Due racconti

di Marcella Corsi

Tamponi (e d’affezione tampinamenti)

        Amo la capacità che hanno alcuni di scherzare su tutto senza farlo sulla pelle degli altri. Ieri Sara mi ha chiamato in video e la sua faccia era serena, affettuosa, mentre reggeva la piccola e mi parlava. Un’icona preraffaellita in movimento. Emiliano è comparso da dietro reggendo un cartello: !OTUIA vi si leggeva. Che sarebbe stato AIUTO! ma in videochiamata lo si vedeva all’incontrario. Scherza sempre, ci fa sorridere.
Non credo stessero pensando che avessi bisogno di aiuto… Sara, certo, aveva cominciato la videochiamata con un “come stai?” non di maniera…

Ma cominciamo dall’inizio. Era lunedì mattina. Sara era stata da me con Beatrice che ormai ha quasi tre mesi. Tornando doveva portarsi a casa anche un pacco-regalo del padre piuttosto pesante. L’accompagno con il carrello dove metto anche la pesantissima borsa che si porta sempre appresso. La piccolina dorme nel marsupio. Ma nel salire con l’ascensore si sveglia. Entrate, Sara cerca di riaddormentarla passeggiando. Ne approfitto per sistemare il letto, raddrizzare il copri-divano, raccogliere un pannolino sporco rimasto a terra vicino al fasciatoio e liberare il lavello della cucina di buona parte di quello che l’ingombra (non tutto, così forse non se ne accorge, ché più d’una volta ho visto che le dispiaceva che lo facessi). Nel frattempo il riaddormentamento della piccola prosegue nella camera da letto.

Prima di andarmene m’infilo in bagno, all’altro capo della casa. C’è odore di chiuso. Senza pensarci tiro lo sciacquone e apro la finestra (con qualche difficoltà perché la maniglia è difettosa).
Subito dopo, nel corridoio, Sara mi affronta indispettita perché la piccola si è svegliata del tutto. Sperava di poter pranzare approfittando di quel sonno, adesso invece…  Le dico: la tengo io, tu va a mangiare. Certo potevo pensarci… (anche se mi è stato detto più d’una volta che i normali rumori della casa in genere non la svegliano). Vedo che si mette le manine in bocca. “Forse ha fame, sai…”
Mia figlia sembra a quel punto catturata da uno dei suoi momenti d’ira. Me ne dice di tutti i colori in un crescendo che mi pare ingiusto, e finisce con lo strapparmi quasi dalle braccia la piccina mentre rivendica qualcosa come “la figlia è mia”. Mi lascio prendere anch’io da un disappunto che confina con l’ira. “Vaffanculo”, dico, e me ne vado.

Camminando verso casa, rifletto sul fatto che forse un paio di volte nella vita ho sfanculato mia figlia. Naturalmente mi dispiace di brutto, ma non posso non sentire questa sua rivendicazione di autonomia come ingiusta giacché vado da lei solo quando mi chiede di farlo e l’aiuto in ogni modo cercando di non invadere. Certo più di una volta ho notato che qualche suggerimento (che nelle mie intenzioni configurava solo una possibilità) veniva preso come fosse un ordine. Dipenderà dal modo in  cui lo presento? Oppure… quando un suggerimento viene da una persona cui si tiene… Succede anche a me di non poter fare a meno di dar seguito ai suoi desiderata.
Il pomeriggio con mia madre fa fatica. Sono giù di corda e aiutarla – sollevarle lo spirito in genere – non mi dà il solito sottile appagamento. Ripiego sul fisico. Le sento dare qualche colpo di tosse e il naso un poco le cola. Le preparo un pediluvio caldo con il sale. Stiamo lì insieme, abbastanza vicine ma anche abbastanza lontane, parlottando a tratti (io, perché lei fa fatica a mettere insieme le parole) tra un pentolino e l’altro d’acqua più calda che vado a prendere in cucina per mantenere il pediluvio alla temperatura giusta. La badante vuole due ore coperte da altri per uscire all’ora in cui può vedere le amiche anche la domenica, nonostante le si paghi la giornata come lavorativa. (Certo, due ore di riposo le spettano, ma proprio all’ora in cui in genere io pranzo?).
Mi sento addosso tutto il peso emotivo dell’accaduto anche il giorno dopo. Di più, direi, perché non ho grandi impegni. E’ così che le difese immunitarie calano. Per fortuna Sara mi chiama nel pomeriggio chiedendomi di andare da lei per aiutarla con la piccola. “Sì, però non trattarmi come ieri”. “Promesso”. Vado. Sembra tutto superato, anche il mio “vaffa”. E’ così che le difese immunitarie risalgono.

Non sempre. Mercoledì mattina mi sveglio con un bel mal di gola che si tira dietro anche il raffreddore, forte. Proprio ora, penso, che abbiamo prenotato la prima dose del vaccino. Insieme, così se una si sente poco bene… Mi prendo quello che ho in casa adatto alla bisogna e spero che vitamina C, rame e una buona dormita siano sufficienti.
Il giovedì si aggiunge la tosse, dolorosa, cattiva. La febbre è salita a 37,7 (non usuale per me che… al massimo febbricole). Sara mi ricorda del rimedio antroposofico suggeritole in un caso analogo e lo sostituisco a quello omeopatico che pensavo di assumere. “Se non mi passa prima di lunedì, non lo potrò fare il vaccino”. “Già… forse dovresti anche controllare se non sia covid… i sintomi sono questi… a te la febbre non ti s’alza mai…”. “Ma dai…”. “Metti che te lo sei preso in forma leggera… non dovresti lo stesso fare il vaccino: avresti gli anticorpi”. “Fortunata, insomma…”.

Sul tema interviene come al solito d’imperio la sorella che, per via del mio essere indispensabile al benessere della comune madre, sa sempre quasi tutto di me (almeno quanto può riguardare la genitrice). Compera un paio – ma che dico… una decina – di test salivari e me ne fa recapitare due.
Non che le istruzioni per l’uso siano chiarissime, ma dopo due o tre letture mi decido a fare quel che serve. Da subito si evidenziano una riga scura in alto e un’altra chiara più in basso. Id est positività, anche se con pochi antigeni. A quel punto mi decido a chiamare il medico. Per prima cosa mi dice che i salivari non sono attendibili (lo sapevo, ma l’avevo proprio dimenticato): per avere sicurezza dovrei fare il molecolare. Mi dà un bel po’ di roba da prendere, un unico medicinale omeopatico e parecchi integratori (uno me lo definisce antinfiammatorio), poi mi dice di misurare l’ossigenazione del sangue e di fargli sapere giornalmente.
Sono abbastanza tranquilla. Il medicinale che mi ha consigliato l’ho in casa, gli integratori me li faccio acquistare da Sara. Penso che lei, cui ho comunicato subito il risultato del salivare, debba farsi un tampone al più presto. E’ con lei e con la piccola che sono stata martedì pomeriggio e anche lunedì. Con mia madre mi tengo sempre a distanza di sicurezza, ma con una bimba di tre mesi come si fa a non stare più che vicini… Tra qualche giorno anche Beatrice dovrà fare le prime vaccinazioni obbligatorie.
Quando mi telefonano per sapere se ho bisogno di qualcosa rassicuro che, a parte i medicinali, non ho bisogno di nulla, solo di esser lasciata tranquilla: ci vorrà qualche giorno, Sara mi appenderà i medicinali alla porta di casa, se avrò bisogno di qualcosa chiederò.
Non passa molto però che cominciano ad arrivare SMS e WhatsApp di mia sorella, i primi di affettuosa rassicurazione, poi di sempre più ansiosa preoccupazione. Dopo un paio d’ore si materializzano quelli decisamente allarmati: e se ho attaccato il covid a nostra madre o alla badante (bisognerà far fare subito un tampone in farmacia alla badante)? e come farlo fare a mamma che non si muove da casa? e se la badante è positiva come si fa? e se lo è mamma (sicuramente morirà)? e chi mai verrà a sostituire la badante di un’anziana positiva (perché bisognerà pur dirlo)? tu dirai al medico chi hai visto negli ultimi giorni? Mi raccomando non dire di me e dei miei… Un paio di richieste me le fa pervenire a voce  tramite Sara che, nel riferire, aggiunge le sue raccomandazioni, con sottolineatura finale sul fare un tampone molecolare subito, non quando starò meglio come a tutta prima avevo pensato. Immagino il suo sforzo di rendersi disponibile anche alle ansie della zia, e mi rendo conto che alcune le condivide a partire dalla sua responsabilità di madre. Penso che dopotutto potrei non aspettare per il molecolare… ma comincio a non sentirmi più “affettuosamente attenzionata”.
Con qualche fatica rispondo a tutti ‘sti messaggi che suonano sul cellulare molto più spesso di quanto le mie condizioni gradirebbero. La febbre intanto è salita oltre i 38 gradi e le articolazioni si fanno sentire sempre più dolorosamente.
Poi cominciano le recriminazioni (sembra che io sia quella che in famiglia meno si para dai rischi del covid e però mi ostino ad andare spesso a trovare la vecchia madre, qualche volta anche a carezzarla) e le ingiunzioni, devo dire tutte da parte della sorella. L’ultima arriva alle nove di sera quando non ne posso più. La sua voce mi colpisce dal fisso: “domattina la badante farà il tampone molecolare; se è positiva le telefonate per trovarne un’altra le fai tu, ché io non voglio mentire”.
“Allora sei proprio stronza (non tieni affatto conto del mio malessere)… domattina andrò a fare il molecolare”. La comunicazione viene interrotta dall’altro capo del filo (così ancora si dice anche se di filo non credo ci sia più traccia). Sono incazzata e triste.
La mattina dopo (quasi 39 di febbre) mi precipito al laboratorio di analisi dove Sara è riuscita a prenotarmi il tampone, presto, sperando di non dover fare troppo la fila. Piove, ma aspetto fuori (dovessi attaccare qualcosa a qualcun altro). Compilo il questionario mentendo in diversi punti, mi fanno il prelievo e finalmente torno a casa. I risultati via mail alle 3 del pomeriggio.
La mattinata passa finalmente tranquilla: solo medicine e riposini. Un messaggio mi avverte che sono stati fatti test salivari a mia madre e alla badante: negativi. Alle 3 la mail attesta che… non ho il covid. Lo dico a Sara incaricandola di avvertire gli altri. La faccenda mi ha spossata, anche più emotivamente che fisicamente. Avrà poi uno strascico, finita l’influenza, in mail e contro mail con la sorella. Anche per cercare di ricomporre un po’ d’armonia.
Mia sorella tende a vedere il lato più negativo delle situazioni, quelle in atto e quelle che saranno. La sua attitudine a prefigurare disastri, più che permetterle di sapere in anticipo come gestirli al meglio, le fa alzare la pressione e le frammenta d’ansia le notti. I ragionamenti sono molto spesso sensati e denotano l’impegno profuso per cercare soluzioni, ma la convinzione di sapere già come andrà a finire conferisce quasi sempre al suo parlare un che di agitato e imperativo.
Io ho bisogno di tranquillità emotiva per ‘quagliare’. Dunque per ricompormi comincio col rimettere a fuoco la sua struttura emotivo-comportamentale e finisco col considerare che molto le deriva dall’affetto verso la comune madre (e dal timore di perderla prima di quando sia inevitabile). Come ciliegina sulla torta del rasserenamento utilizzo la foto del suo compleanno, frutto dell’attitudine consolidata a misurarmi con le situazioni solo quando si presentano, se possibile in modo creativo.
Già, perché da un anno a questa parte l’immagine del compleanno di mia sorella impressa su una mia pellicola interna – analogico sì, molto meglio del digitale per chi fotografa – è quella di una donna ancora piacente e vestita con cura, che ha davanti a sé una torta fatta in casa e per regalo… un pacco di pannoloni forniti dalla ASL a chi ha problemi di incontinenza urinaria.
Non che mia sorella necessiti di un tale regalo, che però nella foto è il solo accanto alla torta. E’ l’accostamento figurativo che ho ideato per ricordarmi il rinnovo annuale della fornitura ASL per nostra madre. L’anno scorso dimenticai la scadenza e dovetti faticare non poco per rimediare. D’altronde la fornitura di pannoloni, pur non sufficiente, è cospicua e fa risparmiare qualcosa delle spese necessarie a gestire passabilmente la vecchiaia materna.
Amen. E speriamo che duri. Io alla sua morte sarò impreparata.

 

 

 

musica musica…

 Beatrice ha poco più di un anno. Cammina appena, qualche volta preferisce ancora gattonare. Il padre le ha regalato un giocattolo a forma di pianoforte: si tocca un tasto, si schiaccia un bottone e parte la musica, diversa per ogni tasto (è bastato mostrarglielo una volta). Ieri su quelle musiche l’ho vista ballare.

Una giovane donna suona Chopin al pianoforte con piglio professionale. Postura eretta e mani determinate. Quando la telecamera allarga lo sguardo si vede che l’appartamento è pieno di macerie, infissi sul pavimento, dovunque intonaci caduti, oggetti rotti: è stato bombardato. Lei continua a suonare. Qualcuno la riprende e la mostra al mondo.

Ludmila scrive versi. Le chiedo di leggermene qualcuna delle sue poesie, senza aspettarmi troppo. Invece sono belle, pur nella traduzione approssimativa: originali gli accostamenti, delicate e precise le immagini. Abbiamo avuto la fortuna di averla a casa con noi un paio di mesi quest’estate. Con mia madre era attenta e sorridente, cordiale al limite dell’affettuosità. La sua competenza in fatto di fiori e piante era – è – ammirevole.

Anastasia è una violinista di valore. Partecipa a concerti in diverse nazioni, oltre che nella sua. Per dare spazio adeguato alla sua professione non è ancora diventata madre. Anastasia è figlia di Ludmila.

Quando Ludmila è tornata nel suo paese mi ha mandato diverse foto di fiori bellissimi sbocciati nel giardino della sua casa. Le ho espresso l’ammirazione di una me amante delle piante ma assai meno competente e capace di lei. E’ dovuta partire perché Andrej, suo marito, comincia ad avere serie difficoltà per un inizio di Parkinson. Abitano nei dintorni di Kiev, a Irpin.

Quando le ho mandato un messaggio il secondo giorno dell’invasione da parte dei soldati russi, mi ha risposto: “siamo vivi. Subito dopo, nel suo italiano che a tratti è quasi perfetto: la situazione è brutta-brutta. Anastasia è andata a aiutare per feriti. Notizie di TV non dicono tutta la verità, è peggio”. Le notizie dalla televisione sono state giorno dopo giorno sempre più difficili da sentire. Ho cominciato a fare letture di geopolitica, almeno per capire.

Da un’amica ho saputo poi che erano andati in Germania. Ho sperato che Andrej potesse giovarsi della medicina tedesca. Quando Irpin è tornata sotto il controllo ucraino sono tornati anche loro. La casa era semidistrutta. Chissà se anche i fiori.

L’ultimo messaggio di Ludmila è stato un grande cuore rosso, il 27 di agosto. Le avevo mandato la foto del fiore sbocciato dopo un anno dal bulbo che mi aveva regalato per la nascita di Beatrice. Li ho immaginati al lavoro per riparare la casa. Spero che siano riusciti a farlo prima dell’arrivo del freddo.

Sono ammirevoli. Li ho visti lavorare tutti insieme, gli ucraini, a scavare tra le macerie, a selezionare i materiali riutilizzabili, a cucinare per molti, a sostenersi a vicenda. Una ragazza presta il cellulare a un giovanissimo invasore perché possa parlare con la madre. Una donna anziana offre semi di girasole a un russo armato, gli dice: quando germoglieranno sarai morto.

Suonano in piazza sotto le bombe. Cantano Bella ciao con le parole della loro guerra.

10 pensieri su “Due racconti

  1. Che bella, Ennio, l’immagine che hai accostato a questi racconti… Mi scuso con i lettori per aver trascurato nel secondo racconto di virgolettare il messaggio di Ludmila (che termina con è peggio).

  2. Le virgolette al messaggio di Ludmilla le ho aggiunte. L’immagine che ho scelto dal repertorio che offre Google dovrebbe secondo me indicare il “nero” dei contrasti che spuntano nella vita quotidiana, che tu sai indagare e rappresentare quasi al “microscopio”; e il colore indica la tua capacità di opporsi e rendere leggeri i garbugli, le ansie, i dilemmi portandoli con decisione sul piano del racconto (e dell’arte). Per cui anche se un lettore volesse rimproverarti di un legame troppo forte tra vissuto familiare o personale e la scrittura, si sbaglierebbe. Non è cronaca intima. La distanza dal vissuto c’è.

  3. Grazie Marcella per questi intensi racconti di vita, ben rappresentati dall’immagine di ventagli colorati o in bianco e nero che si aprono e si chiudono su altri ancora in movimento. Due ruoli femminili, di madre e di figlia, intrecciano vissuti, anche nella stessa persona, cosi’ da offrire uno spettacolo cangiante e rotante…Potendo dare un titolo al primo : “Un racconto di amore, di ombra e di umorismo”, al secondo: “Un racconto di amore e di tenebra”…In entrambi, delicato come in una fragile tessitura, l’intento della narratrice, disperato in tempo di guerra, di far prevalere la vita, l’armonia, la pace…

  4. Grazie di queste ‘interpretazioni’ nelle quali mi riconosco: scrivere mi serve proprio a prendere le distanze dal vissuto (qualche variazione o aggiunta viene poi per divertimento, e aiuta anch’essa) e l’intento in fondo è proprio quello di far prevalere una speranza di vita, di armonia… e naturalmente di pace in tempo di guerra.

  5. in questo racconto sembra che ci sia simultaneita’ tra pensiero, vissuto e scrittura… scrivere come respirare la vita, penna incorporata…

  6. Da un mio appunto del 16 novembre 2020

    AVVERTENZA

    «Dio ne scampi dagli odierni autobiografi: ammannitori di mémoires aspiranti a dignità di recherche; fabbricatori di moli bibliche farcite di vicende private insulse e vane sciorinate senza ritegno con le prime parole che vengono alla penna; tutti plenariamente persuasi che ogni istante della loro vita, ogni bruscolo delle loro cogitazioni sia tanto degno di nota da essere romanzabile de iure; che, insomma, la celebrazione e lo squadernamento dell’io anagrafico possa di per sé conferire all’opera un plusvalore in termini di mordente e carica espressiva, quasiché la letteratura s’identificasse con la deprecata letterarietà e dunque non si desse verità e autenticità fuori dalle coordinate del cosiddetto vissuto. Nulla di più illusorio, giacché a) come dovrebbe esser noto e non è, la letterarietà costituisce il proprium dell’arte verbale, ergo non è né evitabile né vitanda, ma buona o cattiva (qui si pare la nobiltà dell’artefice); b) la coincidenza più o meno integrale della voce narrante con la persona fisica dell’autore non muta d’un ette il rapporto lettore-testo, essendo il patto che ne è all’origine sempre e comunque di natura finzionale; c) non esiste conato o furore antiletterario che non si grammaticalizzi in letterarietà; d) fino a nuovo ordine, verità immediatezza e sincerità non si ottengono per grazia celeste o di genere: si conquistano tramite calcoli e artifici tra sofisticati e sofisticatissimi, in difetto dei quali — autofiction o non autofiction — la pagina perde spessore e ragion d’essere.»

    (da Il pallone di stoffa. Memorie di un nonagenario
    di Gualberto Alvino
    https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/recensioni/recensione_242.html)

  7. sempre riguardo alla scrittura di Marcella, nel primo commento la paragono a una tessitura che percio’ richiede impegno, maestria e misura, mentre il risultato restituisce un senso di leggerezza e di libertà di pensiero…Riesco a paragonarla anche ad una composizione musicale o a una danza che richiedono studio, esercizio costanti e revisioni in corso d’opera, ma infine l’opera compiuta acquista senso e un ritmo impeccabile…La ricerca di armonia mi sembra sempre presente…
    Non penso che tutte le scritture debbano informarsi agli stessi criteri…Anche chi legge si muove in un campo ricco di sorprese

  8. Oh, Annamaria… che critica lusinghiera, inaspettata e lusinghiera. A me sembravano un raccontino noiosetto il primo e il secondo nemmeno un racconto, un… non so che. Il tuo commento sulla scrittura me li nobilita. Ma la bravura è soprattutto tua…

  9. Anche a me piacciono i due racconti di Marcella. Prima di tutto per il loro realismo. Nei rapporti Madri-Figli/e non ci sono solo carezze e dolcezze ma, com’è della vita, ci sono anche rimproveri e incomprensioni, se non altro perché queste due parti hanno in comune un percorso lungo e tribolato da cui possono riemergere associazioni, accostamenti non sempre palesi nell’attimo dello scambio orale. Non mi piace la retorica, né l’esaltazione religiosa di questo rapporto. Inoltre la scrittura è nitida, fa seguire la narrazione con facilità, senza intoppi. Apprezzo che si parli della vitga di tutti i giorni, che la si conosca meglio.
    Il secondo racconto poi ci fa conoscere attraverso le persone che la stanno vivendo una realtà che ci è nota solo attraverso la televisione e i giornali. Anche questo è importante e prezioso.

  10. Grazie del tuo commento, Anna Maria. Sul rapporto madri-figli/e tu hai riflettuto, tradotto, pubblicato… e sono convinta che la tua tristezza per quello che accade in Ucraina sia pari alla mia.

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