Prove di narratorio 1982

 

Tabea Nineo, Maschera del sospetto, disegno anni ’80

Riordinadiario  gennaio-febbraio 1982

di Ennio Abate

Gennaio 1982

Di fronte agli adolescenti

Quelli i temuti giudici delle sue azioni e parole. (O osservatori occasionali?). Della loro attenzione nei suoi confronti, del resto, era lecito sospettare. Come fantasmi, però, c’erano. Per lui. Nessun dubbio.  E non rinunciava a interrogarsi e a interrogarli.  Lo gidicavano troppo protettivo? Piccoli episodi quotidiani parevano una conferma. Non aveva coi figli abbuonato spesso e a loro vantaggio i turni pattuiti per le piccole faccende domestiche? Aveva persino accompagnato in auto la figlia E. fino alla lontana discoteca, malgrado non ne avesse voglia. E si era dato da fare per le difficoltà scolastiche di D., coetanea di E., correggendole i compiti di latino e facendola ragionare al momento in cui lei voleva abbandonare la scuola . Quei piccoli fatti confermavano una sua disponibilità riottosa e burbera a ritrovarsi alleato dei giovani. Pur provando altre volte un vago sentimento – di “debolezza” lo definiva –  di contrapporsi  a loro.

Legami

Parevano abbastanza continui ora. Duravano, infatti, da anni. Con D., con G., con A. s’erano raggrumati. In fatti, letture, luoghi, parole, sentimenti in comune. Eppure ora si diceva: E’ un’illusione. Forse una convenzione narrativa della memoria. Che  ha cancellato gli interstizi – quanto angosciosi e quanto incomprensibili – e ha compattato il tutto. Alla buona o con forzature. O  è un delirio disperato della mia volontà.
Pensò agli ultimi mesi.  Come aveva potuto credere di essere rientrato in un gruppo di compagni? Di aver ricominciato a ricostruire un collettivo (sia pur minimo) di insegnanti? Di poter progettare con loro una ricerca sul “carcerario”, come – insistenza dal carcere – gli chiedeva di fare PDG?
Le intese si erano rivelate apparenti. Non avevano avuto seguito. Ogni intenzione scoloriva di fronte alla successione incessante e sconcertante degli avvenimenti. I minimi o i massimi: il tentativo di suicidio del pensionato C. che abitava nel loro condominio; i fatti lontanissimi di Polonia. E lo sfilacciarsi dei legami non era una diretta conseguenza di questi eventi nominabili. Si stavano spostando correnti sociali sotterranee e ignote. Gli eventi ne erano solo la spia. Un avvertimento. Sedimentazioni profonde e oscure scrollavano (insieme?) la superficie delle dichiarazioni e intenzioni che ancora si  passavano tra loro. Ma senza chiarezza. Come fuori tempo.  Soltanto per il bisogno di fissarle ancora in impegni e in vincoli. Della cui solidità già si disperava nel mentre affioravano alla mente.
Non se la sentiva più di proseguire la ricerca sull’immaginario sociale su cui batteva e ribatteva A. entusiasta. Né quella corrispondenza così travagliata e assordante (sì, assordante) con PDG incarcerato. Né di continuare la sottile schermaglia intellettuale (ed erotica?) con M.L. e alcune colleghe.
Quei legami resistevano. Per inerzia, obbligati. Materialità dei vincoli (matrimoniali, paterni, educativi, amicali).  Ma, appena s’illudeva di poter rialzare la testa o di poter riaffermare una volontà più alta (che ancora credeva di poter chiamare politica, erotica, solidale), i legami deperivano, procedevano a singhiozzo, s’ingolfavano. E doveva riconoscere che erano  – da chissà quando –  esauriti.

Distacchi

Qualcosa di equivoco nei suoi rapporti con la gente c’era. Se diventavano talmente disturbanti che poi gli era indispensabile interromperli. E in altri rapporti, invece, non c’era nessun equivoco? L’equivoco c’era sempre. In tutti i rapporti. Lui ci metteva delle speranze senza neppure manifestarle a se stesso. Poi – deluso – le ritirava. Ma le trasportava altrove, in altri rapporti. Le speranze le metteva troppo timidamente. E risultavano incomprensibili agli altri? Che non le afferravano e non potevano perciò sostenerle o alimentarle? Erano speranze sbagliate? Invocazioni  che nessuno poteva accogliere? Le riponeva in persone o compagnie scelte male, a caso?

L’equivoco doveva sopportarlo.  Contentarsi di quei contatti ora  da subito più parziali e sfumati. Oppure distanziarsi, annuvolarsi, appartarsi. Quel  malore profondo e oscuro doveva tirarselo più addosso ancora.  Come un mantello nero, come una coperta. E in esso avvolgersi e scomparire. Oppure  sforzarsi di capirlo, di dirlo in parole. Per trasformarsi e trovare, sotto il morso dell’incertezza e della solitudine,  qualcosa di nuovo e  vivo. Magari  in quelle stesse persone.

4 gennaio 1982

L’autorimessa

Entrarono nel bar. Lui, in tuta da meccanico, ordinò due caffè. La donna – bionda e ormai invecchiata – lo seguiva in silenzio e si mise a parlare in disparte con la barista. Lui anche prese a parlare ma con alcuni clienti seduti ai tavolini. Aveva una voce dura, una parlata lenta e una forte inflessione dialettale.  I clienti lo ascoltavano. Si mostravano attenti. Ma, appena uscì dal bar,  sorrisero tra loro sornioni. Sapevano altro. Lui era uno arrivato e ci teneva a farlo capire. Arrogante e pronto a menar le mani. Di lei si diceva che fosse una ex battona.  In un angolo del corso, quasi nascosta, avevano messo su in poco tempo una palazzina che sembrava una fortezza. Sopra gli appartamenti per la famiglia. Sotto l’officina, l’autorimessa e il forno per le verniciature.  Per alcuni mesi il figlio sui trent’anni aveva tenuto nell’autorimessa un puledro. E ogni tanto lo portava in giro nei dintorni, sui marciapiedi e lo stradone lì accanto. Si seppe poi – dai giornali –  che l’animale era stato rubato.  Spesso nell’autorimessa veniva una pattuglia di carabinieri. Per riparazioni o altro Ad ogni visita lui li trattava con ossequiosa familiarità.  Era stato in galera per traffico di auto rubate. Il figlio per spaccio di droga.

febbraio 1982

L. M.

Svagata. Dolce con gli studenti. Vuole chiedere però il trasferimento. Tornare a un biennio sperimentale 150 ore. Non si trova bene qui. Vede gli studenti fluttuare nel vago. Fuori dal reale. Molto solidale con le altre donne-insegnanti.

G.M.

Silenziosa. Voce fievole. Intimidita. Non reagisce alle aggressioni verbali. Del vicepreside, che faceva allusione ai suoi frequenti ritardi al mattino. O della bidella del piano, che l’ha rimproverata pubblicamente e ad alta voce di non saper mantenere la disciplina con gli studenti. E anche dai genitori durante il consiglio di classe .

M.T. C.
Anche lei svagata. Voce da bambina, piagnucolosa  e ansiosa. Si informa o  ti chiede ma si sente che non ha un vero bisogno che tu le risponda. È come se aspettasse, invece, una scossa da altrove. Qualcosa la opprime. S’è  iscritta a medicina. Dopo un periodo in cui ha cercato una sua  emancipazione e che le ha procurato delusioni, è rientrata in famiglia. Sa che la sua presenza in casa non è indispensabile, ma è lei che  non riesce a staccarsene. Un padre anziano demente. (“Incontinente”, dice). È assistito dalla moglie.

G.
Lo paragonava all’albatros della poesia di Baudelaire]. Bontà o delirio suo. Gli diceva che questo animale vola lontano dal proprio nido dirottando così i gabbiani, suoi avversari, lontano da quello.

Bisogno di riappacificazione

In quel ritorno aveva saggiato ancora  di nascosto quel suo bisogno di riappacificazione. Perciò la voce gli si era alterata. Leggermente.  Si  mosse imbambolato per i corridoi con la speranza-timore di incontrare fra volti sconosciuti e di contorno, almeno qualcuno di quelli con cui un rapporto di sguardi, di parole, di memorie in comune (e di odio) si era pur stabilito. Tutto troncato.  I suoi ritorni erano gratuiti, pretestuosi, ricorrenti. Ironizzando, si diceva che aveva nostalgia e che  tornava a rivisitare un feudo suo, a cui aveva da tempo rinunciato. In fondo, la visita si risolveva in quattro chiacchiere fra il cordiale e l’ironico con ex studenti, amici o amiche. Però, era diventato più scaltro in questa operazione. Limitava sia il numero  delle informazioni su di sé che le domande sull’andamento dei vari segmenti sociali quotidianamente cozzanti in quell’edificio. E sfuggiva i giudizi secchi sul periodo passato insieme. Era depositato come un fondo torbido in quei colloqui. E poteva riaffiorare. Andò nell’aula dove stava facendo lezione G.  Lo accolse con uno scherzoso “Vade retro!”.  Risero. Uscirono nel corridoio e fumarono in compagnia una sigaretta.  Si promisero di telefonarsi.  Dopo un momento di titubanza reciproco, si decise a parlargli brevemente di PDG in carcere.

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