarato disperso, la zia resterà vedova di guerra, fino all’anno successivo – se non ricordo male – alla morte della nonna (1964). Sposerà in seconde nozze Antonio Arminio, zio di Franco. Non avrà figli.

1922: nasce zia Antonietta, la terza figlia. Si sposerà con zio Michele ed abiterà a Lacedonia, dove ho frequentato l’Istituto magistrale dal 1963 al 1967.

1920-21: Domenico frequenta la prima elementare. Il suo curriculum scolastico terminerà con questa classe. C’è bisogno di lui in famiglia per l’accudimento delle sorelline e per i tanti mestieri, più o meno facili, che anche un bambino può svolgere nei campi.

1923: Viene mandato con un paesano in una masseria di Montella. All’origine della decisione ci sarebbe stata una mancata vigilanza di mio padre sulla sorellina Francesca, che, abbandonata a sé stessa, rischiò di finire nel pozzo della vigna; in realtà, forse, andando via, c’era per i nonni una bocca in meno da sfamare e una piccola entrata (da apprendista bovaro) assicurata alla famiglia.

1923-1935: mio padre impara il mestiere del vaccaro, un mestiere che gli vedrò fare durante la mia infanzia nella masseria di Tavoletta, a Cerignola: pulire la stalla, governare e rigovernare le mucche, portarle al pascolo, mungerle, lavorare il latte e ricavarne ricotta, trecce, formaggi, caciocavalli, ecc. Credo che in questo periodo impari anche a lavorare il legno. Sempre da bambino e sempre a Tavoletta l’ho osservato intento a costruire mestoli di varie dimensioni, forchettoni, mortai per schiacciare il sale, cesti, canestri, panieri… A Bisaccia, nella casa di Via Vescovado, in un tiretto della cristalliera, quello a destra, conservava tutto ciò che gli tornava utile per farlo: lima, raspa, sgorbia, martello…

1924: nasce zio Pietro. Sarà per tutti noi lo zio napoletano. Nel dopoguerra sposerà, infatti, zia Carmela, un’infermiera conosciuta nel sanatorio dov’era ricoverato.

1926: nasce zio Antonio. Avrà un destino simile a quello di mio padre. Sposerà zia Rosina, una compaesana. Emigrerà prima in Germania, si stabilirà successivamente ad Orta Nova e, infine, a Cesano Boscone. Sarà il più longevo della famiglia.

1928: nasce zia Giuseppina. Sposerà Giuseppe, un pugliese di Orta Nova, che morirà agli inizi degli anni Sessanta. La zia resterà vedova con tre figli maschi per tutta la vita. Nei primi anni Settanta si sposterà a Chivasso in provincia di Torino.

1935: compiendo 21 anni ed essendo iscritto sicuramente nella relativa classe di leva, viene chiamato a fare il soldato. Svolgerà il servizio in fanteria. So che, durante il regime fascista, era previsto un servizio premilitare obbligatorio dal compimento del 18° anno di età. Non so cosa sia successo realmente a lui, né so dove abbia fatto il militare. So che andò in Africa orientale. Ma quando?… Probabilmente nel 1937. Nel senso che, trascorso il periodo obbligatorio, firma la ferma da volontario. Cosa avrebbe fatto se fosse tornato a casa?… Ritiene opportuno seguire la propaganda del regime fascista che promette, per chi segue l’esercito in Africa orientale, terra e lavoro con mirabolanti ricchezze naturali (oro, platino, petrolio, ecc.). Insomma, invece di andare come il padre in America, cerca la fortuna nelle terre etiopiche.

settembre 1937: si trova sicuramente in Africa, in una località che lui chiama “Aiscia”. Lo leggo dietro una sua foto che portava con sé. Ha pantaloni lunghi da militare, relativa camicia a maniche corte con cravatta (un accessorio che avrebbe odiato per tutta la vita). Gamba e piede sinistro leggermente in avanti, braccia conserte, capelli alla Mascagni, sguardo serio, rivolto all’obiettivo. Se non proprio da bellimbusto, ha un’aria, comunque, da giovanottone con la voglia di conquistare il mondo. Ha ventitré anni compiuti.

1937-1941: probabilmente s’insedia come colono in Etiopia. Non so dire dove. Quasi certamente si accoppia con una donna del luogo con cui metterà al mondo un figlio.

1941: viene fatto prigioniero dagli inglesi e internato forse nel campo di Zonderwater, a Cullinan in Sudafrica. Una foto attesta che impara a fare l’infermiere. Al suo ritorno in Italia porta con sé un pentolino per mettere a bollire la siringa da disinfettare. Mio padre faceva le punture a tutti i familiari che ne avevano bisogno. Spesso mia madre diceva che aveva una “mano pesante”. Oltre all’attività di infermeria si dedica al pugilato. Ha il naso “schiacciato” da pugile. Fa 17 incontri e poi passa la mano. Perché, raccontava, in un incontro o in un allenamento, comportandosi assai scorrettamente, l’avversario gli ruppe due o tre costole.

1946: il primo gennaio del 1947 il campo di Zonderwater viene chiuso. Quindi, è probabile, che mio padre sia rientrato in Italia in quest’anno. 1937-1946: nove anni. Questo è il numero di anni che lui diceva di aver trascorso in Africa orientale.

dicembre 1947: sposa mia madre. Ho appeso alla parete dei Lari la loro foto matrimoniale. Mio padre ha una giacca con le maniche assai più lunghe del braccio. Chissà se l’abito era suo. Vanno ad abitare nella casa in affitto della Valle. Per entrarci si salivano tre gradini. È la casa che mi ha visto nascere e che non c’è più. Non so come i due sbarcassero il lunario. Immagino, coltivando qualche terra in affitto. Mio padre s’iscrive al PCI.

28 maggio 1949: nasco io. Suo primo figlio (italiano). Soprattutto figlio di mia madre.

Pasqua 1950: “Pasqua ventosa che sali ai crocifissi / con tutto il tuo pallore disperato”…Finisce in carcere ad Avellino per aver partecipato all’occupazione delle terre. Questo periodo è abbastanza documentato. Ho quelle che io chiamo le “cartoline dal carcere”. Praticamente lo scambio epistolare fra lui e mia madre, lui e la nonna, lui e zio Pietro (che gli viene in aiuto mandandogli duemila lire), lui e il suocero. I problemi più urgenti che ha la coppia sono due: come uscire dal carcere (a difesa degli occupanti si schierano deputati del calibro di Giorgio Amendola del PCI) e in quale nuova casa stabilirsi. Infatti, il proprietario di quella della Valle deve sposare il figlio e la vuole libera. Dal carcere uscirà dopo tre mesi. La nuova casa in affitto sarà quella sulla salita di San Nicola. Una casa che ricordo bene. Aveva una finestra su un dirupo e di notte spesso sognavo di rotolare giù.

22 ottobre 1950: nasce mio fratello. Il nome è Giuseppe come il padre di mia madre, che in quel periodo non sta bene in salute e morirà di lì a poco.

settembre 1952: tutta la famiglia si trasferisce nella masseria di Tavoletta, nella campagna di Cerignola. Il cognome del padrone è Giuntoli. Mio padre viene assunto come massaro. Governare le mucche è un lavoro che conosce bene, ma non lo ama. Non gli piace stare “sotto padrone”. I rapporti con Giuntoli, infatti, sono corretti, ma non idilliaci. Il sogno di mio padre era fare il contadino. Ma terre non ne aveva, altrimenti non andava ad occuparle. E non aveva neanche vigna, che per quel mondo era come possedere una miniera.

26 aprile 1953: nasce mia sorella Concetta. Il nome è come quello della mamma di mio padre. Io ho quasi quattro anni e mio fratello due anni e mezzo. Ricordo il viaggio che facciamo da Tavoletta a Bisaccia: la littorina, il pullman…ed io e mio fratello attaccati alla veste della mamma col pancione che doveva sgravarsi. Mia sorella nasce nella casa di San Nicola, un’altra casa che non c’è più. In concomitanza con la sua nascita, mia madre ha il primo scompenso cardiaco.

settembre 1955: Devo iscrivermi in prima elementare e, siccome a Tavoletta non ci sono scuole, vengo affidato alla nonna Concetta e alla zia Francesca. Mio padre ci tiene molto che i suoi figli vadano a scuola, mia madre un po’ meno. Per lui l’istruzione è fondamentale. Continua a ripetere che ha dovuto ingoiare nella vita molti rospi amari e si è convinto che saper leggere, scrivere e far di conto viene prima di tutto. Soprattutto, se non vuoi per i tuoi figli, come mio padre non voleva, la stessa vita di vaccaro.

Primavera 1956: nella masseria di Tavoletta viene ucciso il guardiano notturno. Non ruberanno mucche. Mio padre ha un fucile appeso in camera da letto. Ma la famiglia resta scossa. A giugno, quando chiudono le scuole, io trascorro l’ultima estate nella masseria. Ricordo che quando scendeva il crepuscolo e arrivava il buio, i nostri cuori si chiudevano e diventavamo piccoli come pulci.

Settembre 1956: la famiglia torna a Bisaccia. Con i risparmi di quattro anni – mia madre è stata sempre una formica – comprano la casa di Via Vescovado Vecchio, dove trascorrerò fanciullezza e adolescenza.

1956-1958: mio padre fa lavori saltuari: scavi per le strade del paese per i tubi dell’acquedotto pugliese (arriva l’acqua a Bisaccia e le famiglie non dovranno più andare a prenderla alle fontane), manutenzione delle cunette, rimboschimenti, ecc. L’obiettivo è riuscire a fare annualmente il numero dei giorni necessari a ricevere il sussidio di disoccupazione e gli assegni di famiglia. Coltivazione di alcune terre del demanio. Il conflitto fra mio padre, che si vuole contadino, e mia madre, che lo vorrebbe “sotto padrone” a custodire greggi o armenti, anima ogni tanto le nostre giornate.

1958: mentre giochiamo abbastanza violentemente e organizzati in bande, come era nostro costume, tiro una freccia alla squadra avversaria di cui fa parte mio fratello. Purtroppo finisce nel suo occhio sinistro. Una brutta disgrazia che lo segnerà per sempre. Disgrazia aggravata dalla scelta de miei genitori di mandarlo durante il periodo scolastico in un collegio di Visciano. L’intento lodevole era di proteggerlo. In realtà, non fu così.

1958-1959: mio padre emigra, grazie a un “atto di richiamo” dello zio Antonio o di qualche paesano. Andrà a curare vacche svizzere a Petit-Saconnex, nei dintorni del Palazzo delle Nazioni a Ginevra. Ad ogni ritorno invernale, porterà tavolette di cioccolato, pacchetti di sigarette, una volta degli orologi e un’altra volta una macchina Singer per mia madre. Nel 1959 frego delle sigarette dai suoi pacchetti e le prendo di santa ragione. Coi risparmi di questi due anni comprano una terra a Valle fiumata, confinante con la vigna della nonna Concetta e della zia Francesca. Lì mio padre farà la sua vigna. L’ho ereditata io e continua a rimanere incolta.

1960: Non so quale Ministero gli attribuisce un’indennità di profugo dall’Africa orientale. Non più di venti mila lire al mese. Mio padre torna a casa.

1960-1968: Lavori saltuari come quelli del periodo 1956-58, eccetto uno più duraturo di “stradino” fatto con l’ANAS. Per qualche tempo sognerà di diventare cantoniere. Lavori nei campi e nella vigna che, intanto, ha innestato e fatto crescere. Indennità di profugo. Per tutti questi anni la famiglia vivrà con queste risorse. Mio fratello resterà in collegio fino al settembre del 1968. Poi sarà il primo ad emigrare a Cologno, dove io lo raggiungerò.

21 settembre 1967: sposo Giuseppina. Al matrimonio sono assenti sia mio padre che mia madre. Mia sorella ha un piede fratturato ed è ricoverata all’ospedale di Foggia. Da qualche settimana mio padre lavora – sempre come vaccaro – in una masseria sulla strada per Manfredonia. Ci resterà pochi mesi.

1969: A gennaio mio padre si lascia convincere e viene da noi a Cologno Monzese. Farà prima lo stradino, poi sarà assunto nella fabbrica del latte Bonalumi. Durante l’estate, tutta la famiglia si sistema nella casa in affitto di Via San Martino, dove i miei genitori resteranno fino alla morte.

1972: nel mese di giugno mia madre subisce il secondo scompenso cardiaco. Nell’autunno sarà operata a Niguarda. Negli anni successivi effettuerà altri due interventi.

1981: mio padre va in pensione per raggiunti limiti di età. Guarda, intanto, dove può allestire e/o coltivare un orto. Chiamerò questa sua pulsione “La resistenza degli orti”.

1981-1991: farà la spola tra Cologno e Bisaccia. Venderà alcune terre ed il bosco. Ricomincerà, invece, a coltivare la vigna.

febbraio 1991: Una domenica sera dell’ultima settimana di febbraio, improvvisamente mi telefona mia madre: «Donato, corri qua…Tuo padre non riesce a parlare…». Corro. Lo portiamo al pronto soccorso del San Raffaele. “Ictus cerebri”.

13 giugno 1991: il giorno di Sant’Antonio, patrono di Bisaccia, verso le 12, raccogliamo l’ultimo soffio di vita di mio padre.

Non avevo un padre ricco di parole.
Scendeva a picco sulle cose,
da signore.

 

 

 

 

 

 

 

12 pensieri su “Sull’altopiano di Verteglia

  1. Dalla descrizione di una giornata normale e quieta in quel di Verteglia alla reminiscenza delle proprie origini. Alla ricerca del tempo perduto? Dove il vino e il caciocavallo rievacano il conflitto del padre fra la scelta della coltivazione della vigna e la pastorizia. Ho la sensazione che Donato abbia scelto il vino come alla fine il padre in pensione. E da questo è partita la scintilla come le madelenette di zia Leonie

  2. Leggendo questa terza nota di fine estate di Donato mi sono venute in mente due cose:

    1. Montella. Mio padre (anche lui Domenico, in dialetto Mìneche) recitava questa filastrocca con finale popolarmente sbracato:

    ” Signò, mangiatavelle
    so ricotte re Muntelle.

    Cu une ca ve mangiate
    tutt’a vocca ve ‘nzuccherate.

    A mangià nun ‘nge vo niente.
    A cacà nge vo lu stiente.

    Vaie
    appizz’o cule
    e faie”.

    2. Gente del Sud. Confrontando la “cronologia essenziale” che Donato ha ricostruito della vita di suo padre (e dei suoi parenti) con quella, ben più scarna e lacunosa, che sono riuscito a costruire io di mio padre (1897-1967), ex maresciallo dei carabinieri, noto non solo le somiglianze di fondo di una condizione di miseria durissima del Sud al di là di biografie in parte contrapposte dei nostri due genitori, ma anche la difficoltà per noi figli, solo in parte emancipati dalla violenza più diretta subita dai nostri antenati (la scuola dei “signori” – quella di “mazz’e panelle fanne e figli bell’e” – bene o male l’abbiamo fatta), di parlarne e di intenderne in pieno il senso. Che per me (non so per Donato) è quella degli sconfitti, figli di altri vinti.

    Appendice da Narratorio.

    Niscune re gruosse , ni pat’eme ni quaocch’e zie o cugine chiù gruosse riceve niente ra guerre, ra tempest’e ca ere passate. So tenevene rint’e o rulore. E pure chille ca purtavene ancore o lutte se stevene zitte. Ie m’accurgiette a poche a poche ca avevene fatte, magare ddoje guerre, ra e fotografie. Dint’a a sala ra pranze e zi Vicienze nge steve na fote cu isse giovane e ca divise e surdate vicine a nu cannone. Po, rusculianne cu frateme rint’o cassett’e e l’armadie ra camere e liette e papà e mammà, però quanne pateme nun ‘ngere, truvaje nu sacche e fotografie. Erene giuvanotte ca faccia seria, in divise (po capiette ca erene ra primma guerre mondiale), appuggiate quase tutt’e co vrazze sinistre ncoppe a na specie e trespule, ca ‘ncime o dint’a nu ripiane chiù bascie purtave nu vase cu nu mazze e sciure o na pianta. Je ste facce nunn’e canusceve, ma pateme giovane o ‘nduvinave.

  3. Emozionante, mi sento parte viva di quanto descritto, Bisaccia, Lacedonia, Cologno Monzese, restano nel mio cuore, ho dormito tantissime volte da zio Domenico, a Cologno per anni, la domenica era un rito venire a trovarvi, come dimenticarle, giornate felici. Restate tutti nel mio cuore.
    Complimenti, sei riuscito a farmi piangere, ti voglio bene

  4. SEGNALAZIONE/AL VOLO

    Una società e un Paese senza coscienza storica ci restituiscono ad un universo primitivo e animale. Si deve constatare che simili tendenze non riguardano affatto il mondo intero. Sono una particolare patologia dell’Occidente, forse un segnale ennesimo del suo spengleriano Untergang, del suo tramonto. Eppure, il presente è denso, perché è gravido di futuro e di… passato. Un presente senza passato è come una nave senza ancora. L’Io diviene instabile, leggero, insicuro di sé, free floating sulla Realtà.
    Il fatto è che la coscienza storica non è ereditaria, deve essere costruita.
    Chi la edifica, oggi?
    A livello di famiglie, di comunità locali, di territori la coscienza di essere anelli di una tradizione è sempre stata il prodotto “naturale” della vita sociale. Si trattava di una forma elementare di coscienza storica, generata e tramandata per via orale. I limiti sono evidenti: non si tratta di coscienza storica in senso proprio, ma piuttosto di coscienza di clan e di villaggio. Dunque coscienza storica povera, consapevolezza del presente debolissima. Ecco perché é capitato alla generazione dei miei nonni di andare in guerra, senza avere la più vaga idea del perché e persino del dove. Si sono semplicemente trovati “su quel lungo treno che andava al confine…”. E poi, già alla terza generazione i legami si allentano, la memoria si perde. I processi di urbanizzazione, di mobilità migratoria, di riduzione dei nuclei familiari hanno spezzato ulteriormente il meccanismo di trasmissione della memoria.

    (Dalla pagina FB di Giovanni Cominelli
    https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=3019341678307303&id=100006945017078)

  5. Caro Domenico, la scrittura della “Cronologia essenziale della vita di mio padre” ha avuto per scintilla la frase di Agostino: «Da queste parti stava zio Minguccǝ”, riferendosi alle alture di Montella, mentre io lo pensavo dalle parti delle montagne di San Gerardo o di Calabritto. A parte l’infanzia e la fanciullezza – che pure sono età molto importanti della vita – ho vissuto con mio padre per una trentina d’anni, senza mai accertare con precisione dove lui fosse finito sotto padrone a nove anni…Francamente ho provato un certo disagio. Confesso: nel mio intimo ho provato vergogna. Mi fossi comportato come Proust!… Avrei fatto il mio dovere con la mia famiglia. Invece, siccome il suo “romanzo di formazione” era quello di un vaccaro, ho pensato che non fosse importante raccontarlo. Sia chiaro, l’ho sempre difeso. Non ho mai avuto vergogna di portarlo con me in qualsiasi luogo e l’ho presentato a tutti i miei amici e alle persone conosciute (qualunque fosse il loro rango sociale). Però, non ho dato voce alla sua storia. Sì, vi ho fatto cenno qua e là, nei segmenti che più condividevo: l’occupazione delle terre incolte dei latifondisti, l’iscrizione al PCI, la sua presenza con me alle tante manifestazioni milanesi degli anni Settanta, ecc. ecc. Ma sul buco nero dei suoi nove anni in Africa orientale o della sua fanciullezza, adolescenza e prima gioventù trascorse in una masseria pugliese ho sorvolato. Peggio. Non l’ho sollecitato a raccontare, non ho capito, non ho approfondito. Avrò mille giustificazioni (non esclusa la “colonizzazione culturale” per cui parliamo della madelenette di zia Leonie, al posto dei caciocavalli che modellavano i nostri padri o i nostri nonni), ma non ho compiuto bene il mio dovere di figlio. Con questo non mi strappo i capelli. Forse sono ancora in tempo per capire il significato di queste mie omissioni e scriverne. Grazie per il tuo intervento.

  6. Caro Ennio, ti ringrazio per l’intervento e per la segnalazione a volo sulla “coscienza storica” di Cominelli.
    Nel merito dell’intervento: la filastrocca è molto bella e la condizione del Sud non è durissima come quella vissuta dai nostri genitori e nonni, ma continua ad essere dura. Spopolamento dei paesi, tassi alti di disoccupazione, emigrazione di molti giovani, “autonomia differenziata” nei servizi sociali, ecc. rendono la situazione lavorativa dei giovani un po’ simile a quella di mio padre. Nel senso che oggi un giovane, in nome della “flessibilità”, ha una carriera lavorativa assai precaria. Sotto questo profilo, noi siamo stati più fortunati. La pedagogia non è più quella autoritaria (diciamo pure fascista del “mazz’e panelle fanne e figli bell’e”), ma famiglia e scuola sono in caduta libera e continuano a perdere peso nel paesaggio sociale (non solo meridionale). Secondo Mastrocola e Ricolfi, la colpa sarebbe di Don Milani e della “scuola progressista”. Mah! Dove vedono questa scuola progressista non lo so…
    Il senso è che siamo stati sconfitti?…Penso di sì. Non lo diciamo soltanto noi. Proprio sul Manifesto di domenica ho letto la recensione di un libro di Corrado Stajano che, guarda caso, si intitola proprio “Sconfitti”: «Un grande libro, un titolo aspro, non amabile: Sconfitti. Corrado Stajano entra ancora una volta con cruda esattezza nella storia, memoria, attualità del “sanguinante Novecento”, sua passione etica civile, sempre raccontata alla ricerca di giustizia e verità. […] Scrive Gianandrea Piccioli su “Volere la luna”, 9 ottobre: “In un mondo ideale Sconfitti sarebbe adottato in tutte le scuole superiori italiane». Chissà se Mastrocola lo adotterà nella sua scuola…
    Quanto alla segnalazione a volo di Cominelli, sono d’accordo con lui: «Un presente senza passato è come una nave senza ancora. L’Io diviene instabile, leggero, insicuro di sé, free floating sulla Realtà.
    Il fatto è che la coscienza storica non è ereditaria, deve essere costruita.
    Chi la edifica, oggi?» Questo è il problema.
    Però, occorre chiarirsi prima le idee su cosa si intende per “coscienza storica”. La “tradizione orale” di una famiglia, certo, non può sostituire la “coscienza storica” prodotta da chi fa il mestiere di storico, ma non la svaluterei troppo, etichettandola come “coscienza di clan e di villaggio”. Sarà pure una “coscienza storica povera”, ma non è detto che abbia per forza una “consapevolezza del presente debolissima.”…Diciamo che è un problema aperto.
    Ancora grazie

  7. Caro Antonio,
    sono felice che abbia un bel ricordo delle tantissime domeniche trascorse insieme a mio padre e a tutti noi. Anch’io conservo un vivissimo ricordo della zia Giuseppina e di tutti voi.
    Commuovere e far piangere chi legge può essere uno degli obiettivi della scrittura. Però, io vorrei offrire anche degli elementi di riflessione. Vorrei offrirli, ad esempio, ai nostalgici del fascismo. Il regime che convinceva giovani come mio padre ad andare volontario in Etiopia non aveva diminuito il tasso di analfabetismo che, dopo la prima guerra mondiale, si attestava sul 27%. Anzi, come sostengono diversi studiosi, nonostante Mussolini si facesse fotografare come mietitore per esaltare il lavoro agricolo, furono proprio le campagne ad essere le più trascurate dalla politica scolastica fascista. Infatti, è proprio in queste zone che si riscontrano i tassi più elevati di analfabetismo. Non eri alfabetizzato?…Fa niente! Potevi ascoltare la voce del duce alla radio…Ecco, una delle mie curiosità. Chissà se l’apprendista bovaro dalla campagna veniva trascinato nella piazza di Montella per ascoltare Mussolini o se il padrone della masseria li riuniva tutti nell’aia…Scherzo. Ma mica tanto. Un caro abbraccio. Ti voglio bene anch’io.

  8. ringrazio Donato e Ennio che, dalla lontananza di un qualsivoglia altopiano o tempo, sanno dire dei loro padri e, con coraggio ed onestà, ritornare a considerare la condizione di vita “di miseria durissima” nel Sud di allora. Una commossa rievocazione che comprende gli anni del proprio vissuto di bambini e giovani…Vi posso pero’ assicurare che anche nel profondo nord della provincia cremonese, in frazioni come Montodine o Casaletto Ceridano dove è nato mio padre, le condizioni di povertà erano identiche…I contadini braccianti vagavano nella pianura, con il carico di famiglie numerose e pochi animali, di trasloco in trasloco ogni San Martino, o quasi, del mese di Novembre in cerca di lavoro…Mio padre rappresenta per me un nodo mai sciolto e, tantomeno, risolto che risuana risuana dentro di me…Con i vostri racconti, si sono risvegliati in me tanti campanellini.
    Riguardo a sentirsi sconfitti, mi metto in quella stessa scia, anche se le mie lotte sono state di ordine diverso, ma non lo scenario. Tuttavia penso che aver raccolto le ceneri della nostra storia, familiare e non solo, è tutto quello che potevamo fare…

  9. Non posso fare a meno di rilevare come la sapienza umana abbia creato “le religioni” come il patrimonio (dei Padri) di storia di tutti apertura a ciò che è ma non si vede. In cui “la molteplicità non è moltiplicazione”, e questo in-quadramento permette ai popoli di curare l’angoscia e di “sapere” (dare sale al cibo scipito) anche quello che non si sa.

  10. E per chi troverà il tempo di capire che fine ha fatto la ex questione meridionale anche solo in letteratura ci sarebbe da fare almeno un confronto fra Domenico Rea e l’attuale “voce del popolo del Sud” Franco Arminio. Due spunti:

    Su Domenico Rea
    di Matteo Marchesini
    http://claudiogiunta.it/2014/11/su-domenico-rea/?fbclid=IwAR3RLBdqt-aSMPViHMWD74qbu0p3nZc88dgVAM2LDIi_VUFEUDOGYdIwW8w

    LA REPUBBLICA, LUNEDÌ 8 NOVEMBRE
    Domenico Rea. Quattro critici rileggono la sua opera
    di Antonio Ferrara

    Scriveva Domenico Rea sulla prima pagina di Repubblica Napoli il 18 aprile del 1990 nella sua rubrica Cartastraccia: “La città si è suddivisa in poveri e ricchi: i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”, evocando un’epoca nella quale i “signori” condividevano con i “popolani” le sorti quotidiane nel microcosmo che era ogni singolo palazzo del centro antico di Napoli. Alla “scrittura magra” di Domenico Rea nel centenario della nascita la casa editrice Oèdipus dedica un saggio curato da Francesco G. Forte con testi di Walter Pedullà, Renato Barilli, Domenico Scarpa e Giuseppe Bartolucci. “Domenico Rea nel canone del Novecento” è una riflessione a più voci su un protagonista della cultura e delle letteratura del XX secolo. I testi sono stati scritti tra il 2009 e il 2012. Walter Pedullà, ex presidente della Rai, da qualificato critico letterario e saggista annota: “Rea era diverso da tutti gli altri scrittori del periodo. Per lui parlare dei poveri ed essere dalla loro parte è un automatismo». Il saggio di Pedullà si intitola non a caso “La scrittura magra di Rea”. Domenico Scarpa, consulente letterario e autore di saggi di letteratura e monografie su importanti scrittori italiani, parla della fortuna precoce di Rea e “di precoci malintesi”, ricostruendo alcune delle polemiche letterarie che videro protagonista il nostro nel primissimo dopoguerra. Rea come Berto, Natalia Ginzburg, Calvino e Fenoglìo fa parte di quei “debuttanti notevoli che nei primi anni del dopoguerra incorrono nell’accusa di scopiazzatura americana.
    Renato Barilli parlando di neo realismo e neo avanguardie rilegge la produzione letteraria di Rea e i suoi potenti personaggi come la Miluzza di Ninfa plebea: il critico letterario e docente universitario Barilli vede alla fine in Niccolò Ammaniti di “Come Dio comanda” un’affinità con lo scrittore: “è un Rea che naturalmente rivive”.
    Un ultimo saggio elaborato da Francesco G. Forte dal titolo “Giuseppe Bartolucci, Il ghigno amaro, la risata terribile” intreccia l’attività del “maggiore teorico” della scena italiana del secondo Novecento” con Domenico Rea e quello “specialissimo riguardo che Bartolucci [?] ebbe per Rea del quale, probabilmente, fu tra i più appassionati lettori critici.
    Il volume si conclude con una interessante Appendice “Le ragioni di Nofi. Mini compendio” nella quale si ripubblicano brani di interviste e si riprendono dichiarazioni di Rea sulla sua città natale. “Il mio mondo? Nocera Inferiore, dove sono vissuto” disse Rea a Baricco nel 1993.

  11. Sugli ultimi tre commenti. Ringrazio tutti.
    Ovviamente condivido totalmente ciò che ha scritto Annamaria. Come dico sopra ad Antonio, durante il fascismo, le condizioni di vita sociale nelle campagne sia del Sud che del Nord non sono migliorate, ma peggiorate. A cominciare dall’analfabetismo. Comunque, ritornerò su questo problema.
    Per quanto riguarda Cristiana, invece, mi dispiace ma non capisco la relazione fra quanto lei sostiene sulle “religioni” e la Cronologia. Mio padre non frequentava chiese e non ricordo che amasse granché i preti. Gli ho visto mettere i piedi in qualche luogo di culto soltanto in occasioni strettamente necessarie come funerali o matrimoni di parenti strettissimi. Ma sono certo che Cristiana facesse un discorso più generale sulle “risorse” della religione e sella sapienza degli antichi Padri.
    Grazie ad Ennio per la segnalazione

    1. È così Donato, facevo una riflessione sopra la – piccola, locale, personale – storia che tu raccontavi, che, forse, dobbiamo non stancarci di fare presente, dato che una cultura tradizionale comune non ha più la stessa forza.

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