Gabriella Montaldi Seelhorst, La formazione. Lasciare un segno

In «Lasciare un segno nella vita. Danilo Montaldi e il Novecento»
a cura di Goffredo Fofi e Mariuccia Salvati (6)

di Ennio Abate

Ho letto con rispetto e curiosità questo saggio   di Gabriella Montaldi Seelrhost, la vedova di Danilo Montaldi; e, al posto di una breve recensione, mi è venuta fuori una riflessione  lunga e impegnativa. La propongo con la massima disponibilità a confrontarmi (in particolare con  quanti conobbero ben più di me Montaldi) e, se necessario,  a correggerne il taglio forse troppo critico che ha preso. 

Il saggio si concentra sul  periodo di formazione e si conclude con la seconda metà degli anni Cinquanta, quando la  ricerca da autodidatta di Montaldi ottiene il riconoscimento di intellettuali  di valore come Fortini, Vittorini, Pizzorno e le sue prime “storie di vita”  compaiono su importanti riviste italiane.

L’ipotesi su cui Seelhorst si basa è che – trascurata rispetto alla immagine pubblica del Montaldi militante – esista un «altro Danilo» (pag. 14), con una «sensibilità altra», più autentica,  e «lati meno conosciuti» della sua personalità: una «dimensione che pure gli apparteneva profondamente: inclinazioni, doti, interessi e bisogni che forse si potrebbero chiamare dell’anima, collegati anche a quello che Piergiorgio Bellocchio chiama “la sua dimensione estetica (non esteticismo)”, cioè la letteratura, l’arte, la musica, la poesia – la sua sensibilità per il paesaggio, il grande fiume, la sua città» (pag. 13)[1].
Seelhorst, perciò,  dà grandissimo rilievo alla «pensata autobiografica» o “romanzo”, di cui Montaldi parlò in una lettera all’amico Giampiero Dossena (pag. 12)[2].  E, basandosi   su una scarna bozza da lui stesa a trentatre anni (e non più ripresa) – chiarendo di non volerla scrivere lei al suo posto quella autobiografia – ha raccolto amorosamente molte notizie, spesso minime –   ricordi  di cose a lei dette  da Montaldi o dalla madre di lui, Clelia; «note; intime di diario»;  stralci  di lettere di Montaldi e di altri; considerazioni su un suo particolarissimo saggio, «Su alcuni paesaggi» -, espone il materiale in ordine cronologico e in quattro sezioni: 1. La famiglia, la guerra, il dopoguerra (1945-1951); 2. Dopo la malattia (1952-1955); 3. Milano e i nuovi rapporti (1956); 4. La fine del rapporto con Marilù, il documentario, i libri (1957- 1962).

Un lettore di Montaldi troverà qui molte notizie, in parte già presenti nella «Cronologia della vita e delle opere» (in «Danilo Montaldi, Bisogna sognare. Scritti 1952- 1975») ma arricchite con  numerosi dettagli. E noterà forse che si ha una riduzione del taglio più politico che i curatori di quel volume, pubblicato nel lontano 1994, avevano tenuto in primo piano, anche se  già allora le lotte di movimento erano venute meno.
Questa messa tra parentesi (non negazione, non svalutazione) del Montaldi politico forse è necessaria per mettere in risalto l’«altro Danilo», quello diciamo  più “romantico” o il ruolo di certe figure. Ad esempio, quelle di  Clelia e Nino, i genitori o quella di Marilù Parolini, il primo grande amore di Montaldi. Ma vediamo innanzitutto quali temi dell’esperienza di vita di Montaldi e del suo ambiente sociale proletario vengono ripresi nelle quattro sezioni:

  1. La famiglia, la guerra, il dopoguerra (1945-1951).

Diversi sono i concreti riferimenti alla povertà dei nonni e dei genitori di Montaldi[3]ma  anche: ai primi anni della sua infanzia, che Montaldi passò in un caseggiato al primo piano con il gabinetto fuori nel cortile (pag. 19); al tentativo della sua gente di emanciparsi attraverso la lettura e la cultura con la preferenza per i romanzi naturalisti e veristi (pag. 15); alla passione per la scrittura di Nino, il padre di Montaldi,  e al suo amore per i libri di avventure (Salgari e Verne) e la cultura francese [4]; al legame con la terra e il mondo contadino di sua madre Clelia, dalla cui influenza discende «l’interesse per il mondo contadino in genere» di Montaldi e il suo «legame affettivo  con  la sua Bassa Padana tra Cremona, Mantova e Ferrara» (pag. 17); alla cultura popolare degli amici di Nino, che erano operai, piccoli impiegati, artigiani, tutti  di sinistra; e che influenzarono il carattere del Montaldi ragazzo e la sua formazione politica[5]. Seelhorst sottolinea anche l’”extrastoricità” (pag. 20) di quel forte sentimento di fedeltà che Montaldi ebbe verso la generazione del padre –  «il suo tratto più originale» secondo l’amico sociologo Pizzorno.
Uno sguardo più attento viene poi dato al  carattere introverso di quel ragazzo «raccolto in un mondo tutto suo» (pag. 21), ai sentimenti di tristezza e solitudine che l’accompagnarono sempre [6], alla sofferenza procuratagli dalla persecuzione di suo padre  da parte dei fascisti. E viene annotata la sua riservatezza o la vera e propria autocensura sulla propria vita privata [7].
Quell’isolamento fu squarciato solo dallo sprazzo della Resistenza,  occasione “fatidica” [8], presto  svanita; e che lascia a Montaldi il peso di un altro periodo d’isolamento [9]. Nel quale, però, ha modo di svelarsi di più «la sua sensibilità per la bellezza», «il dolore antico per la terra» (pag. 27)[10] e una ricerca romantica di assoluto, testimoniata da uno scritto-bilancio, «Dieci anni di vita». Montaldi ha allora ventidue anni e sembra deciso (pavesianamente?) a «vivere un’assoluta solitudine, una vita mortale» (pag. 31). Che lo spinge a i viaggiare (wanderlust) da solo per la Toscana, finendo però  per ammalarsi ai polmoni, tanto da dover essere prima ricoverato in ospedale a Cremona e poi per tre mesi in sanatorio a Genova, rischiando la morte: eventi che rivelano – spiega Seelhorst – «una spinta più o meno subconscia verso la morte» (pag. 32).
Un  forte rilievo viene dato anche al rapporto di Montaldi  con il suo professore di liceo Giuseppe Berti, cattolico e forse l’unica persona a cui confidò i suoi tormenti giovanili. Viene sottolineata l’attenzione di questo professore per la dimensione interiore (e verrebbe da chiedersi: a differenza dei militanti di sinistra o comunisti?), l’importanza degli incontri con il  pittore cremonese Renzo Botti (pag. 28), che gli farà un ritratto e gli lascerà in eredità il suo Manoscritto, o con Orlando P., «una persona popolana, ma  a suo modo eccezionale». Sempre a differenza della «Cronologia» di «Bisogna sognare», è molto sottolineata l’importanza delle attività culturali di quegli anni sulla formazione di Montaldi[11].

  1. Dopo la malattia (1952-1955).

In questa sezione i due punti rilevanti mi sembrano: – la presa su Montaldi del mito –  a coloritura antifascista e attivo fin dagli anni Venti  – di  Parigi (pag. 34), dove egli va nel 1953 con l’intenzione di viverci ma senza riuscirci, malgrado  i tentativi del padre Nino di trovargli un lavoro  chiedendo ai suoi amici; – e sempre nel 1953 e non senza relazione con Parigi, il primo grande amore di Montaldi, Marilù Parolini (pag. 35), con la quale sogna di conciliare spinta esistenziale e spinta politica (pag. 36).
Ora, se è noto che l’incontro di Montaldi a Parigi con gli intellettuali antistalinisti di  «Socialisme ou Barbarie» (Morin, Lefort, Castoriadis) fu intellettualmente e politicamente fecondo, non mi pare impertinente chiedere  se questi studiosi diedero o no una mano a Montaldi per realizzare quel suo sogno di vivere nella capitale francese. Anche per capire se questo non avvenne per trascuratezza da parte di questi intellettuali verso i problemi economici di Montaldi o perché anch’essi vivevano  in modi analoggi quella  sua “precarietà proletaria”.
Quanto al progetto di fuggire con Marilù a Parigi mentre alla fine lei ci andrà da sola e vi troverà lavoro mentre   Montaldi resterà  a Cremona anche a costo di rompere con lei (pag. 38), ho l’impressione che   anche questo punto andrebbe chiarito meglio e di più.
Perché, infatti, Montaldi «a un certo punto decide di non emigrare più» (pagg. 37-38)?  Seelhorst dice: «Nel 1955 scrive alla donna amata che ormai ha capito che il suo posto è in Italia, anche se questo dovesse portare alla rottura del loro rapporto» (pag. 38). Trovo questa affermazione  elusiva e un po’ contraddittoria. Se Marilù viene presentata come «un amore molto grande, ma anche qualcosa come un’ancora di salvezza» per Montaldi, come fa a decidersi di abbandonarla? E per cosa l’abbandona?  Quali sarebbero «i punti fissi e precisi» a cui non volle rinunciare? Forse «il  suo sogno di una società comunista, di potere operaio»? Sinceramente  trovo questa motivazione troppo idealistica. Tanto più se si dice che in quegli anni «le speranze per una più vasta solidarietà erano svanite da tempo» (pag. 39).

  1. Milano e i nuovi rapporti (1956).

Il centro della sezione  è il rapporto a prima vista finalmente positivo e emancipante stabilito da Montaldi con l’intellettualità di sinistra milanese del tempo. La decisione di scrivere a Fortini nel luglio 1955 e il suo incontro, verso la fine di quello stesso  anno, con Elio Vittorini segnano una «svolta» (pag. 45). Per cui Montaldi esce davvero dal periodo precedente di crisi politica,  dall’isolamento in provincia, sfugge alle aspirazioni un po’ vaghe a un «impegno totale» e vive i «suoi anni più produttivi» (pag. 40). Eppure, esaminato  più da vicino, questo rapporto è pieno d’ombre o irto di attriti e ambivalenze.
Seelhorst, in effetti, accenna a certe contraddizioni tra compagni (sulle quali in questo stesso  volume hanno scritto anche Mariuccia Salvati ed Enrico Pugliese): «Durante il 1956 cominciano a saltare fuori – per quanto riguarda i nuovi rapporti milanesi – delle sottili incrinature e dissonanze tra gli studiosi del marxismo e il “marxismo applicato” di Danilo»(pag. 52). E parla pure delle «differenze che separano l’élite di intellettuali marxisti e socialisti accademici milanesi  di origine borghese dal giovane rivoluzionario proletario di Cremona [e che] si trasformano piano piano in vere distanze» (pag. 52). E indica bene anche il differente impianto culturale di Montaldi rispetto agli altri: «La convinzione che bisogna sempre partire dall’uomo singolo nelle indagini sociologiche, partire da una piccola scala locale, che però si conosce a fondo» e viene detto che «questo atteggiamento ha anche radici letterarie, perciò di alta cultura» (pag. 55)[12].
Cosa rivelano, dunque, di Montaldi e di quegli intellettuali  (e non solo) quelle «sottili incrinature e dissonanze»? Ad esempio, quelle tra Fortini e Montaldi. (So, per aver avuto modo di esaminare sia pur velocemente il carteggio trai due, conservato al Centro studi Fortini di Siena, che problemi  tra loro ce ne furono).  Ma il saggio non  ne tratta. Non è chiaro come si concluse  sia il rapporto Montaldi- Fortini sia l’ altro con Vittorini (pag. 45). Per non  parlare di quelli con Guiducci o lo stesso Pizzorno.
Può darsi che  le conclusioni dei   rapporti con Fortini e Vittorini non rientrino nel periodo di formazione.
Restano però abbastanza oscure le ragioni per cui Montaldi non lasciò Cremona per Milano.  O come vada interpretato quel suo disinteresse per «la vita dell’intellettuale “arrivato” tout court» (pag. 48). O del perché «a Milano non si trovava  a suo agio, e tanto meno nel giro degli intellettuali, con la loro “garbata conversazione intellettuale, le battute, io gioco delle intelligenze. Un po’ come Luciano Bianciardi, anche lui venuto dalla provincia» (pag. 49).  O ancora: perché a Cremona «rimane anche lì, in un certo senso, un  estraneo, uno diverso, uno non integrato, nonostante la grande simpatia e la profonda stima che gode» (pag. 50)?
Non credo che queste siano curiosità o domande oziose  o miranti ad evidenziare o confermare il clichè della “litigiosità della sinistra”. Ma mi sembra che Seelhorst dia eccessivo credito ad una «intransigenza» “naturale” del carattere di Montaldi[13], che sarebbe affiorata anche  nel rapporto con il suo professore Berti (pagg. 51-52); e sottovaluti, invece,  contesto storico e scelte politiche (pag. 52)  che quegli intellettuali  andavano facendo. E tende perciò a concludere – mi pare in ossequio all’ “astoricità” del suo impianto interpretativo – che, nel 1957, proprio quando tutto sembrava filar liscio per Montaldi. da una parte «ritorna a galla il bisogno di riprendere in mano la sua “vera vita” troppo dispersa, di ricominciare a studiare e a riflettere sulla nuova realtà che si stava delineando nel paese e nella sinistra » (pag. 58) e dall’altra  si riaffaccia con prepotenza, forse per l’imminente separazione da Marilù, «la negazione della vita che  in sostanza l’accompagna fin dai anni giovanissimi (in verità fin dall’infanzia, se si considera la lettera di Marilù dopo la lettura dei suoi primi diari» (pag. 60).
Questa negazione della vita che Montaldi «descrive però – capovolgendola di segno – come un fatto positivo, come una forza, che gli permette di accettare la vita nella sua totalità, in tutti i suoi alti e bassi, risvolti negativi e avvenimenti felici, filtrandola e integrandone ogni singolo aspetto nel proprio modo di essere» (pag. 60) non ha a che fare con una sorta di “niccianesimo strisciante”? E non sarebbe da indagare più a fondo?

  1. La fine del rapporto con Marilù, il documentario, i libri (1957- 1962).

Anche  in questa ultima sezione  si accenna alla fine del rapporto con Marilù Parolini ma non ne vengono scavate – per quel che è possibile – le ragioni e le conseguenze. E, non per gusto di frivolezza, mi chiedo ancora: cosa significa a un livello più profondo che Montaldi non restituisca le cose (lettere e altro) che Marilù Parolini gli chiede (pag. 61)? O che le dedichi poi   in incognito  l’ultimo capitolo del saggio «Parigi andata e ritorno», dove scrive: «vedi, Nu, come si allontanano le nostre avventure, come si perdono le nostre parole, le comuni promesse. Rimane una facoltà – l’intelligenza – che non va disertata, e un mondo da costruire. Ora, Nu, troveremo altre parole, che riflettono gli atti  (pag. 61)?[14] O che, dopo un crollo di tanto amore, si “butti nel lavoro” (pag. 62)?
Altre domande andrebbero poste, secondo me,  anche  sul no di Montaldi nel 1959 alle proposte di lavoro  fattegli da Mario Gallo, «amico di vecchia data sua e di suo padre», per girare un documentario  sul tema dell’alienazione (pag.63)[15]. E mai dimenticando un dato materiale della condizione proletaria di Montaldi , che nella «Cronologia» di  «Bisogna sognare» era giustamente messo in evidenza: «Montaldi lavora intensamente al libro sul Partito comunista in una situazione economica sempre più dura. Dice che se la cava “come un tessitore del 1830, tante ore di lavoro e poco pane”. Per alcuni mesi è solo la piccola pensione di sua madre a consentire loro di tirare avanti. Danilo chiede alla Feltrinelli una traduzione e la cura di qualche libro, a Bizzarri un anticipo sui premi previsti per i documentari…Altre offerte di lavoro continua a rifiutarle: “[… ] nessuna intenzione di diventare un tecnico di questi problemi, come non ho voluto esserlo dell’immigrazione o dell’editoria, mai farsi cogliere dai momenti d’inerzia» (pag. XXIV).
Il rischio, dunque, è di prendere alla lettera la versione un po’ idealistica e un po’ troppo stoica che Montaldi diede della rottura del suo rapporto con Marilù Parolini, mentre invece bisognerebbe indagare più a fondo sulla conflittualità di genere tra uomo e donna, su cui  il femminismo negli ultimi tempi molte cose complicate ha messo in  luce. E non ripiegare su una conclusione che, anche se suffragata da una dichiarazione di Montaldi, a me pare malinconica e quasi pavesiana:

«in un bilancio del 1973, in occasione del suo q uarantaquattresimo compleanno e a pochi mesi dalla nascita di nostro figlio constata:
Compio 44 anni. Mi rendo conto che dal momento della percezione della vita fino a oggi sono stato sempre dominato da un'idea, da una concezione, del mondo e di un mio rapporto con esse ?, che forse andrebbe descritto; ma se descritta, potrebbe risultare stranezza, forse follia. Ho invece scritto altro nella vita finora, dominando di continuo quell'idea, quella concezione; e forse non è stato inutile, anche se sento, ora, quanto tutto quel lavoro si allontani da me, non coincida perfettamente». (pag. 64)

Mie riflessioni.

Il saggio di Gabriella Montaldi Seelhorst  sul periodo di formazione di Montaldi mi pare si collochi sulla scia di quella ambigua problematica che, alla fine degli anni Settanta, fu del femminismo e dei movimenti giovanili di allora e che indicava  (ed indica tuttora) un reale problema, un’irrisolta contraddizione tra il cosiddetto ‘politico’ e il cosiddetto ‘privato’ o ancora più  in profondità tra io e noi. Nel dibattito i due poli finirono duramente contrapposti.  E si impose poi la moda del  “ritorno al privato”. E  non senza  il contributo di intellettuali borghesi o ex rivoluzionari come Goffredo Fofi, Piergiorgio Bellocchio, Alfonso Berardinelli e altri anche lo stereotipo – oggi incontrastato – di una politica che inevitabilmente “uccide” la poesia, la letteratura, l’arte. Oggi queste attività sono giudicate assolutamente individuali, private, autonome. Si vedano le recenti posizioni, davvero paradigmatiche, di Walter Siti qui e qui.
Non posso però dire che Seelhorst faccia sue queste posizioni.  I due poli dell’io e del noi sembrano ancora accostati e vicini [16].  Non pone mai in discussione che il punto più alto in cui si condensa la breve vita di Montaldi sia stato quello del militante politico –   il fondatore  nel 1957 del  gruppo cremonese di «Unità proletaria» e il tessitore di rapporti politici internazionali (soprattutto  con il gruppo francese di «Socialisme ou Barbarie») – ma  questa immagine nel saggio appare scontata; e non viene né confrontata né dialettizzata con la ricerca dell’«altro Danilo», che è il centro della sua attenzione.  Non so dire quanto risenta dello “spirito dei tempi” e dal sentimento di sconfitta che ha reso inerti molte spinte  politiche e cancellato nella memoria collettiva le istanze comuniste nostre e di Montaldi. Sospendo ogni giudizio ma voglio, comunque, esporre alcune mie perplessità e considerazioni:

1. Non mi pare ci siano grandi sorprese nella ricostruzione biografica che Seelhorst fa. O notizie che potrebbero spingere  a una revisione della figura di Danilo Montaldi come militante politico in direzione di un ribaltamento del noi-io, che ha guidato la sua produzione e la costruzione di sé, in  un io-noi o addirittura in un io-io[17]. Non mi pare, cioè, che si possa negare che nei pensieri di Danilo Montaldi gli altri, i vicini, i compagni non furono mai messi in secondo piano rispetto alle sue esigenze più personali o individuali o, in apparenza, meno sociali.[18]

2. La psicologia di Montaldi resta novecentesca. E’ quella dei militanti del movimento operaio. E per questo la sua figura s’iscrive – ma senza retorica – nella lunga tradizione dei militanti (socialisti, comunisti) dediti  alla Causa, come si chiamava una volta. Leggendo il saggio, perciò, mi sono venuti in mente – per assonanza o analogia  “larga” –  il Brecht di «A coloro che verranno», l’aneddoto di Lenin che nasconde la sua commozione all’ascolto della Sonata a Kreutzer o il Diego Mora interpretato da Yves Montand nel film «La guerra è finita». E non credo di semplificare troppo, se dico che un lettore attento questo «altro Danilo» – in falsariga, certo, o in posizione di “alleato viaggiatore (come diceva Giancarlo Majorino) – l’abbia potuto indovinare o intravvedere già leggendo i libri o i carteggi finora pubblicati. (Oggi forse va precisato che il militante comunista di cui parlo non aveva nulla a che fare con quello zdanovista o stalinista che o sprezzava letteratura e arte come “faccende  piccolo borghesi” o voleva sottometterle  più che alla politica alle direttive dogmatiche del Partito[19]. Quindi questo «altro Danilo» – quello all’opera nelle attività alla Galleria d’arte “Enzo Botti” di Cremona o che si immerge nella contemplazione di «un tramonto, e [sente] l’emozione di sentirsi portato verso un profondo Io, verso “il senso delle cose» o «la sua dimensione estetica e, cioè, il suo interesse costante per «la letteratura, l’arte, la musica, la poesia – la sua sensibilità per il paesaggio, il grande fiume, la sua città» – non è così inconciliabile o estraneo con quanto Montaldi faceva come militante  nel Gruppo di «Unità proletaria». Queste dimensioni estetiche, pur contraddittoriecon la politica e, certo, malviste da quanti hanno tuttora una concezione fideistica  e dogmatica della militanza, Montaldi (ma anche molti di noi che agimmo da militanti negli anni Settanta) le portava – diciamo pure: inquietamente –  nella dimensione militante; ed esse nutrivano sotterraneamente  quella attività (e viceversa). (Ma quest’affermazione – lo so – sarebbe da documentare sui testi o nei fatti).

3. Avrebbero potuto influire questi interessi personali o “interiori” più apertamente o più  vastamente sull’attività del militante? Cioè, per favorire di più «l’espressione degli altri» (pag. 13), Montaldi (o noi militanti…) poteva non «eliminare delle parti di sé purché quelle [altre] uscissero integre»? O, per chiarire meglio il nodo, mi chiederei apertamente: se, in teoria, Montaldi avesse scelto di  ridurre quel suo impegno militante o quella sua conseguente attenzione agli altri, questi elementi “estetici” fondamentali della sua personalità, che oggi questo saggio  mette in primo piano, avrebbero potuto essere espressi di più e magari prima e meglio di quanto Montaldi abbia effettivamente fatto? O altrimenti ancora: se Montaldi avesse scritto quella autobiografia, avremmo pienamente «un altro Danilo», quello «autentico» o qualcosa di più autentico del militante che fu? (Ammesso che un militante non sia altrettanto o più autentico di un non militante). Tendo a credere che avremmo la sua autobiografia ma senza le «Autobiografie della leggera». O addirittura che, come è capitato a molti ex militanti che hanno scritto o stanno scrivendo memorie o romanzi o autobiografie o saggi,  quella (ipotetica) autobiografia di Montaldi  sarebbe stata possibile in quegli  anni  solo a costo di un autodafè, di una maturata rinuncia alle sue “verità comuniste”. Cosa che non risulta mai avvenuta.

4. Riconosco che sarebbe semplicistico, consolatorio e spiccio eliminare questo problema del contrasto o  della tensione (storica, non naturale) tra io e noi; e sostenere che, in fondo, Montaldi la sua biografia l’abbia scritta in altra forma, accentuando il noi (di quelli della “leggera”, dei “militanti politici di base”) ma svelando allo stesso tempo, in quel suo ascolto, anche se stesso, il suo io “profondo”.  Respingo questa ipotesi. Non voglio confondere le carte e contrabbandare il noi per l’io. Le autobiografie  della “leggera” o dei “militanti politici di base” non sono l’autobiografia che egli aveva in mente di scrivere. Non  possono sostituirla. Dico di più. Non è detto che in un scavo proprio di quell’«Io profondo», come lo chiama Seelhorst, che egli avrebbe potuto fare se non fosse morto,  non avrebbero potuto emergere contraddizioni  fortemente  inconciliabili con l’io militante palese di allora, storicamente formatosi in quelle determinate circostanze.

5.  Azzardo, invece, l’idea che per Montaldi semplicemente non era giunto il tempo per scrivere quell’autobiografia. Ma se fosse ancora vissuto, forse l’autobiografia o il romanzo  l’avrebbe scritti. A tempo debito. E credo che avrebbero portato di più i segni  o i problemi della sconfitta del noi-io che egli  riconosceva nella confidenza fatta a Gianfranco Fiameni. Sarebbe stato un autodafè? Non  ci credo. «Abbiamo voluto  fermare una valanga con un dito e hanno vinto gli altri» (pag. 43) non equivale a dire che abbiamo sbagliato o che dobbiamo sbarazzarci della militanza comunista. Forse Montaldi avrebbe ripensato Marx ma non l’avrebbe abbandonato per la geopolitca o il liberalismo. Il fatto è che la sua morte ha messo fine a un processo sicuramente di crisi che s’era aperto sul piano del noi con il Saggio sulla politica comunista[20]; e non sappiamo come avrebbe continuato a lavorare. Scommettoche si sarebbe impegnato a «proteggere le nostre verità». In questo credo avrebbe concordato con Fortini perché, come scrisse Luigi Cortesi, Montaldi era mosso da una «programmatica determinazione al salvataggio della memoria proletaria».  Questo può scandalizzare o far sorridere solo gli individualisti. Per chi ha avuto o ha una qualsiasi esperienza militante è cosa normale, scontata.

6.  E se quel movimento legato al risveglio della classe operaia fosse proseguito? Forse Montaldi avrebbe prodotto anche quella sua autobiografia. Magari con meno sconfitta dentro. Credo che un «altro Danilo»  sarebbe potuto venir fuori e in pieno soltanto se quel movimento degli anni Settanta avesse resistito e continuato. Perché sono convinto che  il condizionamento più forte  che ha costretto Montaldi a non scrivere o a rimandare di scrivere l’autobiografia non veniva – e rispondo ad una obiezione che nel saggio di Seelhorst non viene espressa ma sento serpeggiare –  dalla sua militanza.  Che  fu per  lui una scelta, un progetto di vita: la via che imboccò per uscire  dall’isolamento provinciale e proletario di Cremona. E tale rimase fino alla sua morte. A meno di non pensare che, restando nell’isolamento, avrebbe potuto scavare di più quell’io profondo, muovendosi in senso metafisico o mistico, del tutto staccato dagli altri: cose che accadono e trovo rispettabilissime. (E non mi sento neppure di escludere che in quella sera che morì nelle acque del fiume Roia il 27 aprile 1975  sia potuta  prevalere una spinta al suicidio).

7. Resto convinto che il condizionamento più forte sulla vita di Montaldi sia stato quello sociale, quello  dell’ambiente povero in cui nacque,  quello della condizione proletaria sua e dei suoi. Condizionamento che non  poteva essere idealisticamente  saltato. E proprio per combatterlo egli arrivò alla militanza. Ad un certo tipo di militanza.  Che ebbe bisogno proprio di quel suo tipo di scrittura e di quella sua con-ricerca, tanto era saldo il legame fra lui e quella gente e i suoi padri politici e Cremona. Quello fu il suo modo proletario e comunista di fare i conti col mondo in cui si trovava. E del peso di questo condizionamento  testimoniano, credo,  le sue resistenze a sradicarsi o a fare il salto  a Milano o al livello accademico o partitico[21]. A me ha sempre colpito che Montaldi quel “salto” mai lo volle fare.  E’ una questione densa di implicazioni, da approfondire.

Conclusioni. Non mi va di idealizzare la figura di Montaldi (o di qualsiasi altro compagno). Eviterei di ripensarla attraverso filtri esclusivamente letterari. E ritengo che non  sia giusto addolcire i conflitti di allora soltanto perché oggi ci appaiono sbiaditi (per sconfitta). Sarebbe  un omaggio involontario al clima dominante di revisionismo storico, una negazione del senso del lavoro militante di Montaldi e dei suoi stessi compagni-avversari.

 

 

 

Note

[1] E perciò, ad esempio, cita la lettera dell’agosto 1965 a lei indirizzata da Montaldi commentando: «Sono righe  che ritraggono un momento di verità intima, tra passato e presente, tra memoria e sensazioni del presente, che, con intensità poetica, racchiudono tutto: la città, l’amicizia, la luce, un momento particolare di un tramonto, e l’emozione di sentirsi portato verso un profondo Io, verso il “senso delle cose». O un’altra dell’ottobre 1963 perché in essa Danilo «parla dell’atmosfera di una giornata sul Po, di un certo momento nel quale il ricordo di un brano musicale suscita un attimo di trascendenza che lo porta di nuovo lontano». Sono, insomma, queste «descrizioni poetiche e profonde sensazioni», questi «stati d’animi» a permettere di «avvicinarsi a quell’altro Danilo, a una maggiore comprensione degli altri aspetti dell’uomo e del rivoluzionario Danilo Montaldi».

[2] Ho notato l’assenza di questo dato biografico  nella «Cronologia della vita e delle opere» in «Bisogna sognare. Scritti 1952-1975».

[3]. Da bambina Clelia, la madre di Danilo Montaldi, riusciva benissimo nello studio ma fu costretta, come imponeva  la condizione della famiglia, a dedicarsi ai lavori di casa. Sulla  crudezza di quella vita in campagna viene riportato un esempio: « Clelia mi raccontò che per esempio a lei, ragazzina, venne dato il compito di annegare i gattini appena nati, in un fosso vicino alla cascina. Quando lei arrivò a questo fosso, tanti gattini morti ci galleggiavano già, il che provocò in lei un ribrezzo tale, una fobia dei gatti per tutta la vita. E dei cani, di tutti i cani, aveva una grande paura. A Danilo, almeno da adulto, piacevano sia cani che gatti» (pag.22).

[4] Di Nino viene ricordato anche la  pratica sportiva,  il suo arruolamento nella Marina militare, la coltivazione di  interessi quasi sociologici e etnologici: aveva  lasciato per iscritto una descrizione delle osterie cremonesi andata persa (pag. 16); e che conquistò  Clelia donandole una copia di «Therese Raquin» di Zola (pag. 18).

[5] Da loro Montaldi aveva «assorbito fin da piccolo il germe politico, il loro modo di essere, di pensare» (pag. 19).  Saranno loro i «militanti politici di base che molti anni dopo sarebbero diventati i protagonisti dei suoi libri» (pag. 19).

[6] In una testimonianza indiretta – una lettera del 1954 di Marilù Parolini, che aveva avuto modo di leggere i primi diari di Montaldi, poi in gran parte distrutti –  compare  un bambino «un po’ triste, due grandi occhi verdi spalancati sul mondo», che sembra «incapace ad amare i fiori, le stagioni, i gattini, i merli, i cagnolini gentili e soprattutto gli uomini» (pag. 25).

[7] Restano scarse le testimonianze o le confidenze sulla infanzia e prima giovinezza di Danilo. Seelhorst suggerisce  che probabilmente per pudore, difesa della sua immagine pubblica o  per volontà di non esporsi troppo foto, temi di scuola e diari di  quegli anni  furono eliminati. Nell’Archivio di Stato di Cremona  è conservata una lettera del ’50-’51 all’amico Bruno Re con l’invito a bruciare le lettere che si erano scambiati (pag. 20).

[8]  Alla Resistenza parteciparono i suoi amici più grandi. E il Saggio sulla politica comunista in Italia di Montaldi  non a caso fu dedicato all’amico partigiano Cesarino Goi, deportato  e poi morto in Germania (pag. 22). Ma nel ’44 anche Montaldi entrò nel Fronte della Gioventù, l’organizzazione del PCI. Trasportò  armi e materiale clandestino; e dopo l’orrore della guerra, al momento dell’«insurrezione di uomini in armi che uscivano da finestre e porte rovesciate», nella «fatidica data del 25 aprile 1945»,  Montaldi oltre alla «gioia di quei giorni di festa»   esce di fatto dall’adolescenza e da un periodo di forte isolamento (pag. 23). Entra nel PCI assieme al padre (pag. 24), che entusiasta dona la sua biblioteca  al PCI di Cremona.

[9] Già nell’autunno del ’45, però, il padre e il suo amico Rosolino Ferragni, che è stato uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia a Cremona nel 1921, vengono espulsi dal partito. «Lo spazio delle grandi possibilità tornava a chiudersi» (pag. 26). E Montaldi deluso abbandona anche lui il partito e interrompe gli studi liceali. Si fa autodidatta, mentre tornava per lui un nuovo periodo di solitudine.

[10]  «Bellezza, vita, morte, natura, la lotta per “forgiare il duro mondo”, ma anche il dolore antico della terra che bisognerebbe esprimere in un nuovo canto, una nuova religione, e la purezza, lo stile puro: parole chiave del cosmo interiore di Danilo giovane» (pag. 27).

[11] «Per la seconda metà degli anni Quaranta Danilo annota nel suo promemoria: “Crescente interesse per la letteratura, la musica, com’era la città / Le forme di partecipazione (il cineclub, la musica)» (pag. 30). E a pag. 56 Seelhorst aggiunge: «Forse bisogna sottolineare a questo punto che Danilo rappresentava sia la cultura alta che quella popolare: la musica di Mozart, Campra, Charpentier e il proletariato, le canzoni popolari della Bassa e Monteverdi, Shakespeare e Orlando P., il disegno di un bambino delle elementari e un incisione di Füssli  o un quadro del Realismo esistenziale» per dare un quadro del «ricco cosmo vitale, profondo, essenziale e autentico» a cui Montaldi sentiva di partecipare.

[12] Fa riferimento  al Cesare Pavese de «Il mestiere di vivere» e a un saggio del filosofo franco-tedesco Bernard Groethuysen, «La vie de Goethe. Chaque biographie est une histoire universelle».

[13] Rifacendosi ad un saggio del 1977 di Campelli (pag. 52), Seelhorst  parla di «una tensione e contraddizione che è in lui e di cui è consapevole»: « questa era la personalità di Danilo Montaldi: rivoluzione e poesia, rabbia e mitezza, semplicità e complessità, contradizione  e coerenza» e finisce per  accostarlo troppo (se non ad assimilarlo) a Pasolini.

[14] Quello con il Gruppo di Unità proletaria di Cremona […]; quello per il documentario «La matàna del Po»; quello per terminare la raccolta di biografie per «Autobiografie della leggera»; quello di «Milano, Corea» o le traduzioni.

[15] Certo, Montaldi non voleva lasciare sola sua madre per diversi mesi dopo la morte improvvisa del padre alla fine del luglio 1962  e c’erano anche divergenti visioni (impostazione culturale e politica o spettacolare e commerciale?) con Gallo  su come impostare il film (pag. 63). E dalla «Cronologia» di «Bisogna sognare», a pag. xx, si aggiunge anche un generico: « a causa di impegni alla Feltrinelli e di vari altri impegni».

[16] «da un lato si può dire che forse mai nella sua vita fu più grande la sua fiducia in se stesso, la sicurezza di essere un uomo di parte e la sua strada quella di dover lottare per le sue mete rivoluzionarie. Infatti è nel 1956 che forma un primo gruppo di studio e nel 1957 il Gruppo di Unità proletaria. nello stesso tempo però vengono alla ribalta con forza anche le altre parti della sua personalità ricca di interessi e doti più disparati un fatto che si riflette e si articola in lettere e saggi per le riviste culturali di sinistra più rinomate in quegli anni» (pag. 44)

[17] Perciò,  rientra nella tipologia di un noi/io; non in quella di un io/noi e meno che mai in quella dell’io-io, formule con cui indico approssimativamente: – il prevalere delle istanze collettive su quelle individuali; – il prevalere di queste ultime sulle collettive; – l’ostilità o la negazione delle collettive in nome delle istanze  del solo io (egolatria, narcisismo).

[18] Confermo quanto avevo scritto (qui) nel 2006: «La prova di questo primato del contatto cooperativo con gli altri si trova nel metodo stesso con cui Montaldi lavora: le sue  autobiografie hanno una dimensione narrativa e letteraria costruita a stretto contatto con i suoi interlocutori, che poi sono anche co-autori. Ma lo provano pure – con l’eccezione problematica del Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970) – il fittissimo epistolario e il materiale firmato collettivamente dal Gruppo di Unità Proletaria e dal  Gruppo Karl Marx.»

[19] Sempre nella riflessione del 2006 (qui) l’esistenza di questo «altro Danilo» la riconoscevo, se, trattando di «Su alcuni paesaggi”» (letto a pag. 134 di «Bisogna sognare») avevo scritto: «Questo, fra gli scritti dedicati all’ambiente cremonese scopre una sensibilità quasi romantica verso un passato perduto (non dissimile mi pare da quella che Montaldi rimproverava a Bosio e ad altri), una sensibilità dunque meno “proletaria”, meno “trasparente”, marxiana solo per uno scatto finale tutto verbale nello scritto in questione» E criticavo la posizione di Stefano Merli perché « sottovalutava qui sociologia e letteratura in nome  della politica». e aggiungevo:« Mi pare che per molti aspetti – ancora di più oggi che il tempo distanzia i temi montaldiani –  dobbiamo ammettere che la sua attenzione militante verso il passato e i depositi della memoria proletaria, usa anche la “letteratura”». E per giunta scrivevo : «più precisamente – è uno spunto da approfondire – è sensibile a quello che un critico letterario, Francesco Orlando, ha chiamato desueto…. Desueta sarebbe presto diventata persino  la «nuova classe operaia» che Montaldi si apprestava a far parlare. Ci si può tornare, ma il disprezzo politicista della letteratura fortissimo in quegli anni [Settanta] nella sinistra era miope; e questo Montaldi “letterato militante” andrebbe indagato di più, anche al di là delle sue pose antiletterarie.».

[20] E ancora mi sento di confermare quanto scrissi (ancora qui)  «[possiamo dire che] quando si pose solitariamente e seriamente il compito di scrivere quell’opera rimasta incompiuta, fosse davvero a un punto di svolta e magari  di fronte a una crisi, perché il passaggio dal sociologico al politico tout court, dall’inchiesta alla riflessione su dirigenti e linea di partito è brusco e  senza approdi certi».

[21] Certo, abbiamo avuto anche esempi di militanze che hanno fatto il “salto”  sradicandosi dalla condizione di partenza. Sono forme che mi sono parse di nomadismo troppo estetizzante  e legate al feticismo della metropoli così diffuso nel Novecento (e oggi).

 

 

2 pensieri su “Gabriella Montaldi Seelhorst, La formazione. Lasciare un segno

  1. molto interessante questo documento di Ennio che mette insieme vari scritti, come il saggio della moglie, e le lettere, inviate o ricevute, di Danilo Montaldi che permettono di ampliare la conoscenza dell’uomo e dell’autore: l’aspetto privato e quello politico, l’io e il noi, l’dentità riferita agli affetti, ai valori e agli interessi estetici coltivati e la co-identità con una classe sociale negli scritti della militanza politica…Interessante, anche se non mi sembra sempre opportuno separare le sfere della nostra vita o forse mi sembra impossibile…Secondo me, l’una vive e si nutre dell’altra…magari in certi periodi della vita c’è la necessità di spostarsi su un campo piu’ privato, diventa urgente…puo’ essere a causa di un amore , ma anche di una malattia…comunque resta presente il taglio pubblico che ci accompagna, da scelte consce o inconconsce o ambientali…a volte persino nostro malgrado

  2. SEGNALAZIONE

    Intervista ad Alberto Asor Rosa (Prima parte)
    [l’intervista [è] contenuta nel libro L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», a cura di Giuseppe Trotta e Fabio Milana (DeriveApprodi, 2008)].

    Abbiamo già ricordato Dolci; c’è poi nei paraggi di Panzieri l’esperienza di Montaldi e quella di Bosio, interessati a dar voce diretta alla classe e alla sua «cultura». L’idea della conricerca, ad esempio, è in parte di matrice montaldiana. Mi chiedo quanto abbia contato, questa radice, nella vostra vicenda di gruppo.

    Io di Montaldi ho sentito parlare per la prima volta da questi compagni lombardi, prima non sapevo chi fosse. Quindi nel mio caso non si può dire che ci sia stata un’influenza diretta – semmai attraverso di loro, in un certo senso. Mi pare interessante per definire il reciproco interesse. Per capire la reciproca influenza, forse, si può sottolineare il fatto che nella storia dei «Qr» e nella conclusione dell’esperienza comune questo gruppo lombardo si è sempre trovato, oppure noi ci siamo trovati sempre reciprocamente convergenti, e in qualche modo conflittuali con quelli che venivano definiti, un po’ sprezzantemente, «sociologi del lavoro». Credo per un motivo di fondo, e cioè che nei «sociologi del lavoro» il riferimento alla classe operaia come motore di tutto il processo era molto più moderato, meno estremistico, mentre questo gruppo romano e questo gruppo lombardo si incontravano proprio – con due strumenti straordinariamente diversi, due strumenti analitici e due mentalità completamente diverse – si incontravano però sull’idea che il fulcro del problema sarebbe stato ed era la classe operaia, i comportamenti operai, la dinamica del rapporto classe operaia-fabbrica, classe operaia-società e così via. E che ci fosse qualcuno che l’analisi operaia fosse in grado di farla e la facesse in maniera diretta, cioè andando in fabbrica o girando continuamente intorno alle fabbriche nel senso anche letterale del termine, evidentemente era un aiuto straordinario.

    (DA https://www.machina-deriveapprodi.com/post/intervista-ad-alberto-asor-rosa-prima-parte?fbclid=IwAR2SxLpmQFRDKguN15uvofUd4thdR1MYuahiZ7BqnMiJBqzkW1c6xK3OECU)

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