Due spunti di riflessione


a cura di Ennio Abate

AL VOLO/RAPARELLI

«I movimenti – scrive Raparelli – faticano a far durare l’apertura democratica. Alcuni sostengono che ciò accade perché non si presentano sulla scena o non lo fanno abbastanza (…) Altri lamentano l’incapacità a trasformarsi in partito e, dunque, in potere politico nelle istituzioni dello Stato». «Più banalmente – osserva – occorre riconoscere che la loro debolezza ha molto a che fare con la drammatica precarietà delle condizioni di lavoro e di vita di chi li anima».

(da https://operavivamagazine.org/una-vita-politica/?ct=t(RSS_EMAIL_CAMPAIGN)

 

 

AL VOLO
Papa Bergoglio da Fazio
Non c’è più religione. C’è televisione
(E. A.)

[a Federico Molineri] E’ questione complessa che non si può tagliare con l’accetta. Per me il punto più alto di riflessione resta quello  sfiorato da Marx, ma il successivo fallimento delle rivoluzioni socialiste fa ridiventare la questione  ancora più complicata e la soluzione più incerta. Ti segnalo  questo saggio che ho trovato on line ( ce ne sono tanti altri).

KARL MARX E LA RELIGIONE COME «OPPIO DEI POPOLI»
di Franco Livorsi
https://www.ilponterivista.com/blog/2020/01/09/karl-marx-e-la-religione-come-oppio-dei-popoli/

Stralci:

1.

Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una vera realtà. La lotta contro la religione è quindi, indirettamente, la lotta contro quel mondo del quale la religione è l’aroma spirituale. La miseria religiosa esprime tanto la miseria reale quanto la protesta contro questa miseria reale».

Da un lato è realmente miserabile credere in un’ideologia che dice che la miseria reale è propria di un mondo colpevole; ma dicendoci questo la religione ci dice anche che il mondo com’è non va, che è urgente accedere a “un altro mondo” perché nel nostro al posto del paradiso c’è appunto la miseria reale.

«La religione è il gemito dell’oppresso, il sentimento di un mondo senza cuore, e insieme lo spirito di una condizione priva di spiritualità. Essa è l’oppio del popolo».

Marx conosceva sicuramente il romanzo autobiografico dell’inglese Thomas de Quincey Confessioni di un mangiatore d’oppio (1821-22) e, oltre a tutto, viveva in un tempo in cui i lavoratori, spesso abbrutiti dalla fatica, nel fine settimana facevano appunto esperienza dell’oppio, come si vede ancora in Martin Eden di London (1909), in un tempo in cui il suo uso era totalmente libero. Qui sta a significare che le visioni paradisiache che l’oppio dà equivalgono alle speranze vane nel paradiso, e hanno lo stesso significato di evasione artificiale dalla realtà.

«La soppressione della religione in quanto felicità illusoria del popolo è il presupposto della sua vera felicità. La necessità di rinunciare alle illusioni sulla propria condizione, è la necessità di rinunciare a una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione è quindi, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola».

A questo punto emergono alcuni altri passaggi decisivi: «La critica non ha strappato i fiori immaginari della catena perché l’uomo continui a trascinarla triste e spoglia, ma perché la getti via e colga il fiore vivo».

Qui, per esempio, c’è una differenza di fondo rispetto a quel che dirà poi Sartre in La nausea (1938) e in L’essere e il nulla (1943), in cui la coscienza che Dio non esiste, e il paradiso nemmeno, segnano lo svelamento del carattere tragico della vita in se stessa, da cui non si potrebbe mai uscire, per quanto possiamo ricercare situazioni di fuggevole gioia e persino di spontanea forte solidarietà tra oppressi (poi oggetto della sartriana Critica della ragion dialettica)9. Marx, per contro, qui ci dice chiaramente che non si vuol togliere la fede nel «Dio in noi» e nel paradiso per lasciare l’uomo cosciente del nulla, disilluso, disincantato e disperato, ma per indurlo a cogliere “il fiore vivo”, ossia la vita bella al di là dei sogni “oppiacei” della religione: l’armonia realizzata da farsi, non tanto diversa dal paradiso in terra. Infatti qui egli seguita così: «La critica della religione disinganna l’uomo, affinché egli consideri, plasmi e raffiguri la sua realtà come un uomo disincantato, divenuto ragionevole, perché egli si muova intorno a se stesso e quindi intorno al suo vero sole. La religione è soltanto il sole illusorio che si muove attorno all’uomo fino a che questi non si muove attorno a se stesso. È dunque compito della storia, una volta scomparso l’al di là della verità, di ristabilire la verità dell’al di qua. È innanzi tutto compito della filosofia, operante al servizio della storia, di smascherare l’autoalienazione dell’uomo nelle sue forme profane, dopo che la forma sacra dell’autoalienazione umana è stata scoperta. La critica del cielo si trasforma così in critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica».

2.

Il punto che però sarà ulteriormente da approfondire mi pare il seguente: «Se tale rovesciamento della prassi, ossia realizzazione dell’armonia che la storia ha perduto o mai trovato, risultasse impossibile, che cosa dovremo dedurne in tema di “paradiso” da trovare? Non dovremo per caso percorrere la strada che da Hegel ha portato al crollo del comunismo – sia pure, ora, infinitamente arricchita da ciò che così si è capito in duecento anni e più – alla rovescia?».

La discussione ulteriore dovrebbe affrontare anche tale interrogativo.

 

21 pensieri su “Due spunti di riflessione

  1. La mia gatta è ormai vecchia, vecchietta dirò, ho sentito di gatti casalinghi che durano ventitré anni e non ricordo quanti anni fa nacque da altre gatte di casa ma, quello che voglio dire, è che “sa” di morire. Anche la mia (grande, bella) cana bianca sapeva. Anzi mi interrogava col suo grande sguardo umido e buono “perché io sento che sto per morire e tu invece sei forte, mobile, e non hai idea di cosa significa?” Le rispondevo con parole: “perché noi umani viviamo una vita più lunga di voi, capiterà anche a me ma tu non lo saprai”. Accettava, ma si doleva ugualmente.
    Che fa ora la gatta? È accucciata sempre intorno alla porta e chiede cibo in continuazione, quattro o cinque volte al giorno. Crede che, quel suo tremendo malessere, io glielo possa togliere, nutrendola col cibo della salute eterna.
    Ecco qua: il tempo ci ammazza. Altro che “far durare l’apertura democratica” come scrive Raparelli, “la drammatica precarietà delle condizioni di lavoro E DI VITA” sopraffa’ sensazioni e prospettive. Chi ha tempo “in abbondanza”? In una società agonica il tempo è divorato dal capitale: l’eredità un tempo, la riproduzione allargata incessante today.
    Se poi Livorsi insiste sulla realizzazione in terra della nostra pienezza unicamente umana (e temporale) qualificando la religione alla pari dei sogni oppiacei, toglie anche la risorsa immaginaria di una giustizia distributiva nell’oltrevita.
    Perché, cari tutti, chi pensa davvero che la giustizia, che non esiste ora di qua, esisterà domani con i nostri figli e figlie? Ma non esisterà neppure in un di là… che, come tutti nel di qua sappiamo che, in quanto tale, non esiste.
    Non sono mai riuscita a capire se la mia cana e la gattina abbiano creduto e credano a un luogo futuro in cui saremo vicine. Forse questa idea balorda è solo umana.
    La cosa che rimprovero maggiormente a papa Francesco è il suo insistente richiamo al padre/papà/dio. Certo che Maria era una semplice donna mortale, invece il Padre maschio… be’, era divinissimo. Vero è che Maria, poi, è stata Assunta, in corpo e non solo in anima, quasi duemila anni dopo…
    Insomma, che pasticcio. Però… però io ho sempre creduto che in realtà non si muore. Non si muore se non per accidente, un colpo, un covid, o quel che è. Ma la vita… ah, quella, continua.
    Non che sia “credente”! Solo un po’ folle, magari, che so, panteista, materialista, senza dio personale… che ne so, lo spirito… 
    https://www.adista.it/articolo/66743

  2. Visto che Ennio non ha ripreso anche gli interventi già usciti in Poliscritture 3 su Facebook, riproduco qui il mio.
    ***
    Mi pare che il post, e soprattutto la discussione che ne è nata, mescolino due aspetti che vanno tenuti distinti, pena fare confusione. Il primo aspetto è la religione come dottrina e organizzazione umana, che è anche, e non potrebbe non essere, un centro di potere che ha i suoi leader e la sua influenza culturale e politica sia in senso lato sia in senso specifico sui programmi delle organizzazioni e delle istituzioni più direttamente politiche, come i partiti e il parlamento, oltre ai giornali e alla tv.
    Qui c’è la dimensione storica, politica, sociologica e anche economica della religione e tutte le critiche sono legittime, come anche gli apprezzamenti per ciò che nell’ambito del mondo (del popolo) religioso c’è di buono.
    Il secondo aspetto è quello teologico, quello della religione come dottrina dei «novissimi», cioè del cuore dell’escatologia come destino ultimo dell’umanità intera e dell’universo.
    Questa dimensione, richiamata con il rinvio al saggio di Franco Livorsi, merita un trattamento molto più approfondito di quanto non faccia Livorsi che, con una metodologia e bibliografia molto datate, ripercorre la posizione di Marx con una esposizione storica che è favorevole, ma tutt’altro che criticamente nuova e perspicacie. Livorsi, che conosco dai tempi in cui ho collaborato con lui quando era docente di Storia delle dottrine politiche alla facoltà di Scienze politiche a Milano, sembra rimasto fermo ai manuali che lui stesso ha prodotto oltre trent’anni fa per gli studenti e alle posizioni già un tempo correnti all’interno dei partiti nei quali ha militato: prima Psi e poi Psiup.
    Manca di rilevare gli errori teorici di Hegel e Marx che cita accoppiandoli in una certa misura, come si usa fare nella storiografia filosofica, e non solo, da quasi due secoli. Sia l’uno che l’altro hanno compreso molti aspetti della dimensione dottrinale, storica e sociologica delle religioni, ma non sembrano aver compreso in che cosa consista l’«essenza» della religione. L’essenza della religione non sta in ciò che le religioni dicono e praticano, ma nelle radici del perché esistono. In proposito Feuerbach e Marx sono acuti sociologi ma grossolani teologi, e colgono solo gli aspetti «materiali» della religione, cioè il suo tradursi in pratiche umane organizzate.
    Livorsi cita Marx: «Il fondamento della critica religiosa è: l’uomo fa la religione e non la religione l’uomo. Infatti la religione è la consapevolezza e la coscienza dell’uomo che non ha ancora acquisito o ha di nuovo perduto se stesso. Ma l’uomo non è un essere astratto, isolato dal mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo, lo Stato, la società».
    Marx non spiega però, e non comprende, perché l’«uomo fa la religione». Da dove nasce questa esigenza così diffusa e che rinasce e si rinnova continuamente anche all’interno delle dottrine dei suoi critici, atei compresi? E perché queste religioni, fatte dall’uomo, hanno tanta influenza da contribuire in modo importante a fare l’uomo? Pertanto Marx sbaglia: se è vero che l’uomo fa le religioni è anche vero che le religioni fanno l’uomo, in uno scambio continuo non spiegabile con i meccanismi del rapporto fra struttura e sovrastruttura. La famosa affermazione citata: «la religione è l’oppio dei popoli» può anche essere mutata, e spesso lo è, in «la religione è il seme dei popoli». E comunque se la religione ha effetti oppiacei, a maggior ragione si può dire altrettanto di tante dottrine politiche, di correnti culturali le più diverse e in genere di quasi tutte le attività umane.
    Marx, e Livorsi, sembrano non capire che una cosa è il sentimento religioso, cioè la risposta, emotiva e razionale insieme, che gli individui danno a se stessi affrontando la prospettiva escatologica. Altra cosa è la religione come risposta organizzata, come dottrina dogmatica, come prassi sociale e politica.
    Nella politica di papa Francesco alcuni apprezzano proprio il fatto che, muovendosi lungo una scia che diventa sempre più forte ma che è presente da secoli e si chiama «secolarizzazione», gli aspetti di «cura del mondo» (politica, economia, sociologia ecc.) aumentano mentre quelli escatologici («cura delle anime in quanto destinate al giudizio particolare») diminuiscono. Altri, al contrario, criticano questa deriva sociologica che trasforma la Chiesa in una agenzia di aiuto sul piano mondano, perdendo però la profondità della sua stessa ragione di esistere.
    I laici, non religiosi o comunque non cattolici, dovrebbero giudicare il comportamento di papa Francesco solo dal punto di vista politico. E da questo punto di vista le diffidenze di Ennio Abate sono fondate, ma però andrebbe aggiunto che nessuna organizzazione e/o dottrina politica sembra riuscire a fare meglio; e che, pur nella sua insufficienza e spesso nella sua distorsione, cattiva volontà e pratiche dannose, la Chiesa ha prodotto e produce realtà di vita esemplare, di carità e di amore per il prossimo (e, possiamo dirlo, anche isole di comunismo) che mai nessun movimento politico ha prodotto in modo tanto vasto e continuo. Considerando pure solo il piano politico e sociologico, spesso troviamo sacerdoti e fedeli cristiani all’avanguardia nella lotta contro la criminalità, contro la mafia o ‘ndrangheta o la camorra, contro la droga, contro il disagio sociale ecc. Da dove deriva questa linfa che sembra ormai del tutto sparita tra le file dei partiti? Che rapporto continua a esistere fra l’insopprimibile pensiero (paura, speranza ecc.) escatologico e gli ideali etici di fratellanza e di giustizia? Marx apparteneva a un mondo in cui ancora ci si divideva fra idealisti e materialisti, come se idealismo e materialismo non fossero termini del tutto vuoti se visti separati anziché come forme esterne e apparenti della stessa realtà di cui l’origine e l’intima struttura ci sfuggono.
    venerdì 11 febbraio 2022 ore 17,41
    ***
    Aggiungo ora.
    Il noto fisico sperimentale Giordano Diambrini Palazzi (1926-2012), in un’intervista del 2002 concessa a un giornale locale della città in cui era nato, Fano, alla domanda sull’ «origine del mondo secondo la scienza», risponde in termini molto divulgativi: «In principio c’era il Nulla, caratterizzato da uno spazio/tempo vuoto. Tuttavia, secondo la Fisica, “tutti i fenomeni possibili finiscono per accadere, ad eccezione di quelli proibiti. La transizione dal possibile al reale avviene tutte le volte che non vi siano regole che proibiscono queste transizioni”. Non è dunque logicamente impossibile che da questo ‘falso vuoto’ possa sorgere un Universo come il nostro, visto che la Fisica definisce il vuoto come un mare di masse con energie negative occupate da particelle».
    Sostanzialmente una delle tante esigenza psicologiche per portano al sentimento religioso non si accontenta di fermarsi al «falso vuoto», si interroga su cose sulle quale la fisica è impotente a dare risposte. Ma soprattutto si interroga sul rapporto che potrebbe sussistere fra la nostra vita, e la vita dell’universo in generale, e ciò che è la sostanza o quel qualcosa o quel qualcuno che sta all’origine del «falso vuoto» o di quel «nulla» che era al principio p di quelle «regole che proibiscono queste transizioni».
    La religione non è un fenomeno sociale, ma un insieme complesso di fenomeni e comportamenti che agiscono su diversi piani e settori e che possono stare insieme o stare separati. La psicologia religiosa è una delle dimensioni della complessità di ciò che diciamo “religione” e a sua volta presenta molti aspetti, alcuni dei quali estremamente pratici. Parlare di religione come «oppio dei popoli» in generale significa fare una battuta che, presa sul serio, non ha nessuna consistenza e nessuna verità.
    ***
    Su Raparelli e i movimenti.
    Sull’apertura del post con il breve stralcio che si riferisce a una recensione del libro di Francesco Raparelli, «Singolarità e istituzioni. Antropologia e politica oltre l’individuo e lo Stato» (Manifestolibri, 2021), il recensore afferma che Raparelli «definisce la politica neoliberale come una contro-rivoluzione. La definizione è intesa, in primo luogo, come una reazione al Sessantotto». Dalla recensione sembra che il problema del ’68 sia centrale nel libro.
    Più sotto si legge: «Così inteso il 1968, oggi non a caso calunniato in ogni dove, può essere considerato sia in continuità con le rivoluzioni che hanno trasformato la modernità capitalistica, il 1848 e il 1917, ma anche in una discontinuità. La sua specificità consiste in una critica immanente dei poteri esposti continuamente a “rinnovate domande di democrazia”, scrive Raparelli. Quelle che sono puntualmente strumentalizzate in forme aberranti com’è stato dimostrato nella stagione populista in Italia. Il problema non è nuovo. La politica, se vogliamo trovare una definizione, è il conflitto tra storia e divenire, tra cicli storici e prospettive».
    A parte quel «conflitto tra storia e divenire, tra cicli storici e prospettive» che è una costante di molte dottrine di filosofia della storia ma di cui non si è mai capito – io almeno non l’ho mai capito – il significato vero e preciso, c’è da rilevare l’idea dei movimenti come «critica immanente dei poteri esposti continuamente a “rinnovate domande di democrazia”». Sicuramente i movimenti sono «critica immanente dei poteri» costituiti, ma non sempre presentano «rinnovate domande di democrazia», come il movimento nazista delle origini e tanti altri movimenti che hanno negato, non domandato, più democrazia. Salvo che per democrazia non si intenda un qualunque rapporto fra domanda politica e organizzazione spontanea (più o meno) dal basso.
    ***
    Sui movimenti e sulle loro dinamiche ha scritto cose molto più interessanti e vere Francesco Alberoni nel libro «Movimento e istituzione» (1977), e su scritti successivi che ne hanno approfondito alcuni aspetti. Nella fase dello «stato nascente» i movimenti sembrano democratici, ma non lo sono, solo perché vi è unità d’intenti e di sentimenti e le differenziazioni restano sotto traccia. Ma questo stato dura poco e se il movimento non si estingue passerà alla fase istituzionalizzata, dove le differenze emergono e dove si pone il problema dell’organizzazione e quindi della democrazia, della sua negazione o affermazione e di che tipo e in che misura. Dall’unità indistinta si passa alla necessità di un programma ed è qui che le «aperture democratiche», spesso solo apparenti e non reali, « faticano a durare». La lotta per il potere, da strumento per realizzare un ideale, si trasforma in altro e condiziona l’intero orizzonte dell’organizzazione che il movimento si è data. Che passi a chiamarsi partito o in altro modo, la dinamica è la stessa: il potere, e i vantaggi del potere, compresi i vantaggi personali e non solo quelli collettivi predicati dalla propria ideologia, prendono il sopravvento. A questo punto della spontaneità e delle aperture democratiche del movimento non resta nulla, salvo ciò che risulta compatibile e funzionale alla lotta per il potere.
    Raparelli, oltre che al ’68, si riferisce anche al 1848 e al 1917, come «rivoluzioni che hanno trasformato la modernità capitalistica». Ma di certo non hanno realizzato i rispettivi ideali e valori democratici predicati dai rivoluzionari del 1948 e da quelli del 1917.

    1. @ Luciano Aguzzi: “La religione non è un fenomeno sociale, ma un insieme complesso di fenomeni e comportamenti che agiscono su diversi piani e settori e che possono stare insieme o stare separati. La psicologia religiosa è una delle dimensioni della complessità di ciò che diciamo “religione” e a sua volta presenta molti aspetti, alcuni dei quali estremamente pratici.” Ma è sufficiente classificarla in questo modo, come “complessità” e con “molti aspetti, alcuni pratici”?
      Cosa intendo dire? Che l’elaborazione teologica dura nel tempo, si arricchisce, e approfondisce quella che è -forse- una intuizione originaria, così che tende a ricoprire e giustificare aspetti crescenti della vita singola e associata. In modo da diventare istituzionale, e poter fornire conforto e coerenza -coerenza soprattutto- alla vita della gente che a quella religione si sente di aderire.
      Ho fatto un esempio, con la formalizzazione dei due generi nel cristianesimo. Il cristianesimo al dio indubbiamente maschio, che è benevolmente diventato padre e papà -piuttosto che temibile sovrano- per papa Francesco, ha impiegato “solo” quasi duemila anni per *accogliere il corpo materiale nel divino*, attraverso il dogma dell’assunzione. Solo che il sesso femminile è visto solo nella sua libertà di essere madre, l’antico divino femminile della donna sempre-vergine (cioè né madre né sposa) non è ancora contemplato… (Ci sarebbero anche altre cose da dire sul fatto che Maria ha un figlio maschio e non femmina, ma… un’altra volta.)
      Non solo quindi la religione come oppio dei popoli è una battuta senza consistenza né verità, ma neppure è consistente separare la parte istituzionale delle religioni dalla intuizione escatologica del destino dell’umanità. L’elaborazione teologica è invece approfondimento, arricchimento e completamento di quella intuizione escatologica. Altrimenti non si spiega perchè millenni su millenni di religioni si mantengano in vita… neppure vita miserabile, per quanto a volte eterodossa. Infatti anche la eterodossia si riferisce a una certa costituzione ortodossa identificata.

      1. @ Cristiana Fischer
        Credo che siamo d’accordo – limitatamente a questo argomento e ai testi del tuo commento e del mio – quasi su tutto. Resta una diversità di approccio e di linguaggio. Ad esempio tu scrivi: «Solo che il sesso femminile è visto solo nella sua libertà di essere madre, l’antico divino femminile della donna sempre-vergine (cioè né madre né sposa) non è ancora contemplato… (Ci sarebbero anche altre cose da dire sul fatto che Maria ha un figlio maschio e non femmina, ma… un’altra volta.). Sono d’accordo, e mi pare che su questo punto abbiamo già discusso in commenti a un altro post di qualche settimana fa. Io avevo ricordato come «l’antico divino femminile della donna» è presente in molte religioni antiche, e tu mi avevi risposto – mi pare di ricordare – sottolineando che, appunto, si tratta di religioni antiche scomparse. Infatti le principali religioni attualmente presenti, soprattutto quelle monoteiste del libro, hanno decisamente una concezione non solo maschilista, ma proprio maschile del divino. Credo che ci vorranno ancora parecchi decenni per riconoscere anche alle donne il sacramento e l’ordinazione sacerdotale. Ci vorrà meno, e gli anglicani ci sono già arrivati e i cattolici si sono aperti sino a concedere gli ordini minori alle donne, per riconoscere le donne atte al servizio che direi para-sacerdotale, cioè a delegare loro una serie di funzioni ora svolte solo dai sacerdoti maschi, ma si tratta comunque di una delega senza ordinazione sacerdotale. Infine, arrivati ai sacerdoti donne, forse verso la fine di questo secolo, mancherà ancora il passo ulteriore e teologicamente più pregnante: il riconoscimento che l’idea di Dio non comporta attribuzione di sesso, che è insieme maschio e femmina e altro. I sessi sono distinzioni che operano nella mondanità e qui terminano il loro compito. La fantascienza ha immaginato, in altri pianeti e galassie, esseri viventi intelligenti non distinti in due sessi, ma in tre o quattro o più, con la necessità di collaborare in tre o in quattro o in più per avere figli. Sarebbe sicuramente una complicazione biologica, sociale e psicologica, ma la loro idea di Dio non potrebbe indicarlo come appartenente a un sesso unico, prevalente. Tutto ciò che è umano è umano, con i limiti e i vizi umani e con la sua evoluzione, o involuzione, propria. E ciò che è delle formiche è delle formiche, compresa la loro idea di dio, se ne hanno o ne avessero una. Ma Dio, o chi per lui, non può che essere unico per gli umani e per le formiche, per i maschi e per le femmine, e non può che essere altro, radicalmente altro rispetto agli umani e alle formiche o a qualunque essere vivente immaginabile. Un discorso storico porta a discutere il carattere maschile della concezione di Dio e la sua lentissima evoluzione verso un’idea che comprenda anche il divino femminile, mentre un discorso teologico porta al superamento di qualunque idea di Dio determinata, contrassegnata, da attributi umani.
        ***
        C’è una vecchia idea che si trova in qualche libro di filosofia, in qualcuno di teologia e in romanzi di fantascienza. È questa: la religione si adatta alle condizioni ambientali, Dio rivela agli esseri intelligenti quelle scintille di verità, e in quelle forme, che sono in grado di capire e utilizzare. Ma la verità intera e unica di ciò che Dio è e fa e vuole non è comprensibile a nessun tipo di essere intelligente che abiti in qualche pianeta.
        Così, se la Madonna ha partorito un Cristo maschio e non femmina, sarebbe perché in quell’ambiente un Cristo femmina non sarebbe stato capito né seguito. Sarebbe stato uno scandalo o, peggio, il Cristo femmina sarebbe stato eliminato in modo diverso e precoce rispetto al Cristo maschio, e non sarebbe riuscito a svolgere la sua missione. Ma ciò non vuol dire, per chi ci crede, che Cristo in quanto Dio e non in quanto uomo, sia maschio. In quanto Dio non è né maschio né femmina e si pone in termini uguali di salvezza di fronte a tutti.

        1. Non so se hai letto quell’articolo di Adista di cui ho messo il link in un precedente commento. Teologi e teologhe cristiani rimandano a una entità non “personale” addirittura.

  3. @ Luciano [Aguzzi]

    Soltanto una precisazione. Hai fatto benissimo a riprendere tu qui il tuo commento-intervento lasciato giorni fa su Poliscritture 3 su FB. Non l’ho fatto io e non ho neppure ancora replicato, come mi ripromettevo di fare, per alcuni urgenti impegni.

  4. @ Cristiana Fischer
    L’ho letto, ma non mi ha particolarmente attratto. Si parla di un «nuovo paradigma post-teista». Ma di paradigmi diversi da quello «teista» ne esistono già a diecine e alcuni sono antichissimi, altri sono idee «per il futuro». Io credo che dire: «Dio esiste», oppure «Dio non esiste», sia sciocco, se non si precisa a quale concezione di Dio ci si riferisce fra le moltissime che la storia delle religioni e della filosofia ci offrono. E sostengo che non si può dire in generale «Dio non esiste», perché qualunque idea ci si faccia dell’origine «del tutto» si troverà che coincide con l’una o l’altra delle diverse idee «divine». L’ateismo e materialismo radicale del Settecento sfociava di fatto in una grossolana idea panteistica, dove la Natura si ergeva a divinità, con tutti gli attributi di tante altre idee di divinità. Non si sfugge al fatto che qualcosa esiste, che il nulla non esiste, e che qualcosa o qualcuno governa le leggi fondamentali di ciò che esiste.
    Io non vado oltre con la credenza in positivo. Non oltre i confini che ci indicano, da un lato la storia che riusciamo a conoscere dell’universo, della natura, dell’umanità. Da un altro lato i confini della astrofisica e della cosmologia, che ci parlano di «falso vuoto» o di un «nulla» che non è nulla, ma dal quale nasce il tutto. Che cosa sia quel «nulla» così potente e così non immaginabile non lo so, ma mi rimanda a un terzo confine, quello della psicologia, che porta alla speranza.
    La “speranza escatologica” può essere più o meno ampia, più o meno razionale, più o meno fantasiosa, ma è sempre e comunque la fonte di quei processi che alcune parole, come “provvidenza”, come “salvezza”, come “senso del vivere e dell’esserci”, ci delineano. La mancanza di ciò ci precipiterebbe negli abissi della disperazione. Non nel “pessimismo”, termine usato a sproposito per il Leopardi e per tanti altri, ma nella “depressione metafisica”, con la quale la speranza si tramuta in convinzione che l’universo sia in qualche modo una congiura contro di noi, e il “divino” sia il sadico essere che dirige la congiura e di cui dobbiamo liberarci.
    Come? Ecco che qui torna una forma di divinità: l’uomo che costruisce utopie mortali per ergersi a Dio immortale. Dio di se stesso, dapprima, e poi anche Dio degli altri umani ridotti a sudditi. Quanta pretesa di divinità c’è nell’autostima di Alessandro Magno, Giulio Cesare, Napoleone, Hitler ecc. ecc.? O, su un altro livello, nelle dottrine dell’anarchico individualista Max Stirner?
    ***
    Quel che nell’articolo di Adista (e nelle posizioni di Adista stessa) non mi quadra, è la pretesa di andare oltre l’immagine di Dio del Cristianesimo partendo, e in qualche modo restando entro le tracce, del Cristianesimo stesso.
    La descrizione di copertina del libro «Oltre Dio» (Gabrielli Editore, 2021), di autori vari, dice:
    «È dedicato al tema del post-teismo, colonna vertebrale del nuovo paradigma definito post-religionale, il quarto volume della serie Oltre le religioni, centrata sull’invito ad andare al di là delle religioni così come le conosciamo, con i loro miti e i loro dogmi, con le loro dottrine e i loro meccanismi di sottomissione e di controllo.
    È il tema, cioè, del superamento dell’immagine di Dio come un essere dal potere soprannaturale e dai tratti antropomorfi e patriarcali, onnipotente e onnisciente, creatore, signore e giudice, che dimora al di fuori di questo mondo imperfetto e passeggero ed esercita il suo governo su di noi intervenendo “miracolosamente” nel dominio della natura. Con tutto ciò che tale superamento comporta rispetto ai dogmi della tradizione cristiana, anche cristologici.
    Ma, come indicano gli autori e le autrici di questo libro, la rinuncia definitiva all’immagine di un Dio trascendente, provvidente e personale non comporta di per sé il passaggio all’ateismo, configurandosi piuttosto come il punto di partenza di una ricerca spirituale svincolata da ogni pretesa di verità e da ogni appartenenza che non sia quella alla nostra casa comune e alla nostra comune umanità.
    Ma cosa possiamo dire rispetto alla realtà divina in cui si vuole continuare a credere, se “credere” ha ancora un senso? E, soprattutto, possiamo dire qualcosa, se è vero che, più di ogni altra parola, “Dio” «nasce dal Silenzio e conduce al Silenzio»? È a questi interrogativi, e a molti altri, che cercano di rispondere le pagine che seguono, nel segno di una riflessione su un Mistero senza nome che va oltre, immensamente oltre, la nostra capacità di comprenderlo».
    Mi si perdoni la franchezza, ma ciò mi pare aria fritta e già fritta da secoli e secoli. Può assumere un valore importante e attuale solo a due livelli, nessuno dei quali mi appartiene:
    1) Muoversi all’interno del Cristianesimo per modificarlo, fino a farlo diventare – con tutta evidenza – un qualcosa del tutto diverso, una forma di anti-cristianesimo. E ciò a livello teorico e teologico, ma anche,
    2) a livello di spazio da conquistare nell’ambito sociale. Cioè a livello di “potere” del proprio pensiero religioso.
    ***
    Osservo che il Cristianesimo è quello che è, ha la sua storia, e se e quando dovesse uscire dalla sua storia, per quanto questa possa essere elastica, diventerà un’altra cosa. Ma allora, volendo, questa «altra cosa» la si può cercare e trovare anche fuori dalla tradizione cristiana, e la storia ce ne offre tanta di «altra cosa», prima durante e post cristiana. Se invece si vuole che questa «altra cosa» esca dal cattolicesimo – cristianesimo con cui si mette in rapporto di continuità, allora vuol dire che si aspira anche alla sua eredità di potere, di istituzione, di organizzazione.
    Adista, infatti, nata in clima di dialogo fra cattolicesimo e marxismo, si è mossa, e forse si muove ancora in qualche modo, nel senso di un rinnovamento del cattolicesimo per mezzo dell’influenza del marxismo, o comunque di idee “moderne” che tendono a farne una realtà storica tutta diversa.
    Ciò è lecito. Basta saperlo ed essere chiari.
    NB. Non confondo le posizioni di Adista come Agenzia di informazioni e stampa con una particolare vocazione e dedizione per i temi religiosi, con quelle del «modello post-teista» che si limita a segnalare come qualunque agenzia o giornale, ma vi trovo però un comune ambito che cammina lungo la linea che va dal riformismo radicale del cattolicesimo alle nuove forme di religiosità e di ricerca teologica di cui quella «post-teista» è una delle tante e fra le più radicali alternative al modello teista del cristianesimo. Io ho saltato da tempo la linea di confine e considero il cristianesimo e il cattolicesimo come realtà storica (che comprende eventi, dottrine, idee teologiche ecc.), approfondendo la mia ricerca teologica all’interno del più vasto campo della storia, della filosofia e delle problematiche poste dalle scienze.

    1. L’articolo su Adista da’ conto di un avvenuto convegno sul non teismo. Rimanda anche a un altro articolo in cui è presentato il testo di preparazione al convegno. “Per un cristianesimo post-teista”, J. Arregi, T. Brun, G. González, J. M. Vigil, S. Villamayor 29/09/2021, 12:49.
      Da questo secondo testo emerge l’attenzione alla scienza e si avanza l’idea di “realtà come un tutto complesso e unitario di materia, energia, vita e coscienza, basata su una visione non dualista, olistica, in cui la ‘materia dinamica’ autoconfiguratrice è fonte di successive proprietà emergenti qualitative, matrice che genera tutto l’esistente. Un’interpretazione che si oppone al dualismo materia-spirito e costituisce un grave colpo all’immagine tradizionale del Dio creatore, spirito puro, onnipotente e provvidente.”
      Il non teismo quindi “è compatibile con la diversità di simboli con cui riconosciamo con riverenza e in maniera attiva un Mistero ultimo o una Realtà Ineffabile nella quale siamo. È un invito a superare tanto il teismo quanto l’ateismo convenzionale di tipo positivista, a riscoprire la casa comune cosmica, a far ritorno dalla fuga soprannaturale alla natura a cui apparteniamo. Il postteismo non pone una camicia di forza all’esperienza del mistero e permette la creatività spirituale e l’autonomia.”
      Scienza, storia, coscienza trovano spazio in una idea globale che tuttavia rimanda a un senso che non possediamo. Io ricordo sempre che Fabiola Gianotti si è dichiarata credente.

      1. Siamo più o meno d’accordo, salvo il fatto che io mi attengo, forse con maggiore prudenza filosofica, più a una teologia negativa che a una positiva, perché qualunque affermazione in positivo, sia pure generalissima, come questa che tu citi: «l’idea di “realtà come un tutto complesso e unitario di materia, energia, vita e coscienza, basata su una visione non dualista, olistica, in cui la ‘materia dinamica’ autoconfiguratrice è fonte di successive proprietà emergenti qualitative, matrice che genera tutto l’esistente», impegna già a credere ciò che non è dimostrabile.
        Sono invece pienamente d’accordo con quest’altra affermazione del tuo commento: «Scienza, storia, coscienza trovano spazio in una idea globale che tuttavia rimanda a un senso che non possediamo».
        ***
        Non la teologia, non la filosofia, non la scienza passano dal negativo al positivo nei tentativi di risposta ai misteri ultimi, ma solo altre vie della conoscenza: il sentimento, la speranza, la fantasia. Questa conoscenza che dà risposte in positivo è però qualcosa che si radica nella coscienza, che non è dimostrabile e nemmeno razionalmente definibile e descrivibile al completo.
        La rintraccio in quantità maggiore più in opere di poesia e di narrativa che in lavori che, a qualunque titolo, pretendano la qualifica di “scientifici” e di “logici e razionali”. E fra le opere religiose, di qualunque religione, ne trovo di più nei mistici e nelle descrizioni di esperienze personali che non nei trattati di teologia.
        ***
        Sui rapporti fra religione e scienza mi è capitato di leggere, quand’ero ancora ragazzino alla ricerca di capire meglio e approfondire la fede cattolica, alcuni libri di Camille Flammarion, risalenti ai decenni fra gli ultimi dell’Ottocento e i primi del Novecento. E subito dopo diversi testi delle correnti di teosofia e antroposofia e di religiosità orientale. Sono passati più di cinquant’anni e trovo che nei presupposti di fondo quello “slargamento” dell’idea di religiosità non è stato superato, bensì solo aggiornato e riesposto in migliaia di libri con nuovo linguaggio e con riferimenti a nuove esperienze. Ma i fondamenti restano quelli antichi: né deismo, né teismo, né mero panteismo naturalistico e materialistico o idealistico, ma un mistero insondabile che però ci coinvolge totalmente e al quale diamo risposte quotidiane, consapevoli o no di farlo, che determinano la nostra vita, più o meno direttamente a secondo della quantità di mediazioni culturali che facciamo intervenire e il cui sbocco oscilla fra “fede” completa e “non fede” completa. Dove la “non fede” è comunque una “fede alternativa”, perché la nostra psicologia quotidiana si nutre di fede a ogni minuto, in fede in tante cose di cui non possiamo avere certezza, almeno nel momento in cui ci servirebbe.
        Per paradosso, una “non fede” totale, da parte di chi volesse vivere e agire solo con certezze razionali, porterebbe alla paralisi completa.

        1. Direi che la teologia negativa incontra la nostra epoca, come fu per esempio in certa filosofia islamica, e incontra il presente.
          Non aggiungo altro (anche se potrei, sul padre, la madre, la colpa, ecc)
          Contemporaneamente la teologia negativa “chiarisce” l’abisso tra il divino e la nostra umanità. E la “speranza” (terza virtù teologale) si … destituisce?

  5. Solo qualche breve nota, in ritardo:
    – in primis una quisquilia tecnica: il vuoto ‘originale’ (?) non ha masse, ma solo particelle/onde virtuali che nascono e decadono spontaneamente; e l’idea nasce da un’intuizione di Dirac che si chiede perchè non possano esistere stati di energia negativa. Sulla dinamica del mondo in cui stiamo ci sono però molte idee interessanti, come il fatto che in realtà non c’è mai stato un Big Bang ma solo uno stato progressivo di espansione che forse sarà seguito da una contrazione..in cicli infiniti.
    – ma queste precisazioni mi servono a introdurre una considerazione che mi viene dalla lettura di Graeber, il quale sostiene con dovizia di prove e ragionamenti che le nostre idee sulla storia dell’umanità sono fasulle, fake news inventate nel 700 e 800 per giustificare e glorificare il capitalismo come stadio finale dell’umanità. E di queste idee fasulle fan parte non solo i cosiddetti caratteri naturali dell’uomo (dall’homo homini lupus all’homo oeconomicus) ma anche gli equivoci sui suoi modi di aggregazione sociale e le morali corrispondenti.
    – Una parte di questi equivoci entrano anche nel discorso sulle religioni: non perché siano di per sé false coscienze ma perchè anch’esse sono state molto più variegate di come ce le abbiano rappresentate, a volte totalizzanti, poi ripudiate, a volte assenti, ogni volta in un ruolo diverso e dinamico con l’organizzazione sociale. Forse può chiarire l’esempio di Stonehenge: la ricerca degli ultimi vent’anni, coi suoi strumenti di indagine raffinati (datazione cogli isotopi, analisi del DNA dei frammenti di ossa e ricostruzione di forma e provenienza dei soggetti) ha chiarito che era prima cimitero di personaggi notevoli (forse i ‘re’ del carnevale), poi 500 anni dopo luogo di riunione di comunità e contemporaneamente osservatorio astronomico e momento di culto (il tutto forse legato allo sciamanesimo) . Un meccanismo che si ripeterà simile ancora 400 anni fa fra le tribù del Nord America.
    – la rete di illusioni con cui ci hanno allevato ci porta a fare sogni pericolosi e talvolta a costruire ragionamenti basati sui luoghi comuni da Corriere che vengono assunti come strumenti di analisi (i comunismi crollati e simili beatitudini). La bellezza della Fisica dei primi del ‘900 è stata che non ha avuto paura a non fidarsi delle verità rivelate e dei loro concetti base. Oggi abbiamo ancora bisogno di quel coraggio.

    1. “– ma queste precisazioni mi servono a introdurre una considerazione che mi viene dalla lettura di Graeber, il quale sostiene con dovizia di prove e ragionamenti che le nostre idee sulla storia dell’umanità sono fasulle, fake news inventate nel 700 e 800 per giustificare e glorificare il capitalismo come stadio finale dell’umanità.” (Di Marco)

      SEGNALAZIONE

      ALL’ABA* DEGLI STUDI SULL’ALBA DI TUTTO.
      Pubblicato il 20 febbraio 2022 da pierluigi fagan

      https://pierluigifagan.wordpress.com/2022/02/20/allaba-degli-studi-sullalba-di-tutto/?fbclid=IwAR3nS0UNXGhNs3KSSEEh-PELqfRZdfxIZnHsJ7QoER-cVRtDXRW1wfETOqI

      * Applied Behaviour Analysis (Analisi Applicata del comportamento).(?)

  6. sul discorso religioso mi sento impreparata a parlarne forse anche perchè ho dovuto, in età giovanile, farmi forza per respingere certe convinzioni e pratiche della religione cattolica che mi aveva in qualche modo asservita in ruoli dove il senso di colpa e la paura erano dominanti, lasciando comunque un’impronta. Posso capire la definizione di Marx “Religione, oppio dei popoli” se applicato ai molti secoli bui della storia umana ma anche
    ai tempi brevi e circoscritti di molte storie personali in ambienti periferici fortemente clericali…Detto cio’, non mi corrisponde pienamente quella defnizione in quanto lo spirito nato da religione puo’ anche aprirsi ad una consapevolezza sullo stato del mondo, sulla storia e ad un impegno di forte e convinta solidarietà…Personalmente aderisco ad una prospettiva laica di visione del reale ( ?), di impegno sociale ed ecologico ma, eccezionalmente, provo attrazione per il credo panteista perchè antiantropocentrico, antiegocentrico e suffragato dalla scienza, credo…In esso, forse, puo’ convergere “escatologicamente” il meglio di tutte le ideologie e religioni. Ovviamente il mio è un discorso parziale e superficiale…Non siamo demoni, ma neanche angeli…Ora, dai fatti, pendiamo di piu’ dalla prima parte che dalla seconda, speriamo non sia l’ultima parola…

  7. @ Luciano Aguzzi

    APPUNTI

    1. Tu dici che Livorsi è rimasto ancorato al passato. Può darsi. Ma il suo sunto della analisi di Marx sulla religione mi pare ancor oggi utile e condivisibile. Tanto più che, come annota nella parte finale, è presentata in modi problematici e tenendo conto dei fallimenti dei tentativi di socialismo: «Se tale rovesciamento della prassi, ossia realizzazione dell’armonia che la storia ha perduto o mai trovato, risultasse impossibile, che cosa dovremo dedurne in tema di “paradiso” da trovare? Non dovremo per caso percorrere la strada che da Hegel ha portato al crollo del comunismo – sia pure, ora, infinitamente arricchita da ciò che così si è capito in duecento anni e più – alla rovescia?».

    2. Non capisco perché questa analisi della religione di Marx debba essere liquidata con sufficienza. Altra cosa sarebbe se ne riconoscessi almeno alcuni meriti e la mettessi a confronto con le posizioni “teologiche”, verso le quali tu e Cristiana Fischer apertamente propendete. Dici che «Feuerbach e Marx sono acuti sociologi ma grossolani teologi, e colgono solo gli aspetti «materiali» della religione, cioè il suo tradursi in pratiche umane organizzate». Ma sono forse aspetti trascurabili? I due dell’Ottocento «non sembrano aver compreso in che cosa consista l’«essenza» della religione»? Allora, a bruciapelo: c’è per te chi l’ha compresa? Se sì, esaminiamo l’autore e l’opera che avrebbe chiarito tale «essenza» e resa inservibile quella di Marx.
    (In un altro commento citi Camille Flammarion. E’ questo l’autore che contrapponi a Marx?)

    3. Non mi pare neppure sostenibile che Marx non spiegherebbe o non comprenderebbe perché l’«uomo fa la religione»». Puoi essere in disaccordo con la sua spiegazione, ma nel brano Livorsi vi accenna, quando dice: «La miseria religiosa esprime tanto la miseria reale quanto la protesta contro questa miseria reale». Marx, dunque, tiene ben conto dell’ambivalenza (complessa) del fenomeno religioso, sulla quale tante cose fondamentali ha poi, sulla sua scia, scritto Ernst Bloch. E, inoltre, indica una prospettiva forte, che fa uscire questi discorsi dalle aule accademiche o dai seminari teologici (sostenuti, tra l’altro, anch’essi da istituzioni ben “materiali”): quella protesta contro la miseria reale può/deve, trasformando però la realtà, non accontentarsi più della «miseria religiosa». Mentre, invece, la tua formula: «se è vero che l’uomo fa le religioni è anche vero che le religioni fanno l’uomo», oltre a sembrarmi un banale ribaltamento della tesi di Marx, cancella un dato fondamentale da lui messo in chiaro: che la religione è ANCHE «miseria». (Se poi non lo fosse, o se ogni mutamento della realtà è impossibile e il massimo è la consolazione che danno le religioni, teniamocele assieme alla “miseria”. Io credo però che le ribellioni contro di essa continueranno fuori e dentro gli stessi mondi controllati dalle religioni).

    4. Questo dato della «miseria» delle religioni tu, invece, tendi a sorvolarlo o a giustificarlo o a nobilitarlo. E quando scrivi: «La religione è il seme dei popoli», mi viene da dire: beh, se questi popoli usciti dal seme della religione, in nome di essa, fanno guerre, impongono limiti alla ricerca della verità (Galilei, Giordano Bruno, ecc.) o morali repressive non del tutto giustificabili neppure con il «disagio della civiltà» (Freud), vuol dire che la «miseria religiosa» continua a produrre danni non irrilevanti pur convivendo con auspicabili e innegabili proteste religiose contro i dominatori del mondo.

    5. Certo, « se la religione ha effetti oppiacei, a maggior ragione si può dire altrettanto di tante dottrine politiche, di correnti culturali le più diverse e in genere di quasi tutte le attività umane». Proprio per questo la novità e la forza del pensiero di Marx mi pare ancora più rilevante. E trovo sospetto il volersene disfare. Perché egli poneva l’esigenza della critica come fondamento del pensiero e non l’ideologia, religiosa o d’altro genere. ( È uno dei «maestri del sospetto» da cui sempre imparare, come ricordò Ricoeur). E non a caso è proprio il pensiero critico che le religioni e le ideologie di ogni tipo e colore che vogliono abolire.

    6. Né mi pare che « Marx, e Livorsi, sembrano non capire […] il sentimento religioso, cioè la risposta, emotiva e razionale insieme, che gli individui danno a se stessi affrontando la prospettiva escatologica». Lo capiscono, ne vedono però le radici nella materialità delle condizioni storiche ( e non nella paura della morte).

    7. E se le religioni (e non solo quella della Chiesa cattolica) hanno prodotto « realtà di vita esemplare, di carità e di amore per il prossimo» (sulle «isole di comunismo» chiedo approfondimenti, perché il comunismo non si può ridurre a “isole”), non capisco perché accontentarsi di questo. Non capisco perché dimenticare che c’è stato un pensiero e un movimento che ha tentato di andare oltre questo modo religioso sicuramente insufficiente di stare al mondo e di ridurre la evidentissima sofferenza degli umani. E perché rinunciare a ripensare il tentativo di andare oltre l’ambivalenza delle religioni. E perché, infine, « volti addietro i passi,/ del ritornar ti vanti,/e procedere il chiami».

    1. Sulle posizioni teologiche verso cui apertamente propenderei (non posso parlare per Aguzzi): spero invece di mantenere una posizione “terza”, di osservatrice. Il “pensiero” e “movimento” che “ha tentato di andare oltre questo modo religioso sicuramente insufficiente di stare al mondo e di ridurre la evidentissima sofferenza degli umani” mi pare basarsi solo su una posizione apertamente ateistica – anche se, ponendosi ormai apertamente una posizione postteistica parlare di ateismo fa sorridere…
      La questione di quel movimento e pensiero invece è semplicemente che né ciò che è cresciuto sul pensiero di Marx né le religioni hanno potuto realizzare concretamente l’aspirazione a una umanità concorde (diciamo con le sole “contraddizioni in seno al popolo”) né sciogliere l’orrore delle crudeltà interumane.
      L’ampiezza delle migliori aspirazioni umane può risiedere nelle religioni (con la loro, probabilmente innata, ambiguità) così come nei progetti analitici e costruttivi della politica.
      C’è però qualcosa nella religione che batte la politica: il limite, che si impone, della conoscenza, e che rende persino eccelsi scienziati e scienziate dei normali credenti. Fede e carità possono anche appartenere a una idea politica, la 3* virtù teologale, la speranza invece, quella è la ciliegina sulla torta delle prime due e trascina tutte e tre nell’oltre.
      Quello che trovo estremamente interessante, infatti, è lo strumentario concettuale che le religioni hanno approntato, di cui, del resto, anche Marx in parte si è servito almeno in gioventù.

  8. @ Cristiana Fischer

    APPUNTI

    1. «Se poi Livorsi insiste sulla realizzazione in terra della nostra pienezza unicamente umana (e temporale) qualificando la religione alla pari dei sogni oppiacei, toglie anche la risorsa immaginaria di una giustizia distributiva nell’oltrevita. Perché, cari tutti, chi pensa davvero che la giustizia, che non esiste ora di qua, esisterà domani con i nostri figli e figlie? Ma non esisterà neppure in un di là… che, come tutti nel di qua sappiamo che, in quanto tale, non esiste».

    A volte davvero stupisco, ammirato e incuriosito, di fronte alle acrobazie della tua prosa, che nel sottofondo – come in questo brano – svela un profondo nichilismo. Rispettabilissimo, eh! E forse confermato da mille eventi e discorsi autorevoli. Ma analizziamo il brano. Perché uno (Marx o Livorsi) sbaglierebbe a insistere « sulla realizzazione in terra della nostra pienezza unicamente umana (e temporale)»? Qualcuno ha dimostrato forse in modo irrefutabile e definitivamente che un tale scopo è impossibile? Non mi pare. Lo si afferma, invece, sulla base della propria esperienza quasi sempre carica di fallimenti. O sulla base di quanto ( sempre poca cosa e continuamente da rivedere o revisionare)si arriva a conoscere delle esperienze altrui o di pezzi di storia della società umana. Anche sul «di là» chi ha raggiunto certezze assolute? E ancora: non ce l’ho col nichilismo. Potrebbe anche rivelare aspetti reconditi che è bene escano dall’ombra. Ma cosa lo renderebbe superiore o più solido dell’insistenza di un Marx o Livorsi?

    2. «Non solo quindi la religione come oppio dei popoli è una battuta senza consistenza né verità ».

    Mi chiedo perché è così difficile – dico per noi che dialoghiamo qui su Poliscritture e non al bar – sottrarsi alla interpretazione più banale e facile di questo slogan estrapolato dal discorso ben più complesso e profondo di Marx ( e persino dalla frase in cui compare: « «La religione è il gemito dell’oppresso, il sentimento di un mondo senza cuore, e insieme lo spirito di una condizione priva di spiritualità. Essa è l’oppio del popolo».) e usato come una clava contro Marx e il marxismo, che sarebbe rozzo, schematico, grossolanamente “materialista”?
    Eppure – è bene rileggere – Livorsi ha precisato: « Marx conosceva sicuramente il romanzo autobiografico dell’inglese Thomas de Quincey Confessioni di un mangiatore d’oppio (1821-22) e, oltre a tutto, viveva in un tempo in cui i lavoratori, spesso abbrutiti dalla fatica, nel fine settimana facevano appunto esperienza dell’oppio, come si vede ancora in Martin Eden di London (1909), in un tempo in cui il suo uso era totalmente libero. Qui sta a significare che le visioni paradisiache che l’oppio dà equivalgono alle speranze vane nel paradiso, e hanno lo stesso significato di evasione artificiale dalla realtà.
    «La soppressione della religione in quanto felicità illusoria del popolo è il presupposto della sua vera felicità. La necessità di rinunciare alle illusioni sulla propria condizione, è la necessità di rinunciare a una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione è quindi, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola».
    A questo punto emergono alcuni altri passaggi decisivi: «La critica non ha strappato i fiori immaginari della catena perché l’uomo continui a trascinarla triste e spoglia, ma perché la getti via e colga il fiore vivo».

    No, considerata in questo contesto del discorso di Marx, la religione come oppio dei popoli non è «una battuta senza consistenza». Tanto più che tu stessa dici che la religione (la teologia) mira a «fornire conforto». E l’oppio allora era un «conforto».

    3. «Altrimenti non si spiega perché millenni su millenni di religioni si mantengano in vita».

    Boh, sarò ingenuo ma a me pare evidente proprio da quel che dice Marx: perché «millenni su millenni» la sofferenza – inflitta a servi, contadini , operai, oggi anche ai lavoratori della conoscenza – prevale. E se c’è oppressione, se si soffre, si ha bisogno almeno di conforto. Ed è più facile offrire conforto (limitato e spesso illusorio) che realizzare condizioni quantomeno di minore sofferenza.

    1. Nel mio secondo commento la frase “Non solo quindi la religione come oppio dei popoli è una battuta senza consistenza né verità ” faceva il verso a una frase di Aguzzi, appena letta: “Parlare di religione come «oppio dei popoli» in generale significa fare una battuta che, presa sul serio, non ha nessuna consistenza e nessuna verità.”
      Ma quanto al nichilismo: il ragionamento che ho seguito era sul filo del paradosso. Di fronte al tempo che ci segna e ci limita i due testi che hai presentato nel post esponevano ambedue un certo consistente pessimismo. Quindi traevo questa conclusione: se Raparelli parla delle difficoltà nella vita democratica, Livorsi poneva dubbi sul paradiso da trovare, in cielo E in terra, come al punto 2.
      Al contrario io aprivo a un mio atteggiamento (senz’altro infantile) di convinta non-morte, anche solo come trasformazione della materia… interrogando anche la eventuale e specialissima “realtà” … dello spirito.
      Altro che nichilismo, quindi.
      Del resto mi avevi appena dato una propensione alle posizioni teologiche. Non so, mettiti d’accordo con te stesso.

  9. @ Ennio
    Caro Ennio, ci vorrebbe un volume intero per rispondere a tutti gli aspetti del “problema religione” che tu poni, tornando a chiedere risposte anche su cose sulle quali ho già risposto, con un procedimento retorico che ogni volta indurrebbe a ricominciare da capo. Non potendo ripetere tutto quello che ho scritto in commenti abbastanza ampi e articolati, riparto dalla tua ripetizione della frase di Marx, ampliata:
    *«La religione è il gemito dell’oppresso, il sentimento di un mondo senza cuore, e insieme lo spirito di una condizione priva di spiritualità. Essa è l’oppio del popolo».*
    Mi chiedo, e Livorsi e tu e tanti altri non se lo chiedono, abituati a una lettura più agiografica che critica dei testi di Marx: Che significato ha questa affermazione di Marx, e quel significato, qualunque sia, vale per la situazione storica e sociale dei tempi di Marx o vale in generale per ogni tempo? In sostanza: La religione è «oppio del popolo» sempre e in qualunque situazione, oggi come al tempo degli antichi egizi, come al tempo delle prime manifestazioni religiose documentate di circa 30mila anni fa; sempre anche geograficamente: vale per l’antica Cina come per gli Usa di oggi, per gli sciamani eschimesi e per quelli della Patagonia come per quelli degli aborigeni australiani? E ancora: vale sia per i ceti sociali sottomessi, poveri, ridotti in miseria, come, per quelli ricchi, dominanti? E ancora: vale sia per i poveri che in nome della religione si ribellano all’ingiustizia come per l’eremita che si ritira a pregare in perfetta solitudine in una grotta fra i monti o per il potente e nobile signore che si fa frate, vive di elemosina in povertà e si dedica alla cura dei lebbrosi?
    Il fenomeno religioso è talmente ricco di diversità che parlare di «oppio del popolo» senza specificare bene dove quando come per chi, è, ripeto, una sciocchezza. O meglio, è una battuta propagandistica che diventa slogan al servizio della lotta per il potere. Non ha verità storica, teologica, psicologica, filosofica, sociologica ecc. ecc.
    ***
    Come ho scritto altre volte, Marx ha trasformato l’ideale etico del comunismo in qualcosa di completamente diverso: una strategia per la conquista del potere, che però si rifiuta di precisare a che cosa servirà il potere una volta conquistato. E si è visto a cosa è servito. Marx, guardando retrospettivamente a ciò che hanno fatto i marxisti che hanno conquistato il potere, dovrebbe essere definito il maggiore anticomunista della storia, perché ha trasformato un ideale in un incubo.
    ***
    Una chiave di volta che riassume il complesso degli errori di Marx sta in una sua affermazione tanto celebrata da tutti i rivoluzionari. La tesi 11 su Feuerbach: «I filosofi hanno [finora] solo interpretato diversamente il mondo; ma si tratta di trasformarlo».
    Marx condizione la sua «interpretazione del mondo» all’obiettivo di trasformarlo, piegando e strumentalizzando i criteri scientifici, il rigore della ricerca, alle esigenze della strategia. Così facendo produce una falsa conoscenza come base del progetto di trasformazione, che porterà a dei successi momentanei ma alla catastrofe come conseguenza di quei momentanei successi.
    L’affermazione di Gramsci: «Dire la verità, arrivare insieme alla verità, è compiere azione comunista e rivoluzionaria» (Antonio Gramsci, “Democrazia operaia”, in “L’Ordine Nuovo”, 21 giugno 1919), in Marx e in Lenin è rovesciata: è la rivoluzione a essere la verità, non viceversa. Fino all’aperta e consapevole menzogna giustificata come necessità, e quindi verità, rivoluzionaria.
    ***
    Precisato quanto sopra, Marx non capisce, e non gli interessa capire, il fenomeno religioso nella sua vastità, essenza e verità. Gli basta cogliere, o credere di aver colto, ciò che è funzionale alla sua costruzione politica spacciata per scientifica. Non studia il fenomeno religioso per comprenderlo, ma solo per aiutarsi nel trasformare il mondo. Ne consegue la sua lettura parziale, frammentaria, distorta dei fenomeni religiosi.
    ***
    In che cosa consista l’essenza della religione, secondo me, l’ho già detto, ma poiché Ennio mi ripropone la domanda, risponderò di nuovo e in termini più articolati.
    La religione è la risposta che una società umana (ma forse anche alcune società animali, sono in corso studi per accertare se alcune specie animali abbiano un qualche sentimento religioso) dà ad alcune domande fondamentali che l’uomo, per quanto ne sappiamo, ha cominciato a porsi oltre cento mila anni fa. Si tratta di domande di tipo diverso ma che nascono dalla vita concreta e dai sentimenti che animano la vita stessa.
    1) Una parte di queste domande riguarda ciò che nella teologia sono definiti «i novissimi» (morte, giudizio particolare, Inferno e Paradiso), cioè il destino dell’individuo dopo la morte il che comporta anche il destino dell’intera creazione e/o realtà in quanto distinta dalla divinità. Queste domande e le risposte le ritroviamo in tutte le religioni, per quanto estremamente diverse fra loro. L’insieme delle risposte così tanto diverse è, per lo studioso del pensiero escatologico, un interessantissimo catalogo che s’intreccia con la psicologia, la storia, la politica, l’essere sociale delle comunità umane nel corso della loro esistenza. Di comune a tutti non vi sono i contenuti specifici, ma il sentimento che spinge a porsi le domande e l’esigenza di avere delle risposte.
    2) Un gruppo di altre domande riguarda invece non il destino dopo la morte ma la vita in questa terra, in relazione, però, a quel destino oltre la morte. Come comportarsi affinché il destino oltre la morte sia il migliore possibile? Ecco dunque che le diverse risposte producono diverse concezioni sull’etica, sulla vita religiosa, sui rapporti fra le persone. Ma questo ancoraggio del nostro presente in vita con il destino in morte è un altro aspetto comune a tutte le religioni e al sentimento religioso.
    3) Un terzo gruppo di domande riguarda invece cose la cui competenza è passato nel tempo dalla religione alle scienze. Nella religione vi è sempre stato, e ancora oggi in misura ridotta vi è, un aspetto che potremmo definire “scientifico” e “tecnico”, comunque operativo su aspetti i più diversi della vita. Quando manca ogni altra forma di conoscenza, è il pensiero religioso e “magico” (e la magia altro non è che una tecnica per influenzare gli eventi che ci riguardano) che opera. Pregare perché una persona guarisca non è superstizione (o almeno non lo era prima dello sviluppo dell’invadente omnipresenza della medicina), ma è una pratica di cura, alla pari, come approccio mentale e non come efficacia, alla somministrazione di cure basate su altre “credenze”, scientificamente provate o non provate.
    4) Il ruolo tecnico-pratico della religione riguardava ogni aspetto della conoscenza e in alcuni di questi permane. Riguardava anche un altro settore del sapere pratico: quello dell’organizzazione sociale, dei suoi fini, della guerra e della pace. Il comune spirito religioso, le comuni credenze religiose, da sempre sono un elemento identitario, il che vuol dire che la religione è un elemento fondativo di ciò che è un popolo. Molti popoli si sono affacciati alla storia, come popolo unito da proprie caratteristiche e da propri intenti, sulla base di un credo religioso. E si sono disgregati con la perdita di quel fondamento di unione. Non per nulla le religioni sono sempre state anche un elemento di contesa e di guerra, per l’affermazione della propria e per la distruzione delle altre. Oggi, con il globalismo, il laicismo e la secolarizzazione, come elemento identitario primario si tende a sostituire la religione con la Costituzione. Non mancano gli umori religiosi negli scritti di chi sostiene che è la Costituzione l’elemento identitario, fondativo e unitario di un popolo. La Costituzione diventa una specie di Vangelo laico capace di unire anche i praticanti di religioni diverse. Con la Costituzione si ha uno Stato senza religione, indifferente alle religioni, perché ha nella Costituzione la propria religione laica, ma non meno autoritaria e prescrittiva di quelle tradizionali.
    ***
    Quando i quattro gruppi di domande e risposte in cui ho schematizzato il problema si uniscono e diventano ideologia complessiva di un popolo, di una società, o comunque di un potere organizzato, si hanno le religioni come istituzioni storiche.
    Ma il sentimento religioso vero e proprio continua a vivere nelle domande e risposte del primo gruppo in correlazione con quelle del secondo. Mentre quelle del terzo e quarto gruppo fanno parte delle religioni come istituzioni e non della religiosità in quanto tale. Spesso, anzi, ne costituiscono una distorsione indebita.
    ***
    L’obiettivo di Marx sembra essere, con evidenza, solo l’uso dell’organizzazione religiosa e delle sue dottrine ufficiali, da parte del clero alleato con, e/o parte del, potere dominante, per tenere a freno i ceti poveri subalterni in modo che non si ribellino all’ordine costituito. In questo limitato aspetto la religione può servire da «oppio del popolo», ma solo in questo aspetto e solo in certe circostanze e non per tutti gli individui. Sia perché ci sono individui capaci di percorrere un proprio e indipendente cammino che sfugge alle droghe dell’ideologia, sia che il cammino li porti alla ribellioni o, al contrario, a una religiosità più profonda e sentita non strumentalizzata come mezzo di potere. Dagli stiliti cristiani antichi alle figure come santa Teresa di Calcutta, si può applicare la sentenza della religione come «oppio del popolo»?
    Mentre la definizione di una ideologia, anche non religiosa, come «oppio del popolo», si può usare ogni qualvolta è usata come strumento di potere, per giustificare anche ciò che è ingiusto e per tenere a freno (addormentare) ogni forma di possibile ribellione. Tante ideologie, fra cui il marxismo, il liberalismo, la democrazia come dottrina, il nazionalismo, l’imperialismo ecc. sono state usate in più fasi storiche proprio come «oppio del popolo». Ciò non solo per addormentare il popolo, ma anche, come dice Livorsi e sottolinea Ennio Abate, per promettere paradisi artificiali.
    In sostanza non è la religione ad avere il privilegio unico di essere «oppio del popolo», ma qualunque dottrina usata come strumento di propaganda per egemonizzare il popolo e convincerlo che è suo interesse fare anche ciò che lo danneggia.
    ***
    Ultimo punto, tralasciandone tanti altri, che mostra l’approccio parziale e “attualistico” (schiacciato sul presente e sul recente passato) di Marx e di Ennio è il seguente. Rispondendo all’affermazione di Cristiana Fischer («Altrimenti non si spiega perché millenni su millenni di religioni si mantengano in vita»), Ennio scrive:
    *«Boh, sarò ingenuo ma a me pare evidente proprio da quel che dice Marx: perché «millenni su millenni» la sofferenza – inflitta a servi, contadini , operai, oggi anche ai lavoratori della conoscenza – prevale. E se c’è oppressione, se si soffre, si ha bisogno almeno di conforto. Ed è più facile offrire conforto (limitato e spesso illusorio) che realizzare condizioni quantomeno di minore sofferenza»*.
    Ma se ciò fosse vero in generale, e non in particolare in qualche caso, non dovrebbe riguardare i ceti ricchi e potenti, mentre la percentuale di persone credenti che si hanno fra i ricchi e i potenti è più o meno la stessa di quella che si ha fra i poveri e sofferenti.
    Inoltre dovrebbe riguardare la sofferenza materiale, derivata da povertà, e non anche la sofferenza di altro tipo (spirituale, psicologica) non derivante da povertà.
    Io credo invece che la povertà e la sofferenza materiale siano, oggi – in epoca di ribellismi e di diritti, in mancanza di un’etica dei doveri – più causa di irreligiosità che di religiosità. Mentre è la sofferenza morale e spirituale in genere, sia dei poveri sia dei benestanti sia dei ricchi, quando si pone le domande sui «novissimi», che spinge a una qualche credenza religiosa, sia di tipo tradizionale o di tipo personale o di nuovi gruppi e forme di religiosità «liquida», fenomeno molto diffuso e studiato dai sociologi.
    ***
    Delle tre virtù teologali della tradizione (fede, speranza, carità), credo che la più intima al sentimento religioso sia la speranza. Non come reazione alla paura, ma come sentimento che lega la quotidianità, giorno per giorno, all’eternità (qualunque cosa sia l’eternità); il proprio io a quello degli altri rendendoci partecipi di un comune destino. Ed è sulla speranza che, quando ci si arriva facendo il passo ulteriore, si fonda la fede (sebbene a molti può sembrare il contrario). Infine, sulla speranza che il nostro destino non si concluda con la morte, si fonda la carità, cioè la capacità, in qualche misura, di prendersi cura degli altri anche a costo di nostri sacrifici.
    Di conseguenza, sulla speranza e le virtù teologali si fonda l’etica, esemplificata nelle virtù cardinali. E con la religione e l’etica, come diceva G.B. Vico e ripete il Foscolo, nascono le civiltà e le società organizzate.
    *
    Dal dì che nozze e tribunali ed are
    diero alle umane belve esser pietose
    di se stesse e d’altrui, toglieano i vivi
    all’etere maligno ed alle fere
    i miserandi avanzi che Natura
    con veci eterne a sensi altri destina.
    *
    È notevole e importantissimo sotto ogni punto di vista il fatto che le più antiche manifestazioni religiose riguardino i riti di sepoltura e di accompagnamento dei morti verso l’ulteriore loro destino. Questo legame fra i vivi e i morti, in definitiva, in riassunto estremo, è l’essenza della religione.

  10. @ Luciano

    Caro Luciano, per punti:

    1. Attribuire a Livorsi, a me e ai soliti anonimi «tanti altri» « una lettura più agiografica che critica dei testi di Marx» è una battuta un po’ offensiva e infondata. Ho spiegato in quale senso circoscritto e contestualizzato Livorsi intendeva lo slogan sulla religione oppio dei popoli. E del resto tu stesso ne riconosci in parte la validità quando scrivi: «In questo limitato aspetto la religione può servire da «oppio del popolo», ma solo in questo aspetto e solo in certe circostanze e non per tutti gli individui». Dunque, non capisco il tuo accanimento né questo sfoggio di domande retoriche e pignole! Se non ti va neppure una spiegazione problematica di quello slogan e a tutti i costi devi sostenere che Marx ha detto una «sciocchezza», fa’ pure. Io non ti seguo.

    2 . Non capisco come fai a dire che «Marx condizione la sua «interpretazione del mondo» all’obiettivo di trasformarlo, piegando e strumentalizzando i criteri scientifici, il rigore della ricerca, alle esigenze della strategia». Ti pare che il Capitale sia un’opera di fantasia o di propaganda politica? Se sì, discorso anche qui chiuso.

    3. Dimmi in quali passi delle opere di Marx trovi una smentita o un contrasto irreparabile con «l’affermazione di Gramsci: «Dire la verità, arrivare insieme alla verità, è compiere azione comunista e rivoluzionaria». Mi pare che sei tu, invece, che strumentalizzi Gramsci per squalificare Marx e il marxismo, perché «la rivoluzione contro il Capitale», di cui Gramsci parlò a proposito di Lenin e della Rivoluzione d’Ottobre, smentiva non una “verità” di Marx, semmai la dottrina della Seconda Internazionale kautskiana che teorizzava l’impossibilità di fare una rivoluzione socialista in un paese arretrato come la Russia.

    4. Su questa benedetta «essenza» della religione che sfugge a Marx e non a te (o ai tuoi autori di riferimento) mi sembri inutilmente rigido. Teniamo conto del contesto in cui Marx visse e pensò. Posso riconoscere – ma è quasi banale ricordarlo – che Marx pensasse in modi diversi dai nostri, avesse altri intenti e preoccupazioni. E che non avesse le conoscenze antropologiche che si hanno oggi.
    (Vedi l’interessante articolo sul libro di Graber e Wengrow di Fagan che ho segnalato: https://pierluigifagan.wordpress.com/2022/02/20/allaba-degli-studi-sullalba-di-tutto/, dove, tra l’altro» viene ricordata la curiosità insaziabile del vecchio Marx: «Si sa di questa ultima divorante passione intellettuale del tedesco dalle note lasciate a seguito delle letture da lui fatte di opere antropologiche di L. H. Morgan e H. S. Maine. C’è chi dà colpa a questa ultima divorante curiosità e passione, per spiegare il perché Marx non terminò mai la revisione per la pubblicazione del secondo e terzo libro del Capitale sebbene sappiamo dalla corrispondenza privata, Engels lo pressò a lungo a riguardo, ma inutilmente»).
    Quindi, uno può ammettere senza drammi che Marx non fosse interessato a fare studi specifici sulle religioni. Ma dove starebbe il disconoscimento del «sentimento [religioso] che spinge a porsi le domande e l’esigenza di avere delle risposte» in uno che riconosce che «la religione è il gemito dell’oppresso, il sentimento di un mondo senza cuore, e insieme lo spirito di una condizione priva di spiritualità»?
    Certo, Marx è contro i religiosi che considerano «essenza» tale «gemito» o insuperabili o peccaminosi i tentativi di sostituire «il sentimento di un mondo senza cuore» o «una condizione che ha bisogno di illusioni» o la visione del mondo come «valle di lacrime».
    Sarebbe allora un superficiale o un cattivo filosofo solo perché non si è posto il problema della «vita in questa terra, in relazione, però, a quel destino oltre la morte» come un teologo o un credente?
    Sarebbe davvero un giudizio angusto e una visione miope della ricerca della verità. Io vedo Marx come pensatore che sta in un’altra e ottima compagnia: da Epicuro a Lucrezio e a tanti altri.
    Nella stessa tradizione classica a cui fa ancora tenuamente riferimento la cultura in cui pensiamo ci sono due filoni mai del tutto combacianti, malgrado intrecci e commistioni. Il filosofare sulla traccia del materialismo non mi pare meno apprezzabile del filosofare sulla traccia del platonismo o dell’idealismo.
    I materialisti si farebbero sfuggire l’«essenza» della religione? A parte la critica di Kant e tutta la faccenda del noumeno, quante cose si fanno sfuggire gli idealisti o i religiosi che si convincono della effettiva esistenza di «questo ancoraggio del nostro presente in vita con il destino in morte»?
    Quello che non accetto è la tua svalutazione di un tipo di interrogazione sulla verità diversa da quella che tu preferisci.

    5. D’accordo che «quando manca ogni altra forma di conoscenza, è il pensiero religioso e “magico” (e la magia altro non è che una tecnica per influenzare gli eventi che ci riguardano) che opera». Ma il pensiero scientifico con la sua «efficacia» vogliamo forse abolirlo? Poi il suo sviluppo nelle società moderne e capitalistiche ha fatto emergere anche aspetti più problematici ( sia nel suo uso che nei suoi fondamenti) ma queste difficoltà possono indurci a sostituirlo con forme di pensiero religioso e “magico”?

    6. D’accordo anche che «Il comune spirito religioso, le comuni credenze religiose, da sempre sono un elemento identitario, il che vuol dire che la religione è un elemento fondativo di ciò che è un popolo», ma io ponevo la questione degli effetti dannosi socialmente delle religioni; e tu la sorvoli.
    Le religioni costruiscono ( Vico, Foscolo, ecc.) ma anche escludono e distruggono “eretici”, “infedeli”, ecc. Vogliamo documentarci sul discorso critico su quest’aspetto? E questo vale anche per le costituzioni ( anche per “la più bella del mondo”), che (in parte) hanno surrogato le religioni.
    Non vedo perché debba scomparire questo aspetto “dannoso” o “ideologico” delle religioni, che vengono usate «come strumento di potere, per giustificare anche ciò che è ingiusto e per tenere a freno (addormentare) ogni forma di possibile ribellione». (Erns Bloch docet).
    Che questo danno lo possano fare «tante ideologie, fra cui il marxismo, il liberalismo, la democrazia come dottrina, il nazionalismo, l’imperialismo ecc.» o che «non è la religione ad avere il privilegio unico di essere «oppio del popolo», ma qualunque dottrina usata come strumento di propaganda per egemonizzare il popolo e convincerlo che è suo interesse fare anche ciò che lo danneggia» l’ho scritto io pure. Quindi qui concordiamo. Ma, ancor più, a questo punto non capisco perché mi debba disfare di Marx che proprio l’ideologia sottopose a critica.

    7. Non so dire se «la percentuale di persone credenti che si hanno fra i ricchi e i potenti è più o meno la stessa di quella che si ha fra i poveri e sofferenti». Quelle note sulla religione erano del “Marx giovane”, quello dell’alienazione che, in forme diverse, riguardava tutti gli uomini sia l’operaio che il capitalista. (Anche Owen era un capitalista…). Non so neppure dire se «la povertà e la sofferenza materiale siano, oggi – in epoca di ribellismi e di diritti, in mancanza di un’etica dei doveri – più causa di irreligiosità che di religiosità».
    Ci vorrebbero studi che mi mancano. Sono fermo a «Non c’è più religione» di Michele Ranchetti. Ma non credo che «la carità, cioè la capacità, in qualche misura, di prendersi cura degli altri anche a costo di nostri sacrifici» sia un’esclusiva dei credenti.

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