Sotto la metafora niente

Maylis de Kerangal, Riparare i viventi

di Elena Grammann

Nel primo capitolo del pamphlet Contro l’impegno (di cui ho parlato qui), intitolato “L’epoca dello spezzatino e la letteratura terapeutica”, Walter Siti riferisce la posizione del critico e accademico francese Alexandre Gefen (Réparer le monde: la littérature française face au XXIe siècle, Éditions Corti 2017) che, su base di ricerca empirica, individua il nuovo ruolo della letteratura – francese, ma si intende europea e perché no mondiale – nella funzione curativa. Compito della letteratura è prendersi cura dello spirito-corpo dei lettori, contribuire al loro benessere e miglioramento morale come singoli e come collettività. Di fronte a questo compito, altre specificità delle cosiddette “belle lettere”, prima fra tutte la specificità estetica, passano in subordine e, passando in subordine, ci si chiede dove vadano a finire. In altre parole, cosa distingue, secondo questo approccio, un buon romanzo – cioè un romanzo curativo[1] – da un buon saggio? Qual è – ammesso che se ne voglia ancora parlare – il senso della specificità estetica, se non di spedire l’incauto autore che ancora la persegua nell’infernale torre d’avorio degli esteti? O – peggio ancora! – di essere ridotta a orpello ornamentale, arzigogolo letterario, inutile affaticamento per i nostri già stanchi cervelli, che è precisamente ciò che gli scrittori terapeutici e pedagogici vogliono evitare? Questo è il punto che cercherò di discutere.

Partiamo da un’osservazione di Siti:

La letteratura francese degli ultimi vent’anni (Gefen non ha dubbi su questo) intende “agire, rimediare alle sofferenze” – Maylis de Kerangal “vuol fare del bello mediante il bene, e del bene mediante il bello”, Emmanuel Carrère in Vite che non sono la mia insegna (perché lui stesso l’ha imparato) che ciò che ci unisce agli altri è più importante di ciò che ce ne distingue.

Si tratta di una buona scrittrice e di un grande scrittore, ma Gefen non ha alcun problema a metterli accanto a scrittori mediocri o pessimi, o perfino ai prodotti collettivi degli ateliers d’écriture.

Di Carrère conosco alcune cose (ma non il romanzo citato); è un autore di stazza notevole, il che vuol dire complesso, eminentemente letterario, dunque non adatto allo scopo. Prendiamo, come più rappresentativa, la “buona scrittrice” Maylis de Kerangal, che il romanzo Riparare i viventi (Réparer les vivants, 2013) ha sparato nell’empireo delle lettere francesi e che dunque, se qualcuno non ci mette buon ordine, è sulla via di diventare a sua volta una grande scrittrice. Oltretutto era un romanzo che volevo leggere – non che lo desiderassi, sia chiaro; ma mi toccava.

Riparare i viventi è la storia di un trapianto di cuore. Gli eventi narrati comportano ventiquattro ore esatte. Kerangal stessa dice in un’intervista:

C’è anche il fatto che il mio racconto si svolge in uno spazio di ventiquattro ore. Ci tenevo per dei motivi di forma, affinché ci fosse unità di tempo (la giornata), unità di luogo (l’ospedale di Le Havre) e unità d’azione (il trapianto). Sono i tre aspetti che fondano la tragedia, assieme all’idea che la Terra compie un giro su se stessa, che le cose continuano.[2]

Ombra lunga di Racine e del grand siècle; ma già da queste affermazioni si nota come i “motivi di forma” rimangano esterni e, in un certo senso, “appiccicati sopra”. A parte l’unità di tempo (comunque abbondantemente sbriciolata per il semplice fatto che un romanzo non è una tragedia, e questo men che meno), le altre due sono al massimo tendenziali: l’unità di luogo non può essere – comprensibilmente – mantenuta perché l’impianto del cuore si fa in un altro ospedale, di un’altra città, e tutte le persone coinvolte nell’impianto, con le loro storie, afferiscono a questa altra città; ma soprattutto l’unità d’azione – il trapianto – si apre in due metà abbastanza disomogenee: l’espianto e l’impianto; talmente disomogenee che la seconda parte del romanzo, relativa all’impianto, vira dalla tragedia al dramma satiresco[3].

Ma lasciamo stare Aristotele e gli altri antenati nobili (chanson de geste, epica omerica) che Kerangal individua per il suo romanzo. Il discorso mi interessava per un sospetto di scollamento fra (presunta) forma e (presunta) sostanza che sarà da riprendere. Veniamo invece alla materia del romanzo – nel senso del tema, ma soprattutto della prosa di cui è fatto. Simon Limbres, un ragazzo di diciannove anni, molto sportivo e un po’ temerario (nell’equazione kerangaliana il corrispondente contemporaneo dell’eroe omerico) è vittima di un incidente. All’arrivo dell’ambulanza il ragazzo è in coma ma il cuore batte ancora. Ricoverato in rianimazione, l’encefalogramma evolverà rapidamente verso il piatto definitivo, senza che sia possibile intervenire date le dimensioni del danno; tuttavia una vita vegetativa, e dunque il battito cardiaco, potrà essere mantenuta per un tempo breve con l’aiuto delle macchine[4]. Ma vediamo un po’ da vicino la prosa. Una gelida alba di febbraio, in Normandia, su una spiaggia deserta, tre ragazzi si regalano una sessione di surf. Il lettore si attende l’incidente, ma no, va tutto bene. L’incidente è un banale incidente d’auto, come ce ne sono purtroppo tanti, sulla via del ritorno. Chi guida il furgone che si sfascerà contro un palo non è Simon Limbres ma un altro del trio, Chris:

I ragazzi hanno smesso di battere i denti, il riscaldamento del pullmino è al massimo, così come la musica, e certamente il caldo che ha invaso l’abitacolo produce un altro shock termico, certamente la stanchezza si fa sentire, sbadigliano e dondolano la testa, cercando di rannicchiarsi contro lo schienale dei sedili, ovattati nelle vibrazioni del veicolo, nasi tappati nelle sciarpe, e certamente li prende il torpore, le palpebre si chiudono a intermittenza, e allora forse, superato Étretat, Chris ha accelerato senza nemmeno rendersene conto, spalle accasciate, mani pesanti sul volante, la strada diventata un rettilineo, sì, forse si è detto, okay, è tutta libera, e la voglia di accorciare il rientro per andare a sdraiarsi a casa, smaltire il contraccolpo della sessione, la sua violenza, ha finito per pesare sulla velocità, e così si è lasciato andare, tagliando l’altopiano e i campi neri, arati, i campi a loro volta immersi nel sonno, e certamente la prospettiva della statale – una punta di freccia conficcata davanti al parabrezza come sullo schermo di un videogioco – ha finito per ipnotizzarlo come un miraggio, così che fissandola ha perso ogni vigilanza, e tutti ricordano che quella notte aveva gelato, l’inverno aveva steso sul paesaggio una patina sottile, tutti sanno delle lastre di ghiaccio che si formano sull’asfalto, invisibili sotto il cielo opaco ma capaci di cancellare il ciglio della strada, e tutti immaginano le cortine di nebbia che planano a intervalli irregolari, compatte, quando l’acqua evapora dal fango man mano che sorge il sole, banchi di nebbia pericolosi che filtrano il mondo esterno annullando ogni punto di riferimento, sì d’accordo, e cos’altro ancora, che altro? Un animale che attraversa la strada? Una vacca smarrita, un cane strisciato fuori da un recinto, una volpe dalla coda di fuoco oppure una sagoma umana spuntata come un fantasma sul ciglio della scarpata da evitare all’ultimo momento con una sterzata? O un canto? Sì, forse le ragazze in bikini che tappezzavano la carrozzeria del suo van si sono animate all’improvviso per andare ad arrampicarsi sul cofano e invadere il parabrezza, lascive, chiome verdi e voci non umane, o troppo umane, e Chris ha perso la testa, attirato nella loro trappola da quel canto che non era di questo mondo, un canto di sirena, un canto fatale? Oppure, forse Chris ha fatto un falso movimento, sì, ecco cos’è stato, un gesto inconsulto, così come il tennista manca un colpo facile, o come lo sciatore spigola, un’idiozia, forse non ha girato il volante quando la strada invece faceva una curva, o infine, perché bisogna considerare anche questa ipotesi, può darsi che Chris si sia addormentato al volante, abbia lasciato la campagna monotona per entrare nel tubo di un’onda, nella spirale meravigliosa e improvvisamente intelligibile che fila davanti al suo surf, risucchiando il mondo, il mondo e l’azzurro del mondo.[5]

La figura di questo pezzo di bravura è l’accumulazione. Figura di sicuro e sperimentato effetto, bravura indubitabile. Accumulazione di ipotesi sul perché il furgoncino abbia a un certo punto sbandato sulla sinistra e si sia schiantato contro un palo a una velocità di novantadue chilometri orari senza che sia presente traccia di frenata (questi gli elementi appurati dalla polizia stradale). Accumulazione di ipotesi che presuppone l’impossibilità di accertare quale sia quella giusta (colpo di sonno, intontimento, nebbia, ghiaccio, falso movimento, animale che taglia la strada ecc.), il che implica a sua volta che nessuno sia sopravvissuto, e in ogni caso non il guidatore. E in effetti l’impressione del lettore, a questo punto della lettura, è che siano morti tutti e tre. Questa è, contemporaneamente, l’informazione implicita veicolata dal “pezzo” e il senso del suo esistere, del suo essere stato scritto. Tot pagine più avanti, tuttavia, si apprende con una certa sorpresa che il solo deceduto è Simon, mentre gli altri due, grazie alle cinture allacciate, se la sono cavata in fondo piuttosto bene, diverse fratture ma nessun organo leso. Quindi non è vero che fosse impossibile appurare cos’era successo, come suggerisce il brano citato; era possibilissimo e anzi, da parte della narratrice onnisciente che è anche l’autrice, doveroso. O se, per motivi suoi, non voleva appurarlo, nulla però la autorizzava a scombinare le carte a esclusivo beneficio di un effetto estetico. Effetto estetico senza legame funzionale con il tutto dell’opera – puro ornamento.

Qual è quindi il senso dell’accumulazione – figura di stile molto amata da Kerangal che ce la serve quasi ininterrottamente dall’inizio alla fine del romanzo? Il senso è la bravura, il virtuosismo: in questo caso, ma esemplarmente, fine a se stesso. A proposito di un altro testo della nostra autrice, Richard Millet, personaggio della scena letteraria francese piuttosto fuori dagli schemi, e con le cui posizioni io non mi trovo necessariamente d’accordo, parla di barbe à papa, la nuvola di zucchero filato avvolta su un bastoncino che si compra alle fiere e piace tanto ai bambini[6]. Millet si riferisce probabilmente a un certo buonismo scontato e zuccheroso, ma io trovo che l’immagine della barbe à papa suggerisca molto bene il gonfiarsi e arrotolarsi, in spirali a effetto, di una materia inconsistente che, alla prova, finisce in un niente appiccicoso e svela come nucleo duro un nudo e disomogeneo stecchetto.

Perché, riassumendo e per concludere, cosa abbiamo alla fine? Abbiamo una struttura didascalico-divulgativa sul trapianto di cuore – procedura che comporta aspetti biologici, medici, giuridici, organizzativi, psicologici, emotivi. Gli aspetti biologici, medici, giuridici e organizzativi, in parte anche certi aspetti psicologici, fanno l’oggetto di un’esposizione generalmente asciutta, che potrebbe anche dirsi saggistica se non fosse un po’ troppo cursoria, un po’ troppo divulgativa appunto, da enciclopedia per la famiglia. Altri aspetti psicologici e soprattutto gli aspetti emotivi “plasmano” certi personaggi: in primo luogo la madre, poi il padre, molto più marginalmente la fidanzatina. Tutto l’ambito dell’emotività, con relativi personaggi, è ambito di invenzione. Di accumulazione in accumulazione e di bravura in bravura Kerangal se la cava discretamente, senza però che il lettore – proprio per l’uso dilagante di figure retoriche macroscopiche – dimentichi che sta leggendo una finzione. Poi ci sono tutti gli altri: medici, infermieri, la donna che riceverà il cuore di Simon; ognuno con la sua storia più o meno sviluppata, con i suoi segni distintivi, somatici e caratteriali. E qui finiamo – né poteva andare diversamente – nelle immediate vicinanze delle serie televisive che Kerangal critica espressamente ma dalle quali i suoi personaggi non protagonisti in fondo non si distinguono. E come potrebbero, applicati come sono dall’esterno a un’ossatura che non li riguarda, uno schema teorico-didattico che devono industriarsi di rimpolpare, di rendere appetibile, suscitare la curiosità per la pagina seguente, soprattutto arrivare a un numero congruo di pagine e fare in modo che il lettore le ingoi senza recalcitrare; così come i pezzi di bravura servono a dargli l’impressione che stia leggendo letteratura. E avremmo il paradosso che proprio la letteratura terapeutica, quella che ha in spregio la specificità estetica, che aborre la torre d’avorio e mira al sociale al buono al sodo, proprio quella si serve dei trucchetti “estetici”, in quantità industriali, per far passare la sua mercanzia.

Però la lettura di Riparare i viventi a qualcosa è servita. Adesso capisco quelli che hanno smesso di leggere romanzi e leggono solo saggi. Se il romanzo è diventato così, se si è ridotto così, hanno perfettamente ragione.

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[1] Si intende naturalmente anche pedagogico. Ad esempio, a proposito di un racconto la cui protagonista non si accorge che il concupito ha interessi omosessuali, una lettrice lamenta che il racconto manca di educare le ragazze a non fare le finte tonte.

[2] https://lesgeneralistes-csmf.fr/2014/05/15/maylis-de-kerangal-donner-un-organe-cest-remettre-son-corps-au-pot-commun/

[3] In questo senso il romanzo di Kerangal non sarebbe semplicemente l’equivalente contemporaneo di una tragedia classica, ma di un’intera giornata a teatro nell’Atene del V secolo.

[4] Questo – la contraddizione fra la morte cerebrale e un’apparenza di vita – è o dovrebbe essere il nucleo del romanzo ed è infatti la parte buona, convincente, anche stilisticamente. Purtroppo breve, né si vede come sarebbe stato possibile tirarla più in lungo.

[5] Riparare i viventi, Feltrinelli 2015, trad. di M. Baiocchi con  A. Piovanello, p. 20s.

[6] “ce texte [relève] surtout de la barbe à papa idéologico-esthétique” https://excerpts.numilog.com/books/9782756110981.pdf

43 pensieri su “Sotto la metafora niente

  1. non ho riletto il pezzo “di bravura” (mi è rimasto poi inpresso barbe à papa: magari è per questo che chiamano Scalfari barbapapà), ma in esso l’autrice mi pare parta dall’avviso che la strada era un rettilineo e poi verso la fine tra le varie ipotesi di causa dell’incidente introduce una curva. o sbaglio? (verso la fine infatti mi sono semiaddormentato anch’io, come il defunto)

  2. “Però la lettura di Riparare i viventi a qualcosa è servita. Adesso capisco quelli che hanno smesso di leggere romanzi e leggono solo saggi. Se il romanzo è diventato così, se si è ridotto così, hanno perfettamente ragione”, vero?

    1. Certo cara, e ho pensato a te. Ma la mia frase è un periodo ipotetico, e la protasi non la concedo così facilmente. Io combatto (finirò nel cielo di Marte).

  3. “L’accumulazione di ipotesi” riguardo alla modalità dell’incidente costato la vita a uno dei tre ragazzi sul furgoncino, in effetti non trascina emotivamente, quasi potrebbe coincidere, dopo un’indagine dettagliata, con il resoconto casuale delle dinamiche di un sinistro da parte di una compagnia assicurativa…quasi. Per lasciare l”orma” di un vissuto basta anche meno, ma bisogna saperlo tradurre diversamente…Si’, ci aspettiamo molto da un romanzo…Comunque io sono anche meno esigente e, se la scrittrice, come in questo caso, ha lasciato diverse pagine eccellenti, cerco di valorizzarle e mi chiedo sempre cosa, tanto o poco, mi ha trasmesso senza essere un capolavoro…grazie Elena

    1. Grazie a te Annamaria, e per l’amor del cielo, a ognuno il suo approccio.
      Però ti chiedo una cosa: se un ingegnere progetta un ponte, e il ponte dopo quindici giorni crolla, saresti disposta a dire che, sì, il progetto aveva parecchio che non andava, ma alcuni calcoli erano fatti benissimo?

      1. ci vorrebbe, è vero, più attenzione è serietà in tutto quello che si fa, cioè a ciascuno il suo mestiere….ma nel nostro caso non è in gioco la vita e neanche il senso critico, che si può esercitare anche in negativo….appunto, gli approcci sono tanti, il tuo è guerriero e mi dice molto

  4. La differenza tra romanzi e saggi? La storia di Boccassini è più avvincente di un romanzo.
    Un “romanzo” come l’ultimo della trilogia sul Cristo di Coetze interroga le convinzioni di base del nostro occidente.
    Incrocio tra saggi e romanzi (fotoromanzi io ne ho scritti e ho campato la vita per quasi vent’anni: una forma di incrocio -mortale a mio parere sugli stilemi narrativi in termini di successione logica- destinata a finire): il romanzo è una storia, una parabola con una conclusione. Oggi? Che conclusioni abbiamo? Non siamo più in un mondo narrabile.
    Chi narra -ma lo chiedo a te che sicuramente te ne intendi più di me- dove crede di essere? E di rappresentare una parte umana che rappresenti una parte che interpreta il tutto? Ma non siamo più nell’occidente europeo, e nessun popolo oggi ci rappresenta la vita umana in generale. Raccoglieremo le differenze umane scritte dai romanzi?
    Ma mi faccia il piacere!
    Abbiamo bisogno di un simbolico ben altro! Viva i saggi che esplorano e affondano senza interpretazioni, almeno per ora. Magari domani in mondo unificato e duale nuovi narratori espliciteranno il dissidio. Oggi … ricami nelle alcove (delle madri).

    1. “La storia di Boccassini è più avvincente di un romanzo”. Questione di gusti, direi.
      Io sul romanzo ci sto lavorando seriamente. Non mi interessa (ripeto) discuterne con chi ha deciso che non ha più ragione di esistere e che bisognerà eventualmente aspettare “un mondo unificato e duale” nel quale “nuovi narratori espliciteranno il dissidio”. Mi aspetterei anzi che chi ha una tale opinione del romanzo, coerentemente con la certificazione di nullità che rilascia al medesimo, si astenesse dal parlarne – come io non mi sognerei mai di parlare dell’autobiografia di Boccassini.

    2. Però ho messo in fila alcune questioni, 1 l’essere avvincente, 2 le “tesi” di cui si occupa per esempio Coetzee, 3 il plot, 4 la “conclusione” da tirare comunque (esplicita o implicita), 5 il rapporto tra romanziere/a e il mondo di cui fa parte, il che non significa semplicemente che ho “deciso (!?) che non ha più ragione di esistere”. E ovviamente mi sono rivolta a chi “sul romanzo ci sta lavorando seriamente”.

      1. Come no. In 15 righe di commento di difficile decifrazione metti in fila (?) un tot di questioni (che più disparate non si può) che richiederebbero un saggio di 200 pagine come risposta. Ma fortunatamente non è necessario scriverlo perché poi ti rispondi da te: “Ma mi faccia il piacere!”

        Ciao Cristiana, e buona serata.

  5. “non siamo più nell’occidente europeo, e nessun popolo oggi ci rappresenta la vita umana in generale. Raccoglieremo le differenze umane scritte dai romanzi?
    Ma mi faccia il piacere!” i.e.: i romanzi locali, come quello di cui dai atto nel tuo post, NON rappresentano l’autocoscienza planetaria oggi. E allora? Mi sono risposta da sola?
    Vabbe’, lavori seriamente sul romanzo, ma non per tutti.

  6. non metterei cosi’ in contrapposizione romanzo e saggio, a me piacciono le contaminazioni, come leggere la storia universale in quella locale e viceversa…Comunque sempre, penso, traspare la doppia faccia della medaglia, come Donato ci dice…

    1. Infatti non si tratta di mettere in contrapposizione. Sono due generi diversi che si possono contaminare, come accade soprattutto da cinquant’anni a questa parte, ma che hanno comunque delle caratteristiche specifiche.
      La cosa fastidiosa – tafanica – è che qualcuno ci tiene a stabilire delle gerarchie, quando non carrément a delegittimare :
      “Abbiamo bisogno di un simbolico ben altro! Viva i saggi che esplorano e affondano senza interpretazioni, almeno per ora. Magari domani in mondo unificato e duale nuovi narratori espliciteranno il dissidio. Oggi … ricami nelle alcove (delle madri).” (C.F.)
      E poi dice anche che non è vero.
      Solo per chiarire, Annamaria. A me poi me ne frega poco.

      1. “Sono due generi diversi che si possono contaminare, come accade soprattutto da cinquant’anni a questa parte” e certamente hanno caratteristiche specifiche! Anche se, così voglio immaginare, le contaminazioni negli ultimi anni, in un’epoca cioè di grande cambiamento che interroga proprio l’atto di raccontare il cambiamento, aprono a forme nuove.
        Questa “visione” esprimevo, e che c’entrano le gerarchie? Mah… Leggo altrettanto volentieri Coetzee che Illuminati su Averroè, mi nutrono ambedue, mi fanno ragionare e mi danno piacere. Altro non so. (Nemmeno che cosa avrei detto che non è vero…)

        1. Mah…
          Se questa “visione” volevi esprimere, questa “visione” dovevi esprimere, e non dire tutt’altro.
          Per il resto, ho citato.
          Buona domenica

  7. Dico brevemente la mia e in generale. «Compito della letteratura è prendersi cura dello spirito-corpo dei lettori, contribuire al loro benessere e miglioramento morale come singoli e come collettività»? Mi pare un compito ridicolo, se assolutizzato. Non ci riesce poi la politica, figuriamoci la letteratura. Sia quando pretende autonomia (relativa o assoluta), sia quando scende a patto con l’altro da sé, l’«extraletterario» (qualunque esso sia). Inoltre, perché un buon saggio o un buon romanzo, assolta la sua funzione conoscitiva, che resta anche per me preminente, non potrebbe risultare anche terapeutico o didascalico (per il singolo o una comunità)?
    Quanto alla «specificità estetica», mi chiedo se essa esista in sé e separabile da tutto il resto. Una grande opera – mettiamo la Commedia di Dante o Ulisse di Joyce – non sono, secondo me, né riducibili alla sola specificità estetica né al loro contenuto (nel caso religioso o moderno-mitico). Se non nel momento analitico e interpretativo.

    1. Tanto per capirci, perché mi sembra che qui gli equivoci fioriscano come le pratoline in aprile:

      – «Compito della letteratura è prendersi cura dello spirito-corpo dei lettori, contribuire al loro benessere e miglioramento morale come singoli e come collettività» è la tesi di Gefen, per come l’ho capita. Se la trovi ridicola, bon, non ho niente in contrario. Io la trovo irricevibile per altri motivi, ma fa lo stesso.
      Mi pare però che una letteratura che vede come suo scopo il prendersi cura ecc. abbia già rinunciato alla sua autonomia, quindi non capisco il “sia … sia”.

      – Ho qualche problema con il punto seguente (“Inoltre…. per il singolo o una comunità)”. Nessuno (nemmeno io) dice che “non potrebbe”; ma qui si afferma che dovrebbe, che è un’altra cosa. Quindi non capisco l’osservazione.

      – Sull’ultimo punto non posso aiutarti. Non ho capito. Soprattutto quando distingui la specificità estetica dal contenuto. Direi che la specificità estetica è il modo di porre il contenuto. Ma il contenuto si distingue dalla specificità estetica solo nell’analisi e interpretazione. Non vale però il contrario: la specificità estetica è oggetto di appercezione in blocco, niente analisi. Poi si può provare a spiegarla.

  8. 1.
    Sì, ho riportato la tesi di Gefen. La trovo ridicola e ho spiegato il perché.
    2.
    « Mi pare però che una letteratura che vede come suo scopo il prendersi cura ecc. abbia già rinunciato alla sua autonomia».
    È la tua tesi (posso chiamarla “autonomista”, senza alcun spregio?). La mia è che MAI la letteratura È del tutto autonoma, al di là delle intenzioni e delle convinzioni dei suoi rappresentanti. Lo è sempre relativamente ad altri poteri di cui, comunque, fa parte. Da qui il mio “ sia…sia”.
    3.
    Capisco. Io sostengo che « un buon saggio o un buon romanzo, assolta la sua funzione conoscitiva, che resta anche per me preminente, […] potrebbe risultare anche terapeutico o didascalico (per il singolo o una comunità)» in base all’idea che – come ho appena detto – «MAI la letteratura è del tutto autonoma» e non viene meno (non si stravolge, non si snatura, ecc.) in quanto letteratura, se assolve ANCHE o SECONDARIAMENTE funzioni terapeutiche o didascaliche (o d’intrattenimento o di propaganda).
    Gefen, invece, sostiene proprio che *dovrebbe* fare soprattutto o solo terapia o didattica (o intrattenimento o propaganda). Non sono d’accordo.
    4.
    No. Non ho distinto « la specificità estetica dal contenuto». Al contrario ho detto di dubitare che la specificità estetica possa esistere «in sé» e che possa essere separabile dal resto dell’opera (dal contenuto). Questo accade solo quando – provvisoriamente, nel tentativo di “sentirla” e “comprenderla”, il lettore (o il critico) la analizza e la interpreta.
    Se poi la specificità estetica «è il modo di porre il contenuto», cioè fa tutt’uno con il contenuto, non capisco perché solo la prima sarebbe «oggetto di appercezione in blocco» e non anche il secondo.

    1. 1. Non ho rilevato le ragioni per cui la trovi ridicola perché non le capisco. In un’intervista (https://www.youtube.com/watch?v=UsIwmp3nd-0), a proposito di riparare il mondo, Gefen fa una differenza fra l’approccio “ripariamo tutto di botto”, che sarebbe l’approccio rivoluzionario (politico) o escatologico (religioso), e ripariamo quello che possiamo un po’ alla volta, che è quello di cui parla lui. Non ne fa una cosa assoluta, anche perché non fa una teoria ma descrive una tendenza – a cui va la sua simpatia, questo è chiaro, ma il suo atteggiamento rimane descrittivo – simpatetico, ma non prescrittivo. Forse questo aspetto non emergeva bene dal mio “riassunto”; vi alludo quando dico “su base di ricerca empirica”.

      2. Se intendi che al mondo non c’è nulla di assolutamente autonomo – anche perché il grosso delle azioni e delle scelte è determinato, prima di tutto, dal codice genetico, e perché alla fine tutti dobbiamo morire e sottostiamo dunque a un oscuro potere, posso essere d’accordo.

      3. Sempre per precisare, perché dell’ambiguità sono responsabile io: Gefen constata che la nuova letteratura si muove in quella direzione e la cosa gli va bene. Come critico (?) la promuove.

      4. “Una grande opera – mettiamo la Commedia di Dante o Ulisse di Joyce – non sono, secondo me, né riducibili alla sola specificità estetica né al loro contenuto”. In questa frase secondo me li distingui, sia pure solo in teoria. Se invece non li distingui, benissimo, my point.
      Nella fruizione c’è, secondo me (e sottolineo secondo me; in questo io sono kantiana, ci sono sicuramente altri modi, più up to date, di vedere la cosa, ma io rimango kantiana, almeno finché la mia personale esperienza non evolverà in altro senso), un momento di immediatezza che è il momento di adesione estetica e che non è affare precipuo dell’intelletto; l’adesione estetica sollecita all’analisi che è invece il lavoro dell’intelletto, il quale esamina il contenuto e il modo di porlo, con accrescimento di conoscenza e consapevolezza; ma alla fine dell’interpretazione, quando si tratta di un “rendere conto totale”, non può che cessare di parlare la sua lingua e tornare all’opera, cioè all’originaria adesione estetica.
      Un’ultima precisazione: quando parlo di “immediatezza” per l’adesione estetica non intendo che si produca “subito”. Ci può volere del tempo. Soprattutto per le cose a cui non si è abituati possono essere necessari vari reset. Ma quando si produce si produce tutta in un colpo e senza la mediazione analitica dell’intelletto. Se fosse necessaria la mediazione dell’intelletto, la specificità estetica andrebbe a farsi benedire, cioè non esisterebbe. Il che naturalmente può essere. Io però ancora non la mollo.

  9. @ Ennio

    (In aggiunta al punto 4)
    Il problema, caso mai, può essere diacronico: l’adesione estetica è qualcosa di durevole, almeno in linea di principio? Le cose che ci sono piaciute continueranno a piacerci? O, su una scala più vasta, quanti “capolavori” cessano di esserlo dopo cinquanta, cento, duecento anni? Quanti “monumenti” (quindi già sottoposti al vaglio del tempo) finiscono tuttavia per diventare “documenti”? Qualcuno sostiene tutti…

  10. APPUNTO 1

    «Mi pare un compito ridicolo, se assolutizzato». (Ennio)

    O banalizzato. O commercializzato. Una conferma – e qui concordo con lui – me la dà lo stesso Siti quando ricorda:

    « Emmanuelle Pagano in “Nouons-nous” (Editions P.O.L. 2013) ritrae in modo icastico questo nuovo sentire: la protagonista ordina a una ditta farmaceutica specializzata dei blister di capsule trasparenti, ci mette dentro delle brevi frasi letterarie e si impone di leggerne una ogni mattino pomeriggio e sera. La letteratura rafforza il sistema immunitario dei lettori fortificandoli nella lotta contro il Male».

    (https://www.linkiesta.it/2021/04/contro-impegno-walter-siti/)

    1. Perché “banalizzato” o “commercializzato”? Corrisponde al nuovo sentire, è democratico. Quello che a noi pare magari ridicolo, in Francia non lo è. Hanno deciso che vogliono un aiuto “sanitario” e la letteratura deve fornirglielo. Democraticamente.

      1. APPUNTO 2

        Si tratta di risocializzare la letteratura, di «democratizzarla», di «rivalutare le lacrime così a lungo screditate». ( Siti, https://www.linkiesta.it/2021/04/contro-impegno-walter-siti/)

        E perché risocializzare o democratizzare la letteratura significherebbe (inevitabilmente?) rivalutare il piagnisteo o l’emozionalità melensa?
        Abbiamo avuto nel dopoguerra l’esempio de Il Politecnico di Vittorini. Quegli scrittori risocializzarono e democratizzarono rivolgendosi agli operai e scrivendo per loro articoli rigorosi e bellissimi sui classici. E mirarono anche al “bene”, intendendo con questa parola obiettivi di emancipazione e rivoluzione sociale e non di benessere individualistico.
        Una democratizzazione seria, costruttiva e persino terapeutica (ma in dimensione sociale) è sempre possibile se considera la “totalità” sociale e non solo la letteratura. Perché lasciarla la letteratura solo ai ceti benestanti (e coltivati) .

        P.s.
        Con mia sorpresa ho visto che Siti ad un certo punto ha persino un barlume di nostalgia verso il “marxismo”:
        «Mi nasce qui spontanea una domanda vecchia, di quelle che si facevano prima che crollassero i Muri e le Torri: fino a che punto la struttura economica, e la omologa configurazione politica, determinano le forme artistiche di un’epoca?» (Siti, https://www.doppiozero.com/materiali/lepoca-dello-spezzatino)

        1. “E perché risocializzare o democratizzare la letteratura significherebbe (inevitabilmente?) rivalutare il piagnisteo o l’emozionalità melensa?” (E.A.)

          “il piagnisteo o l’emozionalità melensa” è un’enfatizzazione tua, in realtà a falsare l’obiettivo normalmente basta l’intenzione eteronoma – e si finisce nell’inautentico, a densità variabile di melassa.
          Comunque qui non si tratta di quello che “significherebbe”, ma di quello che accade e che viene apprezzato dal pubblico (che lo richiede) e registrato dalla critica.
          Non so cosa voglia dire “considerare solo la letteratura”. La letteratura (a differenza appunto delle discipline specifiche) è sempre su sfondo di totalità. La tua idea, che ci sia gente che vuole fare “solo letteratura” guardando al bell’ornato nello scrivere o scrivendo “difficile”, secondo me non coglie nulla nella realtà. Anzi, come ho cercato di mostrare (senza che nessuno lo rilevasse), chi si rifugia nel “bell’ornato” sono proprio quelli che “mancano” la letteratura perché le assegnano compiti non suoi. E quanto allo “scrivere difficile”, se il punto fosse quello, la recente, bella poesia di Cristiana sarebbe da condannare senza appello.
          Io credo che la letteratura si democratizzi da sé, in funzione anche della qualità (in senso complessivo, non solo buono-cattivo) della democrazia in cui si produce. In Italia e in Francia, parrebbe, maluccio. Negli Stati Uniti mi sembra meglio, ma non ne so abbastanza.

          1. APPUNTO 3
            “La tua idea, che ci sia gente che vuole fare “solo letteratura” guardando al bell’ornato nello scrivere o scrivendo “difficile”, secondo me non coglie nulla nella realtà”. ( Gramman)

            La mia frase è questa: « Una democratizzazione seria, costruttiva e persino terapeutica (ma in dimensione sociale) è sempre possibile se considera la “totalità” sociale e non solo la letteratura».
            Non ho parlato o accusato «gente che vuol fare “solo letteratura”», ornata o difficile che sia.
            Parlavo di democratizzazione seria; e portavo l’esempio de Il Politecnico, nemico certo dell’ornato – concordo qui col tuo giudizio: « chi si rifugia nel “bell’ornato” sono proprio quelli che “mancano” la letteratura perché le assegnano compiti non suoi» – ma senza APPUNTO 3
            La tua idea, che ci sia gente che vuole fare “solo letteratura” guardando al bell’ornato nello scrivere o scrivendo “difficile”, secondo me non coglie nulla nella realtà ( Gramman)

            La mia frase è questa: « Una democratizzazione seria, costruttiva e persino terapeutica (ma in dimensione sociale) è sempre possibile se considera la “totalità” sociale e non solo la letteratura». Non ho parlato o accusato «gente che vuol fare “solo letteratura”», ornata o difficile che sia.
            Parlavo di democratizzazione seria e portavo l’esempio de Il Politecnico, nemico certo dell’ornato – concordo qui col tuo giudizio: « chi si rifugia nel “bell’ornato” sono proprio quelli che “mancano” la letteratura perché le assegnano compiti non suoi» – ma non della letteratura difficile (senza virgolette, perché per un certo pubblico lo è davvero).

            Non è vano chiedersi che visione del mondo prevaleva allora, nel dopoguerra, fra quegli scrittori per decidersi a mediare testi, comunque difficili per i loro lettori (operai), senza appiattirsi sulla cultura subalterna del loro pubblico; e che visione c’è oggi tra quelli (Saviano, Murgia, ecc.) che si adeguano piattamente a « quello che accade e che viene apprezzato dal pubblico (che lo richiede) e registrato dalla critica» (complice anch’essa di questo andazzo).

            P.s.
            «Io credo che la letteratura si democratizzi da sé, in funzione anche della qualità (in senso complessivo, non solo buono-cattivo) della democrazia in cui si produce» ( Grammann)

            No, niente si democratizza «da sé». Ci vuole intelligenza ( per distinguere la vera dalla falsa democratizzazione). Ci vuole lotta (per aprire gli occhi a chi non vuole aprirli). Ci vuole la critica di lobby che con metodo diffondono oppio. Ci vogliono luoghi in cui le intelligenze e le lotte trovino sostegno costante. (Tutte cose che avevamo tentato di ricostruire negli anni ’70 e che sono state abbattute).

            P.s.
            «Io credo che la letteratura si democratizzi da sé, in funzione anche della qualità (in senso complessivo, non solo buono-cattivo) della democrazia in cui si produce» ( Grammann)
            No, niente si democratizza «da sé». Ci vuole intelligenza ( per distinguere la vera dalla falsa democratizzazione). Ci vuole lotta (volontà di aprire gli occhi a chi non vuole aprirli e denunciare quelli che in modo organizzato diffondono oppio). Ci vogliono luoghi in cui le intelligenze e le lotte vengano sostenute e possano respirare.

  11. sul punto 4: da un lato sostieni che “l’adesione estetica [..] quando si produce si produce tutta in un colpo (non subito, ci può volere del tempo) e senza la mediazione analitica dell’intelletto”; ma poi aggiungi che l’adesione estetica diacronicamente può mutare.
    Non vuol dire questo che anche il momento dell’adesione estetica, “che si produce tutta in un colpo”, è permeata di condizionalità esterne, storiche, interessi sociali, e quindi di elementi “impuri”, materiali, che infiltrano quella adesione?
    Mi sembra che tu riferisca l’adesione estetica a una funzione separata, senza la mediazione dell’intelletto, autonoma. Eppure i gusti, che invece le culture delle epoche conformano, si rifanno vivi diacronicamente su quella funzione kantianamente autonoma.
    Forse non capisco bene la tua posizione.

    1. Infatti l’aggiunta al punto 4 nella mia intenzione evidenzia un problema che per Kant non esisteva – immagino perché Kant non prendeva in considerazione la diacronia, cioè sia la Storia collettiva che il divenire individuale. E’ Hegel che, introducendo la Storia, del giudizio estetico kantiano, che è un giudizio riflessivo, cioè che dice qualcosa non dell’oggetto ma del soggetto, fa un giudizio sulla manifestazione di qualcosa che è in ogni caso storico. Cioè: un “oggetto” è “bello” se è espressione di un certo stadio del cammino dello Spirito. A una conoscenza riflessiva del soggetto si sostituisce la conoscenza oggettiva di una manifestazione dello Spirito (o di uno stadio della dialettica storica). Alla facoltà settecentesca del “gusto” si sostituisce sempre più il cervello, fino all’arte concettuale.
      Io credo di stare un po’ all’incrocio dei due. Ci sono cose di secoli fa che trovo bellissime (difficile però che un ragazzo o una ragazza che ha oggi venti o trent’anni sia della stessa opinione) e cose contemporanee, conformate dal gusto dell’epoca (ma è vero che dicano qualcosa dell’epoca? il punto è questo), che trovo conoscitivamente controproducenti – cioè brutte sia in senso kantiano che hegeliano.
      La mia posizione è molto in fieri, e il mio kantismo è diciamo di massima; ma l’adesione estetica “tutta d’un colpo” è per me, al momento, la migliore garanzia contro le derive della moda, che non amo.
      Quelli che tu chiami elementi “impuri”, materiali che inflitrano l’adesione estetica, per me ci sono, ma non sono né impuri né materiali, sono lontanissimi dagli interessi sociali, e sono semplicemente interessi psicologici nel senso di Stendhal, che correggeva Kant: il piacere estetico non può essere, come voleva Kant, disinteressato (das interesselose Wohlgefallen am schönen Gegenstand), ma al contrario deve corrispondere, anche in modo sotterraneo, a un mio (personale) profondo interesse, o desiderio.

  12. Capitato per caso. Lettura d’oggi…

    APPUNTO 4/ A PROPOSITO DI LETTERATURA E ALTRO O DI LETTERATURA “IMPEGNATA” DI VITTORINI E LETTERATURA PSEUDOIMPEGNATA D’OGGI

    SEGNALAZIONE

    TRA TEORIA E STORIA DELLA LETTERATURA. CONVERSAZIONE CON GABRIELE PEDULLÀ
    di Alberto Comparini
    https://www.leparoleelecose.it/?p=42890

    Stralcio:

    Cosa hanno in comune Machiavelli e Fenoglio? Come dicevo, Fenoglio, in quanto oggetto di studio e non solo di venerazione, è entrato nella mia vita come bilanciamento di Machiavelli. Eppure, osservando il mio percorso retrospettivamente, oggi mi sembra chiaro che nelle mie scelte sono stato anche guidato da un preciso interesse per il nesso letteratura-politica. Basta fare un elenco di alcuni dei temi di cui mi sono occupato: gli scrittori partigiani, l’oratoria politica otto-novecentesca, i narratori del Risorgimento, il romanzo parlamentare… E ovviamente la teorica politica rinascimentale. Anzi negli anni ho capito che, occasionalmente, può essere assai proficuo tanto leggere i testi politici con gli strumenti della critica letteraria (come ho fatto in Parole al potere con i discorsi politici degli ultimi centocinquant’anni) quanto leggere i testi letterari come se fossero dei trattati politici pensati anzitutto per intervenire nel dibattito delle idee.
    In questo interesse per gli autori che si sono confrontati direttamente con le questioni del proprio tempo capisco di essere un formalista un poco anomalo, perché i formalisti, per lo meno in Italia, prediligono in genere chi pratica la «letteratura come giardinaggio» (Alberto Arbasino dixit) o chi fa “politica della forma” a furor di manifesti (come le avanguardie). Non ne ero consapevole all’inizio, ma ora capisco che inconsapevolmente mi sono messo a cercare grandi scrittori che vivessero la battaglia per lo stile con la stessa radicalità della battaglia delle idee, e spesso in diretta connessione. Detesto ovviamente i retori e i propagandisti, mentre riverisco i grandi giocolieri dello stile; più di tutti, però, la mia simpatia si indirizza agli autori che, sotto la cenere, hanno coltivato un sentimento eroico dell’esistenza e della letteratura. Proprio come Fenoglio e Machiavelli. E lo dico con speciale nostalgia verso una stagione, ancora vicina a noi, in cui i professori universitari non erano ancora solo dei professionisti (al pari di un medico o di un avvocato) e i romanzieri non solo degli intrattenitori.

  13. @Ennio Abate, Appunto 3

    “Non ho parlato o accusato «gente che vuol fare “solo letteratura”», ornata o difficile che sia.” (E.A.)
    Ho capito, avevo frainteso. Però una certa antipatia per chi fa “solo letteratura” e una tendenza a considerarli attardati esteti non la puoi negare. D’altra parte se per un marxista il primum sono i rapporti di produzione, è chiaro che la letteratura è un derivato. E derivato rimane, anche quando lo smalto lukacsiano è andato.

    Sul resto hai un sacco di ragioni, ma ci sono anche un sacco di cose che non mi convincono. Ad esempio:

    – non è che stai mitizzando l’esperienza del Politecnico? Davvero lo leggevano gli operai? E quanti operai lo leggevano? Abbiamo dei numeri? delle statistiche? Non è che delle volte è stata la generosa e nobile iniziativa che però è morta lì perché non aveva fatto bene i conti col bacino di utenza? Perché se avesse incontrato un vero bisogno e una risposta sarebbe durata di più, non ti pare?

    – “Ci vuole lotta (per aprire gli occhi a chi non vuole aprirli)” (E.A.)
    Ci sento un po’ troppo spirito missionario, e a me i missionari non piacciono, di nessuna religione. Come non mi sono mai piaciuti i picchetti. Quelli che hanno capito e adesso devono convincere gli altri che, poverini, non hanno capito niente. L’esperienza l’ho fatta, grazie. A me piace il Rousseau genio della spontaneità, non quello del Contratto Sociale. Quello lo aborro.

    Quello che io intendo per democratizzazione è in realtà esattamente il contrario del Politecnico: non intellettuali di buona volontà che con spirito missionario omogeneizzano la sublime cultura per stomaci proletari, ma la gente che si fa da sé la propria pop-cultura. Manipolata? E perché dovrebbe esserlo di più di quelli che leggono Dante?
    Dice Feyerabend (cito a memoria e da fonte orale, posso essere imprecisa) che fu soltanto quando fece l’esperienza di un drive-in americano che capì il vero significato di cultura. Non nel senso che, per contrasto, gli si fosse palesato il valore dei “classici”, ma proprio l’opposto: aveva capito che quella era la vera cultura.
    Ci sono serie televisive, prevalentemente americane, che da un punto di vista della cultura come siamo abituati ad intenderla non possono che risultare estremamente deludenti. Eppure affascinano un pubblico larghissimo e non necessariamente sprovveduto (i giovani specialmente non sono affatto sprovveduti) perché toccano degli immaginari particolari: dei punti sensibili. Questo non è trash, questo, che piaccia o no, è un tipo di cultura democratica.
    Il problema della letteratura stigmatizzata da Siti è che non è né l’uno né l’altro: non è “pop” perché si rifà a modelli “alti”, di cui però riesce a essere solo la parodia.
    Il problema culturale dell’Europa (e in particolare dell’Italia) potrebbe essere che non riesce a sviluppare una cultura popolare e democratica perché è un territorio troppo intriso di passato e di cultura alta.

    1. Apparentemente scrivi cose di buon senso, sia nel dire che “Ci sono serie televisive, prevalentemente americane che […] toccano degli immaginari particolari: dei punti sensibili. Questo non è trash, questo, che piaccia o no, è un tipo di cultura democratica”, sia quando concludi che “problema culturale dell’Europa (e in particolare dell’Italia) potrebbe essere che non riesce a sviluppare una cultura popolare e democratica perché è un territorio troppo intriso di passato e di cultura alta”.
      Infatti tutti già sappiamo il piacere, la conoscenza e le riflessioni che producono film fumetti narrazioni pop che circolano “a disposizione”.
      Però distinguerei la tensione politica che animava una cultura di sinistra postbellica, in un dualismo di schieramenti mondiali realissimo e concreto che offriva possibili miglioramenti rivoluzionari, rispetto al clima uniforme e venato di catastrofismo del nostro presente: “eterno presente” proprio perché è meglio che resti immobile, dato che un minimo spostamento potrebbe far precipitare tutto nel caos. Opporre quindi la “cultura alta” alla “cultura pop” in quanto tali è una operazione a-storica.
      L’altro argomento inquietante, invece, è proprio la sostanza della cultura pop. Basta aprire la tv e guardare la immane e continua violenza che serial e film americani ci propinano. La disperazione è il contraltare non nominato di tale esplicito nutrimento di violenza.
      La questione sarebbe, secondo me, di riuscire a focalizzare una cultura pop positiva, energia che affronta il nostro, collettivo, futuro.
      E forse quella cultura alta di cui è intrisa la cultura europea e italiana è propriamente la pretesa di continuità di un ceto borghese intellettuale che spera (da storicista qual è la loro formazione) di mantenersi a galla sopra le tempeste, forse perfino definitive del presente.

      1. Mi piace l’ “apparentemente” 🙂

        ” Opporre quindi la “cultura alta” alla “cultura pop” in quanto tali è una operazione a-storica.” (C.F.)
        Perché? Proprio nell’Occidente postbellico cultura pop (USA e più in generale mondo anglosassone) e cultura “alta” (Europa continentale) sono presenti contemporaneamente anche se si compenetrano proprio poco, come l’olio sull’acqua. Adorno, da gran borghese europeo, è schifato dalla cultura americana; e immagino che un sacco di americani, se lo leggessero, sarebbero schifati da Adorno.

        Che “la immane e continua violenza che serial e film americani ci propinano” sia la “sostanza della cultura pop” non direi.
        Altrimenti, guardando un qualsiasi notiziario italiano, dovremmo dire che l’Italia è totalmente permeata dalla cultura pop, ma questo non è il caso.

        Sulla disperazione, le sue cause, e gli eventuali antidoti coltivati in serra, immagino che il discorso sia complesso.

        1. “a-storica” perché paragona le culture di due epoche incommensurabili tra loro: il dualismo 900esco e il monismo non ancora rotto da un possibile multipolarismo oggi.
          Quanto alla violenza basso continuo della produzione massmediatica, e alla disperazione individuale come ombra di quella, da televisionaria quale sono non ho dubbi. Del resto una breve rassegna dei fuori di cotenna che prendono il fucile e ammazzano alla caxxo di cane quelli che trovano, qualcosa ci dice, degli Usa.

          1. “”a-storica” perché paragona le culture di due epoche incommensurabili tra loro: il dualismo 900esco e il monismo non ancora rotto da un possibile multipolarismo oggi.”

            Continuo a non capire: la cultura pop esiste all’epoca del dualismo 900esco in America, viene già all’epoca imperfettamente esportata in Europa dove comunque non diventa mai veramente competitiva rispetto alla Cultura “alta”, che un manipolo di ben intenzionati intellettuali che vogliono fare la rivoluzione cerca di “facilitare” per il popolo. E’ tutto compresente e coesistente, oggi come allora. Oggi in Europa (Italia) la cultura “alta” si abbassa, ma abbassandosi dall’alto non è cultura pop bensì una schifezza. O una copiatura di modelli americani.
            Io non paragono le culture di due epoche incommensurabili, io cerco di individuare le differenze di due concezioni diverse di cultura (una delle quali ha probabilmente fatto il suo tempo).
            Io metto semplicemente uno di fianco all’altra Lamento di Portnoy (Philip Roth,1969) e Perturbamento (Thomas Bernhard,1967). E cerco di cogliere delle differenze culturali.

  14. In risposta a Elena Grammann (@Ennio Abate, Appunto 3)

    1.
    Antipatia per chi fa “solo letteratura”. Per me – lo sai – non esiste chi fa “solo letteratura”, vedendola io connessa a tutta la totalità sociale. Lo specialista che pretende di fare “solo letteratura” semplicemente occulta l’influenza dei fattori “extraletterari” nella sua attività. Dovrei portare esempi e analizzarli accuratamente, ma non è questa la sede. E, comunque, se l’antipatia non stravolge il giudizio su una persona o una cosa, che c’è di male?

    2. Letteratura e marxismo. Continente sepolto e dai più dato per morto. D’accordo, dopo tante “crisi del marxismo” ci sono riusciti. Uno, però, che quel continente un po’ l’ha frequentato e non condivide la sua liquidazione, avrà pure il diritto di respingere lo stereotipo, secondo il quale per qualsiasi marxista «il primum [sarebbero in maniera dogmatica o deterministica] i rapporti di produzione» o sarebbe «chiaro che la letteratura è [solo] un derivato» (magari tossico)? Nella schiera dei dannati vanno benissimo i troppi Zdanov, ma perché metterci i Lukàcs, i Fortini, i Cases?
    Aggiungo che questo stereotipo è di vecchia data ed era stato già respinto da Engels, di cui proprio in questi giorni ho letto in un articolo di Alessandro Visalli. [1]

    3. Politecnico. «Non è che stai mitizzando l’esperienza del Politecnico? Davvero lo leggevano gli operai? E quanti operai lo leggevano? Abbiamo dei numeri? delle statistiche? Non è che delle volte è stata la generosa e nobile iniziativa che però è morta lì perché non aveva fatto bene i conti col bacino di utenza? Perché se avesse incontrato un vero bisogno e una risposta sarebbe durata di più, non ti pare?».

    Non credo di mitizzare. Non ho però sottomano i dati che richiedi. Da vecchi studi penso di poter escludere che la rivista non avesse avuto un momento di vera popolarità. Il PCI di Togliatti, che «stava passando ad una fase di consolidamento delle proprie attività, assumendo gran parte dei compiti che nell’Italia prefascista erano stati del Partito socialista; e, fra questi, compiti di vera e propria divulgazione culturale» (Fortini), non potendo farne un «portavoce di comodo del Partito comunista», lasciò naufragare il progetto della costituzione dei Gruppi di amici del «Politecnico»; e stroncò la prosecuzione della rivista. Su Il Politecnico però esiste un’abbondante produzione storiografica ed a quella rimanderei.

    4.
    Missionari. Picchetti. Azione politica. Concedo che a te non piacciano missionari e picchetti, ma la politica ha le sue regole. È un’attività umana dove c’è una continua complessa interazione di gruppi (élite) e masse (di elettori, di manifestanti, ecc.). In questo campo “geni della spontaneità” (Rousseau, Bakunin, mettiamoci anche Lotta Continua negli anni ’70) hanno dovuto sempre fare i conti con i “geni dell’organizzazione” (Marx, Lenin, Mao, ecc.). La quadratura del cerchio fra le due spinte (del dionisiaco o dell’apollineo) quasi mai riesce; e abbiamo sia i danni fatti dai primi che dai secondi. Ma anche i meriti.
    Leggere queste dinamiche soltanto nei termini del « convincere gli altri che, poverini, non hanno capito niente» o presentare gli intellettuali de Il Politecnico come gente « di buona volontà che con spirito missionario omogeneizzano la sublime cultura per stomaci proletari» è troppo caricaturale e riduttivo.
    La «gente che si fa da sé la propria pop-cultura» è cosa rara. E comunque anche per costoro non è facile evitare i mille trabocchetti e le manipolazioni dell’”industria culturale”. Spassionatamente io «l’omogeneizzato» quello fornito da Il Politecnico lo trovo preferibile agli omogeneizzati venuti dopo e a quelli odierni. Perché per me esiste una differenza sostanziale tra le serie televisive, che piacciono indubbiamente e sono ben fatte e mobilitano immaginari che non sono più miei ma sono però subordinate agli interessi del mercato e gli “omogeneizzati” che Il Politecnico tentò di dare ai lettori operai, impiegati, etc. del dopoguerra in vista o con la pretesa di una trasformazione socialista/comunista e non solo culturale.
    Esiste, cioè, una differenza tra la democratizzazione commercializzata (per vendere cultura) e la democratizzazione che mirava a far saltare un sistema sociale e culturale capitalista e a sostituirne uno socialista. Il fallimento del tentativo pone problemi a chiunque volesse riprenderlo, ma la differenza non va cancellata.

    Nota [1]
    Visalli: Una cosa, e condivisibile, è non avere una rappresentazione rozza e schematica di “struttura” e “sovrastruttura”, cadendo nelle forme più metafisiche di economicismo e di determinismo storicista[20], un’altra, del tutto diversa, dissolvere ogni rilevanza alla materialità dell’esistenza e dei rapporti sociali che istituisce. Ancora, una cosa è ricondurre tutto alle forze produttive ed ai rapporti di produzione, disconoscendo l’importanza della decisione, della politica come apertura al possibile[21], altro far della decisione politica l’ontologia del sociale nella sua attività.

    Riporto anche la nota illuminante [20]:

    Nelle quali non caddero neppure i ‘fondatori’. Ad esempio, Engels, in una lettera a Bloch nel 1890, spiegava: “secondo la concezione materialistica della storia la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante. Di più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno distorce quell’affermazione in modo che il momento economico risulti essere l’unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta insignificante, astratta e assurda. La situazione economica è la base, ma i diversi momenti della sovrastruttura – le forme politiche della lotta di classe e i risultati di questa – costituzioni stabilite dalla classe vittoriosa dopo una battaglia vinta, ecc. – le forme giuridiche, anzi persino i riflessi di tutte queste lotte reali nel cervello di coloro che vi prendono parte, le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le visioni religiose ed il loro successivo sviluppo in sistemi dogmatici, esercitano altresì la loro influenza sul decorso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano in modo preponderante la forma. È un’azione reciproca tutti questi momenti, in cui alla fine il movimento economico si impone come fattore necessario attraverso un’enorme quantità di fatti casuali (cioè di cose e di eventi il cui interno nesso è così vago e così poco dimostrabile che noi possiamo fare come se non ci fosse e trascurarlo). In caso contrario, applicare la teoria a un qualsiasi periodo storico sarebbe certo più facile che risolvere una semplice equazione di primo grado”.

    (http://tempofertile.blogspot.com/2020/07/la-direzione-dello-sguardo.html?q=LA+GRASSA)

    1. 1. “Per me – lo sai – non esiste chi fa “solo letteratura”, vedendola io connessa a tutta la totalità sociale. Lo specialista che pretende di fare “solo letteratura” semplicemente occulta l’influenza dei fattori “extraletterari” nella sua attività.” (E.A.)

      Ma cosa vuol dire i “fattori extraletterari”?!! Come se uno scrittore si mettesse lì a occuparsi solo di fattori “intraletterari” e a occultare intenzionalmente gli altri, ma che cavolo vuol dire?
      Tu confondi i piani: da una parte c’è la produzione: c’è lo scrittore che non si occupa direttamente e specificamente di critica sociale – e di questi ce n’è, altro che “non esistono”; dall’altra c’è il critico, o il lettore, o l’interprete, o quello che ti pare, che riconosce o crede di riconoscere in quello che legge delle chiavi per capire il presente nella sua complessità, ovviamente “extraletteraria”, per usare un tuo termine. E questo, se e quando è fatto bene, va molto bene, è quello che deve fare il critico. Ma non è il compito dello scrittore, e non si può nemmeno dire che lo scrittore che se lo pone come espresso compito sia lo scrittore migliore, anzi.

      2. Marxismo e letteratura. Alla mia frase fai un sacco di aggiunte in parentesi quadre e tonde. Ma sono aggiunte tue. Mi sono presa la briga di andare a pescare un breve saggio di Lukacs sul Werther, del ’36, ripubblicato in Goethe e il suo tempo (1947), l’unico che avevo a portata di mano. E’ un saggio di 25 pagine. Nelle prime 6 – una specie di introduzione – ho contato 18 volte la parola ‘borghese/borghesia’ e 10 volte la parola ‘reazionario’ – e sicuramente me ne sono sfuggite. Poi ho smesso di contare. Tutto ciò che è in contrasto con la sua tesi viene definito da Lukacs “sociologia triviale”, ovviamente reazionaria. Nei confronti dei “reazionari” si respira un odio raro, e mettiamolo pure in conto dell’epoca, però. Quando Lukacs viene a trattare più precisamente del Werther, compare il concetto di ‘rispecchiamento, rispecchiare’ (Wiederspiegelung, Spiegelung, wiederspiegeln), nel senso che i fatti e i processi culturali rispecchiano le situazioni e i processi storico-sociali. Nella fattispecie, benché il Werther e in generale lo Sturm und Drang sia un fenomeno che compare nell’arretrata e ancora feudale Germania, alla base del romanzo di Goethe c’è l’intuizione che “la divisione capitalistica del lavoro, sulla cui base soltanto è possibile quello sviluppo delle forze produttive che costituiscono la base materiale della personalità liberata [entfaltet – lett. sviluppata, dispiegata, realizzata], nello stesso tempo soggioga l’uomo, disgrega la sua personalità in uno specialismo privo di vita ecc.”.
      Dopodiché: il saggio è un buon saggio marxista, e questo è in effetti quello che abbiamo imparato da Lukacs: che i fenomeni culturali sono un rispecchiamento dei fatti storico-socio-economici. E nel rispecchiamento, il primum non è l’immagine rispecchiata, ma il fenomeno che si rispecchia (si vede che nemmeno Lukacs aveva letto attentamente Engels). Se poi tu invece mi dici che Cristo è morto di freddo, va bene, ci credo.

      4.
      -“la politica ha le sue regole”. Appunto. Non confondiamo etica e politica.

      – in generale, credo che io e te usiamo i termini ‘cultura’ e ‘democratizzazione’ in senso diverso, e questo porta a discorsi paralleli che non si toccano. Ad esempio: “La «gente che si fa da sé la propria pop-cultura» è cosa rara” (E.A.) Per me la cultura americana è un esempio di cultura popolare.
      .
      – “Spassionatamente io «l’omogeneizzato» quello fornito da Il Politecnico lo trovo preferibile agli omogeneizzati venuti dopo e a quelli odierni.” (E.A.) Hai usato il verbo giusto: “preferisco”.

      P.S.: ho visto che hai pubblicato un altro stralcio. Non riesco a starci dietro. Ti ho già espresso diverse volte la mia perplessità sugli stralci, non la ripeterò qua, né ripeterò l’errore di pensare che siano rivolti a me in particolare. Sicuramente interesseranno altri lettori.

      1. @ Elena Grammann
        In risposta al punto 1.

        Benissimo, i nostri possono anche restare «discorsi paralleli che non si toccano». Saranno i lettori a spostarsi dall’uno all’altro e a valutare dissonanze o sintonie.
        Stiamo toccando problemi che andrebbero ripresi con calma e in profondità e forse intendendoci meglio sui termini usati. Tuttavia, potendo per ora solo fare degli accenni, vorrei chiarire a chi fosse interessato alle questioni che per «fattori extraletterari» intendo le dimensioni (economiche, politiche , ideologiche, filosofiche, ecc.) che preesistono o coesistono con l’attività letteraria di uno scrittore e l’influenzano più o meno marcatamente; e , però, non sono del tutto presenti alla sua coscienza o possono anche essere – appunto – occultati per varie ragioni.
        Faccio il primo esempio che mi viene in mente: nella novella Libertà di Verga alcuni critici avevano sottolineato l’enfasi particolare con cui Verga aveva parlato della violenza animalesca dei contadini in rivolta contro i proprietari terrieri. Perché?
        Una traccia della discussione l’ho trovata qui:

        «Ma veniamo a Libertà, una novella pubblicata nel 1882. Come è noto Verga nella sua novella racconta un ‘fatto vero’: una violenta rivolta avvenuta a Bronte a seguito della liberazione della Sicilia da parte dei garibaldini. Anche se certamente lo scrittore si è ispirato a quei fatti è altrettanto certo che li ha ‘mistificati’. Il primo a notarlo è stato Sciascia che ha rilevato le molte omissioni di cui sarebbe stato colpevole Verga, e le ha giudicate come una “una mistificazione risorgimentale cui il Verga, monarchico e crispino, si sentiva tenuto” (Sciascia 1970, 82). Giancarlo Mazzacurati a sua volta ha definito il racconto una “aperta difesa di classe” (Mazzacurati 1974, 197). Senza entrare nei dettagli diremo che la mistificazione consiste nell’averci mostrato la rivolta popolare come una brutale eruzione di “violenza cieca e animalesca” nelle parole di Asor Rosa (1966, 55). Insomma Verga avrebbe scritto mettendosi tutto e solo dalla parte di quelli che nel romanzo sono chiamati cappelli o anche galantuomini, come suggerisce lo storico Mario Isnenghi allorché parla di “un fatto vero elaborato come sintomatico dalla fantasia agghiacciata del galantuomo che scrive interpretando e rilanciando le paure di altri galantuomini” (Isnenghi 2011, 96).»

        (Sulle critiche ideologiche a Libertà e sui loro limiti https://www.lettereaperte.net/ausgaben/ausgabe-1-2014/liberta-di-verga-ovvero-come-il-testo-rovescia-lideologia-dellautore?page=2)

        Quello che dico non mi pare poi troppo lontano da quanto ha scritto Elena [Grammann], con con accenti diversi, in un successivo commento:

        «Ho detto che uno scrittore può benissimo scrivere senza avere in cima ai suoi pensieri e come scopo del suo scrivere le dinamiche storiche e sociali con relativi conflitti (ma pensando invece, per dire, alla metafisica delle cose, alla struttura del proprio io, alle relazioni col prossimo più stretto e concreto, al senso della natura ecc.), e che quanto del circostante presente confluirà comunque, intenzionalmente o no, nella sua opera, e attraverso questa opera sarà interpretato e chiarito – questo è compito del lettore/critico estrapolarlo..…»

        P.s.
        Il discorso – ripeto – andrebbe approfondito. Se potessi, ripercorrerei almeno alcuni saggi di Francesco Orlando sul “ritorno del represso” in letteratura e quelli di Tommaso Giartosio usciti nel 2012 su LPLC “ARIA DI BRAVERÌA. APPUNTI QUEER SUI PROMESSI SPOSI /1, 2”

      2. @ Elena Grammann
        In risposta al punto 2: marxismo e letteratura

        Qui le nostre parallele divergono di brutto: io ho parlato di marxismo come «continente sepolto e dai più dato per morto» e tu mi vai a pescare il relitto che più di tanti altri forse ribadisce gli stereotipi che io cerco di contrastare. Sì, forse «nemmeno Lukacs aveva letto attentamente Engels» ( da me ripescato e riproposto), ma io ho parlato anche di Fortini e di Cases. E di quest’ultimo già nella polemica con Borso avevo citato un’intervista in cui qualcosa di meno frettoloso e liquidatorio su Lukacs veniva fuori: http://www.germanistica.net/2013/06/10/intervista-a-cesare-cases/

        P.s.
        Suggerimento ai lettori che volessero approfondire criticamente la figura di quel pensatore:

        György Lukács ~ il primo blog in progress dedicato a Lukács
        https://gyorgylukacs.wordpress.com/?fbclid=IwAR08lu4nSqPb_pPGUvqQTnwUr09L_-75LqTwJOkY6uTD0dnxTdwQ0CQp0tc

  15. APPUNTO 5/ DEMOCRATIZZAZIONE ETC.

    Della miseria simbolica. Stiegler e la digitalizzazione del mondo
    FEDERICO FERRARI
    26/11/2021
    https://antinomie.it/index.php/2021/11/26/della-miseria-simbolica-stiegler-e-la-digitalizzazione-del-mondo/

    Stralcio:

    per coloro che hanno avuto la fortuna di studiare a lungo l’opera di Walter Benjamin, sembra anche di trovarsi di fronte a un déjà vu, ovviamente traslato nel tempo. L’analisi del lento ma progressivo slittamento di un processo di liberazione, in seguito a un’innovazione tecnologica, verso un processo di controllo, dovuto al dominio di quella stessa innovazione da parte delle grandi imprese capitaliste, ripercorre, con grandi somiglianze, la traiettoria della speranza messianica benjaminiana incarnata dalle potenzialità dei mezzi di riproduzione tecnica dell’opera d’arte (nel suo caso, fotografia e cinema) nella prospettiva di una democratizzazione della cultura, sullo sfondo di una trasformazione politica della società. Benjamin riteneva, negli anni Trenta, che il cinema potesse portare le masse a incontrare il mondo dell’arte, liberando l’estetica da una dimensione puramente decorativa e apologetica del potere (l’estetizzazione della politica, messa in atto dai regimi totalitari) per condurla verso un’inedita dimensione politica (la politicizzazione dell’arte).

    Quando Stiegler, settanta anni dopo, e dopo la lezione di Deleuze e Derrida, di Simondon e Debord, di Foucault e Baudrillard, aprendo La miseria simbolica, ci invita a pensare al fatto ineludibile che la questione estetica sia oggi una questione essenzialmente politica, non per le banalità sociologiche da artista impegnato alla Ai Weiwei, ma proprio perché l’epoca iperindustriale di digitalizzazione del mondo ha ridotto l’intero esistente a immagine; ecco, Stiegler, sintetizzando e portando ai suoi esiti finali quasi cento anni di pensiero critico sul fenomeno di vertiginosa evoluzione tecno-industrial-virtuale delle nostre società, persiste nel rivendicare l’esigenza di un ripensamento radicale dell’estetico che permetta di far apparire una nuova possibilità di appropriazione della crescente trasfigurazione del mondo in immagine o, detto con terminologia più attuale, della sua digitalizzazione. Il mondo-immagine, che già Heidegger aveva indicato come l’esito dell’epoca della tecnica, diviene ora, per noi, un mondo digitalizzato e perennemente a portata di sguardo: un metamondo, come ben ha intuito uno dei più perspicaci tra suoi ideatori, Mark Elliot Zuckerberg.

  16. Stralcino:

    Nel 1958 [Feyerabend] si trasferisce all’Università di Berkeley: “l’America fu il primo paese a darmi una qualche idea di ciò che più essere una cultura”, scrive nell’autobiografia. Solo che per cultura americana Feyerabend non intende quella filosofica dei William James (1842-1910) o dei John Dewey (1859-1952), “ma Hollywood, il vaudeville, i musical, il wrestling […], insomma, l’industria dello spettacolo e altra robaccia dozzinale”.

    (Da: C. Sinigaglia (curatore) , Filosofia della scienza, Raffaello Cortina Editore 2002)

    1. Se la cultura per Feyerabend è “Hollywood, il vaudeville, i musical, il wrestling…” allora capirai che la compresenza e la coesistenza non significano proprio niente. I capitali investiti, quelli facevano la differenza!
      Del resto la nostra cultura popolare si è ben affermata nel realismo cinematografico dopo la IIGM!
      Non condivido la tua posizione sullo scrittore (o la cultura pop) come *enti* autosufficienti e autoriferiti, mentre starà al critico “riconoscere in quello che legge delle chiavi per capire il presente nella sua complessità”. Manzoni scrive della peste del ’48 perché vive nel Risorgimento, e Ph. Roth scrive da ebreo in una America inflazionata dalla psicanalisi. Come “comprendere” Orazio senza il suo rapporto con Augusto? E Platone senza i probabili viaggi a Siracusa? Senza questi legami con il loro tempo e e il loro ambiente, la loro opera stessa si appiattisce, diventa un gioco di superficie, un incastro di forme.

      1. Non ho mai detto che uno scrittore o una cultura sia un ente autosufficiente e autoriferito, sospeso nel nulla e senza legami con niente. Questa sarebbe un’idiozia. Ho detto che uno scrittore può benissimo scrivere senza avere in cima ai suoi pensieri e come scopo del suo scrivere le dinamiche storiche e sociali con relativi conflitti (ma pensando invece, per dire, alla metafisica delle cose, alla struttura del proprio io, alle relazioni col prossimo più stretto e concreto, al senso della natura ecc.), e che quanto del circostante presente confluirà comunque, intenzionalmente o no, nella sua opera, e attraverso questa opera sarà interpretato e chiarito – questo è compito del lettore/critico estrapolarlo.

        Idem, non ho detto che la compresenza e la coesistenza significhino qualcosa, ho detto semplicemente che due idee e forme di cultura molto diverse sono compresenti in Occidente nello stesso periodo. Quanto ai capitali investiti, mi sembra azzardato dire che i capitali investiti hanno creato la cultura popolare americana, al limite mi sembra più vero il contrario.
        La nostra cultura popolare: si sarà pure affermata nel neorealismo (se lo dici tu), ma l’affermazione è stata di breve durata (veramente effimera) ed è rimasta senza futuro, mentre la cultura popolare americana almeno un presente ce l’ha ancora.

        Comunque, quello che emerge da questo thread (chissà perché lo chiamiamo thread e non filo), è che su quello che scrivo e che penso siete molto critici. Col vostro permesso, prendo atto e passo oltre.

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