Dove finì il grande cammino di Wallia

di Claudia Azzola

 

Il sentiero rupestre dell’Italia

     Wallia era uno spirito forte. Ma, oppresso da un rituale di volti, all’occasione maligni, o indistinti, nello sconvolgimento del suo presente, si sentì vinto. Wallia era, va detto, dentro un presente basso, l’abbassamento dell’uomo di lettere ai ceppi della servitù del latifondo. Da settimane, era un uomo in fuga. Trascinava passi malfermi e passi falsi nel ronzio delle vespe, nello  scricchiolare di foglie ventilate e foglie secche.
Procedeva a strappi, scendendo e risalendo, nel sentiero rupestre, strappando arbusti e bacche, e  anche manciate di terra, per sfamarsi, quando non gli riusciva di uccidere un coniglio selvatico, un tasso, e a volte, una volpe. E scappando dalla presa dei tiranni che sapeva gli avevano gettato addosso gli sbirri, era assillato da echi di clamori guerreschi e dalle ombre che si agitavano in lui, le ombre vaganti nei campi di Tagina, dove era stato, nella luce d’alba, testimone del tempo sospeso che precede la battaglia. Giovane, prestante, il re dei Goti, il cavaliere, trionfava, e forse si librava sul suo cavallo, in giochi di prestigio e scherzi, confidando nella imminente vittoria, osservato dai due eserciti schierati.
La grande energia del giovane Totila, avanti la battaglia.
Si registra presso gli storici l’anno 552.
Momenti che segnarono il culmine e la caduta della vita di Wallia. Le battaglie del popolo degli Ostrogoti gli erano piombate in petto, con il loro clamore, nel dormiveglia: le contorsioni di quelli che cadevano trafitti, i gridi, il cozzare dei ferri. Ma v’era un prima, quando i suoi si erano battuti ai Campi Catalaunici, e là fu abbattuto Attila, là fu la vittoria di Teodorico, là fu rapito egli stesso dagli sgherri del feudatario.
Molti tra gli Unni se li erano portati dietro i Germani, confluendo alla battaglia presso Asti, dove il sangue era stato una fiumara, e la terra del vino ne sarebbe stata impregnata per secoli a venire. Cronista, letterato, non un milite, a Tagina,  Wallia avrebbe seguito scrivendo gli annali, ma dovette nascondersi e subito si era ritrovato uomo braccato come un cagnaccio ma non sottomesso, dalle guardie del padrone.
Non avendo, quindi, Wallia più incontrato anima viva, non possedeva echi di notizie del campo di Tagina. Non avendo più tenuto in mano tavolette incise, di quelle che su un lato recavano le gesta degli eroi (che ne era stato dei   Goti e dei Bizantini dopo lo scontro immane? chi c’era nel mondo e chi aveva affrontato lo sguardo della Gorgone?), sull’altro lato, storie atte a divertire le donne, i fanciulli e i famuli, con narrazione di gesta minime e domestiche.
“Chi è stato abbattuto? chi fatto prigioniero? chi è ancora in cammino sulla mappa terrestre circondata dai mari? La battaglia in terra umbra sarà stata feroce” pensava il Goto in fuga. “Quanto tempo sarà durata? Totila avrà stretto i Bizantini in una morsa, e dal caos sarà uscito vincitore.”  Spiriti dell’aria gli venivano in emanazione dall’aldilà dei cristiani, dal fondo dell’Ade degli antichi. Si accucciò nel sottobosco, in una cunetta che poteva rivelarsi una trappola per le bestie.
“Forse diventerò pazzo. In fondo, sono stato un disertore.”
Allora gridò per sentire la propria voce.
Sin da quando lontani popoli migravano dai regni delle steppe non si era costretti a mangiare radici di olmo o di ontano, bacche strappate ai rovi, ultimo nutrimento del corpo, nella separazione nestoriana tra natura divina e natura umana del Salvatore, tra corpo e spirito.
Natura umana provata da un inferno incomprensibile era tutto ciò che riviveva, ogni volta, sotto la volta del fogliame, al risveglio. Si alzò, malfermo, febbricitante, liberandosi da un frullo di ali, che presto si congelavano nello spazio d’aria.
Camminava, quindi, sull’orlo di un intrico viscido: erano serpentelli d’acqua, in una gradazione di verdi liquidi. Le bisce – ma gli sembra di scorgere anche la vipera a testa triangolare – si aggrovigliano lucide lisciando di pancia il muschio umido, facendo viluppo.
In sé, confusamente ritrovava gli occhi del padre, poi, orbite vuote, e ritornava l’effigie sulle  monete dove Totila era rappresentato col volto rasato, all’uso romano. Si rincuora parlando tra sé, a mezza voce.
“Padre, chiamato, urlato, padre di figli e figlie, di un figlio voluto, adottato nel diritto romano. Fui dichiarato erede di un podere e di un campo: è il mio campo!  Un furto! l’hanno messo a maggese, poi messo a coltivazione. Lo stesso buon lavoro che avrei portato io, sulla mia terra.”
La voce gli ritornava indietro, dagli altissimi fusti, testimoni vivi della sua fatica di essere ancora vivo. Come viva è la quercia sull’abisso, la foresta ferita nel suo intimo dalla corsa bruciante del fuggitivo, dalle piante dei piedi nelle chiazze di fango, le cortecce scorticate come la sua pelle, più vecchie delle rocce, delle eclissi e dei solstizi. Al presente, l’eclissi del suo organismo e di sé..
La foresta non è caos. E’ una fucina della risonanza, della qualità, di affinità alla silente pace,  una struttura vasta e profonda che reca in sé i semi della sua continuità.  Le foglie lanceolate, il tasso barbasso, il rovo sono affini a un pensiero, nel loro vilucchio. Wallia si sforza di aiutarsi: l’acqua non deve essere lontana, e certo si è formato da qualche parte un rio fresco nutrito di piogge  che hanno da poco stillato.
Dove origina l’infinito sentiero dell’Italia che attraversa la foresta? Dove porta il cammino di Wallia? Chi si getta alla fuga non conta i passi. Tiene in conto di salvarsi. Wallia è uno spirito forte. Wallia non combattente, è scrivano, un chierico che si è trovato sul luogo fondamentale da  registrare negli annali.
“Dormo sulla terra, mi lavo di acqua piovana, prendo pezzi di ghiaccio con le mani a conca, mangio come le bestie carne o vegetali che mi si strozzano in gola. L’uomo vuole un giaciglio, un ricetto al divino di sé. Gli abiti si sono strappati all’altezza delle spalle, per l’impigliarsi nei rami bassi, pungono i rovi del sottobosco, le mani graffiate, con le vesciche nel palmo, la pelle della faccia tirata e secca e spaccata. Finirò al pari dell’insetto schiacciato a terra.”
“Non mi sono sottomesso al mundio del nuovo signore, pur se mi garantiva protezione, nutrimento e vesti in cambio…mi garantiva la sua benevolenza. Non sono nato per il lavoro servile, all’aratro e alla stalla…ho lasciato la mia gente per lo studio.”

L’urlo di Wallia

      E finalmente l’urlo di Wallia squarcia il grande corpo terrestre vivente. C’è chi lo può  sentire,  nell’esistente? Corvi e bestie striscianti, civette nelle fenditure degli alberi, non i rapaci, cui l’intrico dei rami selvaggi oppone materia lignea al volo.
Wallia urla per ascoltarsi la voce di un vivo.
L’urlo di Wallia ha risvegliato tutte le facoltà dell’uomo.
“E’ unirsi alla linfa che sforza i tronchi.”
E d’improvviso, ride, Wallia. Ride perché finisce la foresta.
“Sono diventato un pezzo di foresta. La mia testa impazzisce.”
Finisce la protezione della tana. Illividito da paura novella, dallo spazio aperto, dalla imminente presenza degli uomini, capaci di farti scontare il solo fatto di esistere, Wallia, spoglio degli orpelli, è un corpo nudo che si può ferire.
Chi ha molto camminato, ha molta sete.
Si butta a bere, cervo, lupo, rospo di terra, e nell’elemento liquido, se lo fa scorrere sulle spalle e sulla nuca, mentre l’udito coglie l’assoluto di ogni minimo movimento di animali, volo basso,  fino all’ululo dell’upupa, al tutuu del cuculo, e cerca e teme la voce umana. Calma scende nella gola, nei sensi, nella schiena magra e arcuata.  La polla si rivela scaturigine di un torrentello diffluente tra rami bassi, fino a un niente; dunque, non è acqua ferma.
Il fluire del rio lo avrebbe guidato a un punto, un punto di libertà o di cattività.  Sarebbe forse caduto nell’agguato delle guardie, per essere trascinato davanti al praefectus praetorio, e la sua corta libertà sarebbe stata stroncata come le imprese effimere, e sarebbe entrato in una fluttuante semi libertà, o nella morte.
Sua madre aveva venerato Benedetto da Norcia, suo padre lo aveva consegnato, da fanciullo, al maestro che si era seduto con lui sul sasso, nel frutteto, nel Vivarium, unendo con lui lo sguardo sul golfo di Squillace calabra. Miei maestri, Cassiodoro, Benedetto, avete mai pensato alla paura che ci fa serpi, nutrie, mosche, quando ci nutrivate del cibo filosofico? Paura di essere trafitto, essere trascinato nella polvere, infine abbattuto. Avete previsto la mia vita bruciata, dello schiavo?
La febbre lo riprese.
Si lasciò andare, si allegò alla terra per connaturalità. Si addormentò per l’estrema stanchezza, pastoia di ogni vitale movimento. Lasciò che tutto accadesse, e si lasciò accadere.
Il sogno gli mostrò una pergamena tinta di rosso porpora con le lettere visigotiche in argento e oro, dalla quale promanava una forza liberatrice, dal composto organico, nella bollitura, nell’ardere fatta sostanza, con minima dispersione di elementi. Ma il giovane si svegliò d’improvviso: è che un tremore alle membra lo possedeva.
Amici, maestri, conosco la paura.
I Goti, noi, siamo nobile stirpe. Totila, entrando in Roma vincitore, aveva comandato di risparmiare Rusticiana, la vedova di Boezio.
“Siamo usciti dalla barbarie, abbiamo tra noi individui nobili di figura e d’intelletto. Attendo di sapere Totila uscito vincitore dalla mischia di Tagina…l’evento che accenderà la civiltà dell’Italia.”
(Giordane, ne la Storia dei Goti, in parte tratta da Cassiodoro, dà notizia di una fioritura intellettuale. “Viveva tra loro Zalmoxes, che era un uomo straordinariamente saggio e istruito. E già prima di lui ci furono due eminenti filosofi, Zeuta e Dicineo.”)

 Dove finirà il mio cammino?

       Marciò fino a dove gli ultimi alberi si sfinivano in sottobosco spinoso, e lì si aprivano spiragli di luminosità. Presto avrebbe affrontato i suoi simili, chini sulla terra a zappare, o a tirare i buoi nella stalla, o guardie….
Un sentierino arrancava alla sua mano manca, appoggiato in una sfaldatura delle rocce, un tratto di umido dove bagnato chiamava bagnato. Un tracciato di sassi levigati dal transito di uomini e di mandrie, un’unica selvatichezza. Pioggia stava su ancora per poco a gonfiare le nuvole.    Erano lì per riaprirsi gli otri del cielo, squarciati da frecce di ghiaccio.
Prese per la via che lo avrebbe portato a focolari, a una mensa che poteva pagare, a un fienile dove trovare sollievo dal freddo, dalle fiere, e dalle deboli menti degli armigeri, servi del dominus.
Poteva pagare. Si avvolse nel mantello che gli faceva anche da coperta, e toccava intanto la scarsella delle monete legata al fianco, si rassicurava afferrando il coltello che pendeva dal legaccio in vita. La piazza d’armi, la bottega dove si lavorava il ferro non avevano tecnica per costruire l’aratro, che era di legno e non bastante a rivoltare le zolle per una semina giusta. Ma il coltello, la lama, il pugnale, sempre uscivano lucidi dalle botteghe.      Dispersione dei semi. Fatica vana del colono.  Ventre amaro del colono. Figliolanza malnutrita del colono. Ma l’arma mai inganna, rafforza il sangue. E braccia al servizio di un signore della terra, braccia e gambe movimentate da un comando.
Si teneva i fianchi come a tenere insieme le membra per l’ultimo passaggio. Si teneva vivo per esultare, in un’ora non lontana, dell’avvenuta vittoria di Totila.
Dove concluderò i miei passi? Che il cielo mi aiuti!
Infilatosi nel viottolo, di traverso, scorreva parallelamente all’abbeveratoio delle mandrie.  Era una pozza molto primitiva, scavata in basso, e cinta da un muretto a sassi, ma sotto si scorgeva un aggregato di cristalli arborescenti, resistenti al grumo di fango. Ci gettò un’occhiata: sì, l’acqua era un residuale in putrefazione di organismi terrestri.
“Teste vuote, rude immaginazione barbarica, intelletti grossi.” Pensando ai suoi inseguitori.
Ma barbaro era pure lui, nella dizione dell’impero romano. Barbaro romanizzato, nel diritto.  Non aveva conosciuto la fame. Ma che vita oltraggiata!
Bisognava attendere e, con sensi pronti, agire.
Vedeva, adesso, quello che si era prefigurato: pianura bruciata e distruzione, larghi possedimenti lavorati con aratri non efficaci, ovunque graniglia e fango depositati tra i solchi, impedimento allo slancio della spiga, alla maturazione di una messe vigorosa, e le basiliche conservate per novecento anni, per tacito accordo tra greci e romani, come quella di Artemide, distrutte dalle guerre e dalle pestilenze.
Fumo usciva dai comignoli. Forse dentro le casacce stavano persone, come quelle che stanno immobili nella chiesa per venerazione dei fedeli, nel dies domini.
Il tempo era il tempo della consumazione delle tracce dell’Impero Romano.  Non poteva essere che il grande impero fosse crollato così, come un muro vecchio, non sostenuto da buon materiale e dalla fatica di tanti che lo hanno progettato ed edificato. Forse Roma, intanto, era stata ripopolata.
Colui che ha vissuto da fuggiasco ignora gli eventi d’arme che hanno percosso la penisola e l’Europa, ignora l’esito dello scontro fatale dei Goti contro le armate al comando di Narsete. Era stato fuori dal regno dei vivi, nella folle fuga attraverso il tema arboreo dell’Italia.
La prima costruzione che si trovò davanti era una torre. Isolata, rorida di rampicanti bagnati, mostrava un’unica finestrella in alto, il cui vano era ingombrato da due masse scure immobili. Potevano essere due massi coperti di vello, massi capelluti, spugnosi, due teste di giganti che, viste di faccia, avevano un occhio ciclopico, cattivo, e testa di pazzia.
Le case, maltenute, erano allineate su un lato dello spiazzo, appoggiate alla collinetta, e lì era stata edificata una chiesa in pietra, quadrangolare, massiccia, col campanile a vela e un piccolo arco nello spessore del muro, fasciato dal rosso dell’astro che scendeva al tramonto, sfocato da fumi.  Segni premonitori.        “Coloro che sanno interpretare i segni di rado s’ingannano”.
‘Quello che vedo è un paesaggio innaturale, ma non procedo per teoremi. Devo stare desto, perché la mia vita non è libera.”
-Dice che la basilica è stesa a terra, non alzata verso il cielo, come era stata costruita.      Aveva parlato ad alta voce. Gli era uscita la voce, come di uno che è stato da solo e non ha dato né ricevuto parola da alcuno. Si sentiva un sopravvissuto, nella voce.
Ma una voce di donna.
Una giovinetta, sottile e pallida, che aveva una treccia attorno alla testa, densa come il pane, stava sul limitare di una porta.   Wallia si percepì corporalmente come una figura che poteva fare spavento. Non pensò a essere scoperto, denunciato. Sentiva acutamente la sua apparenza selvatica, i capelli lunghi, i peli lunghi biondicci cresciuti sulle guance.
La giovinetta non gridò.  Era ben calma come una statuina.
Restarono a lungo a guardarsi. Il silenzio del luogo mezzo campagnolo aveva dentro sonorità di insetti, di un transito di oche, e un verso naturale molto lontano, solo un verso che voleva entrare a fare parte della scena.  Si affrontarono senza parole quasi più per una transazione territoriale che personale.
Wallia colse per un momento una veduta del vano in alto, delle due masse pelose. Si erano spostate lateralmente, come mosse da forza d’automa. Ma prima delle visioni, prima di mangiare, era urgente avere notizie. Non era, questa, una campagna, ma erano le rovine e i detriti di una grande città. Più che vedere, lui annusava l’odore misto di erba macerie muschio umidità.
Gettò una voce alla giovane:
-Dove siamo? Che luogo è questo?
Lei non rispondeva. Appariva, o era, una che non sapeva nemmeno di esistere.  Lo guardava, e non esprimeva motto. Adesso Wallia capiva. Era la muta. E quella voce di donna, l’aveva voluta sentire, o era vaneggiamento della febbre?  Si sentì spegnere come un focherello, lui appena sceso dall’Appennino, per la mancanza di tramite di parola con il primo umano insieme a cui respirava.
Si avvicinò alla giovane, toccò i suoi capelli, sfiorò la bocca con la bocca, le prese le mani; lei lasciava fare, non mostrava la maledetta paura. Questo abbandono stese un velo come resina sul tronco di un albero. Anche la muta ora metteva le mani su Wallia.
Si guardarono con sguardo che prendeva qualcosa della bestia. Toccavano l’uno all’altra il collo, persino i denti, respirandosi l’un l’altro l’alito di vita; con mani forti lisciavano la schiena, i fianchi, il sesso. A tratti, Wallia pensava che forse sarebbe diventato insensibile.  Era il corpo ricetto del loro essere, che indagavano, si confermavano.  Sentivano di appartenere a uno spazio più vasto del magro presente conosciuto, uno spazio riempito da eventi enormi, brucianti. Wallia era forgiato in filosofia.  La muta…
Quella voce…era stata la voce udita da un camminatore nel sonno. Si abbracciarono, petto contro petto, gambe avvinghiate, nell’amplesso, nel centro della civiltà che era andata in rovina. Infine, si accasciarono, sfiniti non dal vuoto ma dal troppo pieno, e si addormentarono, lasciando libero accesso al lavoro sagace di Esculapio guaritore.
Delle erbe selvatiche che crescevano dovunque, la muta aveva raccolto un mazzetto, e colto anche delle ortiche, per cuocerle. La muta dimorava all’interno di uno spazio stantìo, ma chi vi dimora finisce con non sentire più gli odori, si abitua. L’uomo era incupito dal peso di speranze e di mortali delusioni. Ma era un suo sentire: Baduela era ormai il vincitore incoronato dalla romanità.
Non poteva ignorare che la miseria intorno era totale.  Si individuavano qua e là ombre sedentarie su scalini, dietro un muro a pietra con una panca, ed erano finiti gli alberi, attecchivano solo rovi, spine, muschio, e la legna spaccata con l’ascia e accatastata vicino a un muro, in fondo al lastricato, dimostrava chiaramente la fine degli alberi.
Sentiva una voce di oscuro significato e gli parve di udire queste parole:
–Bada a te, non curarti di lei, già allontanata dal mondo, la sua anima è già stata strappata.
Guardò la giovinetta con occhi di chi guarda il suo oggetto di pregio mentre se ne stacca, e intanto ha già fatto le prove per non perderci la testa già intaccata dalla pazzia.
Nemmeno i funzionari itineranti che giravano portandosi il banco su cui pesavano l’oro e l’argento, l’equivalente in moneta di tasse, nemmeno questi vaganti si vedevano camminare con passo sicuro, e accamparsi.

    Dove finiva il limes romano?
La minestra di ortica era calda, un pezzo di carne vi galleggiava. Entrambi si servirono. Pochezza di nutrimento. Anche il cibo avvelenava. Stavano a guardarsi.
Ma la giovinetta aveva qualcosa da mostrare e non poteva più aspettare. Gli fece un cenno di andare all’aperto, dal lato nord delle colonne. Lì giunti, la visione era ampia.  Con il braccio la muta tracciò un grande arco sopra la propria testa, e con l’espressione della faccia mimò meraviglia, grandezza, con un mezzo inchino mimò maestà.
Ma un cenno della mano come a dire, tempo fa, è passato il tempo, espresse chiaramente il vuoto lasciato da un antico splendore, passato, passato via, senza rimedio.
Il rimpianto che si leggeva in quell’atteggiamento fu un pugnale al cuore di Wallia, che finalmente dovette capire: il luogo dove spettri si aggiravano in cerca di erbe, legni, ortiche, il luogo saccheggiato e deriso, nel defluire delle acque piovane, era la Città che aveva orientato la storia dei secoli, a memoria d’uomo: era Roma.
La vertigine, i sensi già indeboliti dall’aspra vita e da perdite inumane…La muta gli era accanto, con sensi ora più desti, bastanti a non lasciarli entrambi morire, e Wallia morire di crepacuore.
Tristi eventi erano tenuti in sospeso, nel cammino di Wallia, come legni in acqua.
Era il fato estremo, era la macina della mente. Salvò la carne sensoriale, la mera esistenza: il corpo, le giunture, le mani atte all’uso di sopravvivenza.
Finito, esaurito l’impero di mille anni, gli scheletri avevano marciato sulla città, aleggiava l’attesa di molti della seconda venuta del messia, si leggevano sintomi premonitori di disgrazie, le eresie si diffondevano, già prima della guerra tra Bizantini e Goti, con ferite che non si rimarginavano, come fu nella peste di Giustiniano, allorché il padre fu inghiottito mentre procedeva dentro la massa d’alberi, nel terreno d’argilla, sotto il dominio della quercia.     E, inghiottito, era scomparso insieme alle tribù che si erano avventurate: le donne e i bambini, le bestie, e tende, utensili, zattere che venivano dal corso tumultuoso del Dniepr in cui a migliaia erano annegati.
Wallia si riscosse e rientrò nell’intelletto. Doveva subito ottenere notizie della battaglia di Tagina. Si aggrappò a una luce, passato e futuro, suo unico riscatto.
Si mise intanto all’opera alla cerca di materiale per costruire un capanno per sé e per la muta,  perché l’inverno era lì, e un ricetto più solido si rendeva necessario. Si rasò alla meglio, andò a cercare rifornimenti e vino. Poteva pagare, ma senza dare nell’occhio, perché le spie sotto-umane, facce di legno,  erano dovunque.        La Materia tradiva, la Storia tradiva, la Testa era il più spietato traditore.

O Italia ininterrotto agone,
     ininterrotta pena*

      Erano reazioni di un uomo che costruisce, uomo della vita. Qualche volta, nell’abitacolo, Wallia e la muta si accoppiavano. Ma l’uomo va per vicoli, sosta in taverne, individuo che in parte cela la sua identità, in parte la vuole ricostruita; le voci gli vengono addosso, mentre il maniscalco ferra il cavallo, mentre una genìa di ubriachi lo urta e l’oste gli mesce il vino, va per suburre, tane di umani mischiati ad animali.  Voci basse e voci sguaiate, mezze voci portano notizie.
Le voci dicono che la battaglia fu persa, che i Goti sono perduti, che Baduela fu raggiunto da un giavellotto e morì poco dopo, mentre lo trasportavano, che esistere non ha più significato, e Wallia è abbandonato dagli spiriti vitali, stroncato da mortale malattia.
Il mondo ritorna al Diluvium.
Portare avanti una vita catacombale, solo un presente. Il passato prende contorni confusi, in una geografia disegnata dall’inchiostro che si liquefa. Gelo e ombre scivolose, all’alba. Wallia si desta, spaventato, oppresso, perché il corpo della muta, attaccato al suo, non lo scalda. Nelle notti si trasmettono calore. Si alza e si butta addosso il mantello. Si è sempre bene o malamente lavato, per sua abitudine. Ora non è tempo: c’è da sollevare la fanciulla e caricarsela sulle spalle, leggera come una veste.
E c’è un luogo isolato, ombreggiato da un’unica pianta rimasta con le foglie verdeggianti.  Scava la terra, così poco per quel peso gentile di pergamena, che occupa spazio chiedendo perdono.
Seppellita la muta, tutto l’atteggiamento di Wallia cambia. Uso al sofismo, al dibattito filosofico, il Goto si ferma: nessun simbolo, niente feticcio allo spegnersi della muta, riflesso dell’orrore della morte del mondo. Nessun passaggio fluido in altra dimensione, in una totalità.  Solo la fine della materia e della pura forma corporale.
Attorno gli vengono le pecore, e le prende con sé.
Da quel luogo Wallia andò via, e non si voltò. C’era ormai solo da riprendere il lungo cammino.
Si registra, presso gli storici, l’anno 553. Inizio dell’inverno.
“Il tempo lo misuriamo in noi, e ora io sono tempo del quale, ad ogni movimento, ad ogni alba, è prolungata la fine.”
Prese a dormire sui cigli dei fossi, scaldandosi con le sue poche pecore, tra chiazze di ghiaccio e muschi imbiancati, riparandosi anche presso qualche sparuto gruppo umano, e pagò il desco e qualche notte di alloggio lasciando qualche moneta, una volta, una pecora.
Le genti vedevano un uomo malmesso ma di rispetto, non facevano domande: si parlava poco, e le nuove uscivano, un brano, un brandello, a sera, come sempre, sul limite; una nuova crudele portava la stroncatura definitiva alla salute del viandante.
Tra gli Ostrogoti, o Goti, tra i Romani, si faceva il nome di Teia, succeduto al re abbattuto a Tagina.  Teia, il condottiero della battaglia di Capo Miseno. Ma giravano sussurri, toni, che anche Teia…Il Goto non ebbe bisogno di altre parole, si riconosceva vieppiù un sopravvissuto, quando intorno non c’è più niente della nostra eredità. Camminava molte leghe, ogni giorno, ignorando la sfinitezza: sapeva di essere entrato nell’ultima fase.
Un promontorio allungato nel mare della Campania, Capo Miseno: il punto finale del cammino di Wallia, che vi giunse al medio die dopo la mattinata di sentieri dove il pietrisco smottava, e vi scivolava il piede, e dove scorci tra canneti si aprivano sopra il mare. Non sederti più al gioco, tralascia la disputa, dimentica Eros, ignora Marte, non abitare più la terra.
In alto, vagolavano cirri che si scomponevano, arieggianti.
Era il momento del passaggio delle diomedeidi nella luce degli dèi della Grecia.
Si sistemò con le pecore, e attese che il tempo che ancora aveva in sé si consumasse. Qui, al Mons Lactarius, Teia era stato stroncato. Il successore di Baduela aveva subito l’ultima sconfitta,  nel luogo estremo dove  i  Goti avevano cercato la riconquista e la loro ragion d’essere.
Wallia, che era stato a lungo natura nella natura, aveva portato il corpo fin qui e non l’avrebbe portato a proseguire oltre. Dal campo di battaglia, alla fuga attraverso la foresta d’Italia, al dubbio costante sui fatti, ai corti momenti di azione umana, era all’ultimo suo avamposto sull’orizzonte.
Pensare il pensiero era pura filosofia che il suo puro essere organico non accettava, ridotto all’essenza quasi di conchiglia, tessuto osseo, minerale, un rimasuglio di preistoria negata da ragione e religione.  Gli erano ineliminabili le figure di coloro che lo avevano voluto, quelli che gli erano stati inseparabili. Il tempo era corto, egli era corto. Entrava nella fase delle sensazioni e delle intuizioni non scomponibili.
Ritornava al Diluvium. È quello che accade quando la natura chiede di non essere sforzata oltre.

Note

  1. Tagina, presso Gualdo Tadino, in Umbria
  2. Campi Catalaunici, presso Chalôns-sur-Marne, in Provenza
  3. Mario Luzi, “Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini”, da «Via da Avignone»
  4. Mons Lactarius, presso Stabia, in Campania

 Seconda novella del libro L’automa puro, di Claudia Azzola, Edizioni Effigie, 2021.

 

 

 

3 pensieri su “Dove finì il grande cammino di Wallia

  1. un bellissimo racconto! Un viaggio orrido e seducente tra passato e futuro, tra storia e fiaba, finché l’essere umano e la natura sembrano arrendersi, denudati di ogni velleità si vita, scomparsla civiltà, scomparsol’ultimo albero. Eppure suona anche come un inno, nel suo linguaggio arcaico, alla speranza oltre.. Grazie

  2. grazie a Annamaria Locatelli per l’apprezzamento della novella di Wallia, parte del libro L’Automa puro, che ha avuto qualche buona accoglienza. Se mi fa avere l’indirizzo, e se gradisce, posso spedirle una copia. Cordialità, Claudia Azzola

  3. Claudia Azzola, sarei onorata e felice nel ricevere una copia del suo libro, la cui novella ho letto proprio la vogilia di Natale e mi molto coinvolta in una dimensione lontanissima eppure vicinissima…sui passi del camminate Wellia. Penso che gentilmente Ennio Abate le possa fornire i miei dati. Cordialmente
    Annamaria Locatelli

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