Dieci anni di IPSILON


Peripezie  di un’associazione culturale a Cologno Monzese

di Ennio Abate


Lavorando al mio Riordinadiario,  ritorno sulle «peripezie di Ipsilon». Ne avevo scritto a caldo già nel 1999 in Samizdat Colognom n. 2 (“foglio semiclandestino per l’esodo”) e poi nel 2009 (qui ). Ad ogni rilettura mi rifaccio le stesse domande: perché  ci dividemmo? era inevitabile? cosa non capii io o non capirono gli altri le altre (qui sopra nella foto)?

La ragione principale di quel fallimento la diedi allora, nel 1999, in una mia “lettera di separazione”  e mi pare tuttora valida. Anche in Ipsilon, con  quel gruppo di amici e amiche,  si presentò  il dilemma  che si  era posto nei tentativi  –  nella mia biografia tutti successivi  al ’68 – di fare gruppo, agire come noi, avviare con altri/e  una forma nuova, indipendente, di cooperazione per cambiare l’esistente. (E intendevo: i miei e altrui modi di pensare, parlare, agire  nelle situazioni in cui vivevo – famiglia, scuola, città –  e più in generale nel “mondo”) [1]. E il dilemma – che negli anni ’70 si era posto per me prima come scelta tra adesione al PCI o al movimento studentesco e poi ad Avanguardia Operaia; successivamente tra lottarmatismo e isolamento; e, nel decennio 1989-1999, tra rifondazione (di una Sinistra ancora riformabile o comunista-bertinottiana) e esodo, – in Ipsilon rimase irrisolto e alla fine ci divise. (Come poi  accadde ancora con Poliscritture, ma questo è altro discorso).
Può darsi  che, nel 2022, non ci sia più bisogno di rimestare queste cose, perché  la storia, i fatti, la realtà avrebbero  annullato ogni velleità di cambiamento.  E che, dunque, la mia cecità starebbe  nel non voler, ormai vecchio, accettare  la  verità: che è ora di smetterla, di ritirarsi. Per saggezza o  disperazione  o realismo. Coltivando, al massimo e individualmente,  nel proprio io-orticello (reale o mentale) quel che si è stati; e lasciando che la storia o il caos vada avanti con le sue guerre, i conflitti, le storture, le ingiustizie.
Eppure, proprio perché il disastro (guerra in Ucraina,  il governo  italiano che va alla guerra, i democratici che, assieme alla destra, vanno alla guerra) l’ho davanti agli occhi, torno a cercare nell’esperienza  di Ipsilon  un qualcosa, che lì fu presente, che nominai nella forma astratta, intellettuale, troppo vaga  e metaforica del concetto di esodo; e che cercai di precisare nelle proposte, nelle discussioni, in appunti  e documenti, pur inceppato da sospetti e ostilità provenienti dalla stessa Ipsilon.

Rispetto alle altre (precedenti o successive), l’esperienza di Ipsilon  ebbe delle particolarità. Nacque legata a un luogo, a  questa quasi città di periferia, Cologno Monzese, alle porte di Milano, a Nord Est, da cui ancora parlo. Un handicap  secondo  molti amici  che ho in tanti anni conosciuto. Un pezzo della identità reale-immaginaria che mi sono qui costruita (l’immigratorio, il samizdat), plasmabile ma irrinunciabile per me. (Come del resto  la  salernitudine della mia infanzia e prima giovinezza).
Quelli che accettarono di entrare in Ipsilon erano anch’essi legati a  questa quasi città. Tutti vi abitavano o vi operavano professionalmente. Ed erano abbastanza affini tra loro per condizioni  sociali e culturali.  Tutti/tutte  gente affacciatasi  al mondo della cultura in seguito alla scolarizzazione di massa del secondo dopoguerra.  E  che aveva anche un breve o  più lungo pezzo di storia politica  di sinistra, apparentemente in comune. In effetti,  questa storia era di lacerazioni e divisioni. La studiammo sui libri. La rivivemmo negli scontri degli anni ’70 e ’80. E  nella stessa Ipsilon si ripresentò  come continua  oscillazione (altro che dialettica!).
Lo scontro, che altrove (sui mass media, nei partiti, nelle università) venne formulato in termini netti e drastici (strategia della tensione, democrazia, neofascismo, antifascismo, compromesso storico, terrorismo), in Ipsilon  si presentò in sordina, soffocato,  poche volte con qualche asprezza. (Perché eravamo in periferia? Perché  l’amicizia e la frequentazione facevano da cuscinetto alle contrapposizioni? Perché  il contesto – fallimento del compromesso storico, uccisione di Moro, terrorismo, disfacimento della “nuova sinistra” e poi del PCI – già era velato dalla sconfitta e  invitava alla chiusura?).
Si prolungò, comunque, quell’oscillazione fra i due orientamenti: di chi ancora  pensava a una Sinistra in crisi, sì, ma riformabile o rifondabile; e  di chi (come me) voleva sganciarsi da essa. E quel noi che avevamo  costruito con  Ipsilon  quale di queste due scie voleva seguire? Sul piano numerico indubbiamente  la  maggioranza di Ipsilon (quasi la totalità, direi, tranne me e Marcello Guerra)   non voleva né staccarsi né  polemizzare troppo con  la sinistra  e il centro sinistra al governo di Cologno Monzese.  Da qui la paralisi dell’Associazione.
Mai  mi riuscì di far prevalere quel mio orientamento esodante. Era – lo capisco meglio  oggi –  impossibile, dato che prevaleva  quello a favore della Sinistra riformabile. Dall’esterno, dalla vita sociale cittadina non mi poteva più venire  ora nessun sostegno, com’era accaduto negli anni Settanta, quando proprio l’appoggio ricevuto da  minoranze di operai delle piccole fabbriche e di studenti abitanti  a Cologno mi permise di fondare il Gruppo operai e studenti e poi  la cellula locale di Avanguardia Operaia, contrastando non da isolato ma con un noi organizzato  il centro sinistra di allora. Alle riunioni di Ipsilon, però, non c’erano più operai.  E se proponevo in alcuni documenti interni la mitica inchiesta  sociale (che volevo non localistica o amicale ma metropolitana, aperta  a contributi  anche extra-cittadini), avrei dovuto farmela da solo. E  dove li trovavo i finanziamenti? Ci fu pure,  già  in quegli anni, la   proposta – credo di Marcello Guerra –  di fare un sito di Ipsilon,  ma non se ne fece nulla.  Rispetto al periodo 1986-1988 in cui avevamo fatto la rivista autoprodotta e “fortiniana” Laboratorio Samizdat, soltanto nei  primi due anni di Ipsilon si ebbe una certa  attenzione e curiosità verso temi “teorici” e “intellettuali” come la crisi del marxismo (Costanzo Preve venne da Torino per  una conferenza sul tema nel 1989  o ’90) o la critica della cultura di massa  (la conferenza nel 1989 di Franco Fortini  contro lo snobismo di massa).  
Seguendo l’intrico  degli incontri, dei seminari,  dei tentativi editoriali (i due numeri di SpiegAzioni), di alcune manifestazioni pubbliche sul tema della nuova immigrazione o contro la Guerra del Golfo,  le  collaborazioni col Comune  e la Biblioteca  civica (il libretto su Fortini dopo la sua morte nel 1994, il gruppo sulla Storia di Cologno), viene  fuori  un’acculturazione comunque attiva  e non consumistica, basata sulla lettura di libri di saggistica (politica, letteraria, storica, sociologica).
Quest’attività non aiutò, però, a sciogliere quel dilemma. Rimasi io pure catturato nella crisi ambigua e senza sbocchi della Sinistra;  e tutte le ipotesi politiche che portammo nell’Associazione  – quella  “pluralista” rivolta a “tutta la Sinistra” – ad es.  nel 1994 con il Comitato di liberAzione [2] ,  quella  dell’ esodo  da me teorizzata , quella  della Rifondazione comunista avanzata da Roberto Mapelli o, più tardi, quella del no profit e del pacifismo di Roberto Grossi – non convincevano né ottenevano  il riconoscimento  sufficiente né potevano  convivere diplomaticamente a lungo.  Lo stesso accadde con  le ipotesi più culturali:  la più  elaborata fu quella di Luca Ferrieri sull’ecologia della lettura; l’altra di Donato Salzarulo, che era collegata ai bisogni di aggiornamento culturale della scuola (elementare). Fecero in Ipsilon una fugace apparizione; e poi i proponenti preferirono o furono costretti a riprenderle in altre  strutture istituzionali (Sistema bibliotecario Nord-Est, Scuola elementare). Altre proposte  – le mie:  una storia sociale di Cologno,  la raccolta di storie di vita degli immigrati e della vita di periferia, collegarsi con altre associazioni (Centro studi F. Fortini di Siena, libreria Tikkun di Milano, incontri milanesi delle riviste Manocomete e Inoltre) –  rimasero  sulla carta o dovettero presto essere interrotte. Alla fine ciascuno andò per una sua strada:  per Mapelli ci fu l’impegno in Punto rosso; per me i samizdat da isolato,  per Grossi la militanza nel Comitato pace e nel commercio equo-solidale, per Ferrieri il lavoro come bibliotecario, per Salzarulo  quello nella scuola….

Ipsilon si prolungò ancora per alcuni anni come circolo di lettura  tra amici e amiche, che ora si conoscevano di più e discutevano bene insieme, ma  quella attività poteva essere fatta a Cologno come a Canicattì. Ignorati dagli abitanti  della quasi città, che venivano invece raggiunti sistematicamente da TV, mass media e poi da Internet,    snobbati da quei pochi che ci conoscevano ed erano  impegnati tutti “pragmaticamente” nelle faccende politiche locali,  passammo per  un salotto di “intellettuali”, di perditempo che si potevano  permettere il “lusso” della cultura. Ipsilon non attirava. Non si era neppure decisa a  diventare una  piccola università popolare di periferia sanamente  pedagogica. Restò, dunque, a mezz’aria. Il legame con la città non era stato costruito.

Cosa è  restato a Cologno di Ipsilon? Potrei rispondere: le carte che   ho conservato io (e forse  qualche altro  dei partecipanti).  Chi si ricorda di Ipsilon a Cologno? Nessuno, tranne io che ne scrivo.  Però  ne scrivo ancora perché so che fu l’unico tentativo di  tessere un filo indipendente tra Cologno Monzese  e Milano e il “mondo”,  di sfuggire al vizio del ghetto localistico, di  attivare un’intellettualità di massa  non prona all’industria culturale e non contenta di essere “semicolta”.

Note

[1] Per chiarezza le  elenco: Avanguardia Operaia (1968- 1976), Laboratorio Samizdat (1986 -1988), Associazione culturale Ipsilon (1989-1999), Inoltre (1996-2003), Manocomete (1994-1995), Il Monte Analogo (2003-2006), Laboratorio Moltinpoesia (2006- 2012), Poliscritture (2005-2018).

[2] E. Abate, G. Alessandrello, S. Alpino, V. Ballabio, V. Beretta, V. Brusa, A. Cairoli, C. Carlotta, D. Carissimo, A. Casula, G. Cocciro, M. De Tuglie, M. Diaco, R. Fabbri, G. Facchi, M. Felisari, G. Galardi, R. Grossi, M. Guerra, R. Guzzo, L. Lana, A. Lorenzo, M. Madella, R. Mapelli, N. Martinazzi, B. Narici, D. Palumbo, L. Paccagna, C. Piazza, E. Picozzi, E. Radaelli, C. Rosini, D. Salzarulo, A. Tagliaferri, R. Turi.).Adesioni: PDS, Sinistra giovanile, Circolo Pertini, Ass. Culturale Ipsilon

Foto (1998 circa)

  • Da sinistra a destra:
    In piedi: Marcello Guerra, Alessia Meani, Ennio Abate
    Seduti/e: Luca Ferrieri, Carme Carlotta, Piero Càmbule, Donato Salzarulo, Rosella Bertola, Angela Villa, Tina Salzarulo

 

 

11 pensieri su “Dieci anni di IPSILON

  1. Ti voglio dire che la fine dei tuoi tentativi di attivare un collegamento tra lavoro e intelletto tante volte nel tuo grosso borgo appare oggi squadernato nelle sue ragioni, per la perifericita’ e irrilevanza della nostra condizione di paese nei poteri mondiali. È tutto chiaro oggi, mi pare.
    Non contiamo niente a livello individuale, di lavoro, storico… altro che come quelle “truppe di rincalzo” (in cui mai ci siamo inclusi). Quindi?
    Noi siamo sopravvissuti ai e per i bei tempi della sanità pubblica e delle pensioni. Come si ambienteranno i prossimi? Non so, e temo.
    Ma si è chiusa un’epoca… e il futuro non ci appartiene. Io cerco tracce di senso e ce ne sono, tra i giovani, figli e nipoti. Spero in loro.

    1. “Cosa avevamo in più allora che non abbiamo più oggi?” Quale è il soggetto di quella 1 pers. pl.? Noi, chi? Mi pareva di averlo detto: non i singoli che hanno operato al sobborgo di Milano ( cosa intendi con “quasi città”? Come Sesto o Monza o Melzo, nessuna di quelle aggregazioni avrebbe potuto vivere di vita propria senza un flusso sostanzioso di lavoro e scambi culturali e mercantili *nelle due direzioni* con Milano al centro), così come altre aggregazioni politiche nella stessa Milano si sono esaurite.
      Sono cambiati sia i rapporti di lavoro sia i movimenti di immigrazione, in un quadro di stabilizzazione sociale europea. In cui le urgenze di giustizia sociale si sono stemperate in una medieta’ diffusa e tollerabile.
      La tua foto è del 1998 circa: da allora guerra del Kosovo, 1 e 2 in Irak, la 3 missione in Libano, con un ruolo del nostro paese sempre più chiaramente schierato entro un gioco int.le. La guerra (io leggevo i libri e articoli del generale Mini che esplicitavano questo) come il nuovo orizzonte degli eventi – quello intorno al buco nero attrattore, ora sempre più ravvicinato.
      Occorreva allora un pensare generale più che locale. Non starò a dire come il femminismo rispose -con certe vistose contraddizioni- a questa istanza, perché è sotto gli occhi di tutti.
      In sintesi: non è vero che siamo sempre stati periferici e irrilevanti come paese nella politica mondiale ma lo siamo diventati. Tranne che -ora- per il ruolo del Vaticano e solo per quello.

  2. C’è anche qualcosa di bello, e tragico, nel mutare del tempo -come sostanza- e nel tempo -come quadro-.

  3. @ Cristiana Fischer

    Quasi d’accordo: « si è chiusa un’epoca… e il futuro non ci appartiene»

    In disaccordo: « Ti voglio dire che la fine dei tuoi tentativi di attivare un collegamento tra lavoro e intelletto tante volte nel tuo grosso borgo appare oggi squadernato nelle sue ragioni, per la perifericita’ e irrilevanza della nostra condizione di paese nei poteri mondiali. È tutto chiaro oggi, mi pare.»,

    Anche nel ’68-’69 la «quasi città» (non il “borgo” leopardiano) di Cologno Monzese era dimenticata da Dio e dagli uomini. (Non da tutti, in verità. Un volantino del nostro GOS (Gruppo operai e studenti) attirò l’attenzione di chi aveva l’occhio per certe situazioni e Danilo Montaldi, autore con Franco Alasia di «Milano, Corea», una raccolta di testimonianze di immigrati, qualcuno anche di Cologno, venne a trovarci). E non è che allora non ci fosse « la perifericità e irrilevanza della nostra condizione di paese nei poteri mondiali» e noi – gente comune? – contassimo di più. Indovinello: cosa avevamo in più allora che non abbiamo più oggi? (Non mi dire: la giovinezza. Risposta troppo scontata e sbagliata per me).

    1. E potresti evitare di insultarmi con la presunta risposta da parte mia che “eravamo giovani”…

  4. @ Cristiana Fischer

    1. « Noi, chi?».
    Un’area sociale e politica che poteva ancora dirsi Sinistra e in alcune sue minoranze “extraparlamentari” coagulatesi sulla spinta del biennio ’68-’69 stava per delineare un’ipotesi di “nuova sinistra” o “sinistra rivoluzionaria”.

    2. «cosa intendi con “quasi città”?».
    Un tessuto geografico, economico, sociale e culturale che fuoriusciva dalla dimensione agricola (il “borgo”) e entrava nella «modernizzazione» (capitalistica: il “boom economico”); ma, appunto, in maniera precaria e subordinata (Cfr. Montaldi e Alasia, «Milano, Corea»). Perciò continuo a parlare di «quasi città», anche contro altre visioni in parte più ottimistiche (Cfr. Giovanni Mari, Nascita di una città. Trasformazioni urbane e migrazioni interne a Cologno Monzese negli anni ’50 e ’60 > https://www.biblioclick.it/SebinaOpac/resource/nascita-di-una-citta-trasformazioni-urbane-e-migrazioni-interne-a-cologno-monzese-negli-anni-cinquan/NEM0367094?tabDoc=tabloceb)

    3. « nessuna di quelle aggregazioni avrebbe potuto vivere di vita propria senza un flusso sostanzioso di lavoro e scambi culturali e mercantili *nelle due direzioni* con Milano al centro».
    Infatti, ma con CHI questi scambi?
    « E il dilemma – che negli anni ’70 si era posto per me prima come scelta tra adesione al PCI o al movimento studentesco e poi ad Avanguardia Operaia; successivamente tra lottarmatismo e isolamento; e, nel decennio 1989-1999, tra rifondazione (di una Sinistra ancora riformabile o comunista-bertinottiana) e esodo, – in Ipsilon rimase irrisolto e alla fine ci divise. (Come poi accadde ancora con Poliscritture, ma questo è altro discorso)».

    4. « Sono cambiati sia i rapporti di lavoro sia i movimenti di immigrazione, in un quadro di stabilizzazione sociale europea. In cui le urgenze di giustizia sociale si sono stemperate in una medieta’ diffusa e tollerabile.».
    D’accordo, ma era predeterminato che i cambiamenti avvenissero nel modo in cui sono avvenuti? Che di fronte alla piena in arrivo si smantellassero con solerzia sospetta tuti gli argini faticosamente costruiti (vedi scioglimento di Lotta Continua,alla scissione di Avanguardia Operaia, dissoluzione del PCI, ecc.)? Quanto hanno pesato queste scelte anche successivamente a favore ddella partecipazione dell’Italia alle varie guerre(«guerra del Kosovo, 1 e 2 in Irak, la 3 missione in Libano, con un ruolo del nostro paese sempre più chiaramente schierato entro un gioco int.»)?
    Non c’era bisogno di leggere « libri e articoli del generale Mini» per sapere che il capitalismo, lasciato a se stesso, porta alla guerra. Avevamo letto Brecht.

    5. « Non starò a dire come il femminismo rispose -con certe vistose contraddizioni- a questa istanza, perché è sotto gli occhi di tutti».
    Appunto, « con certe vistose contraddizioni»…

    6. « non è vero che siamo sempre stati periferici e irrilevanti come paese nella politica mondiale ma lo siamo diventati».
    Con De Gasperi, Andreotti, Craxi? No, grazie. Io pensavo a quell’altro *noi* (punto 1) non a “noi italiani”(partiti per la guerra…) e neppure a “noi cattolici”.

    1. dal punto 1 in giù. Come credo si sappia, la Libreria delle donne di Milano proveniva e si autosentiva di sinistra. Ma il “noi” di quell’area sociale e politica “e in alcune sue minoranze ‘extraparlamentari’ coagulatesi sulla spinta del biennio ’68-’69 stava per delineare un’ipotesi di ‘nuova sinistra’ o ‘sinistra rivoluzionaria’”, era già stato fratturato dal femminismo (come Lotta Continua dalle compagne) da un lato, e dalle intenzioni armate prese da alcuni, dall’altro.
      Capisco che ancora sussistano idee critiche razionali che immaginavano un altro sviluppo possibile da quello che è stato. Eppure è anche vero che una autocritica di quell’unilateralismo passato non è ancora acquisita.
      Al femminismo noi pensavamo come la contraddizione primaria di dominio, da cui derivano le altre, razziste e classiste. E’ vero ancora e sempre.
      Le contraddizioni nel femminismo sono quelle della emancipazione, della parità (essere “uguali” agli uomini) nel neutro della concorrenza e del successo. E come non immaginare che il dominio non cerchi di dividere l’avversaria? E cos’è oggi il transumano, e parte del postumano, se non cancellare la differenza sessuale?
      La rivoluzione femminista è la più radicale rottura in quasi tutte le società umane, in cui politica religione esercito sono rette dai maschi (assimilando in nome della parità parzialmente alcune donne) e del resto i femminicidi sono una piaga mai sanabile. Questo lo sanno *oggi* anche le donne ucraine e le donne russe. E quelle cinesi. Eccetera.

      p.s.: “Non c’era bisogno di leggere « libri e articoli del generale Mini» per sapere che il capitalismo, lasciato a se stesso, porta alla guerra. Avevamo letto Brecht.” Ma figurati, persino la Bibbia, avevamo letto! Ma “Soldati” è del 2008, “Eroi della guerra” del 2011, “Mediterraneo in guerra” del 2012: Mini metteva in chiaro la trasformazione che stavano avvenendo in quegli anni, non il legame in generale tra capitalismo e guerra.

    1. Non mi par vero che ti rifiuti di discutere quelle che non sono solo mie opinioni ma anche una corrente mondiale sostenuta da grandi teoriche e lottatrici.
      Se preferisci così non posso obbligarti ma mi dispiace.

  5. Un altro che , a modo suo, pure lui cerca un *noi*

    SEGNALAZIONE

    Le frontiere e le periferie sono formidabili sensori dei grandi eventi mondiali. Gli abitanti del mio villaggio tra Italia e Slovenia hanno già capito tutto. Piantano patate e carote più del solito, arano rabbiosamente spazi di campagna dimenticati da anni e tra i meli in fiore erigono legnaie enormi per il prossimo inverno. Cercano di riguadagnare l’autosufficienza perduta. Uno di loro, vedendomi passare, ha gridato: “Italiano, preparati! Non vedi come il cielo è diventato buio?”. I contadini si attrezzano, mentre in città la gente parla. Passa dal menefreghismo all’insonnia, dall’aperitivo della sera alla visione spaventosa di un fungo nucleare.

    Ma il vero pericolo non arriva dall’esterno. Viene da noi, da una balcanizzazione in cui ciascun paese europeo sta già consumando la sua Brexit, il suo personale divorzio da Te. L’Ue spende già ora il quadruplo della Russia in armamenti, ma è un nano strategico. Non ha un suo esercito e una sua politica estera. Avere un’armata con bandiera blu stellata non sarebbe una spesa, ma un risparmio. Noi, invece, abbiamo scelto di spendere ancora, e in ordine sparso. Risultato? Mendichiamo senza vergogna l’aiuto di paesi antidemocratici per trovare spiragli di via d’uscita. Invece di fare un salto in avanti, ci lasciamo dettare la linea da chi un anno fa ha scelto di smobilitare dall’Afghanistan senza nemmeno la cortesia di preavvertirci.

    Chiediamocelo una buona volta: la nostra alleanza è fondata su valori o interessi? Su un progetto di vita o un antagonismo armato? Abbiamo favorito la secessione del Kosovo in nome della libertà o per piazzare una base militare nel cuore di uno stato russofilo come la Serbia? Eravamo consci del potenziale epidemico di quella scelta, che oggi autorizza Mosca a pretendere il Donbass? E ancora: siamo sicuri di mandare armi all’Ucraina per amore della sua indipendenza, se fino a ieri le abbiamo vendute alla Russia? Su quale principio universale si gioca l’accoglienza dei profughi ucraini, se milioni di altri rifugiati sono violentemente respinti o lasciati marcire nei gulag greci e turchi?

    Mentre scrivo, la “Ocean Viking” con 295 naufraghi a bordo, aspetta da undici giorni l’autorizzazione allo sbarco, in piena emergenza sanitaria, col ponte intasato di corpi e di vomito. Intanto, sul mio confine, i profughi ucraini passano liberamente, senza obbligo della quarantena da Covid, che invece è richiesta agli africani anche se negativi al test. Non ci vergogniamo di una così lampante disparità di trattamento? E non ci viene da immaginare quali tensioni sociali potrà innescare la presenza dei migranti ucraini che noi facciamo sentire di Serie A e che domani potrebbero anche passare di moda?

    Non ti riconosco più, Europa. La tua femminilità si è rattrappita, il tuo ventre è sterile. La tua gente è annoiata dalla pace e da vent’anni si lascia governare da paure. Prima l’Islam, poi il terrorismo, poi l’invasione dei migranti, poi la pestilenza virale. Ora, l’Ucraina. Una successione di emergenze monotematiche che ci travolgono sul piano emozionale, ma ci lasciano inerti, esposti a bruschi risvegli come chi ha dormito troppo. Una nevrosi da informazione che diventa amnesia totale, e pare fatta apposta per impedirci di leggere la realtà di una guerra globale per l’accaparramento delle risorse. Che prosegue imperterrita, mascherata da eufemismi.

    Ho incontrato profughe ucraine. Madri disperate, ma fiere. Alcune hanno stentato a dirmi grazie per l’aiuto ricevuto e mi hanno fatto capire che, semmai, dovrei essere io a ringraziarle perché i loro uomini rischiavano la vita per me, “in difesa dell’Europa”. All’inizio mi sono offeso. Ma poi qualcosa mi ha avvertito che in quelle donne c’era una parte di ragione. Quel qualcosa diceva: ammettilo, sei figlio di una terra menefreghista, che non è più quella di Bella ciao e non si batte più per la libertà di nessuno. Il disastro ucraino mi pungeva sul vivo. Mi rammentava la mancanza di un “noi”, di un simbolo che mi facesse sentire forte. Di una bella bandiera nella tempesta. Il segno di un’appartenenza comune di popoli, figli della stessa terra madre.

    05 Maggio 2022
    http://www.repubblica.it/cultura/2022/05/05/news/ucraina_raconto_paolo_rumiz_requiem_per_leuropa_continente_schiacciato_fra_due_mondi-348270992/

    1. Una retorica intollerabile. Dal fondo: quindi Bella ciao vale per gli ucraini, indipendentemente dal fatto che per 8 anni 8 c’è una guerra civile condotta dall’ovest verso le due repubbliche autoproclamate. Si parla di 14.000 morti.
      Il discorso che dovremmo noi europei ringraziare le madri ucraine che salvano i nostri valori, è il solito discorso di Zelensky: “voglio più armi”, dettagliando…
      L’Europa femmina col ventre sterile… ma che se la prenda l’amico Rumiz con Francia che ha il nucleare e quindi pretende di guidare le armi europee e Germania che invece resiste e fa il vassallo degli Usa, dedicando il 2% del suo pil ad armarsi.
      Gli immigrati africani no, invece quelli ucraini, non vaccinati, assunti come medici https://www.facebook.com/michele.caliandro/videos/544589377320690
      E poi, ciliegina sulla torta: “Chiediamocelo una buona volta: la nostra alleanza è fondata su valori o interessi? Su un progetto di vita o un antagonismo armato?” ma chi sta prendendo per i fondelli, l’amico Rumiz? Repubblica, vero?
      NOI con Rumiz? Mica siamo pagati, NOI…

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