Angelo Australi: «Tommisse»

di Donato Salzarulo

1.- «Tommisse» (Quaderni di Erba d’Arno, 2022) di Angelo Australi è un libretto piano e scorrevole. Scritto in terza persona, il protagonista del racconto è Spartaco. È un aspirante scrittore e, dopo otto ore di lavoro in una fabbrica di vernice, si china sulla macchina da scrivere per produrre non trame articolate di romanzi, ma racconti, piccole storie di persone semplici (anonimi accattoni, contadini, operai, ecc.) contrapposte alle grandi storie che finiscono sui libri, che hanno per protagonisti «uomini che fondano città» e vivono la loro vita, decifrandone il senso, carpendone «i segnali in un destino tracciato», ecc. Spartaco ha in animo di raccontare queste piccole storie per dar loro voce, sottrarle all’oblio, farle entrare nei libri e far sì che anch’esse sconfiggano il tempo. Ottima intenzione. Si dà il caso, però, che, fin dall’inizio, l’autore lo presenti in preda ad una sorta di blocco creativo e mentale. Quella mattina scrive senza convinzione, il racconto va avanti «privo di una motivazione, di una precisa idea da sviluppare» (pag. 7); la storia non riesce a trovare quell’«attimo di sospensione» che le permette di incontrare «la sua sintesi poetica», tra il suo bisogno di scrivere e i racconti che si trascina dietro «da quando si era preso quella colossale ubriacatura» (pag. 9) si era creato «una tale confusione che adesso si sentiva sempre più isolato e inutile» (pag. 10). Insomma, siamo al cortocircuito. Tant’è che l’autore mette in bocca al suo personaggio un bel «Basta così Spartaco, perché stamani non è banda». (pag. 13)

2.- Telefona allora a Roberto, uno dei pochi possessori di auto del suo gruppo di amici. Detto anche Zio Curdo per le sue origini, dopo essersi licenziato dal duro lavoro di camionista in un salumificio, da alcuni mesi se ne sta senza far niente. Accetta volentieri la proposta di Spartaco di raggiungere qualche luogo di montagna e si mettono in viaggio.
Siamo intorno alle festività natalizie. Fa freddo, ma c’è il sole. Come è prevedibile, in macchina i due dialogano, ascoltano musica e/o o guardano fuori dal finestrino.
La voce narrante (onnisciente) alterna opportunamente e con sufficiente bravura dialoghi e descrizioni. I dialoghi ruotano prevalentemente sulla condizione lavorativa e sul futuro dei due amici; le descrizioni hanno per oggetto il paesaggio esterno (ammirazione per i terrazzamenti dei campi coltivati a olivi, infilarsi dell’auto in una stretta gola, l’attraversamento del ponticello di un torrente, l’avvistamento di un falco, ecc.).
Entrando un po’ più nel dettaglio, i dialoghi si svolgono intorno ai seguenti argomenti:

a) Cambiare o no lavoro. Roberto vorrebbe trovarsi un nuovo lavoro in città perché ha vissuto, come camionista, una pessima esperienza con un padroncino del luogo (chi ti conosce, ti sfrutta di più e poi i padroni che vengono dalla gavetta sono peggiori di quelli nati tali); mentre Spartaco, dice di pensarci spesso, ma non si decide.
Come Roberto, anche lui sta vivendo un «pessimo momento», senza, però, conoscerne il motivo. Ha degli amici, ascolta musica, ha una ragazza che si chiama Ambra e studia all’università. Forse più di lei, ha una marea di libri, ma non si vedrebbe mai nelle vesti di uno studente universitario. Infatti, legge «come un gioco, per il semplice gusto di leggere» (pag. 27).
Il problema, quindi, per Spartaco non è fare un lavoro invece di un altro, «quanto piuttosto non lavorare per niente» (pag. 27). Comunque, finché la condizione umana non permette a tutti di essere padroni del proprio destino, l’aspirante scrittore preferisce «il lavoro di fatica rispetto ad uno mentale, perché fatto il mio dovere la testa è libera di andare dove desidera.» (pag. 28).

b) Trasferirsi o no in città. Dal momento che per Roberto il paese non ha più nulla da dare, lui è disposto a trasferirsi volentieri, mentre Spartaco, pur odiando a morte il «posto del cazzo» in cui vive, quando gli capita di andare in città non vede l’ora di rientrare perché c’è così tanta gente che non riesce «a guardare liberamente da nessuna parte» (pag. 18).
Per questo rifiuta convintamente di vivere in una città.  L’amico l’accusa di essere attaccato alle sue cose «come un piccolo borghese» (pag. 33). La risposta è che «lo siamo un po’ tutti, dal momento che tormentiamo la nostra esistenza per realizzarci individualmente» (pag. 34).
A questo punto, l’aspirante scrittore sposta il discorso sull’identità: «non lo so chi sono. E non so neppure se vale la pena scoprirlo. Di sicuro non cerco la felicità, nella vita. Qualsiasi cosa in prospettiva, ma non la felicità che dura quanto una scoreggia» (pag. 34).
Roberto l’accusa di nascondersi. Spartaco pensa che potrebbe aver ragione, ma si nasconderebbe ancora di più se decidesse, di punto in bianco, di andare a «vivere in città solo perché ci sono più occasioni da sfruttare per realizzare i propri sogni. Non è questo forse un orizzonte dalle aspettative modeste? Credere che la città sia la panacea di tutti i mali, è troppo scontato.» (pag. 34).
In sostanza, il protagonista non ritiene che si debba andare via dal paese perché «non succede mai niente» o è «un posto insignificante». «Se la realtà è piatta, forse è anche colpa nostra; non credi?» (pag. 35)

c) Altro. Ogni tanto il tema principale di discussione fra i due amici viene messo in pausa e allora i due parlano del Maggiolino di Roberto che ha bisogno di essere lavato (dentro si può coltivare un orto) e del suono caratteristico del motore impegnato in salita; della musica che stanno ascoltando durante il viaggio: quella di Jimi Hendrix, dei Genesis (per Roberto è musica intellettualistica inglese, mentre Spartaco l’ascolta in continuazione); del posto in cui il protagonista propone all’amico di andare: un borgo di dieci persone in tutto, già visitato quando aveva sedici anni, ora raggiungibile in macchina. È una rocca con poche case su uno sperone di roccia e ci si arriva dopo una lunga serie di tornanti. Una vera e propria ascensione a mille metri di quota.

3. – Finalmente appare il borgo coi ruderi di un’antica torre. Neve di mezzo metro. Odore acuto di legna bruciata. Paesaggio immobile e immerso nel silenzio assoluto. Sembra l’immobilità dei morti.
Raggiunta la meta, parcheggiano in uno spiazzo. Roberto e Spartaco si dividono. Il primo sale direttamente verso la rocca, il secondo va nella direzione opposta. Preferisce prima tornare a visitare il paese. Vuole capire cosa è cambiato rispetto ai suoi ricordi.
Entra nella prima casa diroccata che incontra. Ha la percezione di trovarsi in una grotta e la sensazione che tutto potrebbe crollare da un momento all’altro. Gli tornano in mente certe immagini del terremoto viste al telegiornale. L’abbandono del borgo forse è avvenuto nel giro di una generazione. Sono andati via alla ricerca di una vita migliore.-
Dopo aver fumato una sigaretta, Spartaco esce dal rudere. Il cielo intanto da limpido si fa grigio. Roberto gesticola dal tratto di torre ancora in piedi. Spartaco lo chiama. Devono tornare prima che arrivi la bufera. Infatti, sta calando una coltre di nebbia. Fino a quel momento non hanno incontrato nessun abitante del luogo. «Sembravano camminare nel nulla» (pag. 44)
Spartaco dice all’amico che devono fermarsi un attimo. Devono andare a salutare una persona, un vecchio che ha vissuto per molti anni in America. Si tratta di Tommisse. Il suo vero nome è Arduino. Emigrato negli anni venti per cercare l’oro, raggiunta l’età della pensione, è tornato al paese. Quando la volta precedente Spartaco gli ha parlato, stava per compiere ottant’anni e, nonostante l’età, era capace di catturare ancora una ventina di vipere all’anno. Le vendeva ad un negozio di caccia e pesca che le rivendeva a un laboratorio di prodotti farmaceutici.
Oltre a questo lavoro, c’era quello di fare la farina di castagne che era alla base della loro alimentazione. Poi c’erano gli ortaggi nei campi a terrazza, qualche pecora, conigli, polli, muli. Coltivavano il baco da seta in casa. «Nei mesi freddi le donne custodivano i bozzoli delle larve al caldo del proprio seno.» (pag. 46)
Tutte notizie che, insieme alle storie dei suoi anni in America, Tommisse ha raccontato a Spartaco.
Vanno a casa sua e non lo trovano. Poi ne vedono una con la luce accesa. Entrano. Il vecchio rivela loro che l’anziano uomo è morto, lui che sapeva tenerli allegri col suo spirito battagliero e con le sue tante storie, raccontate in modo tale da sembrare straordinarie e avventurose.
Spartaco ci tiene ad andarlo a visitare al cimitero.
L’andamento del racconto assume, a questo punto, un tono epifanico:
a) Tommisse è un narratore orale, i suoi racconti «non appariranno mai sui libri di storia», ma conoscerlo direttamente o indirettamente è un’esperienza notevole.
b) È un personaggio che invade lo spazio mentale di Spartaco perché aveva sentito l’esigenza di trascorrere gli anni della pensione in questa solitudine, preferendo la vertigine dei dirupi nascosti tra i boschi a quelli dei grattacieli. È vero che non si era mai sposato e viveva da solo. Comunque, aveva scelto la bellezza del panorama. Lui non era un credente, ma «per chi crede camminare in montagna è come avvicinarsi a Dio, perché s’ammira un panorama che si perde sull’infinito del cielo, e tutto quello che uno fissa anche con il pensiero fa parte delle numerose piccole bellezze che ci sono al mondo» (pag. 60).
c) Spartaco capisce il trucco che si nasconde nel suo modo di raccontare: tiene «insieme l’alto e il basso dei concetti nascosti dietro ogni pensiero umano.» (pag. 62) Così, ad esempio, il numero delle stelle di una galassia può essere paragonato al numero dei fagioli di un campo. L’importante è trovare sempre il rapporto che unisce il lontano al vicino.
Invaso dallo stupore, Spartaco immagina di possedere le chiavi della casa di Tommisse e, contrario ad ogni ristrutturazione di queste antiche abitazioni, le lancia verso il precipizio dove scorre il torrente.

4.- In un libro di Mario Barenghi («Cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti», Quodlibet, 2013), letto recentemente, mi sono imbattuto in una massima di W.H. Auden: «Un vero libro non è quello che noi leggiamo, ma quello che legge noi.» (pag. 44). Ora   quest’affermazione  – che in un’opera letteraria sia possibile trovare tante cose più o meno divertenti, affascinanti, sorprendenti, commoventi, istruttive e, a volte, in modi spesso inattesi, una o più pagine della nostra autobiografia – mi è parsa uno spunto prezioso per scegliere, dopo la lettura di «Tommisse», quei punti del racconto di Australi che, per affinità o differenza, hanno in qualche modo a che fare con la mia esperienza e la mia pratica di scrittura.  E io parlerò solo di questi:

a) Il tono della voce narrante: serio, riflessivo, meditativo, antiretorico, capace di esprimere «la vita reale» (virgoletto volutamente questo sintagma, quanto mai sdrucciolevole) e capace di conservare il rapporto con chi legge. Siccome non sono un grande produttore di testi ironici e satirici, mi va bene. Il ritmo è disteso, pacato. Forse troppo lento.

b) Alcune espressioni linguistiche che rappresentano quasi certamente dei toscanismi, utili, presumo, ad accrescere l’effetto di realtà: «Con alcuni di loro ci parlava di musica» (pag. 8) «in dei momenti mi sentivo preso per il culo» (pag. 19), «fermò l’auto senza spengere il motore» (pag. 25), «abbassava la testa sul manubrio» (pag.26, pag. 32), «per asciugarsi una fiogia che gli scendeva dal naso» (pag. 28), «per asciugare i calzini che sono mezzi» (pag. 44, pag. 51), «tornare a vivere in questo frignolo roccioso» (pag. 48), «la strada lastricata si confondeva in dei tratti con la roccia» (pag. 56).

c) Alcune notizie nuove per me: la cattura delle vipere praticata come mestiere capace di procurare soldi veri (pag. 46), la custodia nei seni delle donne dei bozzoli dei bachi da seta (pag. 46).

d) L’interrogarsi sulle caratteristiche del paesaggio: ho trovato pregevoli tutti quei punti del racconto in cui si esprime una vera e propria ammirazione non soltanto per il “sublime” naturale (il precipizio che si contempla dal tempietto sullo sperone della roccia fino alla valle dove scorre il torrente), ma anche nei confronti del lavoro anonimo fatto da migliaia e migliaia di esseri umani per istinto di sopravvivenza: i terrazzamenti per la coltivazione degli olivi, le case costruite nella roccia, il castello per potersi difendere.
Australi non ne è soltanto ammirato, rapito, non si limita a contemplarne la bellezza, manifesta la voglia di capire, di coglierne gli aspetti essenziali e i dettagli, vuole conoscere l’anima del paesaggio. Torna utile in proposito anche un pensiero di Luigi Lombardi Vallauri: «I paesaggi nutrono la vita. E nutrire la vita, nel senso taoista, è già pietà e giustizia. Amare un paesaggio è quanto di più inutile ci possa essere al mondo. Ma l’inutile non è mai veramente inutile. Bisogna riuscire a conquistare l’inutile per conquistare l’anima del paesaggio.» (Intervista a Antonio Gnoli, ROBINSON, N. 282, 30 aprile 2022).

e) La pratica della scrittura: Spartaco ha un blocco creativo. Anche a me capita. Lui fa col suo amico un’ascensione (petrarchesca e agostiniana) al borgo nevoso con la Rocca dove, sostiene Tommisse, ci si può avvicinare a Dio. Non è il suo caso e forse neanche di Australi. Io pure faccio delle passeggiate solitarie, però in quest’angolo di periferia lombarda. Ciò che condividiamo è, comunque, una pratica che va esercitata quando, come dice Dante, «Amor mi spira» o qualcosa di simile. Spartaco addirittura sostiene la scissione tra «lavoro di fatica rispetto ad uno mentale». «Fatto il mio dovere – richiesto dal lavoro di fatica – la testa è libera di andare dove desidera.» «Non chiedermi come faccio,…ma le cose stanno in questo modo». Infatti, non ho nessuna voglia di chiederglielo. Sottolineo, però, che su questo punto non è per nulla convincente. La scrittura non ha bisogno soltanto d’ispirazione. Le ragioni per restare seduti di fronte a una tastiera sono tante e non soltanto di ordine individuale (identità, individuazione, ambizione, dare un senso alla propria vita, ecc.). Essendo una pratica sociale, si organizza socialmente dal momento della produzione (editing, editoria, ecc.) a quelli della distribuzione (libreria, vendita online, promozione, ecc.) e del consumo (lettura individuale, gruppi di lettura, ecc.).

f) «Una storia è sempre una storia». Non mi convince in verità neanche questa sua idea di storia. Infatti, nell’uso che Spartaco fa di questa parola, non è facile distinguere la storia su cui indaga lo storico e la narrazione orale o scritta, lunga o breve, inventata o verosimile, prodotta dal romanziere o dal novelliere. Non mi appare inoltre convincente l’opposizione tra “piccole storie” e “grandi storie”. L’esperienza che ogni essere umano fa è un flusso continuo di pensieri, emozioni, fantasie, parole, gesti, atti, incontri, sensazioni, stati d’animo, accordi, conflitti…Provi ognuno di noi ad annotare, dal momento in cui si sveglia fino a quando torna a riaddormentarsi, tutto ciò che gli capita nella sua “vita interiore” (della mente e dei sentimenti) e in quella “esteriore” (famiglia, luogo di studio e/o di lavoro, luoghi di relazioni, ecc.). È spesso un flusso caotico, disordinato, solo in parte prevedibile. Soprattutto è un flusso irreversibile. Un racconto o un romanzo ha, invece, un inizio, uno sviluppo e una fine. Comprende un numero preciso di personaggi. Racconta un certo numero di eventi. Nel caso di «Tommissse», ad esempio: I) un aspirante scrittore non riesce a scrivere; II) fa un viaggio in montagna con un suo amico; III) visita un borgo di dieci anime dove sei anni prima aveva incontrato un personaggio notevole. Tutto ciò, essendo scritto nero su bianco, può essere letto e riletto. Può anche essere discusso, interpretato, valutato nei suoi vari possibili significati…In ogni caso, si tratta di una rappresentazione, di un ordine, di una forma compiuta che viene data al flusso caotico dell’esperienza empirica. Il narratore orale come Tommisse, per quanto persona eccezionale, ha bisogno di Spartaco-Australi per vedersi trascrivere le sue storie. Chi, invece, ha un forte impulso narrativo, anche se riesce a scrivere a livello di scuola elementare, può produrre comunque la storia della sua vita. Penso ad un libro come «Terra matta» di Vincenzo Rabito. «Se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darracontare». Bracciante siciliano, semi-analfabeta, di avventure da raccontare ne aveva. Dal 1968 al 1975, chiudendosi a chiave nella sua stanza, scrisse su una vecchia Olivetti la sua autobiografia. Totale: 1027 pagine. La domanda fondamentale è: cosa hai da raccontare? Quali esperienze? Quali avventure? Quali viaggi? Quali pensieri ed emozioni?…

g) L’utopia di una società senza lavoro. Mi pare che sul concetto di “lavoro” Spartaco oscilli molto. Mentre ammira il «lavoro anonimo, fatto per istinto di sopravvivenza» di chi ha prodotto i terrazzamenti, le case sulla roccia, il castello, ecc., critica – giustamente direi – il lavoro capitalistico, svolto sotto padrone… «Non lavorare per niente», questa sarebbe la soluzione. E si appoggia all’autorità di William Faulkner:
«Ho letto di recente un’affermazione di William Faulkner che dice che l’uomo è nato per stare a fare all’amore ventiquattr’ore al giorno, ma siccome questo non è possibile allora si è inventato il lavoro, che lo ha reso l’essere più infelice che esista sulla faccia della terra.» (pag. 27)
Quelli della mia età sanno che questa discussione ha un cuore antico. Probabilmente andrebbe aggiornata, ma quest’aggiornamento quasi certamente non era nelle intenzioni di Spartaco.

h) Restare o partire. Io sono tra quelli che più di mezzo secolo fa ha lasciato il proprio borgo medievale in Irpinia per trasferirsi prima a Torino e poi a Cologno, in quest’angolo di città metropolitana nel quale vivo. Comprendo benissimo la discussione che si svolge tra Spartaco e Roberto. Per quanto mi riguarda, mi sono comportato come vorrebbe fare Roberto: trasferirsi in città alla ricerca di una vita migliore; ma capisco le ragioni di Spartaco, difensore di quella che Vito Teti chiamerebbe “la restanza” e Franco Arminio “paesologia”. Vero. La città non è la panacea di tutti i mali. Anzi, ha i suoi fiori del male. Ma chi resta deve avere, innanzi tutto, la possibilità di restare (lavoro da fare o da reinventare) e non può attendere, silenzioso e rassegnato, che sia qualcun altro, magari esterno, a dare intenzionalità e significato al luogo e/o a produrre eventi significativi.
La domanda di Spartaco è giusta: «Se la realtà è piatta, forse è anche colpa nostra; non credi?». E forse una delle chiavi principali di questo racconto sta proprio in questa domanda. Spartaco, che incontra e cerca di rincontrare Tommisse, consolida e rinforza con l’esperienza di questo emigrato che ritorna nel suo borgo isolato, le ragioni per cui restare: il paesaggio di questi luoghi è bello, il silenzio può aiutare a riflettere e a meditare, i ruderi si possono ricomporre, quello che crediamo morto rimane essenziale…
Sono molto sensibile alla “restanza” e alla “paesologia”. Ogni anno ritorno per almeno due mesi al mio borgo natio. Sono convinto della bellezza dei terrazzamenti e dei castelli (al mio paese ce n’è uno bellissimo). Sono altrettanto convinto della bellezza vertiginosa dei grattacieli. Non sono un futurista. Sono contro la modernità capitalistica e incivile. Spesso mi sento fuori luogo in questo angolo di mondo; ma può capitarmi anche al mio paese. Forse Spartaco per questo si mette in viaggio col suo amico Roberto. Perché si sente spaesato nella casa della scrittura e nel posto in cui vive. Una giornata di ascensione verso un borgo isolato, la scoperta della morte di Tommisse e il ricordo della notevole importanza del personaggio, lo aiuteranno a ritrovare le motivazioni della scrittura e quelle dell’abitare a Figline Valdarno. Probabilmente è questo il senso più intimo del racconto di Australi: riaffermare le ragioni della scrittura e quelle della “restanza” nei luoghi coi quali si ha un rapporto tutt’altro che agevole e scontato.

6 maggio 2022

3 pensieri su “Angelo Australi: «Tommisse»

  1. è molto dettagliata e completa l’analisi del racconto di Angelo Australi “Tommisse”, da parte di Donato…interessante anche la lettura personale successiva, seguendo la massima di W.H. Auden: “Un vero libro non è quello che noi leggiamo, ma quello che legge noi”, per cui Donato si interroga sulle corrispondenze o meno con quanto va leggendo e le sue medesime convinzioni ed esperienze…
    A proposito, vengono selezionate due affermazioni espresse da Spartaco, protagonista del racconto:
    .”Fatto il mio dovere- richiesto dal lavoro di fatica – la testa è libera di andare dove desidera”… come sostenere la scissione tra “lavoro di fatica rispetto ad uno mentale” commenta Donato…
    . “Una storia è sempre una storia”, riguardo all’impresa della scrittura…entrambe appaiono poco convincenti a Donato..
    Personalmente, riguardo alla prima, mi ha incuriosito, nei vari racconti letti con protagonista Spartaco (una saga?), dove il personaggio appare in ogni età della vita e svolge sempre un lavoro diverso: del mondo contadino, operaio o sociale…oltre che a dedicarsi alla scrittura. Puo’, credo, trattarsi di una scelta di campo, dove la storia individuale e la Storia si ricongiungono, si saldano…Magari, anche una maniera per creare uno spazio di distacco da cio’ che preme dentro, la scrittura, ma si pensa di doverla sudare… credo che il lavoro manuale comprenda quello mentale.
    Riguardo alla seconda affermazione “una storia è sempre una storia”, non riesco a capie l’intento dello scrittore. Trovo tuttavia le narrazioni di Angelo informate sia dallo spirito di realtà legato alla vita concreta e spesso inquieta dei personaggi messi in scena, tra duro lavoro e complessi rapporti umani, sia da una indefinitezza e misteriosità che la collocano vicina alla fiaba…ricerca di significato, prove…una storia infinita che si muove in luoghi naturali e simbolici o piccoli borghi, storia che non garantisce il lieto fine all’essere umano, ma un un filo di speranza

  2. Provo ad inserirmi…
    … ho fatto da tempo la scelta di non specificare sia geograficamente che come data il campo dei miei racconti, questo per due motivi, il primo per dare maggiore credibilità a quella “vita reale” alla quale Donato Salzarulo accenna così bene nella recensione a TOMMISSE, l’altro perché in realtà questi personaggi e i luoghi dove accadono i fatti sono costruiti mettendo insieme tanti elementi o situazioni vissute. La battuta di una persona, l’occhio che si ferma per incontrare lo scorcio di un paesaggio. Immagini che restano sospese, che ritornano (se ritornano) di volta in volta quando c’è la vena di scrivere. Sono quindi situazioni reali reinventate, immaginate nuovamente in un contesto credibile per l’economia e il tono del racconto . Sono portato a mescolare un po’ tutto, senza fare una distinzione tra quelli che sono dei ricordi di vita personale, i pensieri che faccio durante una passeggiata solitaria, quello che mi lascia la lettura di un libro o l’incontro con le persone, anche il più banale, purché mi colpisca.
    Intanto, anche se non appare, che siamo nell’inverno del 1974/75 si può intuirlo dall’accenno all’austerità per la crisi energetica di quegli anni, che Spartaco fa entrando nella casa diroccata del borgo montano, e dal disco dei Genesis “Selling England By the pound”. In quel periodo avevo 20 anni ed ero un mezzo fricchettone che si faceva un’idea del mondo principalmente attraverso la musica rock. Allora in un paese come quello in cui sono sono nato, quasi una periferia di città, a vocazione industriale, di lavoro ce n’era anche troppo, se un mestiere non ti andava potevi permetterti il lusso di cambiarlo. Non so se fosse una fortuna, ma era così. Spartaco ragiona da un ventenne di allora, chiaro che oggi la discussione andrebbe aggiornata, ma è vero anche che per come mi sento, credo che quelli della mia generazione (sono nato nel 1954, nel’68 avevo appena 14 anni) se hanno scelto di arrivare alla politica o di impegnarsi nel sociale lo hanno fatto partendo da un bisogno istintivo, personale. Qui dentro c’è il rifiuto dello studio, del lavoro come modo di realizzarsi nella vita, di un bisogno invece di lasciare libertà alle proprie emozioni; più in linea, anche se non lo condividevo del tutto, con i movimenti studenteschi di Bologna del ’77. E’ giusto, sbagliato? Non lo so. Di una cosa sono sicuro, che quelli della mia generazione sono partiti per un viaggio in cerca di qualcosa che poi non hanno trovato, visto la piega presa dalla società già dalla metà degli anni ottanta del Novecento. E così Spartaco va al borgo sperduto in montagna con Roberto per incontrare un Tommisse che è stato a lavorare in America, ma che poi, non trovandolo, è costretto a reinventarlo mentalmente.
    Rispondo ad un punto che mi differenzia da Salzarulo, almeno in parte, quello in cui accenna al fatto che la scrittura, “essendo una pratica sociale si organizza socialmente dal momento della produzione a quella della distribuzione e del consumo”. Mi domando però se questa necessità di confezionare un prodotto abbia fatto bene oggi a chi scrive e a chi legge? Io qualche dubbio ce l’ho. Stare rigidamente dentro a certe regole comporta anche un livellamento che rischia di annientare la bellezza della diversità in chi scrive. Non è da generalizzare, ma oggi purtroppo questo accade molto spesso. Chissà quanti bei libri sfuggono, se si è troppo rigidi su queste logiche del mercato. Insistendo su questa china il romanzo ormai non ha più molto di nuovo da darci, quando leggo mi capita sempre più spesso di non sentire credibili i personaggi e le storie, e questo senza fare un confronto con i romanzi del passato, ma proprio come trame calate nel presente.

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