Prof Samizdat (prova 3)

Narratorio. Versione  2020

di Ennio Abate

In quel Pacco Nord, in quell’anno. Ah, sì, c’erano ancora epigoni non più in eskimo del Grande – ancora si diceva così? –  Movimento. Ne erano rimasti in quasi tutte le fabbriche, le scuole e i quartieri d’Italia. E al Pacco Nord chi erano? Un po’ di prof e ITP moderatamente democratici che, affezionati alla Picci-neria, amministravano la Sezione Sindac. E, in gelosa dissidenza con la Picci-neria, il Comit (o meglio, la cosiddetta “Compagnia delle schegge”) raccoglieva  i dispersi degli ex gruppazzi rivoluzionari: prof Samizdat, Massim, Sciag,  più altri tre o quattro.

In quel Pacco Nord c’era un Itis. Nuovo, partito in quell’anno. A dirigerlo una preside pur essa nuova, la Lov.  Che il primo giorno la si vide in giro con i capelli d’ordinanza ben cotonati da una brava parrucchiera, il seno prosperoso sebbene più che cinquantenne. E spalle ben coperte. Perché – si seppe subito – era la moglie di un pezzo grosso del Politecnico. Le piccole vanità di una nuova preside si sanno. Tutto, ma proprio tutto, doveva essere sotto il suo controllo. In più  qualche capriccio al momento del  suo esordio. Concesso, no?  Ma la Lov s’era sbizzarrita. Aveva fatto spese alla grande per rinnovare  l’arredo della presidenza. Giudicate superflue e non urgenti, se non pazze dai suoi garbati collaboratori, due della Picci-neria  appena eletti. Umilmente gliel’avevano fatto notare alla Lov. Plof. A freddo lei li aveva minacciati di far venire un ispettore ministeriale. Apriti, ventata di malumori!  Questa da dove viene? E chi si crede di essere? Ma per chi ci ha presi? La Lov, intenta ad abbellire il suo nuovo nido scolastico di poltrone e quadri neppure s’accorse di questo primo sbuffo. Tronfia e sicura covava nella sua fantasia il sogno di una carriera indisturbata e ossequiata. Tanto più che si era in un Paese dove l’Ordine aveva di nuovo rimpiazzato il Disordine  – la solita breve parentesi barbara – nelle piazze, nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri. E figuriamoci se non in periferia.

Al Pacco Nord si facevano ancora riunioni. E per cosa, se il Grande Movimento era defunto? Per rovistare nel politicume che, depositatosi in menti scolastiche ma dopotutto sempre novecentesche, resisteva. Tra le riunioni spiccava – settimanale, pomeridiana – quella del Collettivo Decorativo per l’Eccitazione Democratica e Costituzionale.  I suoi aderenti – correva voce – avevano in programma di raccoglierla – intera, fremente, vivace come acqua di rubinetto – dalle scuole di vario indirizzo accorpate nel plesso cementizio del Pacco Nord. Sorto da poco anch’esso. Sul modello dei campus americani. Tra tangenziale e capannoni a mattoncini rossi delle fabbrichette. Le  quali col Pacco Nord s’appoggiavano – qualcuna persino si  sdraiava –  sull’anello di prati verdi che circondava la  periferia local-global di Cinis.

Lunedì. Prof Samizdat seppe della riunione. E ci andò per capire che aria vi tirava. Zoom sulla scena. Edificio del Pacco Nord.  Grigio e cementizio (già detto). Di fuori e di dentro. A quell’ora pareva un corpaccione più immobile e più ostile che al mattino verso le 7,30, quando una folla – variabile e colorata,  silenziosa o  vociante –  di studenti e studentesse, colleghi e colleghe, bidelle e bidelli, aiutanti e inservienti, l’invadeva. E lo gonfiava di vita (sia pur sempre scolastica).  Prof Samizdat entrava, ogni mattina  facendosi coraggio. La folla gli fluiva accanto o addosso. Come vento leggero. Che prima si espande in ogni direzione. Poi  sosta. Ammassata  e quasi immobile nel grande cortile antistante gli ingressi, s’incanalava poi – fremente e agitata – per atri e corridoi. Fino a depositarsi, placandosi, nelle aule, negli uffici,  nella mensa, negli sgabuzzini. E alla fine delle lezioni assieme a quella – più ansiosa e impetuosa però – prof Samizdat defluiva o era espulso dall’edificio.

Ora, al pomeriggio, l’edificio pareva mastodontico. Come il corpo di una balena arenatasi su un sabbione di cemento. E La sua anima – gli edifici ce l’hanno? – era assente. Alla vista dei corridoi deserti e di quelle aule vuote e in penombra – implacabili nella loro indifferente esistenza – prof Samizdat provò un sopore inquietante. Tutto era pulito e ordinato. Camminò lentamente, pedinando a distanza una pattuglia di studenti. Avanzavano venti metri davanti a lui. I loro passi sembravano impacciati e  senza tensione. Come i suoi. In fondo ai lunghissimi corridoi deserti apparve il custode. Poi comparvero due inservienti. E poi i commessi del bar-mensa. Sorvegliavano. Prof Samizdat  notò che lo facevano spostando adagio le loro pigre silhouette appena di qualche decina di centimetri nel vano delle porte, dove si erano appostate appena  avevano sentito  arrivare gente . Si accertavano che gli intrusi non fossero una minaccia. Avuta la conferma – sguardi, convenzionali cenni di saluto – erano  subito svaniti.
A differenza di noi che frequentiamo la scuola soltanto di mattina – pensò prof Samizdat – loro hanno un rapporto più saldo  con l’edificio e le cose che contiene. Perché lo frequentano anche nelle ore del silenzio.  Figure del silenzio, sì. Conoscono segreti di questo Pacco Nord, che io mai conoscerò. Questo pensò prof Samizdat in pochi secondi,  ricordandosi che Massim, malignando,   gli aveva confidato  che qualcuno al Pacco Nord ci entrava anche di notte per affarucci più loschi.

Nell’aula della riunione, dov’erano seduti i primi arrivati, dopo una decina di minuti s’aggiunse alla spicciolata un’altra manciata di studenti. C’erano tre insegnanti del commerciale e quattro belle ragazze del classico. Prof Samizdat e gli studenti dell’Itis le avvolsero con sguardi caldi e captanti. E, in questa effervescenza, la riunione iniziò. Una studentessa riccioluta disse le cose che dicono all’inizio delle riunioni le ragazze indecise. Per lei essere per la prima volta al Collettivo Decorativo per l’Eccitazione Democratica e Costituzionale era davvero eccitante.  Poi espose il suo dubbio: siamo sempre in pochi, però. Uno studente dell’Itis prese a convincerla che, comunque,  a scuola fare politica era sempre importante. La tizia, però, neppure l’ascoltò. Sparato il dubbio, confabulò tre secondi col ragazzotto che le sedeva accanto e se la filarono verso la porta. Toccata, fuga.  Il tono della riunione calò di botto. E scese ancora più in basso quando due compìte figicciotte [1] del Commerciale vi insufflarono smarrimenti scolastico-adolescenziali. I prof – dissero meste – sono severissimi e ci tengono torchiate. Tutte le ragazze della nostra classe sono impaurite. E, quando non hanno paura, parlano di rimmel, di rossetti, di abiti da comperare per le feste. Poi sotto interrogazione la paura ritorna e non fanno che studiare come matte. Discorsi politici con loro? Zero. Impossibili.

Prof Samzidat batté le palpebre. Si stava appisolando. Si ricordò di riunioni vispe, tumultuose. Ma di quanti anni fa, prof Samizdat?  Lo ammise:  dieci. Si pentì di essere lì.  E per sopportare la fiacca che l’assaliva,  ebbe bisogno di una posa.  Ne scelse una a casaccio. Come in gioventù faceva per le cravatte.  Che anche quelle non portava più. Da quanti anni? Sempre troppi. Scelse la posa  del  prof leggermente stordito e un po’ distratto ma pedagogico.  Almeno  riempio le pause imbarazzanti di silenzio, riattizzo  il fuoco, non so. Si mise a fare domande aperte e coi punti interrogativi finali ben calcati.
Un disastro. Alle sue parole seguirono sciabordii tardo-avanguardistici di Red, lo studente di una sua classe, che con voce da basso si scagliò  a muso duro contro l’Inferno Consumistico.  Ub,  altro studente sempre di una sua classe, sfiatò timidi  sussurri di approvazione a Red. E dopo partirono i borbottii stakanovisti di Gal che chiese di fare ancora più riunioni. Come queste? Un disastro davvero.

D’un tratto – nessuno se l’aspettava – s’aprì ancora la porta dell’aula dove stavano così  vagamente ma volenterosamente perdendosi in chiacchere, e in ritardo arrivò il prof Sciag, l’ingegnere informatico. Restò in piedi senza sedersi. Si tolse  dal capo il cappello di lana e per pochi secondi ascoltò in silenzio. Gli interventi degli studenti e delle studentesse erano sempre più barcollanti.  Allora Sciag  colpì duro  nel mucchio e non diede scampo a nessuno. I suoi occhi socchiusi dicevano il suo disprezzo e la sua determinazione ostile. Interruppe Gal, che stava parlando e si azzittì con uno sguardo sempre più sconcertato appena udì le parole terribili che uscivano dalla bocca per lui di un rispettabile docente. Sciag, infatti, incenerì i presenti sibilando la sua visione classista-emmellista  della scuola: le vostre sono Menate Piccolo Borghesi!
Prof Samizdat  in cuor suo tremò.  Voi – martellò ancora Sciag –  volete il privilegio del diploma. Ve ne fottete dello sfruttamento degli operai. Allora io vi rispondo coi 4 in informatica. Ne ho appena dato a manetta alle ultime interrogazioni. Tutti si azzittirono. E lasciamo a quelli di Cielle i pruriti psicologici, aggiunse. Fu la conclusione. Tutti, definitivamente e senza dire più una parola, scapparono lesti dall’aula. Come si fa, quando si è senza ombrello, all’uscita di un cinema sotto una pioggia inattesa.

Note

I due precedenti capitoli  si leggono: qui  e qui   


[1]   iscritte alla FGCI ( Federazione Giovanile del Partito Comunista Italiana)

 

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