un uovo all’occhio di bue

di Angelo Australi

[…] Secondo me è una vergogna che nel mondo ci sia così tanto lavoro. La cosa più triste è che lavorare è tutto ciò che un uomo può fare per otto ore al giorno, un giorno dopo l’altro. Non si può immaginare per otto ore al giorno, né bere, né fare l’amore, per otto ore. L’unica cosa che si può fare per otto ore è lavorare. Ed è per questo che l’uomo rende se stesso, o chiunque lo circondi, così miserabile e così infelice”.

(W. Faulkner, da “Intervista a W. F., di Jean Stein del Heuvel)

La cucina era esposta al sole di mezzogiorno, così Marisa prima di servire in tavola socchiuse le persiane. Indispettito Bruno si voltò verso la moglie e accese la luce dicendo che al buio ci sarebbe stato da morto, quando mangiava preferiva guardare il cibo che stava nel piatto.

Suo figlio non decideva a sedersi, si era svegliato da poco e adesso si cincischiava girando a vuoto per l’appartamento, in maglietta e con un paio di pantaloncini da spiaggia. Si era licenziato da alcune settimane dalla fabbrica di ombrelli per uno screzio avuto con il capo reparto e adesso la notte, quando aveva accompagnato a casa la sua ragazza, si attardava a parlare con degli amici che stavano a godersi un po’ di refrigerio seduti ai tavolini di un bar all’aperto, nella piazza del paese. Per smaltire l’effetto di un paio di spinelli era rientrato a casa poco prima che sorgesse il sole. Come sempre succedeva avevano parlato di tutto e di niente, tanto per passare il tempo, con una rabbia che montava sotto sotto, contro quella vita che il paese prospettava in un pieno di noia. Soprattutto lo faceva incazzare il modo in cui Fernando teneva banco guidando la discussione sulle storie che conosceva vivendo a Trento, dove studiava alla facoltà di sociologia, perché cercava di apparire diverso da chi non si era mosso dal paese facendo una serie di paragoni che non avevano niente a che fare con il loro stato d’animo. I suoi giudizi sulla loro pigrizia suonavano come il frutto di un atteggiamento che lo facesse sentire diverso. Nel gruppo degli amici ce n’erano altri che frequentavano l’università, ma solo Fernando era andato a studiare così lontano e tranne i mesi estivi ricompariva sporadicamente al paese, soprattutto per chiedere soldi ai genitori, proprietari di un negozio di abbigliamento sportivo.

Con aria scanzonata Bruno commentò la sua apatia.

– Arrivo subito babbo, … mi sono appena alzato.

– Guido, se non ti va la carne dimmi quello che vuoi mangiare -. Sua madre lo aveva chiamato con una certa sofferenza nella voce.

Il figlio le chiese di cuocergli un uovo all’occhio di bue, tanto per chiudere in partenza quella discussione.

– Poi però non farmi il dispetto di lasciarlo nel piatto.

La braciola di Bruno era elastica come un pezzo di gomma. I movimenti della bocca sembravano smorfie, tanto insisteva in quel suo masticamento. Tutto sommato suo figlio non era fesso, lui si ostinava a mangiarla e non gli piaceva. Con l’idea di risparmiare qualcosa sua moglie ormai comprava anche la carne al supermercato, confezionata in vaschette di polistirolo. Carne di cui non si sapeva neppure la provenienza, macellata con chissà quali criteri. Per un momento, mentre osservava quel cibo nel piatto che anche lui avrebbe preferito non mangiare, pensò che suo figlio era stato fin troppo coccolato, ma di questo doveva incolpare prima di tutto se stesso, perché non si era mai opposto alle sue richieste.

Guido fissava l’uovo all’occhio di bue che sua madre aveva appoggiato sul piatto. Stringeva le mani tra i ginocchi, in una ridicola contemplazione osservava il cerchio arancione del tuorlo riflesso sul vetro verde della bottiglia del vino. L’immagine riflessa del tuorlo vibrava ad ogni movimento della tavola. Bruno detestava l’indolenza del figlio che aveva ormai ventitré anni. Facendo un calcolo approssimativo, si rese conto di averlo picchiato solo un paio di volte.

– L’uovo non ti va bene?

– Sì, adesso lo mangio.

– Perché se non ti va bene chiedi pure, siamo al tuo servizio!

– Eppure non sei grasso … – osservò Marisa, – avrai bisogno di mangiare qualcosa.

– Mi sono appena alzato, mamma.

– Scommetto che non hai il fiato di spostare questa sedia – disse Bruno.

– Al giorno d’oggi è tutto stravolto – sentenziò Domenico. – Se alla tua età mi fosse stato concesso il lusso di mangiare due volte al giorno, sarei stato l’uomo più felice del mondo. In guerra o al lavoro in un campo di prigionia tedesco sognavi più il cibo che stare con una donna. Quando si ha tutto a portata di mano come te, invece i problemi sembrano piovere dalle stelle.

Guido osservava gli sforzi del nonno che parlando a bocca piena sembrava ballargli la dentiera. Minuscoli frammenti di cibo masticato gli schizzavano dalla bocca per finire nuovamente nel piatto e spandersi a ventaglio sull’incerato che faceva da tovaglia, e anche se si era deciso a mangiare ci rinunciò drasticamente. Tutta questa scena era insopportabile, nessuno in famiglia lo lasciava vivere la sua vita, durante i pasti c’era sempre una ragione per entrare in una discussione che parlasse di lui. Adesso ci si era messo anche il nonno, che da quando gli era morta la moglie veniva a mangiare da loro per il pranzo e a cena, un po’ come stare a pensione.

Marisa sollevò l’ipotesi che forse suo figlio si drogava, ultimamente era andato giù di fisico, e poi sembrava privo di attrattive verso la vita. Se non la droga era una ragazza a renderlo così insofferente. Se aveva dei problemi doveva riuscire a parlarne, non si può tenere sempre tutto dentro senza causare dei danni. Tra le due ipotesi lei preferiva che avesse delle pene d’amore, altrimenti il problema della droga le metteva addosso una paura ancestrale, fra le colleghe in fabbrica circolavano certe voci sui ragazzi del paese che non la rassicuravano affatto.

– Se scopro che si droga lo strozzo con queste mani – disse Bruno. – Io e tua madre ci sforziamo a darti quello che in gioventù non siamo mai riusciti nemmeno a sognare. Non è nemmeno per i soldi, a volte si spendono senza neanche pensarci, è proprio per un senso di responsabilità. Non ti passa mai per la testa che se uno di noi si ammoscia, tu resti fregato? … Torno a casa mezz’ora per mangiare di corsa un boccone insieme a voi, e mi trovo davanti la tua faccia da ebete. Non è bello.

– Lo diciamo per il tuo bene – disse Marisa, in un tono non meno ricattatorio di quello del marito.

– Certo, lo so benissimo quello che state facendo per il mio bene – mugugnò Guido.

Domenico aveva preso a sbucciarsi uno spicchio di mela, quando domandò a bruciapelo: – Quale bene?

– Il bene di mio figlio! – rispose Marisa, bruscamente.

– Deve trovarsi un lavoro come si deve, ora che ha fatto il militare non può sbarellare ogni tre mesi in cerca di qualcosa da fare – disse Bruno

– Tutto qui? – Guido fissò il padre.

– Tutto qui.

– Non immaginavo che fossi un genio, babbo …

 – Mi stai prendendo per il culo?

– Vuoi scherzare, sei proprio il massimo a genialità di vedute.

Bruno spense il televisore, quella voce in sottofondo di Raffaella Carrà che dialogava a telefono con alcuni spettatori che dovevano indovinare il numero di fagioli presenti dentro un grande contenitore di vetro gli dava fastidio. Era il programma preferito di Marisa, del quale anche le compagne di lavoro si accanivano a parlarne ogni giorno, nello spogliatoio e all’uscita della fabbrica.

– Da quando sei tornato dal servizio militare hai già cambiato mestiere tre volte. In un calcolo all’ingrosso hai lavorato sei mesi e dieci sei corso dietro i tuoi amici che ancora studiano. Loro si coltivano il futuro, tu invece perdi tempo.

– Babbo, queste sono prediche morali, non c’è niente che possa farmi riconoscere in quello che dici.

– Scusa se ti sembra poco… Sentito, Marisa? Non sono consigli, ma solo prediche morali. Sono sbalordito, il nostro bambino pensa che si possa campare d’aria.

– Lo chiami un mestiere mettere insieme tutto il giorno le stecche agli ombrelli?

– Che cos’è?

– Una gran rottura di palle!

– Ma ti pagano, … anche se ti annoi.

– Lavori come questo ne trovo quanti ne voglio.

– Scusa, se ti sembra poco.

Visto l’andazzo, Marisa obbligò il marito a spicciarsi cominciando a sparecchiare la tavola. Con le osservazioni al figlio era sempre lei a partire, ma dopo un primo momento, quando suo marito e Domenico si confrontavano con lui, come sopraffatta da un senso di colpa, non riusciva più a capire dove andasse a finire la discussione. Dai loro paragoni assurdi veniva fuori di tutto. Parlavano, parlavano, e in definitiva quel figlio finiva per diventare qualcosa di astratto, le sembrava di perdere il contatto con la realtà. Era un pretesto, lei non aveva nessuna voglia di sentirli discutere, e dopo le prime domande fatte senza cattiveria si sarebbe mangiata la lingua. Guido ormai era un uomo, queste beghe lo inasprivano. Nel tempo avrebbe trovato senz’altro un lavoro al quale adattarsi. Marisa si sentiva una stupida, non avrebbe dovuto tirar fuori la droga, se si entrava in quell’argomento Bruno non ci vedeva più, partiva per la tangente con il suo modo burbero di lanciare minacce. Lei aveva cinquant’anni compiuti, il marito un paio in più, queste pretese del figlio non riusciva più a capirle, era impossibile poterle mettere a confronto con le esperienza che lei faceva a vent’anni. Se ne rendeva conto, purtroppo, nel tempo si era formato come un abisso dove ogni aspettativa viaggiava ormai su strade diverse. In un momento le passò davanti l’immagine di quando era in sala parto, che il dottore le diceva di spingere, di trovare la forza nel cervello se sentiva di non farcela per il dolore, e di non vergognarsi quando i suoi sforzi fossero stati accompagnati dallo stimolo di cacare. Subito dopo il parto si era sentita leggera come una piuma, ricordava di essersi fatta cullare come da un vento immaginario che asciugando il sudore le dava i brividi. Piccole contrazioni muscolari l’assillavano ancora in fondo alla pancia, ma il parto era andato bene, Guido aveva cominciato a piangere come un forsennato in braccio all’ostetrica. Quando lo osservava mentre lo ripulivano sembrava un coniglio spellato, ma piangeva e si tranquillizzò alla conferma che era un bambino normale. Quante volte si era affacciata nel bagno a guardare allo specchio la sua pancia, ossessionata dal terrore che al momento del parto ci fossero delle complicazioni. Ogni stranezza, ogni piccolo dolore, ma anche un leggero fastidio che nasceva dal suo corpo le procurava una sorta di paura atavica.

– Che fretta hai di sparecchiare – disse Bruno, – non ci corre dietro un cane mastino.

– Lo sai, dio santo! … Prima di rientrare al lavoro devo mettere in ordine la cucina.

– Ho capito, ho capito!

– Vuoi dell’altro vino?

– Basta un caffè.

– E voi, Domenico?

– Appena un goccio per sciacquarci la bocca.

L’uovo all’occhio di bue sembrava un sole artificiale, incorniciato nel piatto come le miniature del medioevo che rappresentavano il mondo in una superficie piatta.

Bruno aggredì di nuovo suo figlio, tenendo la tazzina del caffè sospesa a mezz’aria. Nessuno lo guardava. Anzi, evitavano proprio di incrociare il suo sguardo.

– Si è freddato – disse Guido. – Così freddo fa quasi schifo.

– Inutile – disse Domenico, – questo ragazzo non abbassa mai la cresta, che sia padrone della vostra vita lo capisce anche un estraneo.

– Non vuoi mangiarti l’uovo? Benissimo.

Bruno si distese sopra la tavola e afferrò il piatto. Poi girò intorno per trovarsi alle spalle di suo figlio, e con un gesto impacciato gli rovesciò in testa il contenuto. Alla fine con un braccio indicò Domenico, mentre con l’altro sbatteva violentemente il piatto sulla tavola, fino a rischiare di mandarlo in frantumi.

– Le maniere forti, come suggerisce questo bacucco?

Ora parlava in modo pacato, quasi chiedendo scusa per essersi spinto a compiere un gesto così estremo, così drastico. Sua moglie lanciava sguardi di disappunto, mentre Domenico, con un sorriso profetico stampato sulle labbra, ridicolizzava la scena.

– Ti ho picchiato solo due volte, quasi un record. Lo sai quante me ne ha date lui? E oggi mi sento ridicolo perché non ho mai creduto che mio padre facesse bene a picchiarmi… Forse ero nato per stare solo.

Intanto Domenico si era alzato perché aveva intuito che Bruno e Guido stavano per azzuffarsi, aveva preso il suo bicchiere e bevuto in fretta il po’ di vino che restava, mentre Marisa si gettava nel mezzo ai due per separarli.

– Alla tua età mi piangevano le mani per i calli, non sopporto questa tua apatia verso la vita. Facendo così stai sciupando gli anni migliori, fattelo dire da un fesso.

– Sei uno stronzo! – gli urlò addosso Guido. – Ecco cosa sei, uno stronzo patentato.

– Che fai, offendi?

– Ogni volta che mi fai la morale usi la scusa dei tuoi calli per nascondere l’angoscia che ti affligge. Sei un maledetto fallito, pieno solo di sensi di colpa.

Bruno strinse con rabbia la mano di Marisa. Quasi la stava maciullando. Lei tratteneva le lacrime solo perché la lite non ingigantisse fino ad un punto di non ritorno. Il figlio di ventitré anni le rientrava nell’utero. Si sentiva come un frammento di carne catapultata nello spazio alla velocità della luce e a quel punto, se fosse stato possibile riavvolgere la pellicola, si sarebbe cucita la vagina. Anche il lavoro in fabbrica diventava una liberazione.

Bruno uscì, sbattendo la porta.

*    *    *

Fisso alla finestra Domenico osservava il paesaggio attraverso le schegge di luce. Si grattava la testa, proprio dietro l’orecchio sinistro. Un prurito piacevole gli stuzzicava il cervello.

Marisa pulì le mattonelle ai piedi del figlio, dove era finito una gran parte dell’uovo scivolando giù dalla testa. Immobile lui fissava la parete di fronte, dove una stampa di Annigoni interrompeva le decorazioni floreali della carta da parati. Poi lo prese per un braccio e lo condusse in bagno. Guido la seguì meccanicamente. Si sentiva ridicolo, piccoli frammenti d’uovo gli calavano ancora dalla fronte. Quell’odore lo disgustava.

Lei intendeva aiutarlo a lavarsi la testa, ma lui si oppose, disse che faceva da solo.

– Non siamo in guerra, eppure sembriamo scannarci come dei nemici accaniti. Da tuo padre giuro che non me lo sarei mai aspettato. Una volta era così disponibile, potevi strappargli il cuore che non reagiva. Quando giocava con te, il bambino era lui. Mi chiedo se in tutte le famiglie ci sono gli stessi guai. Allora è meglio non mettervi al mondo.

L’acqua scrosciava con foga dal rubinetto e schizzava per terra in un ritornello incalzante. La noia è una strana sensazione, pensò Marisa, nasce perché durante il giorno ci imponiamo di tacere sulle cose importanti di cui c’è una certa paura. Così il bubbone calcifica, gli anni passano e diventa maligno. Io e Bruno non ci parliamo più, mentre una volta ci si diceva tutto, ora ogni preoccupazione diventa una paura che teniamo dentro. Se potessi tornare indietro giuro che non mi sposerei. Poi osservò i rigurgiti del lavandino che non riceveva il getto d’acqua.

Lo specchio, annebbiato dai vapori, smorzava le loro figure, a occhiate sfuggenti Guido si osservava riflesso in quella nebbia.

Si stava facendo tardi, anche se lei rientrava al lavoro mezz’ora dopo il marito. Bruno al tocco e mezzo, lei alle due. Per questo motivo, anche se era davvero faticoso, ogni giorno si riunivano a casa per l’ora di pranzo. Quando Guido ancora studiava alle superiori lei gli lasciava la tavola apparecchiata con il piatto del suo pasto già pronto, mangiavano lei e Bruno e ci rientrava anche di rifare il letto, prima di tornare in fabbrica. Adesso invece sembrava tutto un correre, non c’era il tempo per pensare a niente e a nessuno, le stranezze che partoriva la mente arrivavano e sparivano in un flash, e lei agiva per forza d’inerzia, rimandando il tutto ad un altro momento. Con questo vivere non era facile trovare un pretesto per accettare le incognite del futuro. Quelle conclusioni drastiche alle quali era giunta, non la convincevano, e ad ogni modo il resto della giornata si prospettava insopportabile, sarebbe stato molto meglio poterla cancellare dalle mente. Esiste un tipo di gomma in grado di cancellare i dispiaceri, almeno qualcuno dei più tremendi? Cercò di cacciare via il pessimismo pensando che era venerdì, ancora quattro ore di lavoro e poi l’aspettavano due giorni di riposo. Uno accantona tante cosa da fare in quei due giorni che dovrebbero avere la lunghezza interminabile della vita quando si lavora, però non è così, passano in fretta, maledettamente in fretta. Guido è ancora giovane, per certi versi a ventitré anni sembra ancora un ragazzo che si annoia facilmente, ma fra un po’ di tempo inizierà senz’altro a porsi i problemi in modo diverso, così noi genitori non saremo più uno scoglio. Si consolò pensando che un certo giorno queste liti sarebbero servite da spunto per farci sopra una risata.

Accarezzò la testa bagnata di suo figlio. Uscì.

Guido volle asciugarsi i capelli in terrazza. Appoggiò la schiena al muro, per avere davanti a sé tutto il paesaggio che vedeva sbiancarsi sotto il sole di luglio, tra un ferro e l’altro della ringhiera. Il nonno lo raggiunse, lui per calmarsi evitò di seguire i suoi movimenti. Erano soli e di punto in bianco il silenzio si trasformava in qualcosa di assordante. Mentre Domenico si appoggiava, Guido poteva spingerlo giù dal terzo piano. Era solo un’idea, ma chi mai avrebbe potuto immaginare la verità? Aveva ottantacinque anni, forse era plausibile che per un momento gli si fosse svaporato il cervello. Poi, pensando quelle cose, si sentì immediatamente una testa di cazzo, uno in grado di preoccuparsi solo di se stesso, di voler stare ad ogni costo al centro della scena. Anche i suoi genitori, mica lavoravano perché gli piacesse. Il nonno Domenico forse era stato in simbiosi con il suo lavoro di sarto almeno per un certo periodo, era un artigiano, non aveva padroni, ma i suoi genitori lo facevano per avere dei soldi, poter vivere in una certa tranquillità.

Lo stridio dei freni di un treno che entrava in stazione gli fece allegare i denti, mentre oltre la ferrovia osservava dei carpentieri che si arrampicavano sullo scheletro di un palazzo in costruzione. Per un momento Guido desiderò che suo padre facesse questo di lavoro, anziché stare alla catena di montaggio. Fare il carpentiere era cento volte più faticoso che incollare i tacchi alle scarpe da donna, e quasi certamente la fatica avrebbe placato anche il suo rancore. Ma forse non cambiava niente, pensò, mentre sentiva accanto la presenza del nonno, perché quando ci si fida del primo lavoro che offre l’occasione di guadagnare dei soldi, prima o poi ci si impoverisce anche delle poche aspirazioni che abbiamo. La miseria è anche nel rapporto che si instaura con il denaro. Suo padre e sua madre sembravano ossessionati dal pensiero che ci fosse anche solo una possibilità su un milione di tornare a vivere in povertà. Era figlio di operai e si vergognava del modo in cui si stava allontanando dalle loro abitudini familiari. Rinnegare il passato era qualcosa di mostruoso, però non poteva farci niente, i giovani con i quali usciva non avevano più la mentalità di sistemarsi nella vita con un posto di lavoro una volta per sempre. Non solo gli studenti che frequentava, ma questo era anche il modo di pensare di quelli della sua età che già lavoravano.

Era un vero casino. Un’impresa impossibile mettere ordine in quella confusione, nell’armadio dei suoi pensieri si stava formando il groviglio di una ragnatela nascosta tra le grucce, sorretta appena da un sottile filo.

                                                                    

UNA BREVE NOTA: questo racconto, al quale ho apportato alcune piccole modifiche, è stato scritto nel 1986 e pubblicato nel numero 13/15 di Abiti-Lavoro, (1989), la rivista diretta da Giovanni Garancini. Si tratta di aggiunte a qualche battuta dei dialoghi o brevi descrizioni di ambientazione che non incidono sul tono di conflittualità generazionale si respirava verso la metà degli anni ‘Ottanta tra gli ormai vecchi che avevano partecipato alla Seconda Guerra, chi era nato durante o subito dopo il conflitto mondiale, e i figli di quei bambini, nati negli anni ‘Sessanta.

In quell’occasione il testo iniziava con la frase lapidaria di William Faulkner sul lavoro, ma siccome ci descrivo l’ingiusta fine che fa un uovo cucinato all’occhio di bue, per scusarmi mi è sembrato giusto omaggiarlo nel titolo.

                                                                                 

 

21 pensieri su “un uovo all’occhio di bue

  1. Una tristezza infinita. Come si può andare avanti così? Se manca la speranza, che è aspettativa, che è vigore, che è desiderio…

  2. Non sono mica un medico, … il racconto ricrea il senso di scollamento generazionale tra gli operai che nasceva proprio negli anni Ottanta, anch’io non ci trovo niente di positivo, ma è successo proprio questo tra chi vedeva nel lavoro un punto di arrivo e chi, venuto dopo, lo faceva solo perché andava fatto, non aveva molte altre alternative. Bisogna avere il coraggio di vedere come stanno le cose, tutto qui.

    1. Sai com’è, c’ero anche io nell’85. È vero che c’erano quegli abissi di bruttura e depressione … eppure siamo 36 anni dopo, con altri figli che proseguono altri percorsi con altri problemi. Allora ti chiedo: quale il compito della narrativa? Inchiodare la situazione al livello sottozero, nemmeno zero… o è levatrice?
      Non parlo di educazione o moralismo: parlo di apertura. Dato che il mondo non è finito allora e non finisce oggi. È un compito della letteratura più coinvolto, generale, non solo depressivo.

      1. Non so quale sia il compito della letteratura, o se per la verità ne abbia uno solo, so però che qualche volta i confini rappresentano comunque un orizzonte di vita con il quale fare i conti, e se non comprendiamo il punto zero, o sottozero, e lo ripercorriamo a ritroso, credo sia difficile oggi, in questo mondo della simultaneità, evitare il corto circuito del “vecchio” che si ripresenta come “nuovo”. Nel racconto, nel mio modo di vedere la situazione di quegli anni, è vero, estremizzavo un punto di rottura dove tre generazioni si approcciano al lavoro con aspettative diverse, ma chi ha cercato di dare risposta a tutto questo? Forse nessuno, almeno nei risultati, se ormai anche molti operai votano Lega. Con quel diversificarsi di aspettative iniziava l’epoca del post-ideologico, dalla quale è spuntato un “tipino” che ancora in questi giorni, per la nomina del presidente della repubblica, voleva impossessarsi della scena.

        1. Non so se quello della levatrice sia un compito… comunque non si racchiude nel suo operare, piuttosto fa essere qualcosa di nuovo. In questo senso chiedo alla letteratura di essere… levatrice. Il tuo racconto fotografa invece una situazione implosiva piena di tensioni tuttavia irrisolvibili. E’ stata per me lettura dura, quasi angosciante. 36 anni dopo non riconosco in quel quadro altro che una angolatura depressa, che non apre ad altro che pure è stato. Ti riconosco comunque una acuta penetrazione psicologica dei personaggi. Cui avresti potuto dare uno spiraglio, una apertura… no?

          1. Sì, certo.
            In questa rilettura al racconto non ho volutamente apportato grosse modifiche, allora sentivo il bisogno di lanciare un “allarme” su cosa stava accadendo alla cultura operaia. Tutto qui.
            Grazie per il confronto che abbiamo avuto.

  3. Leggendo questo racconto, mi viene in mente il fatto che ogni generazione abbia il suo habitat: per esempio, quella dei miei nonni il campo, che purtroppo si è trasformato anche in campo di battaglia; quella dei miei genitori la fabbrica. E la mia? Già, la mia? Potrei dire la scuola, ma, forse, peccherei di ottimismo. Comunque, bel racconto, Angelo, che induce a pensare.

  4. Giusto Daniele, si tratta di habitat, ogni generazione ha il suo. Forse da un certo momento in poi è stato sempre più difficile trovarlo.

  5. si’, un bel racconto, “Australe”…realistico degli anni ’80. Ma, secondo me, dice molto anche del tempo presente in quanto a rapporti generazionali conflittuali e, con qualche differenza, al mondo del lavoro. Il fulcro della riflessione sembra concentrato sul valore che si attribuisce al denaro e quindi al lavoro e a quale lavoro…Un argomento di grande importanza e sempre attuale. Nel racconto i piu’ vecchi ricordano gli stenti della guerra e del dopoguerra e si ritengono agiati grazie al lavoro da operai che svolgono, senza peraltro metterne in discussione gli aspetti opprimenti, il giovane non prosegue gli studi ma non vuole adattarsi a qualsiasi tipo di lavoro alienante… intanto per forza si fa mantenere, il padre e il nonno non lo capiscono nè approvano mentre la madre media senza costrutto…Che dire? IL discorso dopo quarant’anni è ancora aperto in quanto mette in discussione lo stesso sistema economico capitalistico…in effetti se tutti lavorassimo e non ci fosse sfruttamento, le ore di lavoro settimanale si ridurrebbero drasticamente a vantaggio della qualità della vita di ognuno: “…è una vera vergogna che nel mondo ci sia cosi’ tanto lavoro.”(W.Faulkner). Sembra che nella preistoria l’avessero già capito

    1. Grazie Annamaria. Lapidaria la frase di Faulkner, vero?
      Ho cercato di riportare il sentire di quegli anni proprio perché se ne subiscono ancora le conseguenze. I fortunati in grado di scegliersi il lavoro per il quale si sentono portati sono in pochi oggi come negli anni ‘Ottanta, tempo a cui risale la prima scrittura del racconto.

  6. Certamente un racconto incisivo, caratterizzato dal tuo personale stile, con personaggi che “escono” letteralmente dalle righe proiettando fuori malumori, incoerenze, certezze (sbagliate o meno..), in particolare la difficoltà del giovane a rapportarsi con la famiglia, che rappresenta il frutto di esperienze sconosciute. Non saprei dire qual è il vero compito della letteratura, ma questi quadri in parole che tu sei capace di dipingere ci fanno non solo riflettere sulle problematiche di quei momenti, ma anche sui diversi atteggiamenti odierni rispetto a tali problematiche e trarne eventuali conclusioni. Ruit hora…! Forse però sarebbe piaciuto anche a me trovare uno spiraglio di speranza in più in questo racconto, anche se inevitabilmente meno aderente alla realtà. Qui nessuno ne esce bene… nemmeno l’uovo.

    1. E’ vero, cara Annalisa… nessuno ne esce bene (soprattutto l’uovo). Ma i racconti nascono prendendo spunto da semplici situazioni. Negli anni Ottanta era molto polemico con quello che stava succedendo nel mio piccolo mondo, non era giusto modificare quella tensione di allarme che volevo fare emergere, quindi ho modificato dei dialoghi e alcune brevi descrizioni, lasciando inalterato il clima.

  7. Credo che il riferimento a Faulkner non sia casuale perché nel racconto mi pare aleggi la nube plumbea dell’ineluttabilità, che pare avvolgere il conflitto generazionale. Il contrasto irrisolvibile viene esplicitamente espresso nella parte finale del racconto:

    “Ma forse non cambiava niente (…) Suo padre e sua madre sembravano ossessionati dal pensiero che ci fosse anche solo una possibilità su un milione di tornare a vivere in povertà. Era figlio di operai e si vergognava del modo in cui si stava allontanando dalle loro abitudini familiari. Rinnegare il passato era qualcosa di mostruoso, però non poteva farci niente, i giovani con i quali usciva non avevano più la mentalità di sistemarsi nella vita con un posto di lavoro una volta per sempre”.

    La denuncia di una ormai avvenuta mutazione antropologica è calata all’interno di un quadro familiare disegnato con convincente realismo. Il figlio vive dentro se stesso una conflittualità inestricabile, che inclina alla tragicità. Osserva dentro di sé il pensieri omicidi nei confronti del nonno, mentre tutto il paesaggio sbianca “sotto il sole di luglio, tra un ferro e l’altro della ringhiera”. Il disorientamento legato al passaggio generazionale è sigillato dalle righe finali:

    “Era un vero casino. Un’impresa impossibile mettere ordine in quella confusione, nell’armadio dei suoi pensieri si stava formando il groviglio di una ragnatela nascosta tra le grucce, sorretta appena da un sottile filo.”

    In vari luoghi testuali, il realismo apparentemente “basso”, che utilizza il linguaggio del parlato, è punteggiato da schegge che alzano il livello espressivo, giungendo talvolta ad un’intensità espressionistica:

    “Il figlio di ventitré anni le rientrava nell’utero. Si sentiva come un frammento di carne catapultata nello spazio alla velocità della luce e a quel punto, se fosse stato possibile riavvolgere la pellicola, si sarebbe cucita la vagina. Anche il lavoro in fabbrica diventava una liberazione.”

    “Lo specchio, annebbiato dai vapori, smorzava le loro figure, a occhiate sfuggenti Guido si osservava riflesso in quella nebbia.”

    “Così il bubbone calcifica, gli anni passano e diventa maligno. Io e Bruno non ci parliamo più, mentre una volta ci si diceva tutto, ora ogni preoccupazione diventa una paura che teniamo dentro.”

    “L’uovo all’occhio di bue sembrava un sole artificiale, incorniciato nel piatto come le miniature del medioevo che rappresentavano il mondo in una superficie piatta.”

    Questi inserti che inclinano all’espressionismo linguistico costituiscono, a mio avviso, la maggiore differenza stilistica rispetto ai racconti più recenti di Angelo, dove più omogeneo mi sembra l’insieme narrativo ed in alcuni di essi la descrizione della dimensione sociale della provincia procede in parallelo con la vicenda esistenziale e talora con la maturazione psicologica dei protagonisti.

    1. Sai Leonello, è anche vero che tutti e tre sono condizionati dal lavoro, anche il giovane Guido. Sono d’accordo sull’inclinare all’impressionismo.

      1. scusa Leonello, … naturalmente è “espressionismo”. Rispondere frettolosamente dallo smartphone gioca di questi scherzi.

  8. Grazie Angelo per invitarci a riflettere su un aspetto dei rapporti familiari nel clima degli anni Ottanta. Spesso, oggi in particolare, ci lasciamo alle spalle il passato come i chilometri percorsi sull’autostrada invece dovremmo far tesoro dei tanti momenti vissuti per saper apprezzare o modificare un presente che non ci piace.
    Quello che manca è la pausa, il riuscire a non farci trascinare nel vortice di un’attualità fatta di apparenze più che di sostanze.
    Perché la sostanza fa pensare e pensare è fatica, più grande che lavorare.
    Nietzsche diceva che la felicità non è fare ciò che si vuole ma volere ciò che si fa. Credo che sia un piccolo segreto per affrontare ogni difficoltà nella vita senza farci sovrastare da quella.

    1. E’ proprio vero Lucia, almeno nel racconto spero e speravo nel 1986 di attivare una discussione sul rapporto tra generazioni e lavoro che mi sembrava solo andare a rimorchio del pensiero in un sistema che spingeva soprattutto i giovani verso l’illusione del terziario.

  9. “… almeno nei risultati, se ormai anche molti operai votano Lega. ” (Australi)-
    Come dire dalla padella alla brace, e ora dove sono gli operai… nelle bare per virus insieme ad altri non-operai – la morte non è una livella (Totò), è altro e non so cosa,
    forse distinzione.
    as

  10. Tanto per tornarci sopra, che poi è anche uno dei motivi che mi hanno stimolato a riprendere in mano un racconto scritto più di 25 anni fa: per il mese di febbraio al nostro gruppo di lettura si è scelto di leggere tre libri che trattano il problema del lavoro. Sono due romanzi e un’indagine/reportage. La Dismissione, di Ermanno Rea (2002), Addio, Il romanzo della fine del lavoro, di Angelo Ferracuti (2016), e Memoriale di Paolo Volponi. A chi non li avesse letti, li consiglio vivamente.

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