Poliscritture 3. Un confronto

 di Giulio Toffoli e Ennio Abate

Rendiamo pubblica questa  riflessione di Giulio Toffoli e mia. Partita da una poesia, è diventata interrogazione preoccupata sulla fine  della storia da cui veniamo, sul mutamento sconvolgente e pieno di rischi che  l’umanità sta affrontando; e anche – in piccolo – sul senso stesso di continuare una rivista come Poliscritture oggi che ogni discorso di cooperazione critica  sembra divenuto impraticabile. Sui vari temi entrambi abbiamo dubbi  e giudizi diversi  o contrastanti.  E riconosciamo che è venuto meno   quel linguaggio comune, che  c’era o ci siamo illusi ci fosse fino a un recente passato. Tuttavia, pensiamo sia ancora utile confrontarci anche con altri e cercare dire al meglio, per quanto è possibile,  le nostre (scisse)  verità. [G. T. e E. A.]

 Piccoli abbandoni e grandi addii
di Giulio Toffoli

Proprio nell’ultimo scorcio dell’anno appena concluso mi è capitato di leggere la poesia Addii (qui) di Ennio Abate e sono rimasto notevolmente colpito, anche perché mi sembrava di molto diversa dalla sua usuale produzione. Tale diversità non è tanto da individuare, come hanno scritto i più, nel suo sottofondo di maggiore o minore tristezza o di una particolare sofferenza, quanto perché mi è parsa una analisi dell’esperienza in Poliscritture che una volta di più, nel tentativo di rinnovarsi come Poliscritture 3, sembra tradire le sue aspettative o forse dimostra che alcuni presupposti della rivista sono troppo fragili per poter reggere un percorso collettivo.
La lirica è costituita da tre terzine con una forma assai libera, ma l’uso delle singole parole mi è parso calibrato con grande attenzione e perciò risulta utile fermarsi sui diversi passaggi.
È assolutamente fondamentale che Abate abbia iniziato la sua lirica d’occasione per la fine dell’anno 2021 con un verbo, cerchiamo di sviscerarne il senso:

dimenticai

La caratteristica che mi ha sempre colpito dell’esperienza storica di quella che si suole definire nelle sue varie componenti la sinistra è una incredibile capacità di dimenticare, unita a una non meno forte necessità di ricordare. Dimenticare è ovviamente necessario per non restare schiacciati dal peso della memoria, quella dimensione antiquaria che può avere la forza di togliere ogni slancio al nostro bisogno di vivere. Troppo spesso siamo asserviti ad una memoria che costruisce suoi mondi, facendo di ciò che abbiamo vissuto qualcosa di completamente diverso da ciò che è stato. I fatti scompaiono, diventando narrazioni sempre più lontane da quelli che essi furono nella loro materialità, spesso banale.
Non dissimile è l’esercizio del dimenticare: quante volte, per non dover affrontare e prendere coscienza di ciò che ci è capitato, preferiamo dimenticare, censurare ciò che è successo.
Nel corso del XX secolo siamo stati davvero dei maestri a destrutturare il passato per poi riedificarlo secondo un modello più rispondente alle nostre speranze, agli idola che abbiamo fatti nostri; e a cui abbiamo dato una vita talmente forte che non siamo più capaci di abbandonarli.
Si potrebbero fare infiniti esempi. La storia della sinistra storica è carica di questi topoi che, una volta entrati nell’immaginario collettivo, hanno assunto vita propria. Quante sono le nostre sconfitte storiche che abbiamo quasi trasformato in fantasmi gloriosi che ci portiamo dietro e che ci accompagnano con il loro carico di ideologia, ruderi che tendiamo a conservare, come si fa con i reperti archeologici, ma che impongono la loro ombra fin sul nostro presente rendendoci quasi incapaci di leggere la realtà. Incapaci di prendere atto che il mondo muta a una velocità tale che è necessario avere il coraggio di emanciparci da quell’Angelo della Storia che, invece che costituire un elemento di liberazione, appare piuttosto come un gravame che ci rende ciechi dinnanzi alla realtà con cui ci dobbiamo confrontare.

l’insopportabile sprezzo dell’Intelletto saccente

Caratteristiche dell’esercizio della ragione sono è la prudenza, la tolleranza e il rispetto nei confronti dei nostri interlocutori, qualsiasi essi siano.
Si tratta di un precetto che è stato infinite volte tradito. Quante volte coloro che si credono portatori di un sapere solidamente certo si sono poi dimostrati poco più che dei venditori di fumo. L’intero itinerario della ragione umana – nel suo processo di evoluzione dalle forme più semplici fino ai risultati più alti della conoscenza rigorosa – sono segnati da una infinità di errori, di gravi errori, di colpe inespiabili nei confronti dell’umanità. Responsabilità che segnano il nostro oggi, mettendoci in una situazione incredibile e paradossale: possediamo una conoscenza dei segreti della natura quale mai è stata realizzata nei millenni precedenti e abbiamo fra le mani tutti gli strumenti per autodistruggerci. La più grande sapienza a cui corrisponde troppo spesso una profonda miseria umana.
Sembra che Wittgenstein abbia scritto: “Noi sentiamo che, anche una volta risolte tutte le questioni scientifiche, i nostri problemi più importanti non sarebbero minimamente sfiorati”. D’altronde, come è possibile affrontarli quando si ha a che fare con coloro che posseggono un sapere più ricco e, quando sono interrogati o criticati, si comportano come delle beghine, schiacciati da irrisolti narcisismi, da incredibili egotismi, da un bisogno di affermare il proprio io che non conosce confini?
Si tratta della stessa gente che poi parla di spirito critico, di dialettica e dialogo come strumenti maieutici. Contestano, almeno a parole, la logica del principio di prestazione del capitale; e poi nel loro terreno si comportano con la stessa virulenza di coloro che criticano, se non con una maggiore arroganza.
Di questi “nani sapienti” il mondo è pieno; e sono ben più pericolosi di coloro che, sfruttando la forza lavoro, ricavano fra l’altro i profitti che consentono a questi signori di vivere seduti sui loro dorati scranni e di lì pontificare come portatori di un “sapere certo e di gran valore”.

gli uomini di buone volontà

Se dai limiti dell’Intelletto saccente si può senza gran difficoltà allontanarsi, credo invece che sia fondamentale interrogarsi intorno agli “uomini di buona volontà”. La domanda che ti porrei potrebbe articolarsi più o meno così: al di là di rimandi a tradizioni culturali non prive di intime ambiguità, chi sono oggi gli “uomini di buona volontà”?
Onestamente, guardandomi intorno, faccio sempre più fatica a individuare un soggetto collettivo che abbia queste caratteristiche; ed anzi mi chiedo se sia mai esistito se non all’interno di una metafisica che è servita come un velo di Maia a nascondere una ben più dura realtà.
Se mi guardo intorno, vedo una infinità di percorsi umani caratterizzati da un inesausto confliggere di interessi individuali, che forse qualche volta e per qualche momento assumono un valore più alto, una forma di superiore solidarietà collettiva, per poi ricadere nel moto ciclico della quotidianità dove, se ovviamente si escludono le solite minoranze di inossidabili asociali, la quasi totalità degli individui si adatta a una realtà che non solo non sa e non può cambiare ma che non si sogna neppure di cambiare.
C’è un passo di Isherwood nel suo Addio a Berlino, proprio nella pagina conclusiva, che è nella sua semplice banalità agghiacciante e insieme fattualmente vero:

La povera F. Schroeder [la affittacamere da cui risiedeva l’autore a Berlino] è inconsolabile… È inutile cercare di spiegarglielo o di parlare con lei di politica… Si sta già adattando come si adatterà a ogni nuovo regime. Stamane l’ho sentita parlare con riverenza del Fuhrer alla moglie del portiere. Se qualcuno le ricordasse che alle elezioni di novembre scorso votò per i comunisti lo negherebbe probabilmente indignata, in perfetta buona fede. Si sta semplicemente acclimatando. Secondo una legge di natura, come un animale che cambia il pelo d’inverno”.

Insomma, non parlarmi di “uomini di buona volontà”: mi verrebbe anzi da dire che sono solo l’altra faccia di quell’Intelletto saccente che giustamente critichi.

calpestando l’ingegno umile dei molti

Mi pare che anche questa sia uno di quelle categorie da cui per troppo tempo siamo stati attratti e che forse è il momento di abbandonare. Sarà pure uno strappo doloroso ma prima o poi bisognerà farlo.
Infatti, il tempo che stiamo vivendo è più che mai un severo maestro. Fino alla metà del XX secolo potevo forse seguire il tuo ragionamento accettando l’idea che vi fosse una distinzione di natura materiale che si riversava necessariamente anche a livello intellettuale fra i pochi che detenevano potere e sapere e la massa dei molti “umiliati e offesi”.
Posso convenire ancora che in innumerevoli regioni del mondo tale distanza rimane la caratteristica dominante della società. L’ombra lunga del colonialismo e dell’imperialismo è una realtà, a cui le lunghe guerre di indipendenza della seconda metà del XX secolo non sono riuscite a tagliare completamente gli artigli. Molta strada è sicuramente da fare in quelle terre… Completamente diverso è, invece, il discorso per quelle regioni che hanno conosciuto per prime il fenomeno della industrializzazione. Oggi, come mai prima, è presente fra di noi una alfabetizzazione di massa; la grande massa ha raggiunto una istruzione di base; e anzi molto spesso si sono aperte per settori sempre più ampi della gioventù potenzialità di arricchimento intellettuale quale era impensabile anche pensare per la nostra generazione, mezzo secolo fa, e ancor meno per i nostri padri.
Oggi sembra di vivere in un mondo distopico: viviamo il paradosso di persone che si sbarazzano di intere biblioteche che vengono semplicemente gettate nelle discariche. D’altronde su internet è possibile accedere non solo a una infinità di testi ma è possibile leggere una letteratura scientifica aggiornata in tempo reale.
Mi capita ogni tanto di trovarmi fra le mani dei libretti che ho conservato degli ultimi anni del XIX e del primo scorcio del XX secolo, rivolti proprio a un pubblico di proletari, stampati dalla Sonzogno. Per pochi centesimi si potevano acquistare volumetti, scritti nel linguaggio più semplice, didascalici, che rispondevano a un bisogno sentito di istruzione. C’era gente che cercava di risparmiare ogni centesimo per poter accrescere il proprio sapere, per uscire dall’ignoranza e accedere alla cultura. Quelli, sì, erano gli “umili molti” che sapevano che solo con l’impegno e la volontà era possibile avere ragione di coloro che calpestavano il loro ingegno.
Oggi la situazione è però completamente mutata; e l’esito è di una tragica paradossalità. Basta accedere ai social, il nuovo universo in cui si esprime la pubblica opinione, per rendersene conto. La gran parte dei testi sono di una sconfortante banalità e evidenziano l’esistenza di uno spirito critico di deludente mediocrità. Dominano incontrastati un incredibile spirito di fazione e un bisogno di farsi notare – per riprendere le tue parole: “un io che si gonfia e che calpesta” – per nulla diverso da quello di chi si fa forte per una sua pretesa autorevolezza accademica. I princìpi della tolleranza e della curiosità scompaiono schiacciati dalla faziosità.
Anche a questo livello credo si debba fare un passo avanti; e prendere atto che semplici formule di tenore populista non possono servire a nulla. Si sono aperti imprevisti spazi per accrescere il proprio sapere e costruire formule di dialogo capaci di fare maturare la coscienza dei più. Che vi sia una grande massa che, invece, sprofonda in forme di tragica ignoranza, lasciandosi irretire dal sonno della ragione; e che, per contro, vi sia una massa di intellettuali pieni del proprio ego sono le due facce della realtà d’oggi, contro cui ogni progetto di creare una “città della scrittura critica” non può che scontrarsi. Più facile è godere della piccola claque dei propri amici che imparare a smussare le proprie certezze nel dialogo con gli altri.
Sembra questa la lezione dell’oggi con cui ci si deve confrontare.
Se la prima terzina affronta il problema della relazione fra intellettuali e masse da un punto di vista generale, con la seconda entriamo nella concreta esperienza vissuta da Poliscritture 3 nell’ultimo corso dell’anno passato. Basta andare a vedere alcuni degli ultimi post per rendersi conto delle crescenti difficoltà di relazione fra coloro che avrebbero dovuto, in modo ampiamente partecipativo, cooperare per la sua riuscita.

 – Brevi comete a me ostili!

Quando leggemmo della nuova evoluzione del sito di Poliscritture, fu facile notare alcune importanti novità. Non solo la caratura dei nuovi nomi, che venivano a integrare il progetto dandogli non solo nuova linfa ma anche una possibile nuova autorevolezza. Ciò che maggiormente sembrò stimolante fu la nuova articolazione, che nei fatti distribuiva la gestione del sito appaltandone la conduzione a una serie di diverse firme. Se i precedenti momenti della vita di Poliscritture avevano cercato di creare un qualche livello di comune omogeneità intellettuale al fine di dare una immagine abbastanza somigliante del progetto che stava dietro alla rivista e al blog, ora sembrava di capire che l’amministratore e i diversi autori avessero trovato una forma di convivenza tale da sostituire una specie di polifonia a una precedente unica voce, pure assai diversificata al suo interno. Poteva durare ed essere feconda una ideale consonanza, se pur senza un qualche tipo di formalizzazione. Ciò che è emerso in modo sempre più evidente è stata, invece, una dissonanza che ben è espressa nella formula usata da Abate. Quali le cause?

Dai loro Lassù sbuffavano eoli beffardi

Mi è parso particolarmente sintomatico che i conflitti siano emersi all’interno del collettivo di Poliscritture 3 quando il coordinatore del blog si è permesso, sia pure con la massima prudenza, di tentare un contraddittorio rifacendosi non tanto a una, per quanto si vuole obsoleta, tradizione di sinistra ma più semplicemente invitando a ripensare la lezione di Marx.
In una ormai lunga frequentazione non mi è mai capitato di vedere un Abate che si propone come un “grande censore”, forse come un pungente critico, forse con alcuni momenti di insistenza nel tentativo di mettere a fuoco le altrui posizioni mostrandone le debolezze. E non era forse di un ateniese di qualche secolo fa l’abitudine di provocare, perfino con il suo aspetto esteriore, i suoi interlocutori?
Non mi è mai capitato, in anni di letture e incontri, di sentire che Abate assumesse nei confronti dell’interlocutore un atteggiamento che non fosse di attenzione. Uno spirito di interesse e attenzione per poter avviare un reciproco fattivo dialogo.
Se debbo pensare che gli interlocutori di Abate, che con lui avevano deciso di intraprendere un percorso, fossero delle persone serie e non degli esempi di narcisismo intellettuale, allora sono costretto a pensare che era il terreno su cui Abate cercava di indirizzarli a costituire la vera ragione del contendere.
Marx è obsoleto, non è stato ancora definitivamente inglobato nella schiera dei classici e costituisce oggi, nonostante tutto, argomento che si preferisce non affrontare. Nell’età del postmoderno, della biopolitica e della “dittatura sanitaria” molto meglio tuffarsi nei più confortanti terreni della letteratura con quel piglio accademico che conferisce uno status di presunta autorevolezza.
Evidentemente questi “sbuffanti eoli” hanno dimenticato che verrà un giorno, certo non sarà domani ma verrà, in cui:

Coloro che furono posti, per scrivere, in sedie dorate
saranno interrogati da coloro
che gli hanno tessuto i vestiti
Noti per i pensieri elevati
Quei loro libri saranno esaminati, ma invece
Una qualsiasi casuale frase che lasci intuire
una caratteristica di chi tesseva i vestiti
sarà letta con interesse perché vi si potrà i lineamenti
riconoscere, di antenati famosi.

La terza strofa sembra infine assumere un tono più distaccato. Abate sembra prendere atto che i piccoli abbandoni che Poliscritture 3 ha vissuto fanno parte, in modo quasi naturale, del mondo della cultura e ancor di più della cultura massificata. Una cultura dove innumerevoli sono le ambizioni frustrate e dove spesso è la virtù del piazzista che fa “grande un intellettuale”. Dove quasi nulla riesce a durare nel tempo consolidandosi e dando forma, come fu nell’epoca d’oro della borghesia per il “grande intellettuale”, a un discorso che non diventi subito merce per il mercato dell’intrattenimento.
Preso atto di questo esito, non rimane altro che cercare di individuare un nuovo percorso. Vediamo come lo ipotizza il coordinatore del sito.

–  Lascio che si cullino nell’Eternità dei Papaveri.

Chissà per quale assurdo motivo, forse sono i miei interessi culturali che impongono i loro modelli ma, quando penso ai papaveri, mi viene automaticamente in mente l’immagine della cattedrale di Westminster, che mostra a chi entra all’inizio della navata principale un mazzo di papaveri rossi. Nulla di più evanescente di quei fiori, che a fine della giornata sono già appassiti.
Solo una solida ritualità, prodotto di una ferita culturale e umana che dopo oltre un secolo non è stata sanata, può fare sì che una mano misericordiosa ogni giorno rinnovi quel gesto di pietà. Come è universalmente noto, quei papaveri ricordano le generazioni che all’inizio del secolo furono sacrificate nei campi delle Fiandre e del nord della Francia in un inutile quanto tragico massacro. E proprio quel massacro dovrebbe invitarci a non dimenticare le responsabilità dei grandi maestri della cultura, che si trasformarono nel 1914 in corifei dei reciproci imperialismi.
La cultura non può baloccarsi in vuoti estetismi o in irrazionalismi, in un’opera di manipolazione della verità, pena scoprire che è destinata a risultare del tutto superflua, superata e schiacciata dalla forza di un intrattenimento, che genera nella società di questo inizio del XXI secolo la più incredibile forma di alienazione di massa che si sia mai potuta immaginare.

–  Torno a sentire le nenie stampate nel Sud della mia mente.

La risposta, che Abate sembra intravvedere di fronte e questa dolorosa presa d’atto, è un lavoro di regressione verso le “nenie stampate nel sud”. Un ritorno alle origini. Un tentativo di interrogarsi che coinvolge fino in fondo l’intera nostra esperienza di vita.
Dopo aver vissuto per una breve fase quello che sembrava insieme un possibile “grande mutamento” e insieme l’inveramento delle premesse poste con la Liberazione e la realizzazione delle speranze, che in qualche modo erano adombrate dalla Costituzione, abbiamo vissuto un lungo, lunghissimo inverno.
Leggendo alcuni pezzi pubblicati su Poliscritture 3, mi pare si volesse prendere proprio questa strada: domandarsi chi siamo, che percorso abbiamo vissuto se confrontato con quello dei nostri padri, che spesso era paragonabile a quello dei diseredati del terzo mondo.
Forse, in qualche caso anche non volendo, troppo schiacciati da una serie di modelli mentali che abbiamo fatto nostri  –  come quello della “crescita”, della “produttività”, di un modello di benessere che mai i ceti subordinati hanno conosciuto in tutta la storia di questo paese – non abbiamo adeguatamente compreso cosa è successo durante la nostra vita. Non è che eravamo noi  a non comprendere quali fossero le attese della gente, quella nel cui nome pensavamo di parlare? Ed eravamo sicuramente capaci di individuare le fragilità della società italiana? Avevamo, sì, una capacità di lettura che derivava dal fatto che i temi che discutevamo erano quelli che ci premevano concretamente, ma poi avevano delle risposte pratiche percorribili?
Ogni volta che mi trovo davanti a queste domande mi sembra di essere, anno dopo anno, sempre più senza risposte. Mi sconvolge il fatto che siano stati i socialisti che hanno di fatto realizzato l’unica sensata riforma della scuola in 70 anni di repubblica, che a loro si deve la nazionalizzazione della energia elettrica, che abbiamo lasciato smantellare senza fiatare, che un socialista ha posto la firma alla Statuto dei lavoratori, che socialisti erano i firmatari della legge sul divorzio…
Certo, mi si dirà che si possono trovare altrettante malefatte che portano la loro firma. Ciò non esclude che non mi sembra di trovare mai qualche cosa di concretamente fattivo, atto a modificare le condizioni materiali delle grandi masse, sostenuto dai comunisti. Se poi pensiamo alla rappresentanza elettorale di quella che fu l’espressione politica della sinistra extraparlamentare, prima in Democrazia proletaria e poi nel PRC, c’è solo da stendere un pietoso velo.
Ecco perché vedo nel gesto di Abate un passo importante. E parlerei della necessità di compiere un esercizio del dubbio che metta in discussione gran parte delle categorie che abbiamo usato nel nostro percorso.
Se non erro, nel suo ultimo lavoro Giorgio Gaber aveva inserito una canzone che aveva per titolo: Non insegnate ai bambini:

Non insegnate ai bambini
Non insegnate la vostra morale
è così stanca e malata
Potrebbe far male
 

–  E riparo le bussole che, passando tremende, hanno scassato.

Il bisogno di ripensare alle nostre radici – ed in particolare alle nostre povertà, alle nostre miserie – ci dovrebbe spingere a fare nostro un dubbio metodico.
Il verso successivo sembra adombrare un passo ulteriore. Un passo che, però, mi sembra insufficiente, almeno se ho ben compreso il significato di queste parole.
Il XX secolo ci ha lasciato certamente con un cumulo di rovine che impongono la loro ombra sul futuro. Abate pensa che possa bastare riparare delle bussole e forse il suo invito a ripensare Marx si muove su questa strada. Ma la domanda che mi farei è ben più radicale: ha senso oggi riparare delle bussole? Nell’era di Google maps, che ti permette di scrutare fin il più nascosto frammento di terra della più sperduta regione del globo, anche la bussola risulta obsoleta.
Per uscire dalla metafora, più passa il tempo e più mi domando se sia sufficiente un richiamo a Marx per poter comprendere il senso del nostro percorso.
Oggi che è sulla via della conclusione la pubblicazione delle opere complete di Marx ed Engels per una cifra iperbolica di circa 150 tomi, mi chiedo: le nostre speranze che Marx possa costituire una bussola valida per affrontare i marosi del capitale sono ben riposte? Non è che con la pubblicazione dell’intero lascito dell’intellettuale di Treviri ciò che si realizzerà sarà la sua definitiva musealizzazione?
Sarà sempre possibile trovare, come diceva Costanzo Preve, un cultore onnisciente delle opere giovanili a cui si opporrà con altrettanto rigore filologico un cultore non meno onnisciente del cosiddetto Marx scientifico, che con altrettanto rigore ribatterà al primo avviando così una querelle infinita.
Insomma, se salutare i compagni di un breve cammino è stata cosa facile e tutto sommato neppure granché costosa, quello che mi sembra di intravvedere è che sia necessario davvero compiere un gesto che potremmo definire un “grande addio”: è quello che ci dovrebbe portare a separarci da Marx e soprattutto da una tradizione che a lui ha fatto riferimento.
Quello che dobbiamo fare è, credo, un vero e proprio esercizio del dubbio nel senso più radicale possibile, dubitare di tutto. Prendere atto che siamo solo dei nani, che non vi sono giganti sulle cui spalle salire, ma restano semplicemente una serie di tradizioni culturali, di cui possiamo di volta in volta servirci per tentare di districare i grandi enigmi che la vita ci pone di fronte.
Solo facendoci forti di un dubbio iperbolico, di una radicale epochè che ci porti ad essere capaci di provare sensazioni, bisogni e anche speranze come era quando avevamo vent’anni, potremo uscire da un labirinto in cui ci siamo cacciati spesso senza volerlo.
Non abbiamo compagni di viaggio privilegiati. Tutti coloro che, come noi, credono in un mondo dove possa regnare giustizia e solidarietà e che sono muniti di una salda idea di solidarietà e tolleranza ci sono compagni.
Abbiamo fra le mani un grande progetto. Non rendiamolo sterile con infinite esercitazioni scolastiche.
Ripartiamo dall’uomo, meglio dagli uomini e dai loro bisogni, dai loro sogni, dalle loro paure e dalla loro miseria.
Solo un’indagine intorno alla realtà scevra da ideologismi può ridare vita alle nostre speranze.
Il resto è solo parole.

 

Né epigoni né avanguardisti
Risposta di Ennio Abate

Caro Giulio,
grazie per la tua attenzione verso la mia poesia. Non so se sia molto diversa dalle altre­, ma è secondario. Quel che più mi preme è farti sapere con la massima sincerità  la mia delusione. Non per  la recensione della poesia in sé, ma per quello che dici sulla fragilità  dei presupposti che hanno retto il «percorso collettivo» della rivista/blog Poliscritture. Perché, alla fine della fiera, mi pare che tu individui il limite di Poliscritture proprio in un attardato e ideologico attaccamento a Marx. Conclusione inaccettabile. Anche perché questa è stata l’accusa che in vari modi mi/ci hanno mosso  Borso e Grammann. Ora in dettaglio su  questi due punti di dissenso:

Recensione di Addii. A me pare che all’analisi della mia poesia (che – concordo – non significa addentrarsi obbligatoriamente nella specificità tecnico-linguistica dei versi) si  sia sovrapposta l’esigenza di esporre un  tuo ben meditato discorso sulla necessità e urgenza di invitare collaboratori e lettori di Poliscritture a un «grande addio» (a Marx). La poesia è così finita in secondo piano e non è stata interrogata come poesia. Hai colto, sì, il contenuto implicito dei versi e del sottotitolo («Per l’ultimo dell’anno 2021 di Poliscritture»), le speranze presto deluse di una ripartenza “polifonica” di Polis 3 e la denuncia del comportamento da intelligenza saccente (non soltanto di alcuni nuovi collaboratori),  ma hai considerato poco il fatto che  avevo sgrossato e cifrato tali aspetti, proprio per scrivere  una poesia e non abbandonarmi a un viscerale sfogo. I versi che hai scelto e i temi della poesia (sinteticamente: memoria, ragione e intellettuali,  cristianesimo e uomini di buona volontà,  umiliati e offesi di ieri e masse amorfe di oggi) mi paiono, strappati, perciò, a quel terreno poetico e  forse usati come semplici  pretesti o spunti  o titoletti  per una riflessione saggistica che potrebbe quasi prescinderne.
A scanso di equivoci, non mi scandalizzo se uno usa un testo altrui come pre-testo per dire di sé. Ma, in questo caso, l’operazione mi sembra discutibile.
Invece di indagare cosa io poeta «dimenticai» (tempo volutamente al passato per distanziarmi dagli eventi di sottofondo), ti metti a parlare in generale delle dimenticanze della sinistra (come se io quasi la incarnassi?). I versi dove accenno all’«insopportabile sprezzo dell’Intelletto saccente», agli «uomini di buone volontà» o all’«ingegno umile dei molti» vengono usati per una polemica che mi pare generica.  E  solo quando ti occupi dei versi «Brevi comete a me ostili!», «Dai loro Lassù sbuffavano eoli beffardi» e «riparo le bussole che, passando tremende, hanno scassato»,  tieni presente nella loro concretezza sia la mia posizione  sia la recente e amara vicenda di Poliscritture 3.
Sull’interpretazione di «Lascio che si cullino nell’Eternità dei Papaveri» accolgo l’immagine suggestiva della cattedrale  di Westminster che il verso ti ha evocato, ma è meglio precisare che, terra terra, avevo in mente «Papaveri e papere», una vecchissima canzone ascoltata da ragazzo, che tuttora mi fa sorridere per la sua  popolaresca critica dei Potenti (politici, intellettuali, cardinali). Ma, quando interpreti «Torno a sentire le nenie stampate nel Sud della mia mente», torno a non essere d’accordo. Tu qui vedi un mio «gesto» o «un passo importante» per mettere in discussione «gran parte delle categorie che abbiamo usato nel nostro percorso». Io sottolineerei, invece, che le mie nenie sono «stampate nel sud della mia mente» (nota che, nel citare, salti «della mia mente»); e, dunque, non vorrebbero fermarsi alla nostalgia dell’infanzia o delle origini ma  essere ricordi di suoni di una volta collegati alle acquisizioni mentali di un adulto, anzi ora di un  vecchio, che, quando lavora sulle memorie dell’infanzia, si sente (o vorrebbe sentirsi) più vicino all’illuminista/romantico Leopardi che al simbolista/irrazionalista Pascoli. In  questa poesia Marx non viene certamente nominato eppure  il suo messaggio non contiene – credo –  nessun invito (neppure sottinteso) ad abbandonare Marx. E  il verso «E riparo le bussole che, passando tremende, hanno scassato» non ha (per me) un riferimento a Marx o alla metaforica bussola che la sua opera potrebbe ancora rappresentare.

Ritornare a Marx o abbandonare Marx. L’invito al «grande addio», «che ci dovrebbe portare a separarci da Marx e soprattutto dalla sua tradizione» per svolgere finalmente «un’indagine intorno alla realtà scevra da ideologismi», mi pare la tappa d’arrivo di un tuo dissenso strisciante (con me e con Poliscritture)  che si era già manifestato –  soprattutto (ma non soltanto) – nel 2017 attorno al  mio commento  di “Comunismo” di Fortini (qui).
Che dire? Mi viene in mente il «come ci siamo allontanati» rivolto proprio da Fortini a Vittorio Sereni. Oggi – parlerei di un tuo autodafè – sostieni apertamente un luogo comune –  l’insufficienza di Marx – che  si è consolidato tra gli intellettuali e nei mass media a partire dalla Nietzsche Renaissance degli anni Ottanta del Novecento e ripetuto da tanti altri, avvelenatori negli ultimi decenni della sinistra in disfacimento  e che io metto tra i saccenti.
Sorprendermi o scandalizzarmi per  questi giudizi liquidatori (vanità di ogni «ritorno a Marx» o di qualsiasi tentativo di «ripensare Marx», che anni fa tu pure auspicavi? O farti notare che la MEGA [Marx-Engels-Gesamtausgabe o collezione di tutti scritti di Karl Marx e Friedrich Engels] non è inevitabilmente un’operazione di musealizzazione  ma potrebbe rivitalizzare  quel lascito,  strappato all’ossificazione del marxismo-leninismo e avviare  una possibile ripresa dello sforzo innovativo tentato dall’operaismo negli anni ’60-’70 (da  Panzieri, Tronti, Negri e altri)? Servirebbe poco o niente.
Questo è il punto (simbolico quanto si vuole) di massima distanza oggi tra noi. E mi chiedo che dialogo potrà esserci tra chi si rammarica che in Poliscritture lo spazio per “ripensare Marx” (in modi non fideistici o scolastici) sia  stato insufficiente e chi invita a salutarlo definitivamente e rivaluta il socialismo umanitario e riformista (antimarxista), punta al ritorno – che gli pare liberatorio e  non regressivo – a una dimensione quasi pre-politica e  in fondo romantica (il riferimento a Gaber, ai bambini, alle mie “nenie”, alle origini, all’umano, ai sentimenti).
Posso solo dire che io continuerò ad indossare il cappotto leggero di Marx, come ti avevo anticipato in un altro nostro scambio su  FB [1]). E continuo a non capire perché non si possa «compiere un esercizio del dubbio» proprio ripensando Marx. E la stessa critica dialogante di Poliscritture non  rientrava in questo «esercizio del dubbio»? Non mirava a mettere in discussione «gran parte delle categorie che abbiamo usato nel nostro percorso»? (Basterebbe rileggersi  l’editoriale del numero zero del 2005: qui). E «il bisogno di ripensare alle nostre radici, ed in particolare alle nostre povertà, alle nostre miserie» non è quello che abbiamo appreso dai marxisti come  Fortini o Brecht?
Persino sul punto dove più potrei essere in sintonia con te – e, cioè, nella polemica contro gli intellettuali narcisi, iperletterari e ostili ad un impegno politico (vedi la poesia di Brecht che hai ripreso), mi trovo in imbarazzo. Perché da una parte critichi  questo tipo di intellettuali,  ma dall’altra finisci per essere più vicino a loro che  a me proprio sul punto per me cruciale (ripensare Marx), oggetto  di contesa, come tu stesso  riconosci, tra me e intellettuali (come Borso e Grammann), che non vogliono sentir più nominare né Marx né i marxisti, tanto da  rompere con me e Poliscritture proprio  su questo punto.  E mi fa sorridere il tuo accenno alla «caratura dei nuovi nomi che venivano a integrare il progetto [di Poliscritture] dandogli non solo nuova linfa ma anche una possibile nuova autorevolezza». Perché quella «caratura»  (politicamente nel vago, mai definita,  forse “né di destra e né di sinistra”) non ha temperato certe  loro arroganti idiosincrasie, a mio parere cocciutamente antimaxiste.
Io continuerò a sospettare di questo diffuso  accanimento contro Marx e i marxisti. E a chiedermi: se Marx è superato o insufficiente e i marxisti sono così innocui, ai margini e poco seguiti, perché intestardirsi a censurarli così ossessivamente? Forse in Marx (e non nei marxismi) c’è non solo qualcosa che non a caso infastidisce “costoro” ma  è irrinunciabile per “noi”;  e che  nei discorsi di quelli che ne criticano l’insufficienza manca del tutto. Fosse pure la sua opera insufficiente (perché legata all’Ottocento ecc.)  o conclamata l’incapacità  da parte dei suoi seguaci di aggiornare il suo lascito, perché saltare (come fosse stato risolto o ridimensionato) il problema – centrale  in Marx – dello sfruttamento, quando le cronache dimostrano che il fenomeno non fa che complicarsi e le forme di asservimento diventano sempre più brutali sia da noi che a livello mondiale? Tanto più che quelli che hanno ripudiato o decostruito Marx non indicano una via più costruttiva di quella da lui abbozzata e annaspano al buio, almeno quanto me.
Né vedo quali sarebbero gli idola a cui “noi” di Poliscritture saremmo rimasti attaccati. Avessimo indugiato  su Stalin, Diamat, marxismo emmellista,  concorderei con la tua critica. Ma ti sembrano  idola anche Marx e Fortini, malgrado in Poliscritture abbiamo parlato di entrambi  in modi che a me paiono sempre problematici?  Quanto al termine «uomini di buona volontà», certo  viene da una dimensione religiosa cristiana. E dovrei vergognarmi di riprenderlo in poesia? O riconoscere la loro definitiva scomparsa e l’altrettanto definitivo «inesausto confliggere di interessi individuali»? O che «la quasi totalità degli individui si adatta a una realtà che non solo non sa e non può cambiare ma che non si sogna neppure di cambiare»? Ma tutte le innegabili rivoluzioni che ci sono state nella storia (certo fallite o imperfette) da dove sarebbero uscite? Non certo dagli individui che hai descritto.
I non nichilisti, i non opportunisti, i servi non rassegnati, tutti quelli che non si sono venduti o assoggettati ai partiti che ci stanno conducendo alla rovina sono, per me, ancora  «uomini di buona volontà». E gli «umiliati e offesi» non mi paiono figure del passato. Malgrado l’«alfabetizzazione di massa» e le «grandi possibilità di arricchimento intellettuale», numerose analisi  vedono – anche in Italia e in Europa – crescenti diseguaglianze sia economiche che culturali  e simboliche. Non tutti stanno bene o  sono egoisti nella stessa misura. Internet rende possibile accedere a una infinità di testi, ma quanti effettivamente vi accedono; e quali possibilità hanno di servirsene nelle condizioni in cui vivono?  Mai l’accesso (in teoria) ai risultati più alti della cultura ha reso automaticamente migliori gli uomini. (I nazisti colti e sensibili alla musica classica o alla poesia di Goethe non dirigevano i lager?). Quanto agli umili dei tempi della Sonzogno «che sapevano che solo con l’impegno e la volontà era possibile avere ragione»,  non trascurare che quel riscatto  fu parziale. O che è fin troppo facile dare ragione a chi si trova in povertà o disoccupato ma  non cambiare la sua condizione. E siccome oggi, al posto del rapporto dinamico partito/masse, abbiamo masse amorfe e banali e intellettuali saccenti, dovremmo rassegnarci a questa poltiglia culturale e politica? Tornare alla radicalità della nostra giovinezza? Ma è davvero possibile questo ritorno? Non è un mito inerte? Cosa insegnò Leopardi? E, infine, «ripartiamo dall’uomo, meglio dagli uomini e dai loro bisogni dai loro sogni, dalle loro paure e dalla loro miseria…»? No, io non ce la  faccio a dimenticare la critica non banale – sì, del solito Fortini – rivolta a questa visione genericamente umanistica:

«Che cosa sia poi quell’uomo, quell’essere umano di cui parlate, quando a quello sia tolta la dimensione dell’azione comune per la solidarietà, la giustizia, la libertà e l’eguaglianza, io non riesco davvero a immaginarmelo. Che cosa è un uomo ridotto alla mera dimensione della interiorità morale?». E aggiungeva: «deve trattarsi di una canaglia. O di una vittima. E che cosa vogliono infatti da noi i custodi della eticità di stato, se non fare di noi delle canaglie o delle vittime?». O politica o morale allora? No: «tra il momento politico e quello morale c’è una incessante tensione e implicazione reciproca» 

(dal mio scritto sulle Disobbedienze di F.F.).

 In conclusione. Le nostre strade sembrano dividersi. Al contrario di quel che sostieni, il limite di Poliscritture sta per me proprio nel non essere riusciti a dare un’impronta marxista aperta e originale sui vari temi (anche letterari) di cui ci siamo occupati. E Poliscritture rimane  un modesto luogo virtuale,  aperto a collaboratori che consegnano i loro temi elaborati con maggiore o minore competenza ma rifiutano di misurarsi con il progetto su cui era nata la rivista. Io continuo pazientemente a fare da collettore di questi contributi. Ma, tra essi , ci saranno anche quelli su Marx. Almeno finché ci saranno quelli che (come me) a quell’opera faranno riferimento.   Il mio addio, dunque, è diverso dal tuo: io saluto  intellettuali saccenti come Borso e Grammann  e non Marx  o Fortini.
Un’ultima cosa. Nel preparare questa mia risposta al tuo scritto, ho considerato anche che quello che chiamo il tuo autodafé ha risonanze  profonde nella tua esperienza  che devo rispettare.  Anzi mi sono  chiesto se  non cogli qualche verità che forse a me sfugge.  Al momento, però, non so nominarla. Non la vedo. Inoltre, siamo vecchi entrambi e tagliati fin troppo fuori dai problemi del presente e dai modi in cui oggi vengono dibattuti da altri.  Tuttavia, possiamo restare amici e vedere se, malgrado le nostre contrapposte visioni,   qualche punto di accordo salterà fuori.

Nota

[1] «fa molto freddo e uno va in giro nella tempesta solo con un cappottino leggero. Ce ne vorrebbe uno pesante e ben imbottito. Ma non ce l’ha. Il cappottino leggero ce l’ha, quello pesante e ben imbottito non è in vista. Per me fa bene (per tentare di sopravvivere) che si tenga quello che ha, anche se sa che è insufficiente».

 

1 pensiero su “Poliscritture 3. Un confronto

  1. Al Marx che avevo studiato io millanni fa venivano attribuite certe categorie teoricamente non indifferenti.
    L’astrazione determinata: che significa che il presente, sviluppato, spiega il passato storico. Il presente sviluppato -come “atto” aristotelico- interpreta e svela la potenza iscritta nel passato che ha condotto al presente.
    Nel concreto del lavoro di Marx: il “lavoro astratto”, che comincia a manifestarsi in precedenti epoche storiche, diventa vero solo al livello sviluppato dei rapporti di produzione capitalisti della sua epoca. La “determinatezza” del presente contiene i segni dello sviluppo precedente e -insieme- i rapporti sociali e conflittuali di classe al presente.

    Per cui l’allora nostro presente nello sviluppo capitalistico negli anni ’60/’70 sussumeva il sottosviluppo del sud e la miseria sociale (ricordare il libro “Milanocorea”). Dato che lo sviluppo mercantil/finanziario dell’unità italiana aveva sfruttato la precedente accumulazione meridionale per trasferirla alle banche del nord.

    Ma proprio sulla astrazione determinata cominciarono a slabbrarsi  delle adesioni teoriche quando -mi riguardò per il femminismo- la sintesi storico/produttiva maschile finiva per cancellare l’esistenza della rivendicazione di libertà femminile: non semplice libertà umana, ma sessuata.
    Quale impensata categoria!

    Si potrebbe forse usare la categoria di astrazione determinata proprio per dire che la “libertà femminile” rende vere le libertà umane storicamente raggiunte in precedenza. Così come la libertà pretesa da altre *razze* e culture rende più vera la libertà “umana” cui l’occidente pretende(va) da solo di ispirarsi.
    Resta quindi di Marx l’idea che il presente riassume e spiega il passato (già Hegel lo aveva chiarito, ma ricostruendo la storia “sulla testa”, cioè nel pensiero, non nei conflitti dei soggetti reali).
    Tra lo storicismo in genere e la conflittualità al presente rivendicata da Marx, infatti, c’è… conflitto.

    E’ idea da buttar via? E’ occidentocentrismo? O persino l’idea vestfaliana di coesistenza multipolare attuale -forse- non contraddice una unità globale (del Globo) che continua storicamente a realizzarsi per tutti…

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