Magris e Schiller

Dialogo tra un professore di filosofia e una studentessa

   di Donato Salzarulo

Giovedì 19 maggio 2005. Durante l’intervallo, una studentessa liceale dell’ultimo anno si avvicina al suo professore di filosofia, un sessantottino ultracinquantenne con occhiali e senza barba.

– Prof., ha letto ieri l’articolo di Magris su Schiller? –

– No, perché me lo chiede? –

– Era un articolo bello, ma tosto!… Tante cose non le ho capite. Mi piacerebbe parlarne con lei. –

Il professore apprezza la studentessa. È una giovane sveglia, una delle poche che sfoglia le pagine di un giornale.

Con gli studenti dialoga volentieri anche al di fuori dell’orario di cattedra.

Raggiungono subito un accordo: si vedranno lunedì pomeriggio nella sala della Biblioteca scolastica. Intanto il professore si procurerà l’articolo.

Lunedì 23 maggio.

– Prof., come le è sembrato? –

– È un medaglione…-

– Cosa?… –

– Sì…medaglione significa semplicemente “grossa medaglia”. Come quelle che un tempo alcune vedove si appendevano al collo per conservarvi il ritratto del marito morto o di altra persona cara. Nel caso specifico, Magris ha buttato giù un profilo, partecipe direi, di Schiller.

Ma lei cosa non ha capito? Cosa vuole discutere?… –

– Prof., le faccio una proposta. Mi faccia riassumere velocemente le cose che ho capito, poi rileggiamo insieme le frasi o i periodi oscuri. –

– D’accordo. –

A questo punto la studentessa ricapitola velocemente i dati della struttura superficiale del testo:

  1. a) luogo e data di nascita e morte di Schiller (Germania:1759-1805); b) situazione politico-sociale della Germania del tempo: «ancora arcaicamente provinciale e frazionata in una miriade di staterelli quasi premoderni»; c) personaggi di cui fu contemporaneo (Kant, Hegel, Schlegel, Beethoven) e amico (Goethe); d) gli avvenimenti epocali vissuti (Rivoluzione francese e Napoleone) e le posizioni assunte («linea illuminista-liberale-progressiva»); e) la sua attività di geniale drammaturgo e poeta-filosofo; f) le più importanti opere scritte: I Masnadieri, Inno alla Gioia, Canzone della Campana, Don Carlos, Demetrius, Lettere sull’educazione estetica, Della poesia ingenua e sentimentale; g) i suoi ideali di «altissima civiltà» e la sua utopia dell’«anima bella», cioè, come scrive Magris – e la studentessa legge -, «dell’individuo formato così armoniosamente da non aver più bisogno di dominare o reprimere impulsi malvagi, perché la sua persona tende unitariamente e spontaneamente al bene – con la spontaneità della grazia che non ha più bisogno dello sforzo della dignità…»

– Ecco, prof., già qui qualcosa non mi quadra. «Anima bella» non è un’espressione usata in senso dispregiativo? –

– Sì, soprattutto, da parte di chi si richiama a posizioni materialistiche o, in senso lato, realistiche.

Difficile immaginare persone formate così armoniosamente da tendere spontaneamente al bene. Oggi più che mai. Con le guerre in corso e dopo un secolo – il Novecento – apparso come uno dei più violenti e feroci della Storia. Forse per questo Magris, all’inizio dell’articolo, definisce Schiller genio «tempestoso ma anche elusivo…di una sconcertante modernità.». Detto questo, lei è giovane. Meglio sforzarsi di essere anima bella piuttosto che brutta. Non le pare? In fondo, coltivare ideali di armonia, di giustizia, di eguaglianza; avere belle utopie è meglio che essere cinici ed egoisti…-

– Prof., non mi faccia la predica. Piuttosto perché Magris parla di «sconcertante modernità»?

– La modernità appare sconcertante innanzi tutto a Schiller. Se legge con attenzione più avanti nell’articolo è scritto: «Schiller accetta in pieno il progresso e la modernità, ma si rende conto che lo sviluppo generale della civiltà infligge pure limitazioni e ferite al singolo individuo, ferite profonde nascoste che peraltro solo la civiltà e il progresso possono curare, soprattutto grazie all’arte.» È chiaro? –

– Sì, ho capito che Schiller accetta il progresso e la modernità. Ritiene, però, che non tutto vada per il verso giusto. Un po’ come facciamo noi oggi. Utilizziamo, ad esempio, i risultati del progresso scientifico e, nello stesso tempo, abbiamo paura del potere distruttivo della scienza. Penso non soltanto ai missili cosiddetti intelligenti o alla bomba atomica. Penso agli OGM, alla clonazione, all’inquinamento, alla distruzione degli equilibri terrestri…-

– Sì, lei sta pensando alla scienza non solo usata nelle industrie, ma diventata forza produttiva del capitale…-

– Prof.! –

– Guardi che non ho bestemmiato. Il capitale esiste. È un rapporto sociale. Comunque, lasciamo perdere… Il “progresso” di cui ha esperienza e parla Schiller non è ovviamente questo. È quello indotto dalla Rivoluzione industriale inglese (divisione sociale del lavoro, macchinismo, costruzione dei mercati nazionali, ecc.) e quello prodotto dalla Rivoluzione francese nel campo dei diritti individuali: di pensiero, di stampa, di associazione, ecc. Un progresso, per altro, che in Germania era in forte ritardo. Magris, a questo proposito, è limpido. Leggiamo:

Schiller «assiste con entusiasmo alla Rivoluzione francese per ritrarsi inorridito dal Terrore ma senza cadere – a differenza dei romantici – nelle braccia di alcuna reazione, bensì continuando lungo la linea illuminista-liberale-progressiva della sua giovinezza…

– Insomma, prof., fu una persona sostanzialmente coerente. Aggiornò le sue posizioni col mutare delle situazioni, ma restò fedele ai suoi ideali giovanili. Non si comportò come certi nostri politici o certi intellettuali. Prof., penso a Sgarbi. In questi giorni ho letto che vuole salire sul carro di Prodi…-

– Lei mi sta stuzzicando. Torniamo al nostro poeta-filosofo e mi faccia continuare a leggere:

«Insieme a Goethe, crea a Weimar il Classicismo tedesco – meglio sarebbe dire classicità, come suggeriva Lupi –…

– Chi è questo Lupi? –

– Sicuramente uno studioso. Al momento, non saprei dirle altro. Però, non mi interrompa sempre…-

– Mi scusi, ma questo Magris che pure è assai bravo, non può pensare che ogni lettore sappia chi è Lupi –

– Ha ragione. Forse avrebbe dovuto aggiungere in fondo all’articolo, per chi avesse avuto voglia di approfondire, dei cenni bibliografici, almeno degli autori citati. Adesso, però, continuiamo a leggere: «…come suggeriva Lupi – utopia di un’armonia di vita politica, cultura ed arte che poteva essere realizzata solo in un piccolo staterello come Weimar, in cui tutto era a portata d’occhio e di mano come nell’antica Polis greca…

– Vede, prof., piccolo è bello! Le piccole patrie sono migliori delle grandi…-

– Ma no, lei non può continuare a interrompermi così! Non può tirar fuori tutto quello che le viene in testa! Prima il trasformismo, adesso le piccole patrie…Vuole capire l’articolo o divagare a suo piacimento?…

– Prof., non si arrabbi! È che certe frasi me ne suggeriscono altre…Andiamo avanti: –

-… come nell’antica Polis greca, e che, se non riuscì nel sogno di salvare stabilmente l’umanesimo evitando rivoluzione e reazione, costituisce l’ultima stagione universale-umana della civiltà occidentale, incredibilmente feconda di capolavori e capace di trasmettere il senso integrale della totalità, del rapporto armonioso fra l’individuo e il Tutto.» –

– Non so perché, prof., ma mi fa venire in mente gli hippies. Quelli non volevano l’armonia? Anche certe filosofie new age o certe religioni orientali. –

– Può darsi. L’armonia alla quale pensa Schiller è però quella classica, quella greca –

– Sì, prof. Questo Schiller, comunque, l’ho capito. I contenuti sociali e politici della Rivoluzione li accettava, il Terrore non gli andava a genio. Di fronte alle teste tagliate, cominciò a propugnare, mi passi il termine, un “imborghesimento” graduale della Germania, sbandierando “armonia” a tutto andare. –

– Non semplifichi eccessivamente e, soprattutto, non dimentichi che il nostro poeta era un idealista, una persona, cioè, che credeva nella forza delle idee. Questo Magris lo dice sin dall’inizio.

«Un’idea, per essere efficace ed agire sulla realtà, deve diventare un’energia. Infatti a un agorafobo non basta sapere, razionalmente, per sfatare la sua angoscia e attraversare una piazza, che in essa non ci sono pericoli, ma ha bisogno che questa conoscenza sia divenuto sentimento spontaneo, vissuto con tutta la sua persona, anche con il corpo, e non solo nella sua mente. Questo vale per tutte le convinzioni, pensieri, stati d’animi e affetti di un individuo o di una collettività.»

– Lei vuol dire che se uno crede all’armonia, la nostra vita può diventare più armonica… –

– Non mi faccia dire pensieri che non ho detto. Ho precisato soltanto che Schiller era un idealista. Era, quindi, una persona che attribuiva alle idee un ruolo attivo per l’individuo, per la società e per la storia…-

– Se è per questo, anch’io penso che avere delle idee sia importante e che bisogna battersi per le proprie idee. Mi fanno schifo, infatti, certe persone che si comportano come se le idee fossero vestiti acquistati ad un supermercato. Oggi ne indossi una, domani un’altra…-

– Ha ragione, però, non esageri. Formarsi idee giuste e corrette, non è facile. Comunque, va bene il lavoro che lei fa, va bene questo nostro dialogare, questo cercare di costruirsi piano piano una concezione organica e coerente del mondo, sulla base della propria esperienza, delle letture, dei confronti con gli altri. Va bene anche la consapevolezza che non basta possedere idee più o meno giuste. È necessario incarnarle, farle diventare sangue, fegato, cuore, energia pulsionale. –

– Però, prof. quell’idea sul «rapporto armonioso fra l’individuo e il Tutto», oggi mi sembra impossibile. Dappertutto vedo guerre, conflitti, contraddizioni. Perché non torniamo al discorso sulle ferite nascoste e sulle lacerazioni prodotte sull’individuo dallo sviluppo della civiltà? –

– D’accordo. Prima un’annotazione, però: proprio perché gli individui subiscono ferite, sono costretti a molteplici limitazioni, presentano mancanze, proprio per questo nasce in loro il desiderio di “armonia”. Torniamo, comunque, a Schiller. Dicevamo che accetta il progresso e la modernità, ma capisce subito che tutto ciò non è senza conseguenze per gli individui; che questi, anzi, pagano un prezzo in termine di sofferenze e di limitazioni alla loro realizzazione. Gli abitanti dell’Olimpo vengono mandati in esilio a favore di un unico dio (quello dello sviluppo e del profitto), che non è detto sia meno inflessibile e capriccioso. Il singolo uomo si presenta scisso: ora come borghese (attento, quindi, al suo privato), ora come cittadino (attento, quindi, al pubblico). Senza dire dello sviluppo di quelle che venivano chiamate “facoltà”: il sentire è scisso dal pensiero, la vita dalla poesia, e così via di seguito. –

A questo punto il professore tira fuori dalla cartella un libro e legge una citazione dalle Lettere sull’educazione estetica:

«…il godimento è separato dal lavoro, i mezzi dal fine, lo sforzo dalla ricompensa. Eternamente incatenato soltanto a un piccolo frammento del tutto, l’uomo foggia se stesso soltanto come un frammento; sentendo sempre soltanto il giro monotono della ruota che gli sta girando, egli non sviluppa mai l’armonia del suo essere, e invece di dar forma all’umanità che sta nella sua natura, egli diventa un puro e semplice calco della sua occupazione, della sua scienza.»

– Quindi, Schiller ritiene che vi sia una relazione tra il modo di essere di un singolo individuo, la sua psicologia profonda e la divisione sociale del lavoro…

– Brava!… Ha capito benissimo –

– In realtà, egli ritiene che vi sia anche un nesso fra arte e società. Ecco, ad esempio, su questo legame il suo pensiero in una lettera a Goethe:

«Purtroppo ogni tanto anche noi moderni nasciamo poeti, e ci arrovelliamo fra i vari generi senza sapere a che punto ci troviamo; perché le determinazioni specifiche, se non sbaglio dovrebbero venire dall’esterno, e l’occasione determinare il talento. Perché scriviamo così di rado un epigramma nel senso greco? perché vediamo ben poche cose degne di un epigramma. Perché l’epica ci riesce così di rado? perché non abbiamo ascoltatori. E perché il teatro fa tanto rumore? perché da noi il dramma è l’unico genere maturo nella sua consistenza sensibile, l’unico in grado di comunicare un qualche godimento attuale.»

– Prof., l’avevo intuito che era un grande questo Schiller! Mi spieghi meglio la storia delle ferite da curare «soprattutto grazie all’arte». Per stare meglio dobbiamo diventare tutti artisti? –

– Sul punto conviene forse leggere la sintesi offerta dallo scrittore e saggista triestino: «Nascono così le mirabili Lettere sull’educazione estetica (1795),  in cui l’arte diviene la maestra dell’umanità, non già tramite una deleteria estetizzazione della vita, concezione decadente del tutto estranea a Schiller, bensì perché l’arte, gioco molto serio come quello dei bambini, libera dalla servile soggezione al peso della realtà e insegna quella creatività che è anzitutto libera costruzione della propria persona.»

L’arte maestra dell’umanità? È come la frase sulla storia maestra di vita! Poi continuiamo a fare guerre –

– Indubbiamente l’arte maestra dell’umanità è frase generica. Serve, comunque, a sottolineare una funzione educativa attribuita, forse da sempre, alle arti e alle belle lettere. Quanto proficua è da discutere. I gruppi dirigenti e la stragrande maggioranza di soldati e cittadini tedeschi, con tutta la loro bell’arte a disposizione, non si sono sottratti all’ingrato compito di infornare milioni di ebrei. Magari, dopo aver svolto il loro “dovere”, leggevano una poesia di Goethe, di Schiller o ascoltavano l’Inno alla gioia. Non sono i soli. Noi italiani siamo loro ottimi fratelli e l’elenco delle ferocie e degli stermini perpetrati da altri popoli potrebbe riempire pagine e pagine. Questo per dire che la poesia è una cosa, la vita (quotidiana, sociale, militare) un’altra. La soluzione, allora, è quella proposta nei salotti romantici, del fondere e confondere poesia e vita? No. In questo caso il rischio è quello che Magris chiama «deleteria estetizzazione della vita». Oggi, che la società è uno spettacolo, ne siamo stracolmi. In che senso, quindi, l’arte è maestra dell’umanità?

– In sé stessa, forse… –

–  Infatti, è maestra tramite sé stessa, tramite il suo impulso fondamentale, che è quello ludico. È il discorso dell’«arte, gioco molto serio come quello dei bambini». Questa analogia dell’arte col gioco e dell’artista col bambino è stata affermata e riaffermata da varie parti. Oltre al famoso “fanciullino” di Pascoli, che lei avrà sicuramente studiato con la professoressa di lettere, Saba, un autore a me caro, in una delle sue Scorciatoie – per la precisione, la numero 14 – scrive:

«Per fare, come per comprendere, l’arte, una cosa è, prima di ogni altra, necessaria: avere conservata in noi la nostra infanzia; che tutto il processo della vita tende, d’altra parte, a distruggere. Il poeta è un bambino che si meraviglia delle cose che accadono a lui stesso, diventato adulto. Ma fino a che punto adulto?

Tocchiamo qui una delle differenze che corrono fra la piccola e la grande poesia. Solo là dove il bambino e l’uomo coesistono, in forme il più possibile estreme, nella stessa persona, nasce – molte altre circostanze aiutando – il miracolo: nasce Dante. Dante è un piccolo bambino, continuamente stupito di quello che avviene a un uomo, grandissimo; sono veramente “due in uno”. Guardate come il piccolo Dante trasale, grida, si illumina di gioia, trema di collera e di (simulato) spavento, si esalta, si esibisce, si umilia per civetteria, si erge alle stelle davanti alle cose straordinarie che, attraverso di lui, nascono a Dante in lucco e colla barba al mento! E come lo divertono quei premi e quei castighi (quei castighi soprattutto), quei diavoli e quegli angeli, quei “cortesi portinai”, quei vivi e quei morti più vivi dei vivi! Che inverosimile viaggio! Come sperare una festa, una luminaria più grande? E contro a lui, unito a lui, Dante; Dante uomo intero, marito, padre, guerriero, uomo di parte, esule infelice e glorioso; Dante con tutte le tremende passioni dei suoi tempi e dell’età matura, in lotta con gli altri e (meno) con se stesso, ai quali i fatti davano sempre torto, tanto più sicuro d’aver sempre ragione, e quindi sempre con gli occhi fuori della testa, allucinato d’odio e d’amore.

Se l’uomo prevale troppo sul bambino (Montale ci suggerì, per questo caso, il venerato nome di Goethe), il poeta (in quanto poeta) ci lascia freddi. Se quasi solo il bambino esiste, se sul suo stelo si è formato appena un embrione d’uomo, abbiamo il “poeta puer” (Pascoli); ne proviamo insoddisfazione e un po’ di vergogna.»

– Bella pagina questa di Saba, prof. Gliela suggerirò alla prof. di Lettere. –

– Non si permetta!… Figurarsi se la professoressa non conosce questa pagina. Saba, però, qui parla soltanto d’infanzia e non di gioco. Ma cosa sarebbe un bambino senza gioco? Converrebbe, quindi, riflettere meglio sul significato della tesi che l’arte è un gioco molto serio. Bisognerebbe capire, innanzi tutto, cosa è il gioco:

  1. a) non è il lavoro;
  2. b) si presenta in forme variate: dall’arrampicarsi su un albero e spingersi avanti e indietro su un’altalena a “fingere” di essere mamma o papà, re o ferroviere.

Una maestra d’asilo o di scuola d’infanzia definirebbe quest’ultimo “gioco simbolico” e ne scruterebbe con emozione la nascita nelle attività verbali e non verbali del bambino.

– Come ha detto?… –

– Gioco simbolico. “Fingere di…”. Stare a cavallo di una sedia e diventare cavaliere, avere una bambola tra le mani e coccolarla come fosse una figlia…Insomma, il poeta è un fingitore.

– Questa frase l’ho già sentita! Chi la diceva?… –

– Pessoa. Comunque, il fatto importante è questo: oltre che toccare, gustare, vedere, udire, odorare, sentire; oltre che riconoscere, nominare classificare, seriare, confrontare, pensare, giudicare, ragionare, gli esseri umani provano piacere a immaginare e fantasticare. Alcuni hanno addirittura delle ‘visioni’ e viaggiano per l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Sono proprie queste facoltà a liberare ognuno di noi «dalla servile soggezione al peso della realtà».

– E certo! Se una persona si mette a fantasticare o a immaginare, può girarsi il mondo seduto su una poltrona! –

– Infatti, una persona potrebbe finire in carcere o in catene, potrebbe finire a letto debilitata da una malattia o sentirsi minacciata dall’ingiustizia o dalla povertà, ma nessuno potrà vietarle di fantasticare o di immaginare; nessuno potrà mai impedirle di sognare di diventare presto un mago per annientare coi suoi prodigi gli ostacoli e i malefici che bloccano la sua realizzazione. –

– Prof, sbaglio o uno psicanalista direbbe che è “compensazione”? Fantasticherie. Evasioni…Roba da Madame Bovary! –

– E sia! Ma l’obiettivo di questo impulso ludico è un mondo più bello e armonioso, la sua metà è la libertà, la libera costruzione della propria persona…-

– Allora, prof. dobbiamo metterci tutti a scrivere poesie, a disegnare, a comporre suonate? –

– Beh, che male ci sarebbe?… Quello che aveva capito Schiller, sulla scorta di Kant, e l’aveva capito così bene da farne una proposta di riforma della civiltà, è che l’immaginazione e, in generale, la dimensione estetica occupa una posizione centrale, nel senso proprio che sta al centro, tra i due poli dell’esistenza umana rappresentati dalla sensorietà e dalla moralità. È la dimensione nella quale natura e libertà, sensi e intelletto si incontrano. È esperienza percettiva accompagnata dal piacere originato dalla pura forma di un oggetto, indipendentemente dalla sua materia e dal suo scopo. «Finalità senza un fine» e «legalità senza legge» queste le due principali categorie kantiane alla base dell’esperienza estetica…

– Prof., la interrompo…Sta diventando difficile. Capisco che è professore di filosofia, ma non esageri! –

– Mi ascolti, allora. Un po’ di tempo fa ho letto un libro di poesie: Ritorno a Planaval di Stefano Dal Bianco. L’ultima è intitolata “Poesia che ha bisogno di un gesto”. Peccato non averla con me, altrimenti gliela avrei letta. –

– Di cosa parla, comunque? –

– Lo sa che in poesia l’attenzione non deve mai concentrarsi soltanto sul “cosa” ma anche sul “come”. –

– Ho capito, però, in questo momento il testo non c’è…-

– D’accordo. La poesia parla di una ciotola di sassi che il poeta ha posato sul pavimento e vorrebbe che tutta l’attenzione si concentrasse sui sassi perché sono una cosa come un’altra, con delle qualità: sono visibili, toccabili, sono tanti e separati tra di loro. Sono una cosa del mondo, dati in quel momento alla nostra percezione nella loro “libera” esistenza. Si tratta, quindi, di percepire il sasso come sasso, “libero”, cioè, da finalità di ordine pratico o teorico. Se intendo bene Del Bianco con questa poesia “che ha bisogno di un gesto” ci propone proprio un’esperienza estetica di stampo schilleriano e/o kantiano. Il gesto chiede a noi un mutamento radicale del nostro atteggiamento verso i sassi, verso il mondo, verso l’esistenza.

– Adesso ho capito. Lei vuol dire che quella estetica è un’esperienza completamente diversa sia da quella quotidiana che da quella scientifica.

– Esatto. Il fatto importante è che Schiller fa dello sviluppo di questa esperienza un problema politico. È in questo senso, tra l’altro, che viene ripreso da Marcuse. –

– Chi? –

–  Herbert Marcuse, un autore letto in gioventù e molto celebrato nel ’68. Ma forse, come molti altri, poco capito. Bisognerebbe riprendere in mano alcuni suoi testi come Eros e civiltà, L’uomo a una dimensione, o come La dimensione estetica e confrontarli con l’odierno degrado. Un fatto è certo: attraverso questo gioco molto serio dell’immaginazione e della fantasia, l’arte insegna ad ognuno di noi «quella creatività che è anzitutto libera costruzione della propria persona.» Morso non è. Se una società tratta molti suoi membri come se fossero esuberi o rifiuti, se non assicura loro neanche di che vivere decentemente, se preferisce impegnare le proprie risorse finanziarie in guerre preventive piuttosto che in ricerca scientifica e salute per i suoi cittadini, un poema bellissimo e sublime (qualunque ne sia il contenuto) non avrà la forza di modificare tali orientamenti. Per queste cose ci vuole la politica, la lotta politica. Chi avrà scritto il poema avrà, tuttavia, attivato sul suo corpo-mente un processo che non lo renderà libero, ma gli permetterà di godere sprazzi di felicità (sia pure illusoria) e, almeno per un po’, si sentirà “finalizzato”, “progettato”, “costruito”, impegnato in un’attività libera e sensata.

– Bravo, prof., bel pistolotto! –

– Ci voleva. Mi scusi, ma non sono proprio riuscito a trattenermi. –

– Quindi, da giovane leggeva Marcuse? –

– Sì…Per quel che riuscivo a capire!… –

– Mi tolga una curiosità, perché Magris scrive che Schiller era «sospetto ai seguaci della poesia pura come Benedetto Croce», era oggetto di sarcasmo da parte di Nietzsche e non dice che era valutato positivamente dal suo Marcuse? –

– E che ne so! Bisognerebbe chiederlo a Magris. Forse perché il pubblico di quel giornale non ama certi autori. Comunque che Schiller fosse sospetto a Benedetto Croce, torna a suo merito. La poesia di Schiller non è come quella di Goethe, ma merita riletture –

– Me ne legge qualcuna? –

– Ad averle con me sì. Qui ho solo qualche frammento. Questa composizione, ad esempio sul BELLO E SUBLIME

«Due sono, e diversi, i geni, che lungo la vita ti guidano,
te felice, se essi uniti, vigileranno al tuo fianco!
Con il suo lieto agire abbrevierà l’uno il tuo viaggio
e più lievi in sua compagnia saranno il destino e il dovere.
E tra celie e favole ti scorterà sino all’abisso
là dove al tremante mortale il mare dell’eternità si presenta.
Qui ti accoglierà il secondo, fermo e grave e taciturno,
e con il suo braccio gigantesco ti trasporterà al di là del baratro.
Giammai dovrai onorare uno soltanto. E giammai affidare
al primo la tua dignità, al secondo la tua felicità»

– Bella! Ha un respiro ampio, arioso. –

– Sì. –

– Ascolti, prof., so che è tardi. Mi interessa un’ultima cosa e poi andiamo via. Vorrei capire meglio la storia della “poesia ingenua” e di quella “sentimentale”. Magris sostiene che il libro di Schiller su quest’argomento è un «capolavoro saggistico che sarebbe sufficiente, da solo, a comprendere quello che sta ancor oggi accadendo nell’arte.»

– Ha ragione. Ma cerchiamo di capire la tesi di Schiller…-

– Scusi, prof., posso provare a dirla io?… –

– Provi –

– Per Schiller si dà una “poesia ingenua” ed una “sentimentale”. Nella prima il poeta è talmente unito con la natura che è quasi coincidente con essa. Allora la sua poesia si presenta con immediatezza, con sensibilità aperta, piena. Nella seconda, invece, questa unità non esiste più; il poeta ne è cosciente e soffre per questa distanza o scissione che avverte tra lui e la natura.

Nel tentativo di recuperarla e colmarla diventa o nostalgico oppure riflessivo, sentimentale…-

– Esatto. Ha capito benissimo. Bisogna evitare, però, lo schematismo. Il saggio di Schiller è quel che si dice un work in progress ed è dominato da due esigenze: la prima è quella di confrontare, sia pure indirettamente, la propria poesia con quella di Goethe; la seconda è quella di capire in cosa la poesia moderna è diversa dall’antica. –

– Esigenze legittime –

– Più che legittime. Rispetto al confronto col suo amico inizialmente Schiller propende per un giudizio che attribuisce alla sua poesia la qualifica di “sentimentale”, mentre quella di Goethe sarebbe “ingenua” così come “ingenua” sarebbe la poesia antica, mentre “sentimentale” quella moderna. Ma questa classificazione iniziale viene in corso d’opera complicata: e allora troviamo Euripide e Virgilio indicati come “sentimentali”, mentre Dante, Shakespeare, Cervantes, Sterne vengono considerati poeti “ingenui”… –

– A che serve allora questo schema? Piuttosto che chiarirci le idee, prof., mi sembra che ce le confonda!… –

– In realtà le idee aveva bisogno di chiarirsele Schiller per prima. “Ingenuo” e “sentimentale” sono due categorie che cerca di manovrare per cogliere differenze di autori e di epoche. Alla fine sembrano usate per indicare modi di sentire: l’uno più immediato, l’altro più mediato, riflessivo e sembra che tra l’uno e l’altro ci sia una progressione evolutiva. Insomma, è la situazione descritta da Saba nella sua “scorciatoia”: il poeta è un bambino (quindi immediatezza, ingenuità, naturalezza…), ma il processo della vita distrugge l’infanzia di tutti a favore della consapevolezza, riflessione, maturità; la grande poesia nasce là dove il bimbo (ingenuo) e l’uomo (sentimentale) coesistono. Questo pensa Saba. Schiller crede, invece, che questi due modi di sentire vadano ambedue superati a favore di un terzo, al momento, ideale che la situazione storica produrrà.

Perché il punto nodale è proprio questo: a Schiller preme sempre mettere in rapporto la pratica e la psicologia profonda dell’artista con le caratteristiche fondamentali di una situazione storica o di un’epoca. –

– Questo punto l’ho capito, me l’ha già detto. –

– Sì, ma ripetere non fa male, come dicevano gli antichi –

– Comunque, ho capito: il poeta “ingenuo” vive di sensazioni, emozioni, immediatezza, identificazione con la natura e gli oggetti del mondo; quello “sentimentale” avverte una scissione profonda fra sé e gli oggetti, una scissione che cerca di colmare. Tutti e due sono prodotti da una situazione storica. Scusi, prof., ma se c’è questa relazione così stretta fra arte e storia, un poeta è davvero libero di scegliere le forme espressive che vuole? –

– È indubbio che c’è un profondo condizionamento. Anche i sostenitori dell’”arte per l’arte” ammettono, sia pure per via negativa, questo condizionamento. Infatti, che bisogno ci sarebbe di predicare tanta autonomia se la situazione fosse effettivamente autonoma?…

– Ho capito…Io, però, le avevo chiesto delle forme espressive …-

– Per Schiller i generi o, se preferisce, le forme tipiche del poeta moderno sono la Satira, l’Elegia, l’Idillio –

– Grazie. Prof., ora davvero l’ultima domanda. Cos’è questo discorso di Magris sulla differenza fra Schiller e Schlegel? –

– Mi faccia leggere, non ricordo: «A pochi mesi da questo saggio classico, Friederich Schlegel, inventore e teorico del Romanticismo, ne scrive un altro che invita invece l’arte moderna a farsi sempre più sentimentale, eccentrica e stravagante, ad allontanarsi sempre più da ogni centralità classica e ad accentuare la disarmonia. Sono le due vie dell’arte contemporanea, entrambe coscienti della frattura epocale della civiltà.» Dopo tutto quello che abbiamo detto, non mi sembra particolarmente difficile. Il libro scritto da Schlegel è Dialogo sulla poesia, un vero e proprio manifesto dell’estetica romantica. Semplificando moltissimo, si potrebbe dire che da un lato abbiamo lo “spirito d’avanguardia”, dall’altro lo “spirito classico”. –

– Per concludere, prof., ma lei ritiene attuale la riflessione di Schiller? Potrei diventare una schilleriana? –

– Quello che potrebbe diventare è un problema suo. Quanto all’attualità di Schiller, non è facile rispondere su due piedi. Un confronto con le sue tesi, mi appare indispensabile. Anche perché, l’avrà notato, chiarisce alcuni problemi della situazione odierna. Questa, tuttavia, è abbastanza mutata rispetto ai suoi tempi. Oggi il rapporto poesia-storia mi sembra molto in crisi. Lo stesso dicasi del rapporto poesia-utopia. La tesi dell’arte- “gioco molto serio” è stata ridotta a giochetti formali incapaci di drenare, testimoniare e rispecchiare le contraddizioni e le lacerazioni della nostra epoca. Se non va bene l’”impegno” o la politicizzazione estrinseca non penso che possa andar bene questa «dissoluzione – come qualcuno l’ha definita – dell’autonomia estetica per via estetica» …

– Chi? –

– Alfonso Berardinelli in un libro di qualche anno fa che ti consiglierei di leggere: «La poesia verso la prosa». Ha un capitolo intitolato L’arcaica modernità di Schiller. –

– È difficile? Prof., sa che per me leggere è un problema? Lo faccio volentieri, ma se non ho dialoghi come questi la comprensione è una fatica boia. E soprattutto con chi discuto? E se non posso discutere a che serve leggere? –

giugno 2005

 

  • L’articolo è comparso la prima volta  sul n. 1 cartaceo  del maggio 2006 di Poliscritture scaricabile qui

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