[… come una mela sa di mela]

Alcune riflessioni sul romanzo di Claudio Piersanti

di Angelo Australi

Nel finale del romanzo La dismissione (Rizzoli 2002), raccontando lo smantellamento dell’Ilva di Bagnoli attraverso l’esperienza del tecnico di area alle colate continue Vincenzo Bonocore, Ermanno Rea ci ricorda un aspetto basilare del perché si scrive accennando al fatto che il romanzo … è di necessità la storia di una perdita, la storia di qualcosa che prima c’era e poi non c’è più. Una Fabbrica, un quartiere, il respiro di un’idea, un amore, un’amicizia, un paesaggio che cambia nel tempo, qualsiasi cosa di cui siamo in grado di percepire la mancanza, purché le contraddizioni risultino credibili agli occhi di chi legge, la navigazione da immaginare non suoni falsa. Anche nel modo di raccontare di Claudio Piersanti, dal suo primo romanzo Casa di Nessuno (Feltrinelli, 1981) a Quel maledetto Vronskij (Rizzoli 2021), si ha sempre l’impressione che affiori questo bisogno di mantenersi ad un livello dove l’invenzione della scrittura, nello sforzo di combinare una trama con la realtà, sia impegnata a inseguire uno specifico punto di vista nel registrare il nulla che percepiamo dietro alle cose, ma anche all’importanza che come esseri umani diamo alla “perdita” di queste cose nell’accettare l’imprevisto come quel vuoto che può trasformarsi nell’archetipo di un’esperienza molto più complessa. Con questo movimento intenzionalmente poetico Piersanti mantiene viva la lezione dei grandi scrittori del passato, rinnovandola senza mai esagerare con gli squilli di tromba, perché interessato a ricercare quel percorso che può celarsi in un quotidiano all’apparenza così banale. Un percorso verosimile, ma anche misterioso e pieno di ostacoli, per superare i quali non è sufficiente opporsi alla cultura di un mondo contemporaneo basato principalmente sulla simultaneità, un mondo che si può dire abbia raggiunto il massimo del kitsch nello stallo ormai evidente di un corto circuito sempre più propenso a riciclare, nel nome di un briciolo di popolarità, qualcosa di vecchio da spacciarsi per nuovo. Per quanto mi riguarda anche il lettore deve poter giocare non solo identificandosi in un personaggio o in un’idea, ma anche con il modo in cui la trama si sviluppa nel ritmo e nel tono della scrittura, per creare così un qualcosa di credibilmente autentico intorno a quello che si è perso. A mio avviso questo è l’orizzonte dove la scrittura di Claudio Piersanti vuole portarci a guardare.

Prima di passare all’analisi del suo ultimo romanzo, Quel maledetto Vronskij, che ho riletto di recente, vorrei considerare un altro aspetto che trovo sempre nei suoi libri: la dimostrazione di quanto lui sia uno scrittore a cui viene facile scrivere. Naturalmente questa facilità implica una sorta di predisposizione che non è affatto scontata, la preparazione che c’è dietro la riuscita di una scrittura che sgorghi con una sua naturale fluidità richiede costanza, capacità di controllo: Sono uno scrittore. Porto sempre con me sotto la giubba, in una custodia trasparente, i giudizi più lusinghieri che il mio lavoro ha ricevuto finora. “In otto ore scrive due storie” titola il primo, quello che si vede quando estraggo l’astuccio. È la pura verità, sono capace di farlo, in ogni momento e in ogni luogo. Crepino pure d’invidia quelli che hanno sulla lingua parole che sanno di liceo; le mie sono come la mela sa di mela. Così inizia un suo racconto pubblicato in ALTO MARE, un almanacco di letture e disegni, fatto dall’editore Prandi di Reggio Emilia. A night in Tunisia (questo il titolo del racconto di cui ho citato l’incipit) risale alla metà degli anni Ottanta, ma dal mio punto di vista la sua scrittura oggi più che mai è “come la mela sa di mela”.

In Quel maledetto Vronskij si racconta semplicemente la storia del matrimonio fra Giulia e Giovanni. Pochi sono i personaggi di contorno, così come è scarno l’ambiente nel quale la storia si sviluppa: la casa dove la coppia abita situata lontano dalla confusione, e un anonimo quartiere alla periferia di una grande città (ambientazione che ricorre almeno in altri due romanzi, Luisa e il silenzio, con il quale Piersanti ha vinto il Premio Viareggio nel 1997, e il più recente La forza di gravità, di cui ho scritto proprio su Poliscritture nel 2019), dove Giovanni lavora in proprio da tipografo, in un fondo che raggiunge ogni giorno con l’autobus di linea.

Proprio quando si avvicina l’età del pensionamento Giovanni viene licenziato dallo stabilimento grafico in cui lavorava, così per continuare quel mestiere di tipografo che costituisce la passione della sua vita, decide di imbarcarsi nell’avventura di una piccola attività in proprio. Nei riguardi di sua moglie ha come una sorta di sudditanza, lei è molto bella, intelligente, grande lettrice di romanzi; quando si ferma a pensarci non riesce a spiegarsi il perché Giulia si sia potuta innamorare di un tipo così insignificante quale lui crede di essere. Entrambi vivono un profondo amore, che non si è affievolito nonostante gli anni e il peso dell’abitudine a stare insieme. La figlia si è fatta la sua vita all’estero, lontano dai genitori, e i loro rapporti con il mondo si sono ridotti ad una cerchia di amicizie che si contano sulle dita di una mano.

Socializzazione minima, compensata dall’affiatamento di una convivenza basata su regole quotidiane gestite in completa armonia, almeno fino al momento che Giulia viene colpita da una grave malattia. Dopo le cure l’angoscia del male viene superata, almeno fino al giorno che lei sparisce di casa senza dare altre spiegazioni di quelle lasciate in un biglietto dove sta scritto: Perdonami, sono tanto stanca. Non mi cercare. Per il resto sembra scomparire nel nulla.

Con questo fatto improvviso Giovanni inizia un periodo di spaesamento totale, e per reagire al senso di smarrimento, piuttosto che restare intrappolato nel dolore, si butta a capo fitto nella consuetudine del lavoro quotidiano di tipografo. La casa dove abita, senza la presenza di Giulia diviene un posto da frequentare il meno possibile, mentre lo spazio dove lavora si trasforma nel luogo che è in grado di raccogliere i cocci di un po’ tutta la sua vita che cerca di tenere insieme lavorando.

Per mantenere vivo il ricordo, nonostante una cugina ed un suo amico lo stimolino a rifarsi una nuova vita, Giovanni decide di scegliere uno dei romanzi letti da Giulia e, con ostinazione, iniziare a copiarlo per farne un libro composto a mano e stampato al suo torchio, da donarle al suo ritorno. La cugina e l’amico suggeriscono di rassegnarsi all’idea che lei se ne sia andata definitivamente, forse con un altro uomo, ma lui non ci sta, i suoi pensieri sono pieni di dubbi, ma se accettasse questa conclusione significherebbe cancellare la sua vita, perché sarebbe un po’ come morire. Il libro scelto è Anna Karenina. Mentre si perde a copiarlo sente che c’è qualcosa in comune con le cose che sta vivendo, ma a colpirlo non è tanto la figura di Anna Karenina, molto diversa rispetto alla sua Giulia, quanto quella del suo seduttore, che finisce per ossessionare la sua immaginazione. Vronskij incarna un prototipo maschile che sta agli antipodi di quello che lui si sente. Un uomo con caratteristiche simili a quelle del personaggio creato da Tolstoj, può essere il motivo per il quale Giulia si è allontanata?

Tuttavia, al di là di questa domanda, nel racconto il dramma della gelosia si mantiene ai margini di un contesto dove i meccanismi mentali che si muovono sulla scena sono piuttosto quelli di una situazione imprevista venutasi a creare nel monotono paesaggio della tranquilla esistenza di un Giovanni pienamente appagato dal lavoro e di piacere alla sua Giulia. Sono tanti i dubbi che lo assillano, che divorano la sua solitudine, e il desiderio di copiare Anna Karenina a mano, rilegarlo in modo impeccabile, allora diventa un gesto per esorcizzare l’ossessivo timore che se ne sia andata sul serio con un uomo attraente e pieno di fascino che somigli al Vronskij del libro.

In realtà lei se ne è andata con il riaffacciarsi della malattia. Se ne è andata per amore, per risparmiargli il dolore di vederla morire, perché si abituasse a vivere da solo. Nella vita di ciascuno di noi c’è e ci sarà sempre qualcosa a minacciare la felicità, questo è un destino a cui nessuno può sfuggire. È un ciclo che si chiude, prendendo atto del fatto che la realtà è sempre più forte di quello che possiamo immaginare. Nessuno può sentirsi al sicuro, sembra voglia ricordarci Claudio Piersanti con la sua scrittura scarna e al tempo stesso colma di poesia. Se si parte dalla vita per tornare alla vita, se non altro alla fine ci sarà sempre un maledetto Vronskij a portarti via la certezza degli affetti in modo definitivo. Ci sarà sempre un qualcosa che ci sfugge, che non dipende da noi, da accettare senza averne paura, come ad esempio la morte, nel caso di Giulia.

Quel maledetto Vronskij conferma la rara qualità che ha Claudio Piersanti di non sostenere le sue storie nutrendosi di argomenti pretestuali, è un romanzo che sembra andare in una direzione opposta a tanta narrativa di oggi, se non altro per il coraggio di aver scelto una trama che all’apparenza può sembrare semplice, ma che al contrario, con la sua scrittura calma, misurata, si sprigiona liberamente in numerose chiavi di lettura. Al di là del risultato raggiunto in ogni sua singola opera, in Italia è davvero uno dei pochi scrittori capaci di non determinare a priori una trama nella quale chi legge faccia solo lo sforzo di riconoscersi in quelle tematiche esistenziali nate a volte su consiglio dell’agente letterario o  dell’editore, dove viene prospettata la copertura di una fetta di mercato con un prodotto che contrasti la concorrenza su certi temi promossi  con la spinta di un chiacchiericcio giornalistico che si identifica con i talk show, dove tutto si mescola in una sciapita minestra di pane. Perché il gioco riesca è di un’importanza vitale la sua preparazione, quel momento o quella serie di momenti in cui sei libero di immaginare le scene di una storia nell’ordinario sviluppo di un vissuto quotidiano. È un po’ come dire che il significato vero della scrittura sta nel cogliere dall’azione l’esperienza di un sentimento racchiuso in un gesto inimitabile che tende a riflettersi nel suo vero sapore, senza concedere niente alla piacevolezza, al fascino del momento. L’esistenza di ogni storia, di ogni vita, anche se banale, finisce per compiersi nei suoi gesti, appunto inimitabili, e più sono ordinari, destinati a non avere visibilità, più sono in grado di raccogliere l’autenticità di un’esperienza nella consapevolezza del pauroso nulla che vibra dietro alle apparenze, all’importanza, sempre relativa, che diamo ai nostri pensieri in rapporto a quello che ci viene a mancare. Sono vibrazioni appena appena percepibili, quelle che vivono dietro l’apparenza del reale, ma con la scrittura è solo a queste condizioni che “una mela sa di mela”.

  febbraio 2022

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