Prof Samizdat (prova 5)

Narratorio. Versione  2020

di Ennio Abate

Poi –  altre amarezze! –  pensava al corpo docente. E allora ci pensava, ci pensava. Ma complessivamente, s’intende.  Come categoria. E pure al suo di corpo. Che anch’esso ormai era diventato di docente. E al corpo non docente, bidello o aiutante. Ma in maniera più sfocata per minore frequentazione quotidiana. E più di tutto al corpo docente femminile, dal quale – maggioranza in tutte le scuole – s’aspettava chissà quale educazione dei suoi grossolani e contorti fin dall’infanzia – gli avevano detto – sentimenti.

Ma le colleghe! D’improvviso, in un giorno ormai indeterminato nella memoria, prof Samizdat s’accorgeva che il rapporto – rapporto? –  con questa o quella collega s’era guastato. In assemblea usasti contro  quella un tono di voce troppo  aggressivo? Avevano i cazzi propri da sbrigare o gatte da pelare? Volevano (da te) essere lasciate in pace? Oppure – in particolare  quelle che più gli piacevano – chiacchierando con lui, avevano gelidamente esaminano quel suo desiderio di conoscerle, di amarle, di toccarle, e deciso di scansarlo? Ma cosa avevano esaminato di lui? Non c’era un maledetto modo di capirlo per quanto si sforzasse. La vita emozionale a scuola  era per lui inafferrabile, gli sfuggiva, non si offriva. Ne soffriva.

Ma  più spesso ancora passava a pensare al corpo giovane di studenti e studentesse che  lo attorniavano, girandole mobili e coloratissime…. per corridoi, aule, atri, scalinate, laboratori sottoterra.

Dunque, a scuola, in quel Pacco Nord, riusciva a pensare persino ai corpi. Solo adesso? Non ci aveva mai pensato prima?  E cosa ne pensava? Dillo, su! Che entravano e uscivano frettolosi. Come accade in   qualsiasi stazione. Che si agitavano, ripetendo mille volte riti obbligati e insignificanti: apri la porta a vetri,  metti la firma su registro delle presenza, saluta, guarda quello o quella che, nell’angolo, fuma una sigaretta, guardando fuori dal finestrone appannato o non pulito da mesi. E bravo chi, da attore,  recitava la lezione   nel suo isolotto e poi, uscito dall’aula, galleggiava  sorridente nel mare di chiacchiere confidenziali sussurrate durante  la pausa al bar, l’intervallo, l’ora a disposizione.

Oh, come   per tutto quel docere e chiacchierare, i corpi – il suo, degli altri, delle altre – si stancavano, si logoravano! Eppure docevano. O facevano finta di docere e chiacchierare. Anche se stanchi, anche se logorati. E malgrado la condizione di organizzatissima follia. Sì, lì dentro il Pacco Nord. Sì, lì nella società circostante.
E vuoi che non  si accorgessero alla fine – magari  della  carriera di  docenti, quando il cuore cominciava a tremare di più – che il loro sconclusionato e clandestino tentativo di pensare – lì, dentro lo spazio scolastico – era stato un fallimento?
E vuoi che – tanto o poco – la mente di prof Samizdat e dei suoi colleghi e delle sue colleghe non mentisse?  Specie quando si poneva – ogni tanto, eh! – di fronte al dilemma che lo angustiava continuamente,  da quando metteva piede  al Pacco Nord a quando ne usciva e si  rimetteva in auto per tornare a casa. Quando, cioè, si  chiedeva: può il nostro corpo docente  – perché c’era dentro  stanco, appesantito, in via d’invecchiamento –   tenere il passo, inseguire, il guizzante, strafottente, corpo di studenti e studentesse?

Voleva insegnare a se stesso  ragazzo e al pezzo di sé che  scovava in certi studenti…

Nella sua mente di prof di periferia ancora aleggiava il mito della Didattica. A più facce: libertaria e antiautoritaria (ah, Summerhill!), classista e rivoluzionaria, riformista e Picci-na. E dacci dentro con Lettera a una professoressa di don Milani, Gli argomenti  umani di Vegezzi e Fortini, i laboratori e il lavoro di gruppo di Francesco De Bartolomeis (nato, come il padre di prof Samizdat, Mìneche, a Pellezzano nel 1918).  E più tardi ecco i primi volumi dal bordo grigio cenere del Materiale e l’immaginario (il MEI!) di Ceserani e De Federicis. E poi  notizie sparpagliate dai giornali: sulle filastrocche di Gianni Rodari, le sperimentazioni coi ragazzi di Mario Lodi, le tesi del Movimento di Cooperazione Educativa, la pedagogia degli oppressi di Freinet, le riviste Scuola e Territorio o Riforma della scuola. Ma – non bastasse –  c’erano stati puri gli echi – sempre echi in periferia si sa –  di  Eros e civiltà di Marcuse, del desiderio dissidente di Fachinelli. Che scorpacciata! Che carnevalata! Che ricreazione! Questo il caleidoscopio in technicolor didattico-pedagogico-politico-sentimentale-intellettuale, a cui prof Samizdat aveva guardato. In fretta,  quando poteva. Per lui  venuto su,  stentato, nell’ancora mussoliniana scuola del dopoguerra con manuali senza quasi illustrazioni e minestrine da sacrestani   che bendidio o del diavolo tutto d’un colpo!

Eh no!  Che rito è sempre stata la Schola. E rito è e sarà. Che dolce morte è la Schola. Dispendio inavvertito è. E sarà.  Avevate voglia di insinuare che il corpo docente – specie maschile, ma spesso anche femminile – non sa più voler bene. Così diceva la collega bionda. O che non sa più soprattutto  capire. Non vuole più capire.  È stanco, poveretto. Come le replicava,  testardamente  e meridionalmente illuministico, prof Samizdat.  Mentre lo vedeva adirarsi  – e in parte anche  a ragione – di fronte allo spettacolo di corpi e menti di studenti e studentesse che si staccavano, si disperdevano, si frammentavano, s’imboscavano.

Perché impacciata  era ora agli occhi di prof Samizdat la loro pretesa di rivoluzione. Fare una bella – dicevano ancora così! –  Settimana d’Occupazione. Del Vuoto Scolastico? L’unica ideuzza vagamente  ereditata dal Grande Movimento che gli era rimasta. E che ripetevano. Con comportamento da automi, però. Abitudine sciocca, svuotata ormai. Una recita in un luogo e dinanzi a spettatori che non erano più la maggioranza silenziosa del ’68.

Voleva insegnare a se stesso  ragazzo e al pezzo di sé che  scovava in certi studenti…

E, perciò, quella notte – lasciamola sempre indeterminata – prof Samizdat sognò.  Che c’era un asilo da mettere su. E un dotto dottore stava spiegando le operazioni necessarie per farlo funzionare. La gente, però, era impaziente. Pretendeva che funzionasse subito, già dal giorno dopo.  E allora prof Samizdat invitò i genitori a sedersi su sgabelli improvvisati per tenere un’assemblea. D’improvviso entrò Massim. Era su un cavallino bianco. Gliel’avevano regalato i genitori, andava dicendo. E  lo usava nel traffico cittadino. Al posto dell’utilitaria. I bambini lo avevano accolto festosamente. E Massim, paziente, li metteva in sella a turno, ridendo e scherzando ora con uno ora con l’altro. Prof Samizdat, che si era lasciato distrarre un attimo  davanti a uno spettacolo così giocoso e inatteso di un mondo di ragazzini felici, quando si voltò di nuovo verso l’assemblea dei genitori, s’accorse che il pubblico era completamente mutato. Non c’erano più i proletari mesti o rissosi che aveva conosciuto nella lotta per la Scuola Materna del Quartiere Stella. C’erano signore con velette e tailleur, uomini grossi, grassi, incravattati e con le dita  piene di anelli costosi e vistosi. Doveva per forza cambiare il discorso che aveva preparato. E tener conto di questo nuovo e certamente ostile pubblico. Ma i compagni non si fidavano più di prof Samizdat.  Lo giudicavano all’antica. E affidarono l’introduzione del discorso a Gigi della libreria. Gentilmente prof Samizdat si premurò, comunque, di avvertirlo. E gli sussurrò: – Attento a quello che dici e a come lo dici. Qui è cambiato tutto.

Nota

Le precedenti ‘prove’ si leggono qui:  12 3, 4.

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