Intervista ad Antonio Sagredo

Chiesa di S. Matteo a Lecce

a cura di Ennio Abate

Questa lunga intervista risale al 2015.  La considero un’intervista-duello. Da una parte ci sono le 9 domande preparate da uno come me, convinto che la poesia sia lavoro: da distinguere (non separare) da tutte le  forme (storiche) del lavoro umano. Esse mirano, perciò, a chiarire per quanto possibile le radici materiali (biografiche, storiche, geografiche,  culturali) del «fare versi». Dall’altra ci sono le risposte di Sagredo, che a volte eludono o contestano apertamente le domande; e teatralizzano una visione della Poesia come inattesa Visitatrice, che quasi sottopone a stalking il poeta («ho pregato più volte, l’anno scorso, la Poesia di non disturbarmi più… invano! L’ho pregata da quando iniziai due decenni fa»).
Il risultato mi pare, comunque, interessante: Sagredo  espone qui numerosi ricordi del suo «periodo infantile» o della sua «esperienza adolescenziale leccese-salentina»; rende note alcune fonti ispiratrici o guide della sua ricerca (Vanini, Ripellino, «il santo Federico» [Nietzsche], Tommaso Riccardo, Stirner, i formalisti russi, Andrzej Nowicki, Francesco P. Raimondi ,ecc.); esalta il cosmopolitismo culturale (novecentesco) contrapponendolo – a mio parere sin troppo – alla «mancanza d’aria» della poesia italiana; e rivendica una assoluta libertà («I miei versi sono nati nella massima e totale libertà e verità interiori, una sorta di creazione arbitraria senza zavorre culturali»).  Il lettore valuterà le ragioni delle due posizioni .

1. Cominciamo dal tuo periodo infantile-giovanile, perché considero sempre illuminante il recupero che un poeta fa delle tracce – incerte o decise – di quella che è poi diventata la sua  passione o forse vocazione.

   Il periodo infantile mi trascorre a Brindisi fino all’età di 7 anni; direi che furono anni molto felici: i miei amici furono cugini e cugine: figli di 4 sorelle e 2 fratelli di mia madre (oggi 92enne e unica superstite di quella grande e molto estesa famiglia) nati tutti a distanza di tre o quattro anni uno dall’altro.
I ricordi sono tanti: dalle feste patronali (la statua di san Teodoro portato per mare: mi ricordo che avevo 4 anni quando ero su un grande rimorchiatore, che mi portò fuori porto; per due anni di seguito in occasione della stessa festa mi persi (ero coi genitori) e fui capace a 4-5 anni di ritornare a casa da solo (poco più di due chilometri) e tutti ansiosi mi ritrovarono che dormivo sul pianerottolo in cima alla scala di pietra.

   Altra fuga fu che un mattino d’estate uscii di casa e presi un bus, e giunsi alla “marina” del porto di Brindisi – (questa parola ”marina” ricorre spesso nei miei versi e nella prosa  dell’Arrabbìco: un  racconto lirico-epico picaresco che scrissi dal 1977 al 1981; tuttora inedito). Alla marina dunque: mentre passeggiavo lungo il molo fui fermato da un finanziere, che di certo mi fece delle domande; nel frattempo arrivarono preoccupatissimi mio padre dall’aeroporto dove lavorava e mia madre: fu una mia zia a suggerire che (avendo io questa mania di fuggire) di certo – diceva – “vuoi vedere che è andato alla marina!”.

   Spesso mia madre – seduta con me sul divano di casa – mi racconta questo fatto e tanti altri, ridendo, ma felice di tornare al passato! Ricordo bene che un anno, al tempo della vendemmia – avrò avuto non meno di 6 anni – coi cugini pestai l’uva nera in un grandissimo tino di legno. E di un altro anno (o lo stesso?) ricordo quando, da Brindisi  per Oria, si andò col traino a cavallo per la festa dei santi Cosimo e Damiano (nomi che ricorrono nei miei versi iniziali): il parentado era totalmente devoto a questi santi!

   E ancora ricordo la parte terminale della via Appia che – riferita al mio rione dei Cappuccini – finiva dove c’era il passaggio a livello del treno; e che  nel tempo della vendemmia era intasatissima dai traini che trasportavano due grandi tini di legno dalla forma ovale stracolmi di uve che tracimavano; i traini giungevano  da tutte la campagne che circondavano la città allora  –   ed  erano diretti verso tutti gli stabilimenti vinicoli (la via Appia da ambo i lati non era che una serie ininterrotta di “cantine”) e oggi ne sono rimasti in piedi davvero pochissime e destinate alla distruzione per costruire al loro posto nuovi palazzi.

   Questi stabilimenti vinicoli erano veri e propri monumenti; al tempo della vendemmia l’aroma dell’uva in fermentazione si spandeva dovunque. Si era quasi storditi appena si entrava dentro uno qualsiasi degli stabilimenti: c’era a sinistra un grande camino acceso dall’alba fino alla sera!, e luogo frequentatissimo da mio nonno materno dopo il lavoro. Ma tutto questo ho scritto in quel racconto picaresco diviso in due tempi: nel secondo l’esperienza adolescenziale leccese-salentina. Questo racconto si svolge come un lungo cortometraggio.

     A Brindisi vidi cadere per la prima volta la neve dalla finestra al secondo piano del palazzo Muschio: chiamai a raccolta i cugini e, scendendo per la lunga scala di pietra, a precipizio, dopo aver attraversato la strada, ci ritrovammo nel cortile della scuola elementare che sempre mi atterriva perché era di fronte alla casa natale…  giocammo a palle di neve: sento ancora gli strilli di gioia!, eravamo tutti inzuppati, infradiciati dalla testa alle scarpe.  Fummo sgridati dalla mamma e dalle zie!

      All’età di otto anni lasciai la casa natale per stabilirmi a Lecce con la famiglia, ovviamente. Questo trasferimento segnò la fine della mia infanzia e l’inizio di una solitudine che sentivo a volte penosa e a volte disperata a causa di una grave malattia (allora era grave) da cui me ne uscii benissimo. Durante quei sei mesi, forzato a restare in casa, quasi sempre allettato, cominciai a leggere per combattere la solitudine: fu l’inizio della grande avventura della mia vita: la lettura… la conoscenza e la scoperta di tante cose! Per quella malattia non finii la quarta elementare: dovetti ripetere l’anno. Fu il mio primo anno perduto: a cui ne seguirono altri due, ma per colpa della scuola stavolta: il mio comportamento non piaceva ai professori! E la finiamo qui.

   Mi iscrissi all’Istituto Industriale di Brindisi. Dall’età di 15 anni viaggiavo ogni giorno: andata e ritorno: Lecce-Brindisi-Lecce con la littorina o in terza classe con altri treno, i sedili di legno (pareva il far west!); ma ricordo benissimo gli ultimi treni con la locomotiva a vapore! A Brindisi ritrovai i cugini. Durante il pendolarismo pesante, ma da me voluto poiché Lecce, col suo barocchetto e le sue chiese sature del sangue dei martiri, mi era divenuta nel frattempo davvero asfissiante, cominciai a leggere romanzetti; distrussi subito l’abitudine di passar il tempo in treno a risolvere i cruciverba (da me questo gioco subito inteso come negativo: avevo già compreso che non vi era alcuna cultura nelle risposte ai quesiti).

   E dai romanzetti, più o meno rosa, cominciai a scrivere i primissimi versi prodotti per noia e per reazione ai cruciverba! Strappai centinaia di paginette di continuo, e mi dicevo che erano schifezze; eppure pian piano cominciò a sorgere in me la passione per il gioco linguistico e mi feci comprare un vocabolario degno della mia curiosità: lo Zingarelli (che ancora mi accompagna!). Numerosi i quadernetti segreti, poi tutti bruciati (come brucerò tra qualche mese in campagna i miei più maturi manoscritti, tanto il volume dei mie versi uscirà in USA, a New York, a fine giugno 2015!).       

   Affrontai alle medie inferiori il latino mal volentieri; invece per la lingua francese avevo una predilezione (ero il più bravo!) e della matematica è meglio non parlarne, se non che mia madre  che ha sempre saputo far di conto – cominciò ad aiutami. La geografia mi piaceva tantissimo e cominciai a viaggiare: l’isola di Giava mi affascinava non so perché; come pure la storia; il diritto, che allora si studiava solo alla terza media, mi faceva schifo. 

    I versi raccolti in quadernetti per 4/5 anni furono distrutti. Ma devo confessare, senza vergogna, che all’età di 18 anni possedevo una cultura vasta, ma ancora non profonda. Compresi subito che la cultura, come arma, era superiore a qualsiasi tipo di sopraffazione e violenza e che Lei nella mia vita futura mi avrebbe dovuto spesso difendere: i risultati di tantissima lettura oggi sono giunti al termine.

   Lo scrivere i primissimi versi in treno dettò il ritmo ai versi stessi, tant’è che definii il mio un  ritmo ferroviario! E moltissimi – davvero tanti! – anni dopo si ripeté la stessa esperienza seguendo e subendo il ritmo di colossali macchine stampatrici dal rumore infernale – il ritmo delle mie Legioni! (1989) era il ritmo di quelle macchine infernali! Le Legioni sono un gruppetto di 10 componimenti che nella mia storia versificatoria hanno grandissima importanza.

    Quelle due fughe – dalla marina fino alla casa natale – avvennero di tarda sera tra fuochi d’artificio: mirando questi e camminando io mi smarrii; ricordo che non piansi e decisi di tornarmene da solo: conoscevo bene già così piccolo la strada del ritorno a casa. Di certo, posso affermare che non mi perdevo d’animo! Posso dire che non amo la linea retta, ma che vado avanti zigzagando (fisicamente e mentalmente: un po’ come dice Šklovskij nel suo testo La mossa del cavallo!): così si spiega perché mia madre mi cambiava spesso asilo: mi ricordo per ben tre volte! Dovevo essere davvero insopportabile e ribelle. Nonna Rosaria diceva che ero uno zuzzuvivo! (un grillo inarrestabile!).

   Si spiegano quelle fughe anche perché, mentre rubacchiavo nespole e ciliegie da giardini e cortili, avevo nostalgia della marina e delle barche a vela (così allora si andava alle spiagge – vi è una foto dove ho, credo, tre anni, con mia madre su una barca a vela; poi con grosse barche a motore). Ero di certo insofferente, ma non violento (lo diventai in due circostanze perché costretto, e ricordo i due fatti, è ovvio che non posso dirli).

   Comunque alle due città devo aggiungere Cava dei Tirreni, paese natale di mio padre: le salite (spesso a piedi) con calessino fino al Villaggio Rotolo; la strada in salita era ombrata dai platani (vi sono ancora!); e mio nonno paterno sul ciglio, sotto un grande albero di platano – ancora lì a fare una grande ombra – a fumare  la pipa: vivida è l’immagine. Man mano che si saliva vedevo la commozione sul volto di mio padre ansioso di incontrare il nonno. Ricordo la nonna Carmela Penna  sgridare continuamente le galline! E le mie visite alle varie cappelle sparse per i monti, e la salita insieme ai genitori fin sulla cima del monte San Salvatore, dove si mirava tutta l’insenatura ampia di  Salerno e dintorni! (con questa immagine comincia quella prosa  picaresca).

   E in questo Villaggio Rotolo ho scoperto gli odori forti dei legni e trucioli, e delle tinture e delle colle (specialmente); un mio cugino – valente ebanista – aveva una falegnameria giù sotto le case per una viuzza davvero scoscesa.  Ho scoperto, da adulto, che dovevo aver posseduto fin da bambino capacità straordinarie di registrazioni mentali e visive: credo non sia da tutti!  Capacità affinate dalle letture e dalla conoscenza dei luoghi dove vissero i poeti, ecc. Grazie a queste capacità ho potuto anche creare dei versi – specie quelli della maturazione consapevole, che devo dire piacciono prima a me -, delle atmosfere, visioni ecc., ma con altri intenti.

2 . Vorrei che approfondissi il tuo atteggiamento verso la storia.  Che a me pare di rifiuto frontale e istintivo. E vorrei capire se e quanto a tale rifiuto hanno contribuito: – una tua precedente formazione “religiosa”  poi respinta; – i successivi studi di slavista o tue letture filosofiche (Nietzsche? Stirner?..); – degli avvenimenti che ti hanno fortemente colpito.

La Historia mi scorre e trapassa non so se davanti o di dietro o di lato, di certo di sghembo; oppure sono io a passare di sghembo; di certo è che la vedo con tutti i miei possibili sguardi; non si può dire cosa la storia dirige verso di me! Ho una passione antica per la Historia, e questa mi mostra conforto quando in tanti versi la faccio sanguinare. Avrei voluto essere un protagonista attivo… uno che ditta!… come solo un poeta deve fare o può farlo senza sentirsi in colpa poiché i delitti il poeta li ditta, ma non li fa, o li commette in altra maniera! E se li fa è perché è costretto allo svelamento assoluto.

  Di certo qualcosa ho fatto nel ’68, ma misero a tacere i compagni di strada… e allora me ne andai nei sobborghi per un mio viottolo che soltanto io conoscevo! Sia chiaro, come scrivo in una poesia, che me ne fotto (è il titolo) di tutte ontologie, specie quella dell’ambiguo Heidegger (lo cito, perché, Tu, Ennio, hai citato due nomi! – Sono affezionato a Ennio[1]  e a Virgilio (“il Salento mi rapì la vita”[2]; ma ai poeti grecolatini ho dedicato dei versi 7 anni fa e ho denunciato i miei debiti nei loro confronti!

La Notte che mi sfidava come il flauto di Marsia
coronava di spazi strani i punti cardinali
e la fronte di Antonio che crollava coi suoi natali –
ma le sue pagine sono eterne, ben oltre la sua fine.
E tra crudi inverni e balsami persiani saprò là
ritrovare le mie cadenze, studieranno i lirici
le mie canzoni, le elegie domino come i lauri,
sarò sempre con voi, versi miei: schiavi, signori!

   Ti ripeto: Brindisi per me è stato l’argento vivo. Lecce mi si è donata come verde  maliarda! Un verde ramarro, ma non guizzante, fermo come solo i mostri che fanno paura… mi ha dato la cultura… me ne andavo a leggere alla Biblioteca Provinciale a un passo dal Collegio Palmieri (la prima volta che annusai il fetore gesuitico e la sua cultura onnisciente e sinistra!, e a due passi da casa… tutta la filosofia (tutte le forme del mio ateismo prima di G. C. Vanini), la storia e geografia… tutta non esageriamo, ma certo è che dopo due anni di frequentazione ero nelle condizioni di scegliere i libri (per inciso, quando nel 1961 mi rag-giunse il nome di Ripellino… qui cominciai a leggere i suoi primi articoli di cose slave: mi si spalancò un portale immenso!). Qui lessi il santo Federico,[3] (così lo definiva uno stupendo poeta: Tommaso Riccardo[4])… e sono la mia fede queste sue parole:

Chi ama la verità attraverso la  Poesia
sarà frainteso  e  per lungo tempo  
creduto alleato delle forze che aborre.

   Tanti filosofi e poeti, e poi incontrai Stirner, conosciuto e letto tra il 1974 e 1975 mentre lavoravo alla mia tesi su Otokar Březina: questo un eccellentissimo poeta ceco-moravo! Questo poeta  cita Stirner in una lettera ad una sua amica teosofa e ne resto colpito: anticipa tantissima e inutile critica a Marx, che fu dallo stesso Stirner sbeffeggiato;  Marx, di questo povero e infelice Stirner, ne aveva timore per quel che scriveva e anche su di lui; nella mia tesi qualcosa ho riferito. Ma le mie letture filosofiche non sono solo questi due: è ovvio! Del secolo trascorso le mie preferenze ai periferici: filosofi e scrittori ai margini e eretici di ogni sorta di latitudine, la preferenza per tutti i deviati, devianti e deviatori! Non posso citarli tutti: gli incontri: sono stati centinaia: dal sud-America (Arguedas, p.e.) alla Cina, dagli Usa all’India, dall’Africa ai nordici ecc.

    La Historia era questa per me! Non quell’altra che è sghembata e distorta dagli storici!

Nel desiderio calmo delle acque
iniziava  l’Historia  il non-nato:
acciaio al passaggio di una gola
curvava il terzo occhio del principio.

(1982)

La leggenda non sarà mai Storia!

(1985)

Me ne fotto del millennio che viene,
dei passati e futuri struggimenti!
Me ne fotto di tutti i poeti legati alla storia,
alla vita, al quotidiano di(s)mettere i canti!

(1999)

Sei ammutolita dalla banalità di una historia inusitata
e per te l’abbraccio s’è mutato in una farsa cechoviana –
la pausa ha generato in te quel caldo africano e i sospiri,
il gelo di una maschera, la risata  di un atto esaustivo.                 

(2008)

… questa è la mia partecipazione sgangherata alla Historia!

3. Sono convinto che la tua produzione poetica sia vastissima ed accumulata  disordinatamente. Hai mai tentato di darle un qualche ordine? O, a posteriori, ti pare che abbia un qualche ordine? Non credo che tu abbia mai avuto fretta di pubblicare e solo di recente hai cominciato a far circolare  i tuoi testi su alcun blog. Vorrei però sapere come affronti la “frustrazione” di sentirti/essere un  Poeta  ma di non essere riconosciuto da un (largo)  pubblico? 

   Comincio dalla fine: frustrazione. Non possiedo/non ho, ecc.   “la frustrazione” di sentirmi/essere un  Poeta e di non essere riconosciuto da un largo pubblico! Frustrazione? Se mai il contrario: sono (un) esaltato, ecc. di esserlo stato. Esserlo? Si, esserlo, poi che  ho praticamente finito (non sono finito!) di scrivere versi quest’anno: ho pregato più volte, l’anno scorso, la Poesia di non disturbarmi più… invano! L’ho pregata da quando iniziai due decenni fa… non ci credevo e non volevo crederci e mi domandavo spesso: “Perché proprio io? Non è possibile!” – ma Lei continuava a visitarmi (visitarmi significa che mi venivano versi – e quali versi poi! Che non potetti più fare meno di (non) scriverli!) – E allora mi dissi “è un gioco dopotutto, perché non scriverli?”; col tempo mi giunse la consapevolezza quasi di fare sul serio e cominciai a raffrontare i miei versi con quelli degli altri poeti: grandi e piccoli (italiani e non) che erano, e mi dicevo: “i miei non fanno brutta figura, anzi!”… ma fino a 10 o 15 anni fa non ero ancora troppo convinto… come dire (mi) lasciavo una piccola probabilità = “non è vero!”, e intanto continuavo a fare (non produrre!) versi.  

Largo pubblico? Mai esistito, per me, questo problema! Non ne ho avuto bisogno; avevo certo piacere se c’era qualche attore , con buona voce, che declamava i miei versi, e mi dicevo: “li ho scritti, io?”

    L’ordine. Prima del e dopo il 2008 (già in una età  vecchietta per un poeta… quindi tardivo in tutto!) l’ordine era soltanto cronologico, ma dal 2008 ho pensato di  dare un titolo all’anno… e dunque ho intitolato il 2008 “Poesia dell’anno corrente” poi 2009: “Poesia del secondo anno corrente”; gli anni successivi con titoli diversi… e così via fino all’ultimo anno, il 2014 [5]

Mi (se) rabilia”, come dire: miserie come meraviglie, e viceversa.

Ma la vecchiezza è – una Roma che
invece di ciarle e di ciance
non esige prove dall’attore,
ma una completa autentica rovina.  

Pasternàk, 1932

     Ma prima del 2008 tutto è restato com’era. Ma coi titoli, mi son sentito più ordinato, ma ordine non ha voluto significare: darsi un progetto, un programma, ecc.

    Quanta poesia ho fabbricato? Credo che non sia poi tanta, ma non ho mai quantificato… posso dire per esempio che per curiosità ho voluto sapere quante volte un certo termine era ri-corrente: e non poche sono state le sorprese. (Il computer mi ha dato questa possibilità).

     Ma accertare quante poesie ho scritto non me lo sono mai posto, anche quando ho realizzato la selezione per l’edizione americana di questo fine giugno; allo stesso modo per l’edizione (futura) romana forse autunnale/invernale; sono presenti poemetti, gruppetti di poesie, ecc. . Vi sono poi le prose; saggi ne ho fatto a meno di scriverli, poiché considero ogni mia poesia  un saggio .

     Ho scoperto p.e. che le poesie dedicate ai poeti, scrittori, artisti ecc. sono una ottantina. Insomma, è stata una gran fatica organizzare le due selezioni (quella romana non è completa poiché non ho ancora deciso se includere una o l’altra poesia; questo significa per me difficoltà a padroneggiare gli svariatissimi temi che ho affrontato; il punto è che vorrei includere tutto, perché vi sono tantissimi versi che non vorrei lasciar fuori.

   Ai maligni, critici e poeti, che ho incontrato – non riferisco i nomi – ho detto   che i miei versi (e sono molto consapevole) non hanno eguali per vari motivi. Questa mia consapevolezza dà moltissimo fastidio ai poeti riconosciuti grandi (ma sono mediocri) e a poeti sedicenti: sono decine di migliaia! Stessa cosa per i critici!

   Fretta di pubblicare. Mai! Quando un amico, poeta spagnolo, mi chiese di pubblicare, glielo permisi a patto che scegliesse lui le poesie: io non so scegliere! Ecco, ripeto, perché: le due selezioni mi sono costate tanta fatica! – Mi dissi anche circa 40 anni fa… “scrivete, continuate a scrivere, alla fine dovrete fare i conti con me!”. Non presunzione, ma consapevolezza!  La fretta di pubblicare, forse per essere al passo coi tempi (e quali tempi poi? Ma la Poesia li contiene tutti i tempi, quindi non possedevo e non possiedo questa frettolosità!) non m’appartiene.

   Non sono un tardivo soltanto perché pubblico tardi, anche perché ho proceduto lentamente, ma inesorabilmente: la forma che mi affinava, affinava anche se stessa e veniva fuori, quasi naturale, quasi io stesso fossi in/consapevole, e Lei stessa – la Poesia – mi spingesse avanti inesorabilmente (una sorta di duende), e incessante spinta dal desiderio di sapere – come andrà a finire questa storiella?!, mi ripetevo.

    La lotta era sempre aperta: Io o la Poesia? Chi avrebbe vinto? Abbiamo vinto insieme alla fine, serenamente… il mio deposito culturale di certo non si è esaurito a causa della Poesia, né io per sua colpa\palco… ma va bene così… questo anno: tre poesie soltanto… non sono un infelice perché non giunge nulla… non mi faccio più domande, ma tutto non esclude che d’un tratto la Poesia non mi faccia ancora degli sgambetti. E se ne vale la pena, poiché sono in grado di dettare degli ordini a Lei, scriverò, o non scriverò… siamo stati degli eccellenti compagni di strada!

4. Quali  le tue preferenze nel campo della poesia e della letteratura russa. E quali i tuoi rifiuti. Per i secondi ho ancora in mente un tuo saggio dove sostenevi che la poesia di Majakovskij  fosse apologia assoluta del trionfo della vita, gioia totale, e  l’opera di  Tolstoj la sua antitesi, la negazione…

      Non posso rispondere alla domanda sulle mie preferenze: sono centinaia: ci vorrebbero decine di elenchi! E allora limitiamoci a Tolstoj…. Ma cosa dire? Il mio parere su di lui parzialmente l’avevo già, prima di conoscere cosa ne pensasse il poeta Majakovskij, il cui giudizio più che negativo, sul vegliardo, sa di irrisorio e di dileggio… insomma un giudizio che mi trovò allora e mi trova consenziente. Del resto a quasi tutta quella generazione dell’inizio del ‘900 era “antipatico”, tranne alcune eccezioni, e la più significativa fu quella di Pasternàk, che gli fu molto legato per vari motivi e che ne subì tale influsso che scrisse lo Živago, seguendo la tradizione ottocentesca, puntando soltanto sulla scrittura tolstojana, e perciò non solo a mio parere, ma di tanti slavisti, fallì l’impresa di realizzare un nuovo romanzo moderno russo (lo realizzarono altri autori) del ‘900! – Per non dire di Cechov che, dapprima entusiasta, poi lo ripudiò del tutto!

E a proposito cito una mia nota n. 70 p. 42 del Corso di Majakovskij – 1971\72, di A. M. Ripellino:

“ Ma una interessante suggestione avvicina Majakovskij a Cechov a proposito dell’elettricità e del vapore. Nel 1892 esce di Cechov il racconto satirico “La sala numero sei” che ècontro la filosofia di Tolstoj, di cui da troppi anni s’era fatto influenzare. In una lettera all’amico Suvorin scrive:” La morale tolstojana ha cessato di toccarmi fino sin fondo all’anima. Ciò per il fatto che il sangue che cola nelle mie vene è sangue di mužik… Quanto alla filosofia tolstojana, ne sono stato soggiogato per quasi 17 anni! Ma ora c’è qualcosa in me che protesta: la ragione e il senso di giustizia mi dicono che nell’elettricità e nel vapore vi è più amore del prossimo che nella castità e nel rifiuto di mangiare carne.”(in “La steppa. Cechov, Garzanti 1966, p.12).  Mentre Pasternàk venererà sempre Tolstoj fino a fare dello  Živago una sorta di personaggio tolstojano del/nel secolo XX°; Cechov ha invece il coraggio di staccarsene; ma Pasternàk verso al fine della sua vita rimpiangerà amaramente di non aver  letto Cechov in gioventù. Se Majakovskij ha la consapevolezza di cantare il ferro e il vapore senza limiti, Cechov ha l’intuizione o il presagio che nella tecnica risiede il futuro e la modernità. Certo il treno a vapore viene pure cantato da Pasternàk, ma con aneliti romantici.||||||||||| Ma già prima di Cechov il poeta ceco-moravo Otokar Březina (1868-1929) si allontana gradualmente sia da Tolstoj che da Dostoevskij, affermando: “Come mi rimangono estranei alcuni tratti dei sogni di Tolstoj su un cristianesimo naturale e l’espressione metafisica della vita di Dostoevskij”(nota1, p.159\Tesi) Březinanel novembre del 1891  è alle prese di nuovo con Tolstoj di cui scrive:“ non è un artista. La musica, la pittura, la scultura. La lirica, tutto questo per Tolstoj non esiste. Tolstoj è un filosofo che riveste i suoi trattati con un velo di romanzo, solo perché è un grande filosofo. Leggere Tolstoj non basta all’uomo moderno, non basta del tutto all’artista. (p.104, Tesi). E ancora: “Come Dostoevskij, così Tolstoj penetrarono nel profondo dell’animo umano, illuminarono molti angoli oscuri, ma forse per questo si persero nelle tenebre, le quali col lampo del loro spirito le illuminavano, persero di vista il totale e l’utilità di tutte le cose naturali. La vita non è così come la dipingono”.(p. 264, Tesi)- in: Dopisy  Ot.Březiny-Fr.Bauerovi, vydal Mil.Hýsek. Praha 1929, p 199, Svazek II – dalla Tesi di laurea di A. S.- Otokar Březina\Profilo critico,1975,relatore A. M. Ripellino”.

  Dire apologia assoluta”, come Tu scrivi,   è però un azzardo che non condivido. Dunque: il verso di  Majakovskij “bisogna strappare la gioia  ai giorni futuri!” è un autoinganno; il poeta era cosciente che s’ingannava, nonostante tutto scrisse questo verso come tante centinaia che hanno per tema la gioia, la felicità, mentre la resurrezione fu la sua mistica ossessione!, ecc. … quello della gioia è una utopia che gli proviene direttamente da Dostoevskij dal Il sogno dell’uomo ridicolo, che Ripellino nel corso monografico sul poeta del 1971-72 analizza raffrontandolo con la Cimice di Majakovskij.  Tieni presente che ho curato i tre Corsi dello slavista su Majakovskij, Pasternàk e Mandel’štam.

Dal Corso del 1972-73 su Pasternàk riporto una mia nota (n. 154, p. 45) :

«Così la felicità in Majakovskij: “Il futuro di Majakovskij  vuole essere un futuro pulito, netto.  Si pensi che differenza con il futuro di Misterija buff, che è una sorta di paradiso di cuccagna; nella Cimice il paradiso deve essere un paradiso della pulizia, ma non della felicità. Mentre in Misterija buff  c’è il sogno della felicità data dalla rivoluzione, nella  Cimice  non c’è felicità, ma sterilità, sogno di un futuro asettico”, (in A.M. Ripellino: Corso monografico su Majakovskij 1971-72, p. 150).  

   Ma il verso che  contraddistingue la felicità di Majakovskij da quella di Pasternàk e di Mandel’štam è questo: Bisogna strappare la gioia ai giorni futuri: significa che per Majakovskij non vi era felicità presente (da qui la sua cosmica disperazione) e che se doveva esserci nel futuro, bisognava strapparla, e come imporla al presente. Così presente il futuro in lui che avrebbe voluto esser ibernato e risorgere nel futuro a godere di quella felicità che nel presente era assente! Poi anche questa illusione cadrà per lui. Non ci sarà motivo di credere ancora in qualcosa. Affermerà, secondo la testimonianza della Polonskaja (in Lilja e le altre, op. cit.) qualche giorno prima del suicidio, di non sapere più a cosa credere, esclamando per lo sconforto assoluto: Mio Dio!; come dire: ho fatto il possibile, non ho più forza…di continuare. Diversamente negli altri due poeti: per Mandel’štam la felicità risiedeva nel solo creare la poesia; in Pasternàk la felicità era nella sua cameretta, e nell’osservare da questa il mondo. E il rifiuto di una fede verso il futuro, al contrario di Majakovskij, è nell’affermazione di Pasternàk che: ”Viviamo per vivere, e non per prepararci a vivere”, che  è esattamente il contrario del majakovskiano:” Bisogna strappare la gioia ai giorni futuri”; dove ancora una volta è manifesta l’avversione, tardiva, di Pasternàk verso il futurismo, di cui usò e sfruttò le varie tecniche. Questi tra l’altro affermò che Majakovskij “fu guastato dal futuro”. (A. S.)

5. Colgo nella tua ricerca poetica (ma anche nei commenti che lasci su «L’Ombra delle Parole» a cui collabori) la lezione del tuo maestro A. M. Ripellino  e il fascino che ha su  di te l’ “epoca d’oro” del formalismo russo. È come se ti fossi allenato in un “altro” mondo poetico lontano da quello della tradizione italiana. Puoi chiarire meglio queste influenze (legate ai tuoi studi di slavistica)  e il tuo attrito con il mondo culturale italiano?

   Sia chiaro una volta per tutte: quando conobbi Ripellino e divenni suo allievo e poi confidente amicale, avevo quasi 24 anni, e dunque (spiegato tante volte!) possedevo già gli strumenti  per operare; già la passione  per i dialetti meridionali, specie quelli salentini, era stata avviata fin da quando avevo 13/14/15 anni…  [e mi raggiunsero i poeti spagnoli in primis –  le Puglie sotto il dominio aragonese – e lo slavista iniziò studiando dapprima gli ispanici -, complici Oreste Macri, Bodini, Tentori Montalto ]; e tra i poeti italiani mi coinvolgeva molto la poesia del Palazzeschi che preferivo alle lagne del  terzetto infame e scellerato: Ungaretti-Montale-Quasimodo; poi qualcosa del D’Annunzio mi piaceva, ma per non riderci sopra troppo poiché il poeta mi era simpaticamente “giocondo”; la Felicita di Gozzano, il gorgo di Campana e il buon  Bodini perché salentino… ma non mi bastò…. volsi lo sguardo verso altre latitudini… e gli studi di Ripellino ampliarono i miei orizzonti ancora di più.  Il suo verso cancella di botto il provincialismo della poesia italiana!

 (una curiosità: scoprii che la nota slavista Serena Vitale, allieva del Ripellino prima di me, condivideva con me lo stesso luogo natale).  

    La slavistica mi donò il formalismo russo al quale va il mio plauso unico più che agli altri “movimenti di critica” extraitaliani. Quando lessi le opere dei poeti russi e dei grandi poeti europei,  (futuristi e non) grandissima parte della poesia italiana mi fu straniera: più che palese per me la grande distanza!… e ancora è presente; è naturale che seguo la poesia nostrana, non certo la inseguo o la perseguo! – È ovvio che mi sono noti i tentativi – dopo la parentesi di quello scellerato ventennio  – di recuperare anche in poesia il tempo perduto: ma il danno era fatto! Ma sono certo che se quei 20 anni non ci fossero stati, non sarebbe cambiato di molto il panorama – certo ci sono le eccezioni: Campana, Tozzi, e poi il non facile Landolfi e poi la celeste Ortese e poi altri, come l’amato Emilio Villa!

   L’attrito col mondo della critica culturale italiana non è mai esistito! Ed è una fortuna poiché io conosco loro, e loro non sanno chi sia io! E quindi la responsabilità di questo stato della Poesia non è mia, ma di loro, quantunque nella introduzione della piccola antologia aragonese – di Zaragoza – mi ritengono il grande assente: bontà loro, e allora credo che fossero più informati di me!

  La spinta già diciasettenne a uscir fuori dal soffocamento della poesia italiana mi fu causata appunto dalla mancanza d’aria…. poi più in là con gli anni cominciai a respirare meglio coi versi di Spagna, (Machado, Lorca, Vicente Aleixandre, e Cernuda che accomuno al poeta ceco Halas); di Francia, Grecia, Gran Bretagna (p.e. con Dylan Thomas), Polonia, e infine Repubblica Cecoslovacca con la superba triade: Nezval, Holan, Halas. Ma furono i poeti russi in primis e i loro amici critici formalisti ad incantarmi: la più felice comunione tra poeti e critici si ebbe in Russia e forse in Spagna!

    La tradizione letteraria italiana del secolo scorso l’ho sempre tenuta presente! Ma la critica letteraria italiana è un abominio (esempio: quel che capitò a Campana!) quasi sempre; capace di criticare negativamente anche la stupenda prosa poetica dell’amatissima Ortese! Ma questa miseria perdura ancora oggi e la degenerazione della critica  accusa una patologia senza ritorno!

6. Fin dalla prima lettura di alcune tue poesie ho pensato che tu sia rimasto affascinato da una visione religiosa  di cui hai poi colto, deluso, i processi della sua corruzione. Non so se sulla tua formazione abbia influito o no la Chiesa cattolica, ma quell’immaginario e quelle problematiche anche teologiche (del diabolico e dell’angelico, del martirio, dell’eresia) mi paiono presenti. E poi la teatralità, certe immagini sempre forti, esasperate, sadiche. (E un certo taglio estetico elitario. Cito, ad es., un tuo verso:  «Ah, l’entrata nello spazio delle masse,/ è un massacro di scrittura e d’iscrizioni!»).

   Nella mia formazione non ha influito la Chiesa cattolica (poi bisogna specificare che cosa in particolare!), come i dettami di nessuna altra religione monoteista, o politeista. Sono stato lettore delle loro “dicerie”, e spettatore delle loro manifestazioni, che sono legate (re-ligo) a paure e timori primordiali. Esse nacquero col solo scopo di affascinare le folle e poi dominarle con le fedi-ragioni, leggi proprie, tabulati, regolamenti ecc. : giusto come fanno i dittatori! Non mi interessano se non come oggetto di studio, tanto meno come oggetto di fede! Della Chiesa cattolica – questa come religione mi è capitata tra le gambe! : poteva essere benissimo un’altra – di certo mi affascinavano i riti sfarzosi che meravigliano e dominano le folle. Io non l’ho respinta: sta lì e la osservo e la studio; ne traggo le mie considerazioni, e alla base di tutto ciò c’è sempre l’uomo religioso con tutte le sue miserie e i trionfi! Ma altra è la natura umana: il religioso imprigiona.

   La mia difesa degli eretici trova in me la causa, e cioè la limitazione della libertà di pensiero che non posso sopportare, perché mai mi sognerei di aggiogare a mio interesse e servigio altra persona, qualsiasi sia il suo pensiero. Quel che appare nei miei versi non sono che pensieri messi in versi, e il verso mi permette di stimolare il pensiero stesso, e tutto ciò accoglie nelle diverse arti del comunicare: dal teatrale che in me è preminente, poiché la recitazione la vidi già da bambino durante le messe, sotto e sopra gli altari! La presenza di Carmelo Bene in alcuni miei versi è giustificata dal fatto che, vivendo negli stessi luoghi salentini, soggetti e oggetti con tutto ciò che ci circondava: stesse esperienze, stesse visioni ecc. …come se non fosse presente affatto tanto era scontata l’assenza e infine è stata una mancanza! Poi il piacere conclamato di manipolare i vari linguaggi da cui scaturiscono gesti, azioni, trame utili e inutili, e dunque nei versi mi giocano le arti, comprese quelle minori, e ovviamente tutti gli autori e artisti e filosofi ecc. che mi sono congeniali.

    Il verso ultimo che tu citi non è affatto elitario («Ah, l’entrata nello spazio delle masse,/ è un massacro di scrittura e d’iscrizioni!»), devi tenere presente il contesto che lo circonda, e non vi è nulla che fa pensare al classismo e al razzismo (esistono scientificamente le razze non il razzismo!) o diavolerie altre. I miei versi sono nati nella massima e totale libertà e verità interiori, una sorta di creazione arbitraria senza zavorre culturali come p.e. correnti di pensiero varie che m’hanno inciso; la mia esperienza esistenziale e mentale le teneva presenti ma con distacco, alla lontana: possedevo e possiedo tutt’ora un filtro severissimo. Non ho ceduto ad alcuna moda nefasta. (È  chiaro solo per me che le mie preferenze vanno a quegli autori e artisti di solito singolari e marginali).

   Per me Kultur èovunque io possa attingere e poi scriverne. Non sopporto insomma quel verso che non ha una epica, una etica, e, se vuoi, anche una morale, che non ha il Canto soprattutto interiore, che non ha quella parola e il suono che t’incantano, che è testimonianza di mondi noti e ignoti: la visione!, e poi le armonie e le disarmonie che si scontrano, si incontrano, unite e legate da sinfonie che vanno via e poi ritornano, e infine leggi che dominano e sono al loro volta dominate dall’artista o dal poeta: come una sorta di vitalismo ovunque c’è  da creare o sottrarre qualcosa per la conoscenza, per ampliare , per spalancare portali!

7. Di fronte alla complessità a volte anche funerea della tua poesia ho notato una sorta di timore reverenziale e di sconcerto  nei commenti dei lettori di Poliscritture. Scelgo la sintomatica reazione di uno di loro, l’artista Tosi Mayoor (10 giugno 2014 alle 9:32) che scrisse :«Più sbigottito che coinvolto. La visione alta di Sagredo a me pare non sia altro che la continua e ossessiva manifestazione del suo sdegno. Sagredo scrive come fosse il quinto evangelista, dà del tu a dio ma in definitiva guarda più al cielo che alla Terra. La volontà di stupire a me sembra troppo manifesta, il monito è continuo e severo ma la voce roboante non sa spiegare».  Vorrei che approfondissi queste  impressioni (respingendole o correggendole se è il caso).

   I miei versi non sono funerei, altrimenti mi metteresti allo stesso livello dei pessimi poeti Raboni e Rondoni e similari, compresi i non italiani… i versi di costoro sono più che funerei: sono funesti! sono mortaaali!!! Mi dispiace che i lettori di Poliscritture abbiano timore reverenziale e sconcerto, ma credo che loro abbiano più ragione di me, nel senso che sono più razionali di me, che già razionale lo sono fin troppo! Il buon grafico Tosi Mayoor (illustratore di un mio poemetto dedicato alla figura di G. C. Vanini) resta sbigottito come il pioppo di Pasternàk, e questo sì che mi fa piacere! (“Io vengo dalla via dove il pioppo è sbigottito”).Mayoor è sensibile, per questo talvolta ho stimato i suoi interventi critici.  Vero è che ho una visione alta quanto più profondo è lo sdegno che mi anima, ma non sono un ossessivo e non ossessiono alcuna creatura (umana, disumana, inumana, ecc.); e se mai talvolta sono ossessionato, lo sono mio malgrado. Guardo la Terra dall’alto o da altrove – preferibilmente da Saturno – perché me ne sono lontanato con piacere fisico da questa contrada lercia.

Penso ad alcuni versi come:

Portavo la mia immagine per la città come un retrattile vessillo.
Il tripudio dei miei passi scavava un sentiero di note austere,
non avevo con me  una reliquia da barattare con la santità
e nemmeno una nicchia mi era data per un conforto da accattone.
Gli svolazzi della mia mente erano capricci di  stiletti spuntati a malincuore,
da una accidia di laguna vedevo un puntino azzurro come tanti da Saturno
– era la terra che miravo! – e non sapevo il suo millennio quel giorno estivo
di lei che mi sorrise con Cassini. Quale gioia la conoscenza  che compresi
dai miei occhi,  e come Dio fosse a sua volta una creazione della Rota,
l’emorragia di una clessidra ai tempi della mia innocente trasparenza.
Le contrade come una sinfonia d’infanzia in quel sarcofago: tabernacolo pinto
da epitaffi e necrologi per fissare in una partitura gli anelli – della  Storia!

(2014)

   La volontà di stupire a me sembra troppo manifesta, ed è una mia illusione e anche la vostra: se mai io stesso mi stupisco del mio stupore!  Verso i miei versi s’intende, e non certo verso il mondo che si avvia e si avvita a un degrado della meraviglia: preferisco fare versi  come fossero prove mostruose, che fossero loro soltanto ad essere mostruosi, e non gli uomini e il genere umano: anche là dove c’è santità c’è più mostruosità!

La mostruosità dei Santi e il martirio libertino/libertario degli eretici: chi è più mostruoso?!

   Sì, il monito è continuo e severo, è vero! –  ma è una falsità dire che la voce roboante non sa spiegare. Non è roboante, è altamente sonora! Mi fa pensare questo a un verso del poeta ceco-moravo Otokar Březina: “Afose sono le notti, ma le stelle come suonano!”

   Mi spiego fin troppo bene: la parola teatrale è chiara e sonora! Mi avete costretto voi che avete orecchia sorde e sordide! Il fatto è che non avete la consapevolezza di una qualsiasi Kultur alta e misera che sia e da cui il duende prende forma e domina il poeta.

E tutto è un palco e una colpa che vanno in scena!
Stupire, roboante ecc. : accuse indegne!

Vorrei che approfondissi queste  impressioni (respingendole o correggendole se è il caso):

Non c’è alcuna volontà di respingimento e di correzione! Se mai una nolontà! Dovreste leggere meglio e con umiltà, Schopenhauer!

 (Campomarino, 22 giugno ’15)

8. Tenendo debitamente in gran conto sia la figura a te cara dell’eretico Giulio Cesare Vanini sia quelli dei grandi poeti (Mandel’štam, Majakovskij, Pasternak, Esenin, Cvetaeva, ecc.) “bruciati” nella Rivoluzione russa, vorrei che ti soffermassi  sul rapporto tra poesia e potere politico; e magari anche su quello ben più aggrovigliato tra potere religioso e potere politico-militare. Mi è parso di capire che tu colga bene quanto la figura del Poeta si aggiri nei dintorni del Potere (religioso e politico) e quanto egli stesso – il Poeta – ambisca a un suo potere, al potere della Parola (come tu dici) in concorrenza con le  ambizioni dei potenti di turno. (Ho seguito tutta la recente discussione su «L’ombra delle parole» a proposito della telefonata tra Stalin e Pasternak e puoi riferirti anche ad essa).

  Quei poeti furono bruciati nella e dalla Rivoluzione, perché perfino la Rivoluzione non accettava la diversità del Poeta! Blok fu il primo ad accorgersene: dove è la Rivoluzione? E soltanto molto più tardi Majakovskij gli dette ragione! – Non soltanto questi autori, ve ne sono altri, a ufo!

      Poesia e potere politico? È una lotta senza quartiere! Una guerra sanguinolenta! Vi è uno scorrimento di sangue continuo, che mai s’arresterà! Gli altri due poteri concorrono a che il sangue aumenti sempre più, fino ad uno sfinimento che non conosce fine! È chiaro che la parola  è l’oggetto del contendere, lo è stato fino ad oggi. Adesso i poteri tutti sono consapevoli che la parola non è più sufficiente, la parola ha finito d’essere l’oggetto di tutti i poteri: c’è in gioco la sopravvivenza della parola stessa, della parola poetica attaccata dalla parola del dittatore! Ora diviene soggetto e il potere è l’oggetto! Ma è un trarre in inganno il Tempo del contendere e lo Spazio entro cui vi è questa contesa senza fine: è un circolo vizioso in cui tutti si crogiolano! Quella telefonata (di Stalin a Pasternàk) non fu che un dettaglio nella evoluzione esistenziale dei due soggetti! Che tra l’altro si attraevano e si respingevano; forse fu la voce di sciamano che possedeva il Poeta a salvargli la vita, poiché il dittatore da ragazzo, nel suo miserevole georgiano villaggio natale, era affascinato dagli sciamani. In Russia, oggi putiniana (e domani?), si preferisce uccidere i giornalisti, poi che informano; i poeti, ancora  non del tutto, poi che formano! Ma è un rimando temporaneo! Ma i poeti suicidi o suicidati non mancano! E dall’inizio di questo secolo!

          Come sparviero la croce mi artiglia e una giostra
            di suoni mi governa. Ascolto gemiti e massacri,
            evangeli e cantici interdetti, surrogati di spine,
            e oltre gli argini, le misure e i limiti
            ti berrò a visioni, a fuochi, a ori,
            e nella tua mano sarò il volo,
            io, nella tua maschera… ròsa!

1989

Quale eredità noi lasciamo per i  loro occhi?
Sarà l’età dell’oro delle carneficine –  senza nome!
Sommario di stermini, di massacri – senza requie!
Scandaglio delle ossa – carne!

1999

Dalle soglie ai portali l’anima eretica ci spia
col suo sguardo di corsaro…  guercia sarà la preda!
Questo secolo non sarà migliore del trascorso:
i massacri saranno il nostro pane quotidiano.
Le Madri senza fede né speranza  spolperanno
i figli prima d’una condanna o una guerra.
Il boia cercherà invano gli occhi di un poeta disossato
o lo sguardo impietoso d’una carcassa che t’accusa.
Non esiste un Nulla che mi conforti, il resto è Delirio!

2003

9. Parlando di Lecce (qui) hai scritto: «il poeta annusa i vari fiori, i limoni, i garofani, i gigli che celano i ricami e le trame pietrose, le edere poi gareggiano con le trine e le contorsioni tufacee… le statuine di madonne e santi fissate nelle nicchie ti tallonano e ti inseguono e se entri in una chiesa sei assaltato da scenari truculenti: dipinti dove cristi insanguinati ti rimproverano chi sa quali colpe, statue di martiri che ti additano minacciose». Vorrei che ritornassi su quel tuo giovanile rapporto con la città (direi di più: col femminile della città, che è poi, forse, anche rapporto simbolico con la Donna). Che a me pare, sì, di una grande sensualità, ma marchiato da un meridionalismo cattolico («di acqua santa, di oratori, di pulpiti, di desideri inconfessabili nei confessionali») e velato dalla consapevolezza di una tragedia non riassorbibile (il riferimento ancora a Vanini…).

                                Ho spremuto la Morte come un limone di primavera

    Ma che dirti? Di cattolico – ripeto – non c’è quasi traccia nei miei versi, dire anzi il contrario: mi è indifferente la natura cristiana e cattolica! La degenerazione culturale del cristianesimo è evidente quando si affaccia il reazionario cattolicesimo: è un inquinamento irreversibile, a cui  tra l’altro sono indifferente… Parlare di cattolicesimo è troppo terrestre: in questo non c’è un fervore mistico-metafisico che ti fa volare!

Giuseppe Desa di Copertino non era di certo cattolico, se mai il contrario: un cristiano!

Per eccesso di carità lui volava così in alto che gli uccelli
chiesero aiuto a quell’idiota, perché una colta istanza al Principe
dei Martiri almeno un terrore generasse in quel cuore semplice
e mai turbato… ma era caro a tutti gli umili perché le sue mani
erano sporche di sterco di maiale: una fatica devastante
diffondere il verbo alle bestie di cortile! Il teologo è spaventato:
conosce la propria colpa, non la carnalità che combatte bellamente.
Fu un’estasi unica l’ultimo volo di Desa: ne fu gelosa – Santa Teresa!

2007

    Certo le atmosfere le ho vissute di prima mano: i riti, il latino che rendeva tutto più misterioso (quasi un linguaggio da sciamano), i paramenti, lo sfarzo eccessivo, ecc. – queste atmosfere e altro sono state dette e descritte stupendamente da Huysmans.

   La città di Lecce, gesuitica e verdastra maliarda, era per me la perfetta scenografia in cui i misfatti si mutavano in miracoli, e viceversa! Quelle scene di Nostra Signora dei Turchi del Bene quando nel 1969 le am-mirai per la prima volta, al cinema d’essai il Farnese a Campo dè’ Fiori in Roma, non mi colsero di sorpresa affatto, se mai mi inchinai davanti alla regia del salentino. Tutto ciò che lì è espresso, tutto ho vissuto e ho immaginato, specie quella scena nella cripta della Cattedrale di Otranto.

Avevo 8 anni, quando, ero in gita scolastica credo, mi capitò di scendere nella cripta, e cominciai a immaginare….

Mi perseguita il Male di un Dio già svanito,
il pianto equino di un bambino nella cripta.
I piccoli morti consultano il mio sguardo di colomba.
Ho conosciuta la donna dai grappoli nuziali.

1999

Fu l’abbecedario di una malattia moresca
a tradurre la lucciola libertina in notte eretica,
i nerastri cantici dei tuoi occhi in raccapricci di cera,
il pianto equino di una bambino nella cripta.
Smoccola il cielo, ossa!

2002

   Ma nel 1963 fu merito dell’amico bibliofilo leccese, Gianfranco Scrimieri (da pochi giorni deceduto) che seppi dell’esistenza del Bene e di G. C. Vanini; invece gli studi slavistici magistrali di A. M. Ripellino me li scoprii da solo: erano aluni su una bancarella di libri. Da queste tre finestre straordinarie cominciò la mia dis-avventura, che ho cantato in decine di versi… un esempio:

Dal dominio del corpo che mi sanguina ai banchetti
ritornai, non invitato, per giudicare i festini venosi 
degli astri – e dei libri, in codici proscritti e miniati,
gli occhi che mi segnavano di assillanti geometrie.
Come in un esilio, nelle veglie dei porti e dei moli,
giocavo con gli umidi trastulli  di vecchi bastimenti.
Come un ladro di lancette e meridiane, falsario
rovente, spegnevo i fuochi di  Sant’Elmo.
E non basta all’anima il balsamo dei vermi,
il conforto d’una geografia dei cortili:
l’infanzia che ti ho dato è un’alta malattia,
non l’ultima, se il furore fu il mio principio
di…
come sciogliere il nodo d’una vita!

(17/26 febbraio 2004)


Note


[1] Nato nell’antica Rudiae, i cui resti archeologici furono individuati (?) nel comune di Lecce.

[2] «Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecini pascua rura duces», « Mi ha generato Mantova, il Salento mi rapì la vita, ora Napoli mi conserva; cantai pascoli, campagne, comandanti» (Epitaffio)

[3] Nietzsche.

[4] Tommaso Riccardo (1946 -1990) è nato a Roma e in questa città è morto di un male incurabile. Si è occupato con passione di poesia, teatro e cinema. Fu promotore e organizzatore del  primo Festival della poesia (1974). In quell’occasione presentò il manifesto del gruppo poetico “I Meteoriti” che si riuniva presso la Libreria Dino Campana di Piazza Dante a Roma. Nel 1980 produsse e girò un cortometraggio girandolo ad Aries in Francia e in parte in Marocco dal titolo La città di soffio al cuore (o Come un battere d’ali). Opera, invece, è l’unica raccolta poetica pubblicata soltanto nel 2001 ( Edizioni L’Albertine, Roma) con un’introduzione di Nicola Pelliciari.  Non ha eguali la sua scrittura visionaria, specie del “Gran burattinaio della città felice”.

[5] Il 2014 non è poi stato l’ultimo anno.  Il poemetto “Elegia viola per Annita” è del 2021.

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