Ronn’Enze Qu

Narratorio. Da “A vocazzione”

di Ennio Abate

Ogni tanto ronn’Enze Qu viene in mezzo a noi ragazzi. Ma per poco tempo. Ha sempre da fare. Va di qua, va di là, riceve gente in sacrestia, dà ordini al sacrestano, scompare per ore. Chiero lo osservò intimidito e sospettoso. Era il primo prete che conosceva. Basso di statura. Robusto. La testa squadrata e volitiva. La barba spesso non rasata per qualche giorno. Con peli corti e fitti. Pure questo notavi? Pure questo. Mìneche si rasava. Così pure Zì Vicienze e i parenti.  Non c’erano maschi con la barba tra quelli che conobbe. E la voce di ronn’Enze Qu? Baritonale, da comandante, priva di affetto,  burbera. Sì, burbera va bene. Anche gli altri adulti  – Mìneche per primo – avevano voci aspre. Lo scuotevano. Appena aprivano bocca e se parlavano di lui sentiva una loro superiorità ostile.  E a volte lo schernivano con inconsapevole cattiveria. Per la sua magrezza (“me pare nu stuzzicarienti”). Per le grandi orecchie (“ecché so chelle e Dumbo!”). Per la timidezza (“sempe attaccate a gunnelle e mammeta!”). Perché silenzioso (“ma nun parle mai?).

E la mano destra di ronn’Enze? Quella che i primi tempi, quando lui e Eggidie l’incontravano per strada, dovevano correre a baciare? In segno di rispetto. Su comando di Nannìne.  Puzzava di confettini all’anice e forse di piscio. Come la mano di nonna Fortuna quando anche lei tirava dal tascone del grembiule gli stessi confetti.

Anche di ronn’Enze Chiero cominciò a farsi un’idea dalla voce e da quell’odore misto. Aveva ragione  zia Assuntine quando diceva:  ‘sti guagliuni so cumme animaluccie. Selvatici,  da addomesticare. Però Chiero da ronn’Enze non voleva farsi addomesticare. E mai entrò in confidenza con lui. Non si lasciò attirare. Come, invece, gli accadde prima con don Contorto e poi con don Buccia. Quel primo prete – il parroco poi! – gli rimase autorità estranea. Un  segno forse. Smise presto di correre a baciargli la mano. Se l’incontrava per strada – spesso in compagnia di sua madre – lenta,  vecchia e col bastone –  o con sua sorella che stava per entrare in convento – un saluto ossequioso e via. Non si fermava a parlare.  Non andò mai a confessarsi da lui. Eppure frequentò a lungo la parrocchia che ronn’Enze dirigeva. Fu, assieme a Mario Barl, tante volte chierichetto. Erano stati i due prescelti dalla signorina Dag. Ma la distanza si mantenne e l’antipatia soffocata  aumentò.  Prese sul serio persino le insinuazioni che Vol – il ragazzo sempre allegro, sveglio, estraneo alla guagliunera dei  giovani dell’Azione Cattolica e  che veniva a messa soltanto la domenica –  una volta gli sussurrò una volta sghignazzando. Su Ronn’Enze e la signorina Dag. Che   stavano sempre insieme. Che s’appartavano in sacrestia. Che chissà che facevano.

Ma ti ricordassi di quel che diceva nelle prediche! Niente da fare. Tutto cancellato? Un non rapporto, dunque. Un’impermeabilità tra loro. La stessa che c’era con gli zii di paese. E, a Salerno, coi padri degli amici del Gruppo Tigrotti.  Chiero da loro se ne stava alla larga. Si sentiva tranquillo solo quando attorno gli stavano Nannìne, le zie, le cugine. E così ronn’Enze Qu rimase inaccessibile, inavvicinabile, temibile. Poteva colpire. Far male con le parole o con gli sguardi ostili o severi. Come i professori delle medie e poi del liceo. Come il sindaco Buonocore, che ogni mattina veniva ia seguire la messa e a prendere la comunione a San Domenico.

Con ‘sto ronn’Enze avete  avuto rapporti da servitorelli, da valletti, da chierichetti, appunto. Di ricordi precisi che hai? Elenca! Ricordo che stava sempre a parlare col sindaco democristiano Buonocore. Nel salone dove indossava i paramenti per prepararsi a dire messa. Quello dove  vidi per la prima volta un film […]. Dove feci la prima recita assieme a Filod, Gianni e agli altri ragazzi sotto la regia della signorina Dag. Che in quel salone i cui finestroni davano sul cortile della adiacente caserma di polizia, vestito da chierichetto, restavo alle spalle di ronn’Enze. Lo ascoltavo parlare col sindaco. Senza capire di che parlavano. Sentendomi come un fesso a mantenere disteso in orizzontale il cordone in attesa che ne prendesse i due capi e se lo allacciasse sulla pancia. Che l’ho osservato attentamente tante volte. Di spalle, mentre saliva i gradini dell’altare e noi due chierichetti stavamo inginocchiati uno a destra e l’altro a sinistra. Di fronte e da vicino, quando all’offertorio  c’era l’abluzione e dovevo versargli l’acqua sulle mani che si sciacquava in segno di purificazione. Di profilo, mentre beveva il vino dal calice o ingoiava l’ostia. Che poi distribuiva mettendone in bocca anche a noi chierichetti e alle donne che lentamente si avvicinavano all’altare e s’inginocchiavano, si facevano il segno della croce, aprivano la bocca, la chiudevano e  se ne andavano a inginocchiarsi assorte come sonnambule sulle panche. Che dopo la messa correvo  zelante  – da solo o con Mario Barl –  a prendergli la brioche alla vicina pasticceria Califano. E gliela portavamo in sacrestia, dove faceva colazione col sindaco. Che una volta – eravamo sul sagrato della chiesa insieme a molti ragazzi –   mi scappò in sua presenza una parolaccia – quale? – e lui mi rimproverò. E io gli dissi che al campeggio quella parolaccia l’avevo detta anche davanti a don Buccia. E che lui non mi aveva rimproverato. Che dall’appartamento del palazzo esposto al sole  in cima alle scale Giacomazza, tutte di marmo bianchissimo, che salivamo di corsa da via Avenia, si era trasferito ad abitare nella villetta che fino al 1959 era stata  la clinica del dottor Laurenzi. Il chirurgo che abitava con la sua famiglia in via Sichelgaita – avevo giocato e scambiato i libri dei pirati di Mompracen con il figlio Tullio – ed era l’unico in quegli anni ad avere un’automobile. Che alla domenica,  finita la messa, ronn’Enze  assieme al sindaco Buonocore faceva a piedi la strada da San Domenico fino alla villa del sindaco. Che era  all’inizio di Via Sichelgaita, dopo il passaggio a livello di Via Vernieri. E alcuni di noi ragazzi facevamo da corte, da accompagnatori di contorno.  E curiosi osservavamo l’osservabile. [Cfr. O sindeche Bonocore qui]

Tabea Nineo, Le gioie dell’educazione cattolica, disegno, 1976

Appendice

Di recente ho cercato notizie sul Web sul don Enzo Quaglia reale, alla cui figura si collega (senza farla coincidere) il mio ronn’Enze Qu. Ho trovato  notizie contraddittorie sulla sua data di nascita (nel 1922  o nel 1912?). E ho saputo che  è morto il 30 di ottobre del 1999. Su di lui hanno scritto un libro: Don Enzo Quaglia. Vocazione Parroco. A cura di Alfonso Conte, Plectica 2011.  Sono incerto se leggerlo. Mi attendo una probabile (e oggi insopportabile) apologia – non so  quanto ingenua,  testarda o spudoratamente propagandistica –  di  quel mondo cattolico anni ’40 -’50, in cui sono  cresciuto  e  che ho abbandonato. Come accade in questo articolo di giornale locale (qui) , scritto da un giornalista che dice di essere stato ragazzo in quella stessa parrocchia di San Domenico, forse negli stessi anni in cui la frequentai o subito dopo. Don Enzo Quaglia viene ricordato ed esaltato per tre ragioni: 1. per aver fondato nel dopoguerra l’opera “Ragazzi Nostri per gli orfani”, che accolse centinaia di orfani e ragazzi di famiglie disagiate del salernitano; 2. come «inventore della Festa della Famiglia, che da più di sessant’anni si tiene ancora [nella parrocchia di] San Domenico»; 3. per essere stato – come dice il titolo dell’articolo – «il prete che fermò i comunisti».  Sulla prima ragione posso concordare, anche se manca qualsiasi accenni alla guerra fascista che  quegli orfani  di sicuro moltiplicò.  Sulla seconda sospendo il giudizio per mancanza di informazioni. La terza, invece,  mi fa amaramente sorridere. Anzi mi fa pensare che il  non rapporto che ebbi  da ragazzo con ronn’Enze Qu fosse oscuramente  dovuto a una divergenza di sensibilità che poi portò a scelte in contrasto con i valori assorbiti negli anni passati in parrocchia e nell’ Azione Cattolica.

Ora che  don Enzo Quaglia è morto e dopo  che da decenni sono fuori da quel guscio parrocchiale cattolico e dopo tutte le trasformazioni avvenute da allora a oggi  non solo nella Chiesa  ma nella società italiana, posso solo dirmi: non esagerare nel tuo narratorio con un  senso di superiorità e di distanza da quella figura e da quel mondo. E precisa quello che cercasti in mezzo a loro, grazie a loro e  malgrado loro. In parte  l’avevo espresso in questo testo poetico degli anni ’90 (qui).  La figura  di  ronn’Enze Qu e delle altre due – don Contorto e don Buccia – che ho già abbozzato dovrebbero chiarire il peso di questi preti nel dramma della vocazzione  di Chiero.

 

 

12 pensieri su “Ronn’Enze Qu

  1. Chiero lo conosciamo da tempo: un bambino sveglio, osservatore, già con un caratterino ben profilato, con la sua dignità orgogliosa che si rifiuta di baciare le mani a gente di potere…eppure con tratti di sincertà ed entusiasmo infantile. Anche i riti religiosi, vissuti nella veste di chierichetto, erano interpretati, sembra, con un pizzico di ironia e forse già sarcasmo, come da disegno illustrativo.
    La descrizione di Don Quaglia mi riporta indietro negli anni alla mia Lodi di un tempo, dove la gerarchia delle classi sociali era rigida, come per le caste, dove, come a Salerno, il potere politico, la DC, e quello cattolico, dei prevosti, andavano da braccetto nelle carestie, come nei municipi… Pero’ mi sento di spezzare una lancia per Don Quaglia, come fondatore di un orfanatrofio a favore di bambini rimasti soli o in disagio familiare, nominandolo: “I Nostri Ragazzi” che ha un sapore di accoglienza. Mentre sempre a Lodi, da decenni e sino all’inizio degli anni ’60, esisteva, con stesse finalità, l’ “Istituto Infanzia Abbandonata”, un appellativo infamante che bambini e ragazzi del “collegio” si portavano appresso, additati, durante le processioni religiose e i funerali piu’ solenni…Solo un prete sensibile, di cui purtroppo non ricordo il nome, si batté per modificarne l’intestazione in “Istituto Fanciullezza”…A pochi anni dal ’68

  2. AUTORACCOMANDAZIONE
    Sull’importanza di confrontare ricordi e vissuti personali (ad es. i ricordi del narratore su ronn’Enze Qu e il sindaco Buonocore) con i dati storici! O anche: risalire alla storiao cavare storia dai ricordi personali! Per non fare del narratorio solo una raccolta di ricordi personali. E capire quanto un ragazzo, Chiero, sospettava o sentiva del mondo adulto.

    Stasera mi sono imbattuto in questo scritto « Salerno 1943-1956: la lenta transizione» (http://www.prefettura.it/FILES/AllegatiPag/1204/Parte%20III.pdf ) in cui uno studioso, Giuseppe D’Angelo, a me finora sconosciuto ma autore, come scrive in una nota, di« Appunti per una storia della città nel secondo dopoguerra in G. D’Agostino (a cura di), Società, elezioni e potere locale in Campania, Liguori, Napoli, 1990» e di « Salerno contemporanea», in “Prospettive settanta”, n. s., IX, 1987, mi fornisce alcune notizie che ignoravo sul sindaco Luigi Buonocore, di cui parla il mio narratorio.
    Ecco alcuni stralci importanti e interessanti:

    1. « Sin dall’inizio di ottobre del ’43 rinascono a Salerno primi embrioni dei disciolti partiti politici. Il 5 si costituisce, ad opera di un nucleo di antifascisti salernitani che aderiscono a titolo personale, il Comitato di Concentrazione Antifascista. Alla riunione costitutiva partecipano Vincenzo Avagliano, i fratelli Luigi e Francesco Cacciatore, Raffaele Petti, Silvio Baratta, Girolamo Bottiglieri, Luigi Buonocore, Ippolito Ceriello, Giovanni Cuomo, Andrea Galdi e Mario Parrilli».

    2. « Di particolare interesse, ai fini del prosieguo del nostro racconto, sono le vicende relative a Luigi Buonocore e a Francesco Alario: il primo delegato dalla DC nella commissione provinciale per l’epurazione, del quale è denunciato il passato fascista, ma che non risulta essere stato sottoposto a procedimento di epurazione».

    3. « La vicenda di Luigi Buonocore, relativa alla sua nomina nella commissione per l’epurazione, si apre il 2 marzo 1945. Con la nomina da parte di Ruggiero Grieco, alto commissario aggiunto, l’avvocato salernitano entra a far parte di una terna che risulta composta anche da Michele Fameli e da Panfilo Longo. Il 10 giugno un telegramma prescrive di sostituire Buonocore «risultando iscritto disciolto partito fascista». Grieco, esplicitamente, indica che il nominativo del sostituto deve essere proposto «previo accordo con Prefetto et delegati».

    4. «Il triplice voto del 1946 e la prima amministrazione comunale repubblicana Il 2 giugno e il 24 novembre 1946 anche a Salerno si tiene la triplice tornata elettorale per scegliere la forma istituzionale dello Stato, per le elezioni dell’Assemblea costituente e del Consiglio comunale. Salerno, come larga parte del Mezzogiorno, vota massicciamente a favore del mantenimento della monarchia. In città lo fanno 30.152 elettori, pari al 77%, mentre solo 9.017 (il 23%) votano per la repubblica. È un risultato assai significativo, che rappresenta un prologo a quanto avverrà nei mesi successivi. Nella stessa data si vota anche per l’elezione dell’assemblea costituente. I risultati mostrano una netta supremazia della destra monarchica e qualunquista che raccoglie il 38% dei suffragi; il 27% va alla DC, che è il partito di maggioranza relativa, anche se solo per due voti; socialisti e comunisti si fermano, in complesso al 18,1%91. Il voto del 24 novembre, poi, per eleggere il Consiglio comunale, conferma – con qualche lieve, ma significativa eccezione – i risultati precedenti: il blocco delle destre (Uomo Qualunque, PLI, Monarchici) raccoglie il 39,2% dei consensi; la DC si ferma al 17,1%; PSI e PCI sfiorano il 30%; al blocco popolare (repubblicani e azionisti) va l’8,5%. In Consiglio sono eletti 13 qualunquisti, sette democristiani e altrettanti socialisti, cinque comunisti, quattro monarchici, due repubblicani e un azionista per il blocco popolare, un indipendente. La giunta entra in carica lo stesso giorno dell’insediamento del Consiglio comunale, il 19 dicembre 1946, ed è guidata da Matteo Rossi, il rappresentante dell’Uomo qualunque che ha raccolto il maggior numero di voti di preferenza, ed è appoggiata da qualunquisti (che oltre al Sindaco ricevono tre assessorati), dalla DC (tre assessorati), da monarchici (un assessore) e dall’indipendente barone Santamaria, che diviene anche assessore. La città conferma, dunque, in tutte e tre le occasioni, la sua natura moderata, se non addirittura reazionaria. Gli esponenti politici salernitani in parte provengono, come nel caso del sindaco Rossi, dalla vecchia classe dirigente liberale prefascista, altri dall’esperienza della giunta esarchica, come nel caso di Bottiglieri, di Cacciatore, di Soriente, dello stesso Buonocore, che pure aveva incontrato l’opposizione dell’Alto commissariato per l’epurazione, allorquando era stato indicato quale rappresentante della DC nella commissione provinciale. La giunta esclude i rappresentanti delle sinistre, segno evidente del diverso clima favorito dalla divisione del mondo in blocchi contrapposti e dall’inizio della guerra fredda.»
    5. « La vicenda politica di Rossi ha durata assai breve. Il Sindaco, infatti, è costretto a dimettersi già durante la seconda riunione del consiglio, il 1° febbraio 1947, su una questione apparentemente di scarso rilievo: l’acquisto di una autovettura usata da parte dell’amministrazione. Di fronte all’incalzare delle opposizioni, a nulla vale la difesa da parte della lista dell’Uomo qualunque e della DC e neppure alcune considerazioni, quali quella dell’esistenza di una delibera di carattere generale che autorizzava l’acquisto del veicolo e ne indicava il prezzo massimo[…]. Rossi è costretto a confermare le sue dimissioni, forse, più a causa di questioni interne alla sua maggioranza che per merito delle opposizioni. Il 22 marzo 1947, nonostante un tentativo estremo di rimpasto, esse sono ratificate. Nella stessa seduta è eletto Sindaco il democristiano Luigi Buonocore, a capo di una maggioranza e di una giunta composta dagli stessi partiti della precedente esperienza amministrativa».
    6. «Anche la giunta Buonocore, e non potrebbe essere diversamente, è espressione di una fase di transizione durante la quale le forze della destra monarchica e qualunquista, prima, e monarchica e neofascista, nella seconda consiliatura, rappresentano il nerbo dell’elettorato salernitano.»
    7. «Le elezioni del 1952: in cauda venenum La giunta Buonocore raggiunge la fine del suo mandato e il 25 maggio 1952 si tengono le elezioni per il rinnovo del Consiglio comunale. Alla competizione elettorale si presentano quattro raggruppamenti: quello social-comunista raccoglie il 29,9% dei consensi e sei consiglieri, quello di centro (DC e PLI) il 32,3% dei voti e sette consiglieri, il PSDI – che si presenta da solo – il 3% e un consigliere, il raggruppamento formato da monarchici e missini raccoglie il 34,8% dei voti e, in base alle nuove norme che premiano la coalizione che consegue il miglior risultato, ottiene ventisei consiglieri, dei quali diciotto del PNM e otto del MSI. La città di Salerno si avvia ad essere amministrata, per altri cinque anni, da una coalizione di destra, dalla quale risulta esclusa la DC. A capo della coalizione vincente ritroviamo Mario Parrilli che, abbandonato il PLI, è entrato nelle file del partito monarchico. Un passaggio che, come nella tradizione del notabilato meridionale, svuota il partito che è abbandonato (quello liberale, in questo caso) per riempire quello nel quale si entra. Parrilli, già vice Segretario nazionale del PLI e candidato alle elezioni per la Camera nel 1948, conferisce al partito monarchico salernitano la forza necessaria per vincere le elezioni. Il 7 giugno 1952 si insedia il nuovo Consiglio e, nella stessa seduta, Mario Parrilli è eletto Sindaco, a capo di una giunta composta da cinque assessori monarchici e tre missini, raccogliendo 27 voti, uno in più di quelli della sua ».
    8.« . Alla fine del 1954, nel mese di ottobre, la vicenda amministrativa di Salerno si interseca con uno dei più gravi disastri nella storia di Salerno. L’alluvione del 25 e 26 ottobre 1954 provoca circa duecento morti, molti feriti e dispersi, danni notevoli, e colpisce la città e parte della costiera amalfitana114. Proprio in quei giorni si avvicendano i Prefetti salernitani e Umberto Mondio giunge il 25 ottobre 1954. Sarà lui a gestire le fasi di emergenza, ma sarà lui a gestire anche l’ultima fase della vicenda amministrativa salernitana. L’archivio della prefettura, per il periodo dall’estate 1954 alla primavera 1956, è assai più povero di notizie e di informazioni, quasi che si fosse realizzata, a Salerno una sorta di “pace armata” che vede nella coppia Salazar-Menna i veri gestori della cosa pubblica. Sono loro due, infatti, che traghettano la città alle elezioni del 1956, ma, più ancora, che offrono alla DC la possibilità di vincere le elezioni e insediarsi stabilmente alla guida dell’amministrazione cittadina115. La mancata discussione dei ricorsi, dunque, consente di protrarre i tempi dell’amministrazione commissariale che, alla fine durerà poco più di tre anni. Il risultato del voto del 27 maggio 1956 è stupefacente: alla DC andranno quattordici seggi, il doppio di quelli conquistati cinque anni prima, anche se con una diversa normativa; nove ai monarchico-missini, sette ai socialisti, quattro ai comunisti, tre al partito monarchico popolare, due ai liberali e uno al PSDI. Ancora più straordinarie sono le conseguenze 180 • GIUSEPPE D’ANGELO politiche di quel voto. Innanzi tutto, si ridisegnano gli equilibri all’interno del partito di maggioranza relativa. Menna, ormai in pensione per raggiunti limiti di età, è il primo degli eletti con oltre 7 mila voti di preferenza; dopo di lui Carmine De Martino, deputato e, in seguito, sottosegretario, che raccoglie 4.713 preferenze; poi, ancora, Luigi Buonocore con 4.611 suffragi. Solo sesto il professor Alfonso Tesauro che «veniva da destra con non nascoste ambizioni di leadership»116. In secondo luogo, con la scelta di Menna quale nuovo Sindaco di Salerno, si apre una diversa stagione politica, quasi una “primizia” nel panorama politico italiano. È Menna a raccontare le convulse vicende di quei giorni. Dopo aver tentato un accordo con le destre, che però non gradiscono il programma proposto, egli capisce «subito che la soluzione non era da quella parte. Disponevamo di soli 14 seggi su 40 ed avevamo quindi bisogno di allearci con qualcuno. E questo qualcuno era la sinistra. Ma non era una soluzione dettata solo dallo stato di necessità. Nei contatti che ebbi con loro, gli esponenti della sinistra apprezzarono l’apertura sociale del programma e si dissero disposti a collaborare. Naturalmente l’ipotesi di una siffatta alleanza non mancò di sollevare riserve e perplessità, o di far gridare addirittura allo scandalo in certi ambienti “bene” o tra un certo tipo di cattolici»117. E aggiunge: «Io ero deciso ad andare fino in fondo. Avevo l’appoggio del partito, o almeno della sua maggioranza qualitativa e quantitativa. Era chiaro che non c’era altra strada che una giunta monocolore DC di minoranza col sostegno dei partiti di sinistra. Prima di compiere il passo decisivo andai in Curia col programma sottobraccio e lo mostrai a monsignor Moscato. Lo lesse dalla prima all’ultima parola. «Davvero una bella cosa», mi disse alla fine. «Sono onorato del vostro apprezzamento, eccellenza», risposi, «ma dovete anche sapere che chiederò i voti dei socialisti e, se vogliono, anche dei comunisti.» «E va bene. Il Signore protegge chi ha il coraggio di sperimentare cose nuove per il bene della comunità»118. Così, con la maggioranza del suo partito e la benedizione del “vescovo soldato”, Menna procede nella direzione indicata da De Gasperi quando definiva la DC un «partito di centro che cammina verso sinistra». È solo con le elezioni del 1956 e con il sindacato di Menna, lungo un quindicennio, che può considerarsi definitivamente conclusa la lenta transizione della città di Salerno. Gli anni successivi segneranno talora drammaticamente la storia della provincia: la fine del sogno industriale tra anni ’70 e anni ’80, il terremoto del 23 novembre 1980, la drammatica alluvione di Sarno, Siano e Bracigliano del 5 e 6 maggio 1998; fatti sociali e politici talora altrettanto gravi e drammatici quali l’omicidio Favella, l’assassinio del giudice Nicola Giacumbi, quello degli agenti Bandiera, De Marco e del soldato di leva Antonio Palumbo; oppure legati alla criminalità organizzata come la guerra di camorra che ripetutamente ha insanguinato la provincia di Salerno e che ha colpito anche rappresentanti delle istituzioni, quale il Sindaco di Pagani Marcello Torre, e rappresentanti dei lavoratori, come nel caso di Antonio Esposito Ferraioli »

  3. A questo punto mi occorrerebbe un raccordo con altre città importanti del sud… e, perché no?, con la Dc nazionale e la sottomissione agli Usa della nostra politica nel sud. La piccola storia di Chiero che legge il suo ambiente con i suoi vissuti, e i personaggi “importanti” (e odorosi) che lo reggevano, danno la nota fondamentale del momento storico in “quella” realtà.
    Non ho esplorato i miei ricordi al nord, a Venezia, Jesolo e Trieste, ma senz’altro, per la poca religiosità dei miei genitori, e in generale dei miei parenti, un simile ambiente “viscoso” non lo ho vissuto. Eppure le linee della politica nazionale intrecciavano quelle diverse realtà, forse in modi ancora da interpretare.
    Tu certo contribuisci profondamente per quello che hai vissuto/conosciuto.

  4. Più vado avanti nel tentativo di delineare il percorso – “viscoso”, giusto! – di Nunuccie-Chiero-Vulisse (ecc.) dentro-contro “A Vocazzione” e più mi accorgo che il “raccordo” con il resto è storicamente ramificatissimo e non riguarda soltanto l’Azione Cattolica, la Democrazia Cristiana, il PCI togliattiano.

    Qui un primo spunto:
    SEGNALAZIONE

    Intervista a Michele Ranchetti
    Massimo Cappitti
    7 MARZO 2005
    https://www.ospiteingrato.unisi.it/intervista-a-michele-ranchetti-2/

    Stralcio:

    MC.: Perversione del cristianesimo, cioè proprio dell’evento cristiano quindi del farsi uomo di Dio?

    MR.: Sì, la fine di questa persuasione, di questa credenza, di questa verità. Si potrebbe anche dire che questa è la morte di Dio, ma in questo caso si tratterrebbe della morte di Cristo.

    MC.: Sono due cose molto diverse.

    MR.: Sì, lo sono. Per farla breve, la morte di Dio è avvenuta tanto tempo fa, la morte di Cristo avviene adesso. Cioè il Cristo non si è incarnato, oppure è morto come uomo. Probabilmente il non più riconoscere questa realtà deriva dal non poter riconoscere la realtà come incarnazione, o come conseguenza dell’incarnazione e allora non la vedi più. Ho vissuto, anche se con dubbi di fede grandi come le case, pachidermi di grandezza, però ho sempre visto la realtà come storia dell’incarnazione.

    MC.: La perversione del cristianesimo è una possibilità interna o esterna?

    MR.: Questo è il fatto. Non lo so. Se è una perversione interna, è ancora peggio. Invece, se è una perversione esterna, non lo so. Comincio a temere che sia una perversione interna che non poteva che finire così.

    MC.: Wittgenstein parla di Paolo. Non lo sopporta perché sente…

    MR.: …che le acque che nei Vangeli sono limpide in Paolo…

    MC.: C’è un elemento eccessivamente personale nel suo atto di fede e quindi Wittgenstein dice di sentire odore di gerarchie e di gradi. Ma il problema non credo sia solo Paolo, piuttosto la verità in quanto legata a una persona. A meno che non succeda quello che ha fatto la Chiesa che ha costruito se stessa come deposito di quella verità, smarrendola.

    MR.: Smarrendola è diventata un’altra cosa. Del resto è quello che diceva anche Dossetti, negli ultimi tempi che lo vedevo: il cristianesimo è morto e adesso abbiamo la Chiesa. Lo si dice anche, ma io cerco di pensarlo e di viverlo in modo più drammatico che non Dossetti che in realtà lo sapeva benissimo cosa fosse.

    Qui un secondo da una serie di appunti del 2004 a proposito di “Non c’è più religione ” di Ranchetti ,che poi non ho più pubblicato:

    “Dicembre 2004

    Leggendo la recensione di Massimo Cappitti a “Non c’è più religione”, in L’ospite ingrato 2 2003

    A Luca Lenzini, Michele Ranchetti e ai redattori de L’ospite ingrato

    La mia prima reazione alla lettura di ‘Non c’è più religione’ di Michele Ranchetti è stata istintivamente questa: bisognerebbe scrivere, a completamento, un Non c’è più comunismo altrettanto rigoroso e appassionato. Ovviamente non credo che un libro del genere ci sia già. ‘Oltre il Novecento’ di Revelli si limita ad esorcizzare la parte sanguinolenta di quel fantasma storico e ‘Impero’ o ‘Moltitudine’ di Hardt e Negri, anticipano teleologicamente troppo e saltano il problema lacerante della storia novecentesca del comunismo; e, malgrado le apparenze, la stessa morsa di guerre e precariati permanenti, tsunami, e disastri ecologici, dandoci soprattutto un miraggio gioioso e moltitudinario.
    Ma perché proprio un libro come questo, composto di saggi lucidi e spietati che trattano di «istituzione e verità nel cattolicesimo italiano del Novecento», argomenti che parrebbero rivolti a lettori cattolici o a credenti nell’aldilà, dovrebbe interessare materialisti atei e illuministi agnostici più o meno ben adattati nell’aldiqua?
    Per vari motivi:
    1) il tentativo da parte di Ranchetti di «ripristinare un’interrogazione religiosa, nel senso più ampio del termine», offrendo alla discussione una serie di tesi fin dal primo numero de L’ospite ingrato del 1998, mi pare in sintonia con quelli fatti per tutto il Novecento da alcune minoranze di ripristinare un’interrogazione sull’esperienza comunista nel senso più ampio del termine;
    2) perché il libro, pur restando tutto interno alla dimensione religiosa e senza mai smarrire «gli elementi fondamentali della religione cristiana», contesta coraggiosamente e con solidissime argomentazioni storiche l’autorità della Chiesa cattolica, la cui struttura gerarchica sperimentata da molti secoli è stata modello consapevole o inconsapevole della «forma partito» in generale: la separazione fra sacerdozio e laicato, su cui Ranchetti tanto insiste, è la matrice storica profonda di ogni separazione fra Stato e società civile, fra intellettuali e classe, fra politici (e rivoluzionari) di professione e movimenti;
    3) perché se è esistita un’analogia storica non peregrina fra cristianesimo primitivo e comunismo e tentativi di riforma religiosa e tentativi antirevisionisti, ne esiste una fra crisi del cristianesimo divenuto nell’Ottocento come documenta Ranchetti istituzione totalitaria e crisi del comunismo imploso in stalinismo.
    Per contrastare lo sfacelo teorico e ideologico nell’ultimo trentennio della sinistra in tutte le sue aree può essere utile affrontare, perciò, proprio la centralità indiscussa del modello-chiesa, così come accanitamente e lucidamente- da un punto strettamente religioso e «storicamente» ha fatto Ranchetti. Specie in questo momento di crisi in cui gran parte della sinistra – come ricorda Cappitti nella recensione – avendo dilapidato tutta la propria eredità, sembra allinearsi ossequiosamente alla Chiesa e all’attuale pontefice, fino ritenerla l’«unica istanza etica universale capace di parlare autorevolmente al mondo “globalizzato”».

  5. A proposito dei tuoi appunti non più pubblicati. Forse perché resti preso in una contraddizione: se la struttura gerarchica della chiesa è all’origine della forma partito come separazione tra sacerdoti e laici eccetera, e d’altra parte la chiesa ha costituito se stessa come deposito di una verità smarrita, i.e. non poter riconoscere la realtà come incarnazione o conseguenza della, che senso può avere interrogare (tu scrivi “affrontare”) il modello chiesa se manca il sostrato cui pure la chiesa appartiene? O ci sarebbe un analogo dell’Incarnazione a cui riferirsi per riportare il comunismo alla sua verità?
    Naturalmente io non lo credo: riportare il comunismo all’uomo faber, alla appropriazione della natura per… umane sorti magnifiche e progressive?
    E quindi?
    Niente altro che un occidente sempre più piccolo, razionale q.b., laico, democratico più che no, e senza orizzonti trascendenti se non nelle speranze della coscienza singola.

  6. « che senso può avere interrogare (tu scrivi “affrontare”) il modello chiesa se manca il sostrato cui pure la chiesa appartiene? O ci sarebbe un analogo dell’Incarnazione a cui riferirsi per riportare il comunismo alla sua verità?» (Fischer)

    Scelsi di non pubblicare più i miei appunti perché i rapporti con il Centro F. Fortini si complicarono. Sulla questione che poni, meglio innanzitutto riportare per intero quanto da me scritto:« Per contrastare lo sfacelo teorico e ideologico nell’ultimo trentennio della sinistra in tutte le sue aree può essere utile affrontare, perciò, proprio la centralità indiscussa del modello-chiesa, così come accanitamente e lucidamente- da un punto strettamente religioso e «storicamente» ha fatto Ranchetti». L’analogia che vedo tra modello-chiesa e modello partito riguarda soprattutto( o vorrebbe limitarsi a) la struttura gerarchica. Se non ricordo male, è in Gramsci che il modello- chiesa venne studiato come esempio positivo per il modello-partito (comunista). E mi pare che la separazione tra sacerdoti e laici abbia avuto nel partito leninista una sua versione laica o illuministica: quella tra rivoluzionari di professione e masse (o lavoratori o movimento operaio). Insomma la forma gerarchica non mi pare – se capisco bene la tua osservazione – che debba avere necessariamente un «sostrato» religioso per funzionare. Ad esempio, ho appena letto un articolo di Fagan nella sua pagina FB sulla nascita delle società gerarchiche (https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/pfbid0Ze23CYAykpMZojhFMfAB9tFnHpzjih6SAz4ZwuLbEFXfe5DLpkXxhuuaFYQt8rgjl). A proposito degli indoeuropei Fagan non vede come indispensabile fondamento di esse un sostrato religioso:
    «Questo complesso di cause qui solo accennato nella sua molteplice composizione, cause interne ed esterne, mise progressivamente sempre più sotto pressione il sistema sociale egalitario soprattutto per quanto riguarda le decisioni. C’erano sempre più cose da decidere, c’era sempre meno tempo, era sempre meno facile, c’era sempre meno coesione sociale ovvero condivisione di un’unica immagine di mondo. Fu questo a “chiamare”, in un certo senso, la necessità di una élite, l’élite era -ed è- fatta da quelli che decidono e meno sono meglio è. Che tipo di élite si afferma (etnica, anagrafica, militare, sacerdotale, commerciale) dipende e varia da luogo e tempo.
    Il pacchetto “stile indoeuropeo” con la sua tradizione di comando gerarchico dovuto all’aspra vita nomade particolarmente dipendente sul clima e le ecologie e loro cambiamenti, con cavalli e carri, nuove armi, capacità di controllare ampi territori, estremamente funzionale, commerciale, metallurgica e piena di oro, fu il modello giusto al momento giusto. »

  7. Fagan scrive che il suo è un articolo-recensione. Mi chiedo come mai l’autore del libro si riferisce a Gimbutas che, in altro libro, ha rintracciato la presenza della dea madre dovunque ha potuto. Forse il “pacchetto” IE non era ideologicamente così pervasivo. Del resto la prima disuguaglianza/dominio si crea, non solo tra gli IE ma ben più LARGAMENTE, tra i sessi. La Chiesa poi, gerarchica nella elite al comando, è pure madre di tutti i suoi figli. Credo cioè che le origini della disuguaglianza siano antropologicamente fondate (oltre Caino e Abele, c’è Eva -vita- da colpevolizzare perché ha creduto al serpente) più che etnicamente.

  8. Marija Gimbutas Il linguaggio della dea, Mito e cultura della Dea madre nell’Europa neolitica, Neri Pozza, 1989, ricchissimo apparato di immagini.

  9. Ho risposto a Fagan così: “Mi chiedo perché Gimbutas, che ha scritto anche “Il linguaggio della dea”, dovrebbe confermare questa teoria di Haarmann, se non perchè ci sia stata -come Gimbutas afferma- una invasione dei popoli IE in comunità rette dalle Dea madre. Ma non è vero che quel “pacchetto” di gerarchia portato dai popoli IE abbia invaso ideologicamente le precedenti culture orizzontali.
    L’esempio più claro è la chiesa cattolica che, gerarchicamente retta da maschi, è tuttavia Madre di tutti gli umani, ugualmente figli.
    Il “pacchetto” IE non ha cancellato la generazione femminile, che differenze non ne fa.
    Questo mi fa pensare a quanto il femminismo ha stabilito: che la prima e sostanziale differenza è quella tra i sessi, che del resto è praticata, in termini servili, in varie altre culture non sfiorate dagli IE.
    La gerarchia deriva senz’altro da meccanismi di potere, guerra e sfruttamento, IE o non IE. La radice non è etnologica ma, purtroppo, antropologica.
    Eva, la vita, è colpevolizzata presto, avendo ceduto alla tentazione del terrestre serpente. Poi, se vogliamo ragionare sui miti e sul simbolico, l’Incarnazione ha tentato di ri-equilibrare il rapporto tra i sessi.”
    Aspetto, e forse anche tu, la risposta. Ma la discussione, credo, continua, perchè quel ibro, dalla recensione/articolo, mi sembra una c..ata.

  10. Toh, io pensavo a una possibile relazione tra cristianesimo e comunismo. E scopro invece che la relazione altri – ben prima di me e ben più profondi studiosi – la stabiliscono con il capitalismo:

    “In effetti, qui la tesi di Benjamin sembra affine a quella di Weber, ma se ne discosta, scrive, infatti:

    “il capitalismo – come va dimostrato non solo per il calvinismo, ma anche per gli altri indirizzi cristiani ortodossi – si è sviluppato in occidente in modo parassitario sul cristianesimo, in modo tale che alla fin fine per l’essenziale la storia di quest’ultimo è la storia del suo parassita, il capitalismo”[24].”

    (dall’anticipazione di un nuovo libro di Alessandro Visalli: https://tempofertile.blogspot.com/2023/01/il-capitalismo-come-forma-religiosa.html?fbclid=IwAR1y0tWLwNiMHSrxK00OFiwUwO-sHHh_ORvH19ufA2uZ8iIbKPsGvC33V6E)

  11. Letto, letto. Quello che sostengo è che l’origine conflittuale è antropologica: certo noi occidentali non abbiamo niente a che vedere con il CC cinese (tutti maschi) o con l’imposizione del velo in Iran (e in Arabia saudita con cui commerciamo armi), tuttavia in controluce si delinea che la prima divisione/oppressione è quella tra i sessi. E del resto i femminicidi qui da noi… vero è che Macaluso un di’ negava la differenza con gli omicidi in genere.

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