L’eredità

di Angelo Australi

 Non ci fu preparazione per quel viaggio, perché il nonno mi aveva preso in contropiede mentre sfogliavo un fumetto di Mandrake. Quel giorno non avevo voglia di studiare, ero indeciso su tutto, la noia superava ogni limite dell’immaginazione. Spesso mi affacciavo alla finestra con lo stimolo di uscire, sperando di scorgere qualche amico che stava giocando nello sterrato davanti al nostro gruppo di case, ma alla fine ogni spinta a inventarsi una trovata per trascorrere il pomeriggio restava qualcosa di refrattario e sfogliavo i fumetti così, per forza d’inerzia.

Di giri speciali per la campagna intorno al paese lui ne faceva almeno uno prima dell’estate e l’altro più o meno quando c’era la raccolta delle olive. Di questa stagione andava per tagliare i capelli, perché i contadini stavano tutto il giorno nei campi, e faceva caldo, e i capelli lunghi disturbavano il lavoro. Nel giro autunnale invece raccapezzava qualche giaccone o cappotto da rammendare prima che li raggiunga il gelo.

In occasione di questi suoi giri lunghi lo vedevo partire con invidia, perché da quando non aveva più bottega di sarto e di barbiere i vecchi clienti che venivano a cercarlo in casa mi sembravano sempre tanta gente che teneva dentro un mucchio di cose. Se anche venivano per un taglio non si trattenevano meno di un’ora a parlare, poi salutavano lasciando sul tavolo delle uova, una bottiglia d’olio, dei fiaschi di vino. Per il nonno, lo si vedeva chiaramente, questo era sempre stato un divertimento, ma anche per gli altri, perché così scambiavano due vedute con uno che nonostante l’età portavano sul palmo della mano.

Qualche volta mi aveva portato con sé, ma purtroppo solo quando si trattava di recarsi al convento dei francescani, dove per contratto metteva in riga frati e seminaristi per tosarli con un taglio alla militare. Il convento si trovava appena fuori porta, situato in un leggero rialzo del terreno, con la chiesa circondata da una sorta di muraglia così alta che dall’esterno appena si riusciva a scorgere la punta del campanile. In queste nostre uscite lui tentava sempre di convincermi sul volto del Cristo in croce che era raffigurato in un quadro della chiesa, e soprattutto mi forzava la mano sulla fede quando al convento incontrava un certo frate che suonava l’organo. Mentre il frate si esibiva tutto molleggiato sullo sgabello, lui cantava quelle arie di opere famose con la classe di un tenore. Allora il resto del pomeriggio loro pensavano a Dio attraverso la musica. Ridevano, cantavano, mentre a me invece veniva la bazza.

– Sì, sì – diceva il nonno; e l’altr’aria come fa?

– Più o meno così – diceva il frate, intanto che svolazzava con le mani sulla tastiera dell’organo.

– Esatto, sì – gli urlava il nonno, che così sembrava andare sempre in brodo di giuggiole.

Una volta tanto invece mi stava proponendo di accompagnarlo nel giro più lungo, quello che formava una sorta di anello su tutto il circondario e si rientrava in paese dalla parte opposta a quella di partenza. Si trattava di un giro che si protraeva fino al tramontar del sole. Mi ero sforzato tante volte di immaginare il suo viaggio di lavoro, in tutte le maniere possibili. Conoscevo il nome di alcuni dei posti dove lui diceva di andare, ma non sapevo come orientarmi nel provare a raggiungerli per conto mio. Il podere della famiglia Caccialupi, quello dei Perna, il borgo di San Martino, quello di Montauto e di Frisichella restavano avvolti nel mistero, e con quel forte pensiero di poterli visitare pensavo sempre a grandi cose lontane come l’America o la luna. Addirittura che la morte venisse di là, quando arrivava il momento di prendere degli esseri umani dalle nostre parti.

Il nonno disse di avvertire mia madre, di sbrigarmi e di raggiungerlo in camera, dove stava affilando dei rasoi.

– Mamma, vado con il nonno. A farmi quel suo giro dei contadini.

– Ma non devi studiare oggi?

– Poca cosa – le dissi.

– Siamo sulla fine e tu dici poca cosa.

– Appunto per questo – le dissi.

– Non mi fido – disse lei. – Dimmi un po’ questa poca cosa?

– Niente di speciale, un problema che sono sicuro mi sbrigo in cinque minuti.

 – Eppoi?

– Niente, appena due pagine sul libro di geografia.

– Due pagine da studiare, intanto. Eppoi?

– Niente – dissi ridendo per distrarla, – un po’ di storia delle repubbliche marinare. Ma qui non ho problemi e posso anche saltare.

– Hai detto niente! – borbottò mia madre.

– Faro tutto stasera, te lo giuro sulla mia collezione di fumetti.

– Poi vediamo se incocci tuo padre… Quando ti metti a fare i compiti dopo cena non voglio più sentirmi rinfacciare che ti do troppa corda, che cresci viziato.

– Ma sto andando con il nonno, in uno di quei suoi giri dove non mi ha mai portato.

– Non fare il furbo, Spartaco, puoi sempre migliorare i tuoi voti con una buona interrogazione.

– Nessuno fa il furbo, mamma – le dissi, – oramai so che sono promosso.

– Il mio bambino veggente! – disse lei ridendo. – Nella vita quello che è da fare va fatto, ricordalo sempre.

– Va bene, ma sono in tempo anche stasera.

– Fai come vuoi – disse lei, – io non ti dico più niente.

Fuori era bello e dovunque guardassi incrociavo il sole che mi trafiggeva la vista. Per un momento, forse rincoglionito da quella luce così forte, mi venne di pensare ad una conversazione avuta il mattino con alcuni amici, durante la pausa della ricreazione scolastica. Aveva iniziato una bambina di cui non ricordo il nome a dire che sua nonna in punto di morte gli avrebbe regalato tutti i suoi gioielli, da indossare quando sarebbe diventata donna. Non ricordo il nome perché quella bambina mi restava antipatica per il fatto che si dava un sacco di arie, noi siamo ricchi, mi diceva, mentre invece i tuoi genitori non hanno manco i soldi per comprare l’automobile. Se reagivo l’avrei senz’altro presa a pugni nello stomaco perché era una bugiarda, visto che in casa mia non si saltava mai un pasto. Compravamo a credito agli alimentari, ma però un pasto non si era mai saltato. Poi alla sua antipatia si era aggiunta quella di Enrico, che orgogliosamente le aveva rilanciato la promessa del nonno di lasciargli una casa dove avrebbe potuto metter su famiglia. Prima del suono della campanella a indicare che finiva la ricreazione altri del gruppo si erano sbilanciati nel parlare dell’eredità che gli avevano promesso i nonni, a chi una bicicletta, a chi dei soldi in banca, a chi il cane con il quale il nonno ci andava a caccia nel fine settimana. E sinceramente, tornando in classe, avevo pensato di essere un minorato, perché in casa nostra non si parlava mai di cosa mi avrebbe lasciato in eredità il nonno.

Con questi pensieri in testa ero rimasto un paio di passi indietro. Il nonno mi stava di spalle, in controluce, con l’ombra che si allungava in obliquo alla sua destra, sfiorando la brillantezza delle foglioline giovani di ortica che crescevano a ridosso della scarpata.

Mi feci coraggio e gli chiesi: – Nonno, quando muori che cosa mi lasci in eredità?

– Che ti lascio in eredità? – la domanda mi rimbalzò indietro, ma senza che lui si voltasse. – … La strada per venire, ti lascio in eredità.

Allora gli andai più vicino e lo guardai in faccia mentre se la rideva di gusto.

Mio nonno quel giorno era vestito in modo leggero e portava il suo grigio cappello come un marchio di garanzia. Con il bastone batteva i ciottoli che incontrava per strada, cantava arie di opere famose e si dava l’andatura.

 

 

NOTA
Anche se il racconto è frutto di pura invenzione, la foto inserita invece mi riguarda. Sono, credo, all’età della seconda forse terza elementare (1962/1963), scattata da qualche parente sul ponte dell’Arno. Dopo una passeggiata domenicale immagino, visto che sono vestito di bianco. Fa effetto vedere lo scorcio di quel paesaggio fatto di campi, dove oggi trovi un intreccio di strade, di linee ferroviarie, di palazzi e di capannoni.

4 pensieri su “L’eredità

  1. in questo racconto, con la sua sensibilità “archeologica”, Angelo Australi resuscita, nelle sue sfecettature piu’ simpatiche, l’ ambiente periferico e campagnolo del secondo dopoguerra, dove vive Spartaco bambino intorno al mito del nonno. Un nonno che introduce il nipote nel suo mondo semplice e operoso di sarto e barbiere, molto socievole e stimato, con una passione per le arie delle opere liriche piu’ famose…Alla domanda fatidica del nipote: “Nonno,quando muori che cosa mi lasci in eredità?” si sente rispondere: “…La strada per venire, ti lascio in eredità”…mentre se la rideva di gusto” Una risposta enigmatica ma anche maliziosa, in fondo il nonno vuole lasciare a Spartaco “solo” un esempio di positività nei confronti della vita, una strada possibile da percorrere per incontrare l’ amore…La figura della madre resta secondaria, il femminismo non aveva ancora fatto irruzione, ma poi la figura femminile viene esaltata attraverso il canto e la musica delle storie tragiche o allegre presenti nelle opere liriche, che il nonno (e il frate “molleggiato”) ben conosce come molti della sua generazione, una letteratura popolare uscita dai teatri…Anche la lingua parlata, e il suo sentire, in questo racconto si sa rapporta ai tempi passati…in fondo pochi decenni, ma ci sembrano trascorsi dei secoli

  2. “La strada per venire”: forse la più bella eredità da lasciare al nipote. E Spartaco su quella strada si è messo e si è fatto portare lontano. La scena finale, con la sentenza e il sorriso del nonno, mentre sotto i piedi la strada se ne va, forse vale una biblioteca di letteratura.

    1. Grazie Daniele,
      … spesso e volentieri per inventarsi un mondo si ruba dalla vita. Vita dove trovi un mucchio di frasi o parole in volo. Le può dire chiunque, sono lì perché qualcuno le ascolti.

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