Verso le conclusioni

di Franco Romanò

L’articolo si collega ai precedenti già pubblicati qui, qui e qui.[E. A.]

Così riprende il testo:

Ora che abbiamo esaminato le diverse idee di costo elaborate da diverse generazioni di economisti, e le difficoltà che abbiamo incontrato, passeremo a discutere quali sono le relazioni fra il valore delle merci e il loro costo di produzione; e in particolare in che senso si può dire che il costo di produzione determina il valore e in che misura deve condividere il suo potere di determinazione con la domanda. Naturalmente la prossima parte della nostra inchiesta sarebbe stata più facile qualora avessimo trovato una chiara e definita concezione di costo di produzione, sulla quale fossero d’accordo gli economisti. In prima istanza abbiamo fallito, ma vedremo pure che nella dettagliata applicazione della nozione di costo alla teoria del valore saremo in grado di portare avanti la nostra analisi per un pezzo un po’ più lungo di strada prima di essere costretti di nuovo rinunciare a fronte di nuove difficoltà che possono finalmente spingere la nostra mente a considerare cosa intendiamo realmente quando parliamo di costo. La difficoltà è dovuta al fatto che. nella determinazione del prezzo di ogni particolare merce, la nozione di spese di produzione sarà sufficiente per molti propositi, senza che sia necessario decidere se 1) ci sia o meno l’ombra di “costi reali” oppure sacrifici dietro di esso; 2) un altro nome per utilità del prodotto (costo  di opportunità), esso stesso costo reale in ultima analisi (non in quanto somma di denaro ma somma di cose consumate nella produzione) e se tale concetto abbia o meno un solido fondamento. Per alcuni qualsiasi definizione di costo funzionerà bene. Tutte tranne una e cioè il costo di opportunità nella sua estrema e più consistente interpretazione … che non ha alcunché a vedere con la determinazione del prezzo delle merci.

Tale drastica conclusione ci permette di trascurare tutta una serie di esempi concreti e di ripartire da questa affermazione:

… Ora, lasciando da parte le interpretazioni estreme dei costi, quali sono le condizioni in base alle quali si può determinare il valore di una merce? La questione si trasforma nel domandarsi se i costi variano o meno per diverse quantità prodotte.

Le considerazioni che seguono non sono sempre chiare e una delle ragioni sta certamente nel dilemma che riguarda il nesso fra costi e quantità prodotte. Sraffa ragionerà per lungo tempo su tale materia finché darà una risposta netta in Produzione di merci a mezzo merci la necessità di ritornare ai classici. Le lezioni così proseguono:

Naturalmente la questione è quali costi costanti contano maggiormente per unità prodotta, non i costi totali, qualunque sia il volume prodotto. La confusione può generarsi perché, come abbiamo visto, se l’ammontare di un fattore è costante (pag. 61) si dice che non entri nel costo e perciò non determina il valore; laddove invece quando una merce è prodotta in condizioni di costi costanti, il valore è interamente determinato dai costi. Ma c’è una grande differenza fra i due casi nella realtà. Nel primo caso il totale è davvero costante, mentre nel secondo il costo totale cambia in proporzione alle quantità prodotte. Nel caso estremo in cui la curva della domanda nella sua interezza sia inferiore al costo di produzione, nulla viene prodotto; ma, laddove è possibile produrre, la merce deve essere vendita a un prezzo fissato. La stessa cosa vale per la domanda: se quella di una merce ha una elasticità infinita, il suo valore sarebbe interamente determinato dalla domanda stessa. E i cambiamenti nelle funzioni di costo non avrebbero alcuna influenza. Per converso anche nel caso dell’assoluta rigidità dell’offerta cioè quando la fornitura totale è fissata, il costo non influisce sul valore e solo la domanda è determinante. Lo stesso avviene in caso di domanda non elastica  Fra i due casi estremi ci sono naturalmente tutta una serie di casi intermedi che vanno da zero a infinito..

L’interdipendenza fra costo e quantità prodotti è un’idea moderna. Tutti gli economisti classici la ignorano ma non si può neppure dire se se essi pensino che siano i costi costanti a operare, dal momento che non prendono in considerazione l’intera questione. La loro analisi si riferisce solo alla quantità di lavoro e anche di profitto, e persino la rendita incorporati nell’offerta, che è la sola che prendono in considerazione. L’argomento che acqua e aria  hanno una grande utilità, ma che nulla si può scambiare con esse, mentre l’oro ha scarsa utilità ma può essere scambiato con una quantità di altre merci sembrava porre fine a ogni discussione. 

Queste considerazioni sono una sintesi delle ragioni delle oscillazioni di Sraffa. Da un lato, pur nell’oscurità di certi passaggi, che tuttavia in buona parte si chiariranno nel prosieguo e cioè quando affronterà la questione dei rendimenti decrescenti e delle curve delle domanda e dell’offerta secondo Marshall e altri, Sraffa considera le loro analisi assai confuse e infatti approderà a una critica senza appello del marginalismo. Il  tipo di critica che Sraffa muove ai classici è diversa. È evidente che anche per lui la frase che segue non può essere l’ultima parola:

… L’argomento che acqua e aria  hanno una grande utilità, ma che nulla si può scambiare con esse, mentre l’oro ha scarsa utilità ma può essere scambiato con una quantità di altre merci, sembrava porre fine a ogni discussione … 

Non si tratta però di certo di una parola inutile, specialmente se la connettiamo all’affermazione successiva. Vediamo di districare la matassa prima di giungere alle conclusioni. L’interdipendenza fra costo e quantità prodotte è un’idea moderna. La ragione è che solo in pieno ‘900 la produzione industriale su larga scala ha raggiunto un grado di autonomia e se vogliamo anche di autoreferenzialità che nel secolo precedente non era così netta. Tutto nasceva ancora dalle viscere di ciò che esisteva prima (l’industria dalla bottega artigiana, la produzione su larga scala da quella precedente  ecc. ecc): il problema è quello di capire se tale interdipendenza esista veramente oppure no, a parte la considerazione su acqua e aria che cambierà pure nelle sue analisi mentre nella frase di cui sopra, Sraffa sembra ancora accettare il fatto che esse siano illimitate e non abbiano un costo; sappiamo bene oggi quanto questo non sia affatto vero! Tuttavia la conclusione cui egli approda del discorso è assai interessante.

Ma ciò non cambia i valori delle singole e particolari merci, dal momento che i rendimenti decrescenti che derivano dalla terra riguardano in forma uguale tutti i prodotti, dal momento che tutti dipendono in uno modo o nell’altro dal prodotti dell’agricoltura e perciò la loro posizione relativa rimane invariata. Ricardo parla spesso soltanto della produzione del grano mettendola in connessione con i rendimenti decrescenti, ma non vi è dubbio che egli usi il termine “grano” per intendere il prodotto agricolo in generale … 

Ma in ogni caso, la coordinazione fra quantità e costo e  di entrambe con la domanda è uno sviluppo molto recente, dovuto principalmente a Marshall e alla teoria dell’utilità marginale e anche un tentativo di compromesso. Dovremo poi notare che il fatto che le due leggi furono elaborate per due diversi propositi rispetto a quelli ora presenti è causa di molte difficoltà.

Tutto il ragionamento sui rendimenti decrescenti sarà più chiaro nel prosieguo quando riprenderà il discorso sull’agricoltura risalendo addirittura a Turgot, ma la conclusione che essi non possono essere considerati discriminanti dal momento che riguardano tutti i prodotti indistintamente e tutti i comparti industriali è realistica e di buon senso. La domanda da porsi è: lo è ancora anche oggi? Si può utilizzare lo stesso ragionamento, magari estendendolo dall’agricoltura alla logistica, per esempio? A mio avviso sì ma lo vedremo meglio soltanto alla fine del percorso. Torniamo al testo:

Nelle ultime lezioni abbiamo visto come la legge dei rendimenti decrescenti e quella dei rendimenti crescenti abbiano avuto delle origini storiche distinte, e come alle origini fossero elaborate per essere usate in connessione con problemi che solo indirettamente avevano qualche rapporto con il valore. Abbiamo visto pure come tale connessione sia uno sviluppo recente della teoria e che le interpretazioni che le riguardano in quanto tendenze sono simili nel carattere ma vanno in due direzioni opposte: quest’ultima deduzione è ancora più recente. Ora, molte delle difficoltà in cui si trovano a causa della nuova funzione in cui vengono poste si possono attribuire a quei caratteri che le hanno rese così adatte al posto che occupavano in precedenza nella teoria economica; tali caratteri le rendono in larga parte contraddittorie rispetto alle condizioni essenziali su cui è basata la teoria del valore. Non propongo ora di discutere in questo momento di esaminare in modo completo le condizioni alle quali l’uso delle curve della domanda e dell’offerta sono soggette nella determinazione del valore. Lo faremo alla fine come conclusione sulla base di quelle curve e cioè vale a dire i costi variabili e la diminuzione di utilità. Lo dirò in breve e in modo piuttosto dogmatico al fine di determinare dove porta l’argomentazione. Spesso, le condizioni cui le curve di domanda e offerta sono soggette, vengono riassunte nei libri di testo con l’espressione “assumendo inalterate tutte le altre condizioni”. … In primo luogo, il guaio è che la definizione comprende troppe cose, perché non avviene mai che qualsiasi cosa rimanga ferma al mondo e non modificata mentre noi muoviamo le nostre variabili: ci sono un sacco di cose che possono mutare senza che questo incida sull’argomento che stiamo trattando …. La condizione espressa dicendo “altre cose rimangono uguali” è contraria al principio che il numero delle nostre assunzioni dovrebbe essere ridotto al minimo.

Questo passaggio chiarisce molte delle ragioni che spingeranno Sraffa a scrivere le sue equazioni di Produzione di merci a mezzo merci presupponendo una sola stringente condizione e cioè considerare solo quelle proprietà di un sistema economico che sono indipendenti dal volume della produzione e nelle proporzioni fra i “fattori” impiegati. Se sia davvero possibile e se lo sia sempre lo vedremo a tempo debito, ma vale la pensa di osservare che tale ipotesi era quella degli economisti classici.

Ma il pericolo veramente serio è che nella marea di cose che non dovrebbero cambiare ci sono sicuramente delle quantità che non possono rimanere inalterate se le variabili cambiano … Nel nostro caso, le condizioni che sottostanno alle curve della domanda e dell’offerta di una merce sono: 1) che le due curve devono essere indipendenti l’una dall’altra; 2) che i prezzi e le quantità prodotte di tutte le altre merci dovrebbero rimanere inalterate, il che equivale a dire tutti gli altri prezzi e le altre quantità dovrebbero essere indipendenti dalle variazioni nella quantità e nel prezzo della merce presa in considerazione in quel momento. Indipendenza delle curve di domanda e offerta significa che la forma e la posizione di ciascuna debba rimanere inalterata mentre un’altra si modifica. Per esempio: se una tassa viene posta su un certo articolo, la curva dell’offerta salirà a causa dell’ammontare della tassa, ma tale fatto non deve per forza incidere sulla forma della curva della domanda. Naturalmente il prezzo della domanda sarà diverso, se la quantità commercializzata è diversa, ma tale cambiamento prenderà posto nella preesistente curva della domanda, e non nella nuova curva. La ragione per cui si verifica tale condizione è chiara. Le due curve rappresentano due diverse equazioni: y = f(x) – y1 = (x1), dove x è la quantità del prodotto comprato o venduto, y è il prezzo di offerta e x1 il prezzo di domanda. Nella posizione di equilibrio il prezzo di offerta è uguale a quello di domanda, e perciò  y = y1 e x = a x1. In questo modo ci sono solo due variabili e ed essendo le due equazioni come date, prezzo e quantità sono così determinate. Ma se un cambiamento avviene nella funzione della domanda, non soltanto vengono modificati il prezzo e la quantità dell’offerta, cioè le variabili x e y1, anche le costanti che sono rappresentate e quindi abbiamo sempre più variabili che equazioni e allora il sistema diventa indeterminato.

Il problema dell’indeterminatezza, insieme a quello delle equazioni simultanee e dell’eterogeneità delle merci sono alla base della critica di Sraffa all’economia neoclassica o marginalista che dir si voglia e sotto certi aspetti costituiscono un unico e medesimo problema: com’è possibile ricondurre a poche variabili l’universo eterogeneo delle merci? Dire che il sistema diventa indeterminato, come nell’affermazione finale del brano precedente, significa dire che è necessaria una diversa equazione per ogni diversa situazione, ma tale moltiplicazione ad infinitum  rende di fatto impossibile una descrizione realistica del processo e delle curve di domanda e offerta: è un’impossibilità per definizione oppure è tale perché i presupposti su cui si basa la teoria marginalista sono errati? Come prima approssimazione il problema va diviso in due. Per Sraffa i presupposti del marginalismo sono sicuramente sbagliati, per sciogliere il secondo dilemma bisogna avere più pazienza e anche qualche ulteriore mossa che ci porterà verso Keynes, specialmente il Keynes dei libri di Anna Carabelli. La parte che segue, come altre che verranno in successione, sono una critica dettagliata e puntigliosa delle formulazioni di Marshall e altri sulle curve e i rendimenti crescenti e decrescenti. L’acribia di Sraffa, a volte velata di sottintesi ironici e vere e proprie stroncature, l’ho più spesso lasciata solo nella lingua originale, ma alcuni passaggi sono tuttavia utili per arrivare a comprendere le scelte cui Sraffa approderà. In particolare i brani che seguono e prima di tutto quello di certo sorprendente della riscoperta di Turgot, sono essenziali e vale la pensa di seguirli anche in traduzione.

Ora, supponiamo un cambiamento nella domanda e supponiamo che questo non incida sulla curva dell’offerta. La sostanza di questo è che date le curve della domanda e dell’offerta … se una tassa viene imposta su un prodotto, possiamo prevedere gli effetti di essa sul prezzo, una volta stabilito che le curve rimangono inalterate, a parte l’aggiunta dell’ammontare della tassa sui prezzi di offerta; Ma se essi cambiano nella loro forma, non possiamo in realtà sapere nulla sui possibili effetti della tassa fino a che non ci venga detto in che modo la forma della curva si sia modificata, ciò equivale a dire che dobbiamo fare ricorso ad altre equazioni. La seconda condizione e cioè che i prezzi e le quantità di tutti gli altri prodotti dovrebbero rimanere inalterati, può derivare essenzialmente dalla esistenza di prodotti sostitutivi per i quali esiste una sorta di domanda congiunta. La curva della domanda di un articolo è basata sull’assunzione di una scala dei prezzi data rispetto alle altre merci, se i prezzi cambiano anche i prezzi della domanda di una data merce presa in considerazione cambierebbero, dal momento che sarebbero sostituiti da prodotti sostitutivi più economici.  Ora, nel paragonare i rendimenti crescenti e decrescenti troviamo prima di tutto che c’è una differenza fondamentale nel modo in cui essi sorgono … Nella loro forma più usuale e largamente accettata c’è fra loro una distinzione fondamentale e cioè che i rendimenti decrescenti provengono da un cambiamento nelle proporzioni in cui i differenti fattori sono combinati in un’industria, indipendentemente dal fatto che la grandezza globale del prodotto totale aumenti o diminuisca. I rendimenti crescenti, al contrario, sono generalmente connessi con l’aumentare delle dimensioni di un’industria mentre hanno una relazione remota con la proporzione in cui i fattori vengono impiegati: … L’apparente somiglianza delle condizioni grazie alle quali rendimenti decrescenti o crescenti sorgono è dovuta al fatto che solitamente … scegliamo, come metodo di visualizzazione del cambiamento in proporzione ai fattori, per assumere che un fattore rimanga costante mentre gli altri vengono accresciuti con successive dosi … Tale metodo delle successive dosi applicate al fattore costante è solitamente adottato, perché è più conveniente per rappresentare il cambiamento di una quantità mentre tutto il resto rimane costante, piuttosto che cambiare entrambi nello stesso momento. Tuttavia, nella loro essenza, i rendimenti decrescenti potrebbero essere rappresentati con identica correttezza assumendo che due quantità  impiegate in ciascuno dei due fattori cambi in direzioni opposte, e in proporzione  tale da mantenere costante il prodotto globale. Questo può essere rappresentato da curve di indifferenza … che sono note a coloro che hanno seguito i miei consigli di leggere Edgeworth e Pareto. Le curve di indifferenza vengono usate solitamente anche in connessione con i problemi della domanda, quando l’utilità marginale di entrambe le merci scambiate si suppone variare- mentre una normale curva della domanda assume che l’utilità marginale di una delle merci (il denaro) rimanga invariata.

Nell’ultima lezione ho messo in evidenza la differenza fra la natura delle cause che portano ai rendimenti crescenti da quelle che ne causano invece la diminuzione. Abbiamo visto come i rendimenti crescenti sono dovuti all’allargamento delle dimensioni di un industria e conseguentemente delle economie di produzione su larga scala, le accresciute opportunità di divisione del lavoro e così via. I rendimenti decrescenti, al contrario, sorgono dai cambiamenti nelle proporzioni in cui i differenti fattori della produzione vengono combinati fra loro che porta alla decrescente efficienza di quei fattori in cui la proporzione della loro importanza in quanto grandezza è stata già portata oltre il massimo dell’efficienza possibile. Tale punto di vista, che considera il cambiamento nelle proporzioni dei fattori ma trascura i cambiamenti avvenuti nella grandezza assoluta di un’industria, è il punto di vista adottato dalle teorie della distribuzione secondo il prodotto marginale di ogni fattore. Ma la curva dell’offerta, rilevante per arrivare alla determinazione del prezzo delle merci, si tramuta in costo marginale e deve essere collegato in modo diretto ai cambiamenti del volume di quanto prodotto. Tale connessione si ottiene assumendo che la quantità di un fattore rimanga costante mentre tutti gli altri fattori e conseguentemente anche il prodotto, aumentano. Un caso tipico di un’industria in cui uno dei fattori rimane, e non può essere accresciuto quando la stessa industria cresce, si verifica in agricoltura. L’adozione di tale strumento ha fortemente oscurato la differenza fra le cause che danno luogo alle due opposte tendenze rispetto ai rendimenti e certe ambiguità nella definizione del senso in cui un fattore debba essere considerato costante ha rafforzato e contribuito a creare tale oscurità, perché quando il fattore costante venga considerato come fissato in senso assoluto, non solo rispetto alle crescite ma anche alle decrescite, c’è la possibilità che si verifichi un caso in cui i rendimenti crescenti si verifichino al di fuori delle condizioni che sono tipiche e che dunque non abbiano nulla a che vedere con le condizioni di produzione su larga scala che formano invece la base più comune in cui si verificano i rendimenti crescenti. Tale forma eccezionale che propone in quel caso i rendimenti crescenti è chiaramente portata avanti nelle prime formulazioni (della teoria economica ndr)  È l’idea che ha espresso in modo assai chiaro l’economista francese Turgot nel 1768 e dunque siamo proprio agli inizi della formulazione di una legge dei rendimenti decrescenti in agricoltura. Nelle sue “osservazioni” a favore delle tasse indirette egli afferma: “Le sementi gettate su un suolo naturalmente fertile ma totalmente impreparato sarebbero un anticipo quasi completamente a fondo perduto. Una volta che il suolo fosse arato e preparato, il prodotto sarebbe più grande; rassodandolo e curandolo una seconda volta il prodotto aumenterebbe ancora … e potrebbe crescere anche più da tre o quatto volte fino a dieci. Il prodotto dunque sarebbe destinato ad aumentare in una proporzione maggiore rispetto all’aumento degli anticipi e fino a un certo punto cioè fino a un punto massimo. Superato quel punto se gli anticipi continueranno ad aumentare il prodotto crescerà ancora ma in misura minore essendo la fertilità della terra sempre più esausta …”

Fin qui Turgot. Scrive Sraffa a commento:

Questo passaggio è assai notevole non solo per la novità che esso costituisce in quegli anni, ma per la precisione con cui la materia viene trattata. Nella sua prima parte dove si assume che il primo anticipo cioè “le prime dosi di capitale e lavoro” applicate a un certo tratto di terra danno un ritorno crescente, egli sta semplicemente notando ciò che avverrebbe se un agricoltore con limitate risorse non sapesse il modo migliore di usarle.

La sua riflessione è altrettanto significativa quanto il brano di Turgot perché non si limita a un semplice commento ma ne modifica in parte i presupposti e introduce altri elementi su cui occorre fermarsi puntualmente. Turgot parlava solo di sementi mentre Sraffa parla di dosi di capitale e di lavoro, introduce cioè un altro elemento, ma che non contraddice l’affermazione che il primo anticipo è quasi a fondo perduto. Qualsiasi attività nuova è basata su un anticipo dal rendimento crescente ma incerto per definizione.

In effetti curando il suolo una, due o più volte, egli ottiene quattro volte quello che si otterrebbe arandolo una sola volta e se le sue risorse non gli permettono di arare e preparare l’intera area disponibile fino al raggiungimento della massima efficienza, è chiaro che sceglierebbe questa strada, lasciando l’altra parte del suolo non coltivato.  …. 

Anche questo  non è un semplice commento. Sraffa amplifica il modello di Turgot e lo rappresenta nel prosieguo in un diagramma. Varrà la pena tornare già a questo punto all’introduzione delle Lezioni, proprio a quel preambolo in cui per la prima volta si rivolgeva ai suoi studenti per invitarli, nel suo modo sempre in traslato, a leggere i classici. In quell’occasione aveva usato per convincerli una frase lasciata quasi cadere con nonchalance:

 … Poi, naturalmente ci sono gli Economisti Classici. La miglior cosa da fare sarebbe di leggerli in originale – sono sicuro che li trovereste più leggibili e meno astrusi dei moderni economisti.

Possiamo riprenderla ora per una costatazione che penso si sia già imposta a chi legge. Ogniqualvolta si torna ai classici l’esposizione dei problemi risulta chiara e comprensibile, anche se incompleta e infatti, in questo caso, come in altri, Sraffa non manca di aggiungere dati, ma sempre a partire da un nucleo di comprensibilità che è invece assai più arduo quando si tratta di confrontarsi con le teorie marginaliste. Lo stesso linguaggio di Sraffa diventa a sua volta più oscuro, in quel caso, cosa che non è affatto laddove la materia economica s’impone nella sua fisicità e materialità: è così per esempio, nella parte che segue, che presenta carenze di comprensione anche in inglese, specialmente a causa della scelta di non rendere disponibili i diagrammi. In ogni caso ho deciso di mantenere la traduzione perché essa rende comunque più comprensibile lo sviluppo del ragionamento successivo.

Tutto questo può essere rappresentato in un diagramma. 1) l’ottimo non è il massimo marginale ma la media massima 2) corrisponde all’ intersezione. 3) Questo può essere dimostrato nell’osservare che la curva media deve cresce fino a che non incontra quella marginale, e cade non appena l’ha incontrata: infatti ogni punto appena precedente l’intersezione è una media fra un punto medio più basso e uno più elevata della curva marginale – perciò deve essere più alto del punto appena precedente; dopo l’intersezione è una media fra un punto in cui le due ordinate sono uguali e un punto marginale più basso.  4) Proprietà delle due curve: area marginale= rettangolo della media. Ora nessuno dei punti sulle due curve che abbia una ascissa minore di OM può essere un punto di equilibrio per il proprietario agricolo e questo equivale a dire che egli continuerà a immettere dosi crescenti di capitale e lavoro fino a che non raggiungerà il massimo di ritorni possibili, sempre che disponga delle risorse necessarie. Se esse non saranno adeguate, restringerà l’area di coltivazione in proporzione alla risorse disponibili, perché in questo modo egli otterrebbe un prodotto maggiore di quello ottenibile da un trattamento superficiale dell’intera superficie coltivabile. In generale si può dire che l’agricoltore coltiverebbe quella porzione di terra che gli consente di raggiungere il rendimento massimo.

A questo punto, Sraffa applica lo stesso principio valido per l’agricoltura all’intera economia:

Ora, abbandoniamo il caso particolare delle terra che abbiamo considerato perché, in definitiva, il caso dei rendimenti decrescenti che dipendono dai cambiamenti nelle proporzioni dei fattori riveste un carattere generale che è presente in ogni sorta di impresa. Se stipiamo più gente nello stesso bus, oppure facciamo correre un numero maggiori di treni sulla stessa linea, oppure mettiamo lo stesso lavoratore a occuparsi di un maggior numero di macchine … tutto questo significa utilizzazione sempre più intensiva, fino a che si raggiunge un margine in cui i vantaggi e gli svantaggi si bilanciano. Mi sembra allora necessario, vista la grande varietà di circostanze che portano ai rendimenti decrescenti, cercare di capire che cosa tutti questi diversi casi hanno in comune, visto che portano ai medesimi risultati.

La scelta dei due exempla è assai importante in sé e perché sotto traccia è avvertibile anche una critica alla teoria di Ricardo del massimo profitto come infinito, criticata anche da Marx. Ne parlano anche Neri Salvadori e Kurz in questo passaggio:

Sraffa diede credito a Marx per avere scoperto che in queste condizioni il saggio massimo di profitto era finito e non infinito, (cui portavano invece come conseguenza come le assunzioni di Ricardo), e per avere specificato che la sua grandezza è uguale all’inverso delle composizione organica del capitale considerato come insieme … 

Dagli exempla si può anche comprendere il motivo per cui Sraffa non dimentica mai la consistenza fisica dell’economia, perché in definitiva sono proprio i suoi limiti fisici a porre dei confini alle teorie, mentre l’accumulazione di capitale e gli algoritmi si muovono nella cattiva infinità. Partire dalla terra, allora, per dire che le superfici coltivabili non possono essere estese all’infinito, non è un modo naif di guardare all’economia, ma è il solo modo realistico. La cattiva infinità esiste solo nel mondo degli algoritmi e delle proiezioni, ma su questo come su altri punti saranno illuminanti le riflessioni di Keynes sulla matematica applicata all’economia e la ripresa di Anna Carabelli nei suoi libri dedicato all’economista britannico. Così prosegue la disamina intorno al problema dei rendimenti decrescenti:

La scorsa volta ho iniziato a esaminare le basi su cui i rendimenti decrescenti possono essere considerati quasi come una tendenza universale che opera nelle più svariate sfere della produzione (e in un certo senso anche nel consumo), quando avviene un cambiamento nelle proporzioni in cui i fattori che sono stati diminuiti come quantità vengono ora ripristinati. La varietà delle industrie è così grande che molti autori hanno pensato che sia impossibile parlare di una singola legge dei rendimenti decrescenti e che occorrerebbe considerarli per ciascuna industria presa singolarmente e riferendosi dunque solo alle circostanze particolari di quell’industria specifica perché in ciascuna di loro ci saranno cause specifiche che provocano tale tendenza, e che tali cause sono senza relazione alcuna con altre che si verificano in altre industrie. Perciò, se il risultato è il medesimo in casi diversi, tale eguaglianza deve essere considerata come puramente accidentale e non ricondotta a una causa comune. Ora appare molto improbabile che risultati simili dovrebbero originarsi a partire da circostanze completamente differenti l’una dall’altra e senza una causa comune. D’altro canto molte parti importanti della teoria economica che fanno propria la convinzione dell’esistenza dei rendimenti decrescenti si baserebbero su fondamenti davvero instabili se, prima di applicarli a una particolare industria, fosse necessario provare che a causa di un accidente fortunato, le condizioni tecniche di quella industria danno luogo al fenomeno dei rendimenti decrescenti.

La logicità di questa obiezione è assai sottile e anche con un fondo di ironia. Quella che segue, infatti, è una vera e propria stroncatura.

Ciò che cercherò di dimostrare oggi è che i rendimenti decrescenti non dipendono dalle peculiarità tecniche di un’azienda o dell’altra, ma dall’azione dell’agente umano che concretamente controlla la combinazione dei fattori cercando di massimizzare il risultato. La sua azione tesa ad allargare il più possibile il rendimento che può ottenere dalla situazione data è il fondamento del carattere universale che si manifesta nei rendimenti decrescenti. Questo non significa negare che i fattori tecnici possano spingere nella stessa direzione; semplicemente mi limito a sostenere che ai fini della teoria economica non è necessario assumere che essi dovrebbero farlo. Se lo fanno tanto meglio, ma se non lo fanno tale fatto non è sufficiente ad inficiare le teorie economiche basate sull’assunzione del dato dei rendimenti decrescenti. Questa interpretazione richiede la realizzazione di due condizioni: 1) che l’imprenditore nelle sue decisioni sia governato dal principio di sostituzione. 2) che ci sia un certo grado di varietà e di indipendenza fra le unità che vengono prese in considerazione. Per esempio quelle che compongono il fattore variabile, oppure fra le unità che compongono il fattore costante, oppure ancora fra i metodi in cui i due fattori possono essere combinati fra loro cioè i modi in cui il fattore variabile possa esser utilizzato  (A questo punto nel testo compare in italiano la parola spiega, ndr.) Date tali condizioni i rendimenti decrescenti si verificheranno perché l’imprenditore stesso valuterà che gli sia conveniente mettere a punto successive dosi o unità di quei fattori e degli usi cui li destina, in un ordine decrescente dai più efficienti ai meno. Inizierà producendo modeste quantità e usando le migliori combinazioni possibili e con la crescita del suo prodotto nonché le dosi più produttive fino a che non si raggiunge un punto massimo dal quale si può soltanto tornare a dosi meno efficienti.

L’espressione agente umano usata da Sraffa non va qui intesa in senso individuale, anche se il testo conserva su questo una certa ambiguità. In realtà, affermare che ai fini della teoria economica non è necessario assumere i fattori tecnici come rilevanti, significa togliere l’alibi che nasconde in realtà che ciò che accade è dovuto a decisioni che stanno tutte in alcune mani e non in altre. Lo vedremo meglio alla fine dell’intero ragionamento.

Prendiamo il caso dell’agricoltura. Anche nel suo caso, la prima ipotesi formulata era che i rendimenti decrescenti erano dovuto alle condizioni tecniche. Mill è stato il primo a suggerire tale interpretazione e sembra in contrasto con l’opinione di Ricardo. La definizione di Mill è adottata in molti libri di testo. Dice che ‘il rapporto decrescente tra prodotto del suolo e investimento è una di quelle verità che i testi di Economia Politica prendono a prestito dalle scienze fisiche alle quali più propriamente appartengono’. Ciò significa affermare che la tecnica agricola determina in modo definitivo il modo in cui le successive dosi di investimento devono essere impiegate su un terreno dato, e pure che, a causa di ragioni che dal punto di vista di vista economico appaiono come accidentali, determina il fatto che il prodotto di successivi investimenti diminuisce al crescere dell’esborso totale. (Il testo a questo punto finisce con la parola Unset. ovvero unsettled, non definitivo Ndr.) L’agricoltore non avrebbe scelta rispetto al modo di spendere una unità di capitale che lo ripaghi al meglio, tutto sarebbe dunque determinato da una legge fisica, indipendentemente dalla sua scelta e azione. In effetti le cose stanno in modo differente. Quando l’agricoltore ha speso una certa cifra annua per un tratto di terra dato, e si propone di spendere in aggiunta altre 100 sterline, non c’è alcuna legge fisica che lo costringa a spenderle in un determinate modo che non impieghi considerazioni di tipo economico. La tecnica agricola offrirà all’agricoltore un ventaglio di modi differenti in cui l’investimento addizionale di 100 sterline possa essere impiegato. Supponiamo di definire queste diverse e possibili soluzioni come A.B.C. D ecc. la tecnica agricola suggerirà all’agricoltore quale ammontare di prodotto può aspettarsi dalle diverse ipotesi. Ma oltre questo la tecnica non potrà andare. In primo luogo la chimica agricola o quella fisica non ha alcun modo di paragonare una tecnica di concimazione oppure di aratura rispetto a un’altra definendo in quale modo una può essere migliore dell’altra: questo lo si può fare solo riducendole a una qualche unità comune. In secondo luogo non esiste alcuna ragione per supporre che il prodotto aumentato sarà dello stesso tipo e qualità di quello ottenuto con l’investimento della prima dose di capitale e lavoro. I rendimenti decrescenti rilevanti per l’economia non implicano in alcun modo che se il prodotto finale è accresciuto il tipo di raccolto rimanga costante. Può essere che in un primo tempo il modo migliore di spendere le prime dosi sia quello di usare la terra come se fosse una foresta; con l’aumento della spesa si può decidere di allevare bestiame, poi ci si può rivolgere a un tipo di raccolto, poi accrescendo di nuovo l’investimento la terra può essere trasformata in una serra per coltivare verdure. Il confronto fra i rendimenti di successive dosi marginali non può avvenire su basi puramente fisiche cioè non possiamo dire se qualche metro cubo di legno è più grande più piccolo in quanto prodotto a uno staio di grano senza ridurre i due prodotti a una misura comune, cioè che stabilisca quale sia il loro valore. Supponiamo che il miglior rendimento sia ottenuto  usando l’impiego di tipo B. Se dopo questo l’agricoltore vuole spendere altre 100 sterline la sua scelta si restringerà: rimarranno solo i metodi che possono essere usati adattandosi al metodo B, sia che si parli di differenti unità dei fattori oppure di un cambiamento di uso. La scelta sarà ristretta a A,C,D e così via. Nelle condizioni dell’agricoltore cioè, se dopo l’impiego del metodo B la produttività degli altri metodi rimane inalterata, (il che può succedere solo se essi sono del tutto indipendenti da B), è chiaro che la seconda dose di 100 sterline immesse darà un rendimento inferiore o al limite uguale a quello di una dose se i diversi e possibili metodi di spesa non sono indipendenti abbiamo due casi possibili. Se nelle nuove condizioni e cioè dopo che è stato usato il metodo B, i rendimenti ancora disponibili grazie a quel metodo sono decrescenti, ci troviamo di fronte a una caso di legge fisica dei riendimenti decrescenti che si manifesta in modo cumulativo. Se, d’altro canto, dopo avere impiegato il metodo B la produttività degli altri metodi che sono stati lasciati ma che sono ancora disponibili  viene aumentata, sembra che ci troviamo di fronte a rendimenti crescenti. Ma questo solo perché l’agricoltore ha fatto male i suoi conti. In effetti, in questo caso, avrebbe dovuto spendere il primo apporto addizionale di 100 sterline non per usare il metodo B per l’intera superficie della terra ma adottare una combinazione fra il metodo B e il metodo C … Perciò se l’agricoltore avesse fatto bene i calcoli, questo  sarebbe al massimo un caso di rendimenti costanti e non crescenti. Si tratta infatti del caso che abbiamo preso in considerazione nella lezione precedente quando abbiamo visto che arando e rassodando due volte la terra, essa dà un prodotto superiore al doppio rispetto ad averlo rassodato una volta sola. Perciò se l’ammontare di capitale è limitato, soltanto metà della superficie di terra deve essere coltivata ma rassodata due volte. Perciò, se le condizioni che abbiamo assunto si realizzano, rendimenti decrescenti o costanti si realizzano applicando dosi successive dei fattori diversi a un fattore costante, indipendentemente dalle particolarità tecniche che caratterizzano un’industria o l’altra. Da questo punto di vista possiamo capire le ragioni di Ricardo, e generalmente degli economisti classici che hanno sempre enfatizzato che i rendimenti decrescenti sorgono dalla coltivazione prima delle terre più fertili e poi passando gradualmente a quelle sempre meno fertili, e lasciato sullo sfondo la questione delle dosi successive di capitale e lavoro impiegati sulla stessa terra il che equivale a dire l’estensivo opposto all’intensivo. È certo e anche ovvio che la produttività della terra in un dato tratto è in larga misura indipendente dalla circostanza se la terra accanto sia coltivata o meno, ma la produttività di una data dose di capitale è in generale meno dipendente dalle altre dosi che sono spese nello stesso tempo sulla medesima terra. Perciò la generalità ed affidabilità della legge dei rendimenti decrescenti è maggiore in un coltivazione estensiva che non in quella intensiva.

Tutto il ragionamento ha il significato di ribadire che in realtà i rendimenti decrescenti non sono in realtà altro che rendimenti costanti in alcuni casi e che la loro decrescita è dovuta a limiti fisici non superabili. Chi prende però le decisioni? Mi sembra importante richiamare, proprio a questo punto del discorso, ciò che scrive Emiliano Brancaccio, in dialogo con Augusto Graziani. Il testo completo del saggio si trova anche in Sinistra in rete ma non è difficile trovarlo anche in altri siti. È doveroso ricordare che il dialogo fra Brancaccio a Graziani ha molte sfumature e che dunque il brano che segue va considerato un’interpretazione che, per quel che vale, condivido pienamente.

Sul problema delle quantità prodotte date di Sraffa, tuttavia, Graziani ha proposto una diversa chiave di lettura. Anche l’interpretazione grazianea si situa dal lato della linea di demarcazione che spetta alla visione marxiana, vale a dire del capitalismo inteso come processo “circolare”. Graziani, però, sembra distanziarsi per più di un aspetto dalla concezione delle quantità date suggerita dagli interpreti sraffiani tradizionali. Per Graziani, non è detto che nel sistema sraffiano la composizione della produzione si adatti alla composizione della “domanda effettuale”. A suo avviso, piuttosto, Sraffa potrebbe avere omesso di analizzare il modo di determinazione delle quantità prodotte per sottolineare che quelle quantità sono frutto di una decisione autonoma da parte dei capitalisti. La scelta di considerare date la scala e la composizione del prodotto sociale potrebbe cioè costituire un modo per evidenziare che la produzione capitalistica si realizza in un contesto asimmetrico, in cui la sola classe dominante fissa a priori le quantità prodotte, determina anche la loro ripartizione e per tali vie esercita un potere sulle altre classi. Questa chiave di lettura, secondo Graziani, consentirebbe tra l’altro di ipotizzare l’esistenza di un filo di congiunzione tra l’opera principale di Sraffa e alcune tesi precedenti che lo stesso Sraffa, ispirato dal Trattato della moneta di Keynes, aveva avanzato in una recensione critica ad Hayek (Graziani 1986) … L’interpretazione grazianea di Sraffa mi è sempre parsa interessante per una sua potente implicazione teorico-politica. Attribuendo alla classe capitalista un potere di decisione autonoma sulla scala, sulla composizione e quindi anche sulla ripartizione del prodotto sociale, Graziani fa piazza pulita di qualsiasi possibilità di riabilitazione del concetto neoclassico di sovranità del consumatore … Ma non è finita qui. Assumendo che la classe dominante decida le sorti della scala, della composizione e della ripartizione sociale della produzione, Graziani sembra dubitare della possibilità di incidere su tali grandezze attraverso le rivendicazioni salariali o le pressioni sulla domanda effettiva esercitate con i consueti strumenti di politica monetaria e fiscale. Che si tratti di rimediare ai guasti del capitalismo sul versante della disoccupazione di massa, o delle disuguaglianze sociali, oppure anche della crisi ecologica, le possibilità di intervenire sulla domanda per correggere le distorsioni del processo produttivo appaiono frustrate se contrastano con le autonome decisioni della classe dominante. Così, assieme al singolo consumatore, anche il lavoratore in lotta per il salario e il politico keynesiano illuminato sembrano finire nell’oblio dei soggiogati dalla forza del capitale. Si potrebbe sintetizzare il tutto affermando che lo Sraffa “dopo” Graziani risulta alquanto scettico sulla concreta efficacia del “riformismo”, inteso come quel complesso di prassi politiche che tentano di disciplinare la dinamica capitalistica tramite strumenti di regolazione della domanda, autorità di controllo dei mercati e incentivi di vario genere, ma che rinunciano a qualsiasi forma di governo collettivo della produzione. Uno scetticismo tanto più disturbante quanto più se ne ravvisi l’attualità.

Riprendiamo le lezioni. Quanto detto in precedenza potrebbe rendere superfluo quanto segue, ma il ragionamento di Sraffa è talmente elegante, che vale la pena di leggerlo, fosse pure soltanto per ragioni estetiche.

Penso di dovere andare oltre la questione del significato delle Curve Funzionali  e delle Curve descrittive … e affrontate la differenza introdotta da Marshall  fra quelle che egli chiama “curva particolare delle spese” e curva dell’offerta; più in generale  con la  determinazione di quale tipo di rendimenti decrescenti sono rilevanti per l’analisi economica dell’offerta di una merce che sia distinta però dalla tipologia che vediamo coinvolta nella distribuzione dei fattori della produzione secondo il loro prodotto marginale. Secondo la distinzione di Wicksteed, in una curva funzionale la relazione fra costo e quantità  marginale e numero delle unità impiegate è una necessità, nel senso che è basata su una relazione di tipo causale: dal momento che le unità di un fattore variabile sono  identiche a un altro, ciò che producono non è una peculiarità della dose marginale a renderli meno produttivi, ma semplicemente al fatto che tale dose (di investimento ndr)  è stata impiegata insieme ad un numero dato di altre dosi. Perciò la curva funzionale attuale  rappresenta l’ordine delle cose per come accadono empiricamente, laddove la curva descrittiva rappresenta un ordine arbitrario selezionato dall’economista, che non è necessariamente coincidente con l’ordine degli eventi. La curva descrittiva è costruita arbitrariamente ponendo in un ordine discendente di efficienza un campione differente di terreni. Ma in questo caso la produttività della terra marginale non dipende dal fato di essere stata impiegata dopo che tutti gli altri terreni siano stati impiegati. Supponiamo che il terreno marginale, in uno stato di equilibrio dato, sia la millesima unità. Ora, tale terreno, che occupa il millesimo posto nell’ordine dei terreno, avrebbe esattamente la stessa fertilità e perciò la medesima produttività se esso fosse coltivato dopo una serie di unità piccolo o grandi che fossero, coltivate in precedenza. In una fabbrica, laddove fossero impiegati un migliaio di lavoratori di identica efficienza, il lavoratore marginale non è un uomo dato, Jones o Smith, ma qualsiasi lavoratore: il suo prodotto è determinato dal numero di posto che egli occupa e se invece di essere il 999 esimo di altri fosse uno di altri 2000 il suo prodotto sarebbe interamente differente. Perciò la distinzione fra due diversi tipi di curva sta nella natura della relazione fra prodotto marginale e numero delle unità impiegate: la decrescita in un prodotto è dovuta in un caso da un arrangiamento di tipo arbitrario e a una “legge” necessaria nell’altro. In realtà non esiste alcuna differenza fra le due curve. Una è altrettanto arbitraria quanto lo è l’altra perché in entrambi i casi di decrescita il prodotto marginale è dovuto all’azione del produttore che in prima istanza dosa direttamente al fine di ottenere in ciascun caso il prodotto massimo che preferisce.    

Il prosieguo delle lezioni è comunque importante perché permette alla fine di comprendere alcune delle affermazioni basilari che Sraffa proporrà in Produzione di merci a mezzo merci.

Una relazione fra cambiamento delle proporzioni e cambiamento nel costo di equilibrio in un mercato competitivo – il che equivale a dire che il costo è uguale al prezzo di equilibrio – si verifica soltanto quando la quantità totale disponibile di un fattore per una comunità data è costante – nel senso che non può essere ulteriormente aumentato. Questo fatto non può avere luogo in una sola impresa, ma può essere osservato solo dal punto di vista dell’intero comparto industriale. Il ruolo giocato dalla teoria dei rendimenti decrescenti è perciò radicalmente diverso se consideriamo la singola impresa oppure l’insieme delle imprese Per la ditta individuale esso rappresenta semplicemente una stato di transizione e aggiustamento e quando viene raggiunto l’equilibrio interno questo equivale al massimo possibile e questo significa che al punto di intersezione (fra le curve dei rendimenti crescenti e decrescenti ndr)  (considerando tutti i fattori) e perciò siamo al limite del rendimento costante. Ma il comparto industriale nel suo complesso può essere benissimo in uno stato di equilibrio anche in una zona a rendimenti decrescenti. Questa è la ragione delle difficoltà che sorgono quando si vogliono collegare le condizioni per una singola impresa con quelle generali dell’intero comparto in particolare nella costruzione delle curve totali dell’offerta a partire dalle curve individuali che la compongono. Ci sono molti metodi per arrivare a questo  che si prestano in molti casi a obiezioni, sebbene possano esser utili per alcuni propositi. In primo luogo c’è il metodo di cui ho già detto e cioè organizzare le singole ditte in ordine decrescente per quanto attiene alla loro efficienza. Questo metodo ci fornisce un diagramma molto simile a quello dei costi crescenti nella curva dell’offerta, ma senza che abbia con essa qualcosa in comune: si può usare il diagramma per la curva particolare della spesa ma non per la curva dell’offerta. La ragione è che non è necessariamente vero che siano le ditte più inefficienti a finire fuori mercato quando c’è una caduta della domanda e che invece vi entrano quando l’industria è in espansione – . … Poi c’è il metodo usato da Marshall in connessione con la teoria degli effetti di miglioramento in agricoltura (credo intenda dire nei metodi agricoli ndr), che riguardano sia il comportamento della singola industria che impiega la totalità dei fattori costanti e spende dosi successive di fattori variabili fino al punto in cui  esso. Il guaio è che questo tipo di curva si basa sull’assunto che non cambino né le economie interne né quelle esterne con la crescita dell’industria; così che ciascuna impresa, dal suo punto di vista individuale, aderirebbe alle condizioni dei rendimenti costanti, ma il numero di imprese componenti l’industria nonché le dimensioni sarebbe del tutto indeterminato. Inoltre tale metodo dimentica completamente che le caratteristiche primarie di un’industria competitiva, e cioè l’equilibrio generale, è il risultato di una serie di equilibri parziali che si raggiungono nella competizione e indipendentemente l’una dall’altra. D’altro canto questa specie di curva collettiva mostra nel modo più evidente gli effetti dei rendimenti decrescenti su scala nazionale e in effetti è sufficiente per testare i limiti su cui è legittimo basare su di loro la curva dell’offerta.

Anche in questo caso non è necessario alcun ulteriore commento.

Il metodo che io credo corretto ha maggiormente a che fare con i rendimenti crescenti per cui non lo tratteremo qui. La sostanza, naturalmente, è di considerare prima di tutto le curve individuali che mostrano variazioni nel costo in quanto funzione delle dimensioni di una industria: successivamente inglobate nella curva collettiva, non la totalità di ciascuna curva ma solo la quantità di costo che corrisponde alla dimensione ottimale di ciascuna azienda – ma in questo modo si tiene conto dei rendimenti decrescenti dovuti al fattore costante solo nella curva collettiva e non in quelle individuali. Ora, voglio concludere la parte dedicata ai rendimenti decrescenti e definirò in breve quali sono i limiti entro i quali una curva dell’offerta si possa basare sui rendimenti decrescenti. Questi limiti, credo, consistano nel fatto che la loro influenza si verifica in casi talmente ristretti da risultare eccezionali.

Come si può constatare la logicità del ragionamento si traduce in una stroncatura senza appello. A questo punto cambia l’oggetto dell’indagine.

Ora, dobbiamo introdurre una distinzione fra due tipi diversi di variazioni nella quantità di un fattore, conseguenti a un cambiamento nella remunerazione:1) aumento o diminuzione della proporzione nella vendita di quel fattore sul mercato da parte del proprietario in cambio di denaro. 2) aumento o diminuzione della quantità totale attualmente esistente di quel fattore, sia che esso venga usato direttamente dal proprietario, oppure venduto ad altri.  Per esempio: un aumento delle ore di lavoro lavorate come conseguenza di un aumento dei salari appartiene al primo caso – e si tratta meramente di una diversa distribuzione del tempo ed energia fra due diversi usi possibili e cioè più lavoro per avere più salario, oppure più ozio; ma in entrambi i casi non muta il totale disponibile: una crescita di popolazione dovuta a un aumento dei salari appartiene invece alla seconda classe. Ora, i teorici del costo di opportunità pensano in realtà alla prima classe e da questo punto di vista essi hanno ragione nel non fare differenza fra un fattore e un altro, la cui remunerazione entra nel costo. Il proprietario terriero è libero di aumentare o diminuire la proporzione di terra da usare produttivamente, come risposta a un mutamento della rendita, tanto quanto il capitalista è libero di aumentare o diminuire la parte del suo capitale che presta ad altri se il tasso d’interesse cambia. Oggi vi propongo di soprassedere ancora sulla questione delle relazioni fra la teoria di Marshall dei costi reali e dei costi di opportunità (o perdita di utilità) da un lato e invece la concezione classica e fisiocratica dei costi, cioè considerata solo quantità fisica di materiale richiesta per il mantenimento del lavoro. Forse dovrei chiarificare a priori cosa sto cercando di mostrare. Credo che Marshall abbia tentato di conciliare due cose che sono incompatibili. In primo luogo egli desidera avere a disposizione una sorta di costi reali che sono paragonabili all’utilità, in modo tale che si bilancino fra loro, quello che chiama rendere uguale l’utilità marginali più i sacrifici più quello che definisce  “simmetria fondamentale”  fra offerta e domanda. In secondo luogo vuole che i suoi costi siano qualcosa di diverso dall’utilità in modo tale da non essere identificato meramente come perdita di utilità. Non credo sia possibile avere le due cose.

Infatti si tratta di una versione sofistica del gioco delle tre carte.

Il primo punto di vista porta diritto al costo di opportunità più identità fra costi e utilità negativa. Poi la quantità totale dei fattori deve essere considerata costante e diventa impossibile spiegare le variazioni sul totale disponibile. Il secondo porta alla teoria classica dei costi che essendo una quantità di materiali e non di sentimenti non si può rendere uguale alle utilità marginali … L’idea di “costo reale” sostenuta da  Marshall porta necessariamente come conseguenza logica al concetto di “costo di opportunità” e tale conseguenza è inconsistente se si considerano le due fondamentali dottrine di Marshall e cioè: 1) che “utilità e costi reali sono le due forze opposte che determinano il valore delle merci”. 2) Che la rendita “non è parte del costo di produzione”, mentre l’interesse e i salari lo sono, così che la rendita viene ad avere una posizione del tutto differente da quella di interessi e salari in relazione al valore …

L’obiezione logica non sembra tuttavia bastare a Sraffa che riprende il discorso introducendo nuovi elementi:

A questo proposito vanno notate diverse cose: 1) le due cose (sacrifici e sussistenza) non  possono essere addizionate e se lo potessero ci sarebbe una duplicazione e cioè sacrifici da parte del lavoratore e sacrificio dei suoi genitori (parents ndr). Questo non sono affatto costi reali nel senso di Marshall: piuttosto essi rappresentano delle utilità per il lavoratore.

L’uso di una parola come parents e il ribadire che è proprio quello s’intende, lascia a prima vista perplessi. Cosa c’entrano i genitori di un figlio che lavora e cosa bisogna intendere qui per sacrifici e sussistenza che non si possono sommare? L’argomento, in realtà, era già stato trattato da Sraffa e sembrava in effetti concluso. Vediamo però prima di tutto di capire cosa sono sacrifici, utilità e costi di opportunità per la teoria marginalista. Faccio due esempi mettendomi dalla parte del consumatore. Se mangio tutti i giorni in casa, il mio comportamento è un’utilità per il supermercato sotto casa dove vado a fare la spesa: ovvio. Solo che il marginalismo non si ferma qui e scopre che il mio comportamento è una disutilità per la trattoria che si trova anch’essa sotto casa. Anche in questo secondo caso siamo dalle parti dell’ovvio, ma se poi si pretende che per la trattoria io sarei addirittura un costo o un sacrificio, ecco che le cose cambiano perché la stessa cosa – il mio comportamento – viene spostata dalla parte dell’utilità o dei costi a seconda delle esigenza della teoria, ma in questo modo si ha una duplicazione indebita: insomma siamo sempre a una versione più o meno raffinata del gioco delle tre carte. Il testo prosegue in questo modo:

Le “necessità per efficienza” non è affatto un sacrificio per lui (e neppure per i suoi genitori per quanto attiene alla formazione, ecc.. ). Se fanno un sacrificio questo non è affatto compensato dal salario che non riceveranno, ma se mai il piacere di stare bene e avere figli che vanno a scuola) (in ogni caso per i genitori questi sarebbero non costi negativi ma perdita di utilità. 3) Ciò che essi hanno è costo nel senso inteso dagli economisti classici,  cioè “anticipi di lavoro” per il cibo richiesto dal lavoratore, carburante per la macchina, ecc. ecc. e per i quali il concetto di utilità non entra affatto. Ma allora ciò significa che i costi non sono disponibili per la teoria di Marshall che richiede un tipo di costi che dovrebbero essere misurati in termini di bilanciamento rispetto alle utilità cioè sarebbe dello stesso tipo.

Vediamo di cominciare a dissolvere, o almeno a cercare di farlo, le nebbie che avvolgono queste affermazioni. La prima constatazione, che può sembrare sorprendente, è che in questo brano Sraffa si pone dal punto di vista di una famiglia operaia per ritorcere le argomentazioni marginaliste contro la teoria stessa: su questo non vi è dubbio, visto il reiterato uso della parola parents ma anche l’accenno al training, cioè alla formazione diremmo oggi: e poi la scuola ecc. Anche in questo caso, Sraffa riprende un’argomentazione che aveva già usato, ma allora si era posto soltanto dal punto di vista del lavoratore singolo, mentre in questo caso ingloba nel ragionamento l’intera famiglia. Vediamo però di scomporre la frase. Sraffa ritorce l’argomentazione soggettivistica su cui si basa la teoria marginalista per dire, in definitiva, che se si assume quel punto di vista, ogni azione di tipo economico può essere intesa come utilità per qualcuno o il suo contrario per altri, a seconda del punto di vista che si assume; ma questo non ha alcuna rilevanza nella determinazione dei costi e neppure del valore di una merce. In sostanza Sraffa sta dicendo che se una famiglia decide che il figlio invece di andare lavorare è meglio se va a scuola (assumiamo come data la possibilità di scelta), il sacrificio non è il mancato salario, ma la possibilità di stare meglio e avere più tempo da passare insieme: ma queste non sono forse utilità per il lavoratore? Tuttavia, quello che per la famiglia è una utilità, sarebbe un costo per l’azienda che non può usufruire del lavoro del figlio: ma si tratta della medesima cosa non di due. Infatti la conclusione di Sraffa è che i costi non sono disponibili nella teoria di Marshall. E quali sono allora i costi e come si calcolano? Come affermavano i classici e cioè “anticipo di lavoro” per il cibo dei lavoratori, il carburante per la macchina ecc. ecc. È sufficiente tutto questo? No, o almeno dobbiamo sospendere il giudizio, mettendo però in evidenza due questioni niente affatto minori: Sraffa mette fra virgolette l’espressione “anticipo di lavoro” e non è affatto soltanto un vezzo, coma si vedrà meglio nel prosieguo e specialmente in un capitolo di Produzione di merci a mezzo merci.

Tutti gli elementi di costo di questo tipo sono già stati incorporati nel concetto di utilità (dal lato della domanda), in quanto costo di opportunità. Ciò che ancora resta dei costi non è nulla del genere. Infatti siamo rimasti a due tipi diversi di materia (utilità e costi fisici), ciascuno dei quali può essere usato come la sola base della teoria del valore: abbiamo così due teorie indipendenti non una teoria che li prende in considerazione entrambi. 4) In definitiva, questo tipo di costo adottato in ultima analisi da Marshall distingue fra rendimenti che corrispondono a costi reali e ad altri che non corrispondono, ma invece di porre la rendita da un lato salari e interessi dall’altro, egli mette i salari da una parte, e rendita più interesse dall’altra … Questo può essere vero quando s’intende mantenere il livello presente di produzione, ma se si tratta di accrescerlo, si potrebbe dire che il capitale passa dalla classe in cui è rendita del lavoro a quella in cui diventa lavoro.

Partiamo dalla prima affermazione che ribadisce come quello che per Marshall sono i costi è qualcosa già incorporato nel concetto di utilità e non può quindi essere spostato a seconda delle convenienze. Sempre nella prima parte Sraffa ribadisce che una teoria del valore può usare come base i costi fisici, oppure le utilità (che diventano costo di opportunità dal lato della domanda), ma non entrambe. Non è del tutto chiaro a questo punto se Sraffa ritenga che invece sarebbe possibile farlo. Il punto 4 dell’argomentazione, però ci offre un’indicazione precisa e cioè che il costo di Marshall non ha nulla di reale dal momento che non sa distinguere fra rendimenti decrescenti che sono effettivamente costi e altri che non lo sono. La rendita come un anticipo di capitale nel suo costo va inglobato anche l’interesse su quel capitale, ma se si considera il salario non più un anticipo ma una quota del reddito da distribuire il discorso cambia. La frase finale, però, complica ulteriormente il discorso perché mi sembra che qui Sraffa unifichi due problemi diversi.

In questo caso anche il surplus che va in maggiori salari per l’aumento della popolazione cessa di essere un surplus. In effetti non c’è aumento della rendita che possa permettere al proprietario terriero di aumentare il volume della terra ; sebbene non sia provato da nessuna parte che rendite più alti non portino alla colonizzazione di terre incolte, in nuove nazioni o continenti

Anche quest’ultimo brano è assai importante ma anche particolarmente spericolato. Ne propongo una possibile interpretazione. La prima frase è del tutto comprensibile nel sistema sraffiano e cioè che se il surplus va in maggiori salari cessa di essere surplus perché è reddito.

Veniamo ora alla parte conclusiva delle Lezioni, dove Sraffa sembra finalmente prendere per le corna il toro dei costi e la connessione con il valore.

… Ora, lasciando da parte le interpretazioni estreme dei costi, quali sono le condizioni in base alle quali è possibile affermare che le spese di produzione determinano il valore di una merce? La questione ci riporta a un’altra e cioè se i costi variano o meno se cambiano le quantità prodotte. Naturalmente s’intende i costi costanti per unità per prodotto, non il costo totale, qualunque sia l’ammontare del prodotto. La confusione può sorgere, come abbiamo visto, quando l’ammontare di un fattore è costante … Quando una merce è prodotta in condizioni di costi costanti, il suo valore è interamente determinato dai costi. (passaggio non chiaro ndr). Nel mondo reale c’è una differenza fra i due casi … Nel primo caso il totale è davvero costante, mentre nel secondo cambia in proporzione delle quantità prodotte L’aumento di domanda per Mashall non ha alcuna influenza sul valore nel caso di costi costanti: Nel caso estremo in cui la curva della domanda è più bassa della curva dei costi, niente sarà prodotto, ma se qualcosa lo sarà esso sarà venduto a un prezzo fissato.

Naturalmente, gli economisti classici conoscevano la legge dei rendimenti crescenti e decrescenti, ma non pensavano che essa avesse a che fare con la valore di una particolare merce. Altrettanto non trattarono mai il problema in connessione con le questioni dello scambio, ma sempre come parte  della teoria della distribuzione e dei metodi di produzione. I rendimenti crescenti giocavano un ruolo minore nell’economia classica,  il solo aspetto preso in considerazione era la divisone del lavoro come mezzo per accrescere la produttività: ma la divisone del lavoro era per loro dovuta molto di più alla generale progresso della società che non alla crescita di una particolar industria. I rendimenti decrescenti furono invece molto enfatizzati da Ricardo e dai sui amici e avevano chiara la connessione fra essi e la produzione globale; ma la consideravano soltanto in connessione alla crescita della popolazione e la teoria della rendita.

La posizione dei RD (Rendimenti Decrescenti) è diversa quando consideriamo la teoria dell’equilibrio generale di tutte le merci e di tutti i fattori della produzione. Il punto essenziale è che la teoria del valore di particolari prodotti e la teoria della distribuzione del prodotto totale non sono  considerate del tutto separate e distinte (così come viene detto da Marshall nei Principi). I due problemi sono risolti simultaneamente e considerati come un problema solo. Non propongo oggi di entrare nel dettaglio della teoria dell’equilibrio generale, lo farò nella prossima sezione. Voglio solo mostrare qui la parte che penso i RD debbano occupare in essa. Supponiamo un caso molto semplice. Un certo numero di merci differenti sono prodotte da due fattori della produzione, diciamo la terra e il lavoro: assumiamo allora che una certa quantità di entrambi i fattori sia necessaria per ogni prodotto, ma che la loro proporzione possa variare, poi assumiamo anche che tutte le unità di terreno siano di qualità uniforme e anche le unità di lavoro. La condizione di equilibrio sarà quella in cui il prodotto marginale del lavoro sia uguale in tutte le altre industrie, così come pure la produttività marginale della terra (salari più affitti in valore uniforme). In tale posizione di equilibrio … il valore del prodotto marginale dipenderà dalla ripidità della curva della produttività di dosi di lavoro applicate a un’area fissata di terra, quanto più ripida sarà la curva più grande sarà la proporzione del prodotto che va in affitto, più piccolo sarà il costo marginale in lavoro  (valore per unità) dal momento che tale valore moltiplicato per l’affitto in prodotto deve essere uguale in tutte le industrie. Tutto ciò può essere rappresentato da diagrammi che si riferiscono ad aree uguali impiegate in industrie diverse. Al fine di accertare tale questione il diagramma rovesciato delle produttività deve essere rappresentato in questo modo:  affitto salari affitto salari. In entrambi i diagrammi gli assi rappresentano uguale ammontare del fattore (a o b) prodotto del  lavoro.  In questo modo avremo che più lavoro sarà speso su ciascun acro nelle industrie in cui i rendimenti da lavoro scendono lentamente e minor lavoro dove i rendimenti scendono bruscamente. (La stessa cosa può essere rappresentata altrettanto bene in termini di produttività marginale della terra assumendo che successive dosi di terra siano impiegate a quantità costanti di lavoro). Supponiamo ora che, stante tale situazione di equilibrio, ci sia un aumento della domanda di uno dei prodotti. In che modo il valore del prodotto ne verrà toccato? Dal momento che i RD sono ottenuti da ciascuno dei fattori sembrerebbe che il valore debba crescere. Ma non è così. La semplice informazione che l’aumento della curva della domanda di un prodotto non è sufficiente per capire cosa accadrà del suo prezzo. Tutto dipende da quale sia l’origine dell’aumento avvenuto nella domanda. Possiamo così distinguere due casi: 1) dovuto al cambiamento nel gusto dei consumatori; 2) dovuto a un aumento dell’offerta di uno dei fattori (questo comprende anche miglioramenti e invenzioni), cioè il terzo caso. Se l’aumento della domanda è del primo caso, questo significa che la domanda di un altro prodotto sarà diminuita in proporzioni uguali: dal momento che tutti i prodotti sottostanno alla legge dei rendimenti decrescenti sembrerebbe allora che nulla sia destinato a cambiare. Ma non è così. Lo stesso accade con l’offerta dal momento che tutti i prodotti sono divisi fra fattori di produzione. La domanda totale non può crescere se l’offerta di fattori della produzione rimane invariata. Tutto allora dipende da: 1) se la merce la cui domanda è aumentata è prodotta a una più alta  o più bassa intensità di capitale o di lavoro per unità di terra e paragonata con la domanda della merce che è diminuita  2) se la merce in questione è prodotta con una più alta o bassa intensità di lavoro per unità di terra paragonata alla media di tutte le merci (oppure selezionando una merce standard come unità di valore). 3) Tanto per fare un esempio. Cavoli (alta proporzione di lavoro), Grano (bassa intensità di lavoro). Supponiamo che la domanda di cavoli cresca, e che quella del grano diminuisca. Terra e lavoro si trasferiranno nella produzione di cavoli, ma fino a che le proporzioni rimangono inalterate, una parte della terra sarà incolta. Allora tale porzione si distribuirà sull’insieme delle industrie fino a che il prodotto marginale sarà caduto. Alloro il valore di tutti i prodotti che sono ridotti facendo ricorso a una maggiore quantità di terra (il grano per esempio), cadrà se la paragoniamo al prezzo di quelli che sono prodotti con più lavoro. Si noti che: 1) Se il cambiamento della domanda avviene passando da un prodotto a un altro, che hanno entrambi la medesima proporzione di lavoro e capitale terra, tutti i valori rimangono inalterati; 2) Le proporzioni sono diverse, il valore dell’articolo la cui domanda è aumentata salirà sempre della stessa proporzione in cui cade la domanda di un altro; ma la domanda può anche cadere per tutti gli altri articoli. Fine (in italiano nel testo ndr) Tassa sul prezzo di un prodotto. Se il prezzo salirà per una quota minore, superiore o uguale alla tassa, ciò dipende interamente dal modo in cui il governo intende spendere il gettito; per esempio se deciderà di acquistare merci prodotte in proporzioni uguali oppure no. Un altro caso: aumento della popolazione del 10%. Supponiamo che i gusti dei consumatori siano inalterati. Non si possono aumentare tutti i prodotti, la terra, per esempio è quella che è. Se vi è un aumento di lavoro in una industria del 10%, i prodotti aumenteranno in proporzioni variabili e valori e anche la produttività marginale cambierà.  Il prodotto, tuttavia, crescerà meno dove i valori salgono per cui il nuovo aggiustamento dovuto alla domanda sarà inferiore. (Finito con prova che in condizioni di ritorni costanti il solo costo non determina il valore).

La conclusione che abbiamo raggiunto sui rendimenti decrescenti è che solo in casi eccezionali possiamo usarli come base per la variazione del costo e per la curva dell’offerta di una merce.

Ciò avviene quando la produzione della merce di cui si cerca di determinare il valore impiega la totalità di un fattore nella produzione. (tutto il fattore disponibile). In generale, e cioè quando un fattore che causa i rendimenti decrescenti è usato nella produzione di diverse merci, la curva dell’offerta di queste merci non può prendere in considerazione i rendimenti decrescenti che sorgono da essa senza stravolgere le condizioni essenziali che stanno alla base della teoria del valore di Marshall. Questo è particolarmente vero per l’agricoltura e per la produzione dei minerali più importanti che vengono usati come materie prime in una varietà di industrie.

Raggiungeremo lo stesso tipo di conclusione con i rendimenti crescenti. Il prestigio di cui ancora godono come base della curva dell’offerta è basato sulle variazioni di costo in una singola ditta quando aumenta il suo prodotto. Anche in questo caso, il fatto è irrilevante dal momento che ciò che è necessario per determinare la curva dell’offerta, è il RC (Rendimento Crescente) er l’industria nel suo complesso.

Due casi per la singola azienda: 1) economie interne; 2) spalmatura delle spese generali su un più largo numero di unità. In un regime competitivo, i rendimenti crescenti non possono mai essere causati da economia interne; ciò equivale a dire che la curva dell’offerta di una ditta singola deve sempre comportare costi crescenti. Se in qualche caso ciò non avviene, vuol dire che quella ditta è stata in grado di espandere la produzione indefinitamente fino a ottenere il monopolio del mercato … Perciò RC per un’industria possono scaturire solo dall’esistenza di economie esterne, il che implica che mentre un’industria nel suo complesso sta producendo in condizione di RC ciascuna delle ditte di quel comparto industriale sta producendo in condizioni di RD. Il risultato è che se una singola ditta espande il suo  prodotto i suoi costi salgono; ma se tutte le ditte sono in espansione nel medesimo momento, i costi per ciascuna di esse scendono. Dobbiamo ora prendere in considerazione le relazioni fra le tabelle dell’offerta di una singola azienda e quelle di un comparto industriale nel suo complesso, nel caso di costi in diminuzione. Le economie esterne sono un vincolo che connette le condizioni di produzione di una singola impresa rispetto al complesso industriale. Il costo di produzione di ciascuna non è determinato soltanto dalle quantità prodotte, ma anche dalla quantità della produzione di tutte le altre. Considerando l’equilibrio della impresa individuale dobbiamo perciò prendere in considerazione tre variabili. Il costo, quantità prodotte, e produzione totale. La curva dei costi di una impresa individuale in condizioni di competizione stabilità o equilibrio, deve avere una forma definita. In primo luogo non può mostrare costi crescenti in tutto il ciclo. All’inizio il costo cadrà, perché in caso contrario la competizione obbligherebbe l’impresa a contrarsi, a diminuire indefinitamente il suo prodotto, dal momento che quanto più l’impresa è piccola tanto più è piccolo il prezzo di vendita che può permettersi.  In questo modo il numero di imprese crescerebbe senza limiti e questo non permette di raggiungere l’equilibrio. D’altro canto dovrà finire a costi crescenti perché se i costi continuassero semplicemente a scendere, solo un’impresa rimarrebbe in  piedi in quel comparto e verrebbero meno le condizioni della concorrenza. La curva dei costi medi aggregati dell’offerta avrà in ogni caso una forma di questo tipo: un minimo che corrisponderà a un massimo di economicità, cioè la quantità che potrà produrre al più basso costo per unità di prodotto— Supponiamo che tale curva dia un prodotto che indichiamo come z.

  • Perciò il prezzo di mercato è fissato
  • Definizione di concorrenza: l’individuo non può influenzare il prezzo di mercato.
  • Curva della domanda dal punto di vista delle ditta individuale: diritta
  • Sempre tangente alla curva individuale al minimo (??? Ndr)

In effetti, i costi includono le remunerazioni di tutti i fattori, inclusa l’abilità manageriale. Se la curva non fosse tangente, la ditta avrebbe profitti al di sopra del normale: la causa che provoca questo può essere solo un fattore monopolistico oppure un fattore non preso in considerazione. Se supponiamo una concorrenza perfetta, e una considerazione di tutti i fattori, ciò non può accadere.

  • Prudenza (pag. 310)
  • Dedurre la curva marginale.
  • Curva tridimensionale.
  • Composizione in una curva collettiva sul piano
  • Marginale più media dei due casi
  • Economie esterne che accrescono quelle interne ecc. (quando il minimo individuale slitta verso le conseguenze giuste. (???? Ndr)

Annali in italiano nel testo.

Vediamo un’obiezione che si può sollevare verso il modo in cui ho disegnato la curve di domanda e offerta rispetto a una azienda singola in concorrenza con altre. In primo luogo ho disegnato la curva dell’offerta e ho detto che deve avere una certa forma poi ho sostenuto che la curva della domanda deve essere orizzontale, una linea retta e che in condizioni di equilibrio deve essere tangente alla curva dell’offerta nel punto di costo medio più basso. Secondo il signor Plumpre * questo implica che la curva della domanda venga disegnata prima e solo successivamente quella dell’offerta. In altre parole, la curva dei costi è quella che è perché il prezzo di mercato è quello che è, ed ogni cambiamento nel prezzo implica un cambiamento complete nella curva dei costi. In questo modo il mio ragionamento diventerebbe un circolo vizioso. L’argomento da me usato era questo: se i costi sono più altri del prezzo, l’industria verrà eliminate dal mercato sul lungo periodo, mentre se il costo sono bassi si crea un surplus di profitto e questo implica che non ci possa essere equilibrio e che l’entrata in scena di altre industrie, attratte dai super profitti, riporterà il livello dei prezzi a quello dei costi. Se una impresa gode di un qualche speciale vantaggio e questo può diventare un elemento di monopolio (ma lo escludiamo nel nostro esempio), o altro in uno dei fattori della produzione, la cui remunerazione avrebbe dovuto essere presa in considerazione  nel costruire la curva dei costi. Veniamo al punto di tale obiezione. Credo che la remunerazione di questo tipo di “fattore” che è rappresentato dalla speciale vantaggio di cui gode una ditta specifica, varia al variare del prezzo del prodotto così che la curva totale dell’offerta, se si assume la sua remunerazione come data, deve riguardare un prezzo dato di quel prodotto. La risposta è che possiamo soltanto disegnare una curva dell’offerta in base all’assunzione che il prezzo di un fattore rimanga invariato, così che il concetto di “spese di produzione” venga ad avere un significato definito perché sempre proporzionale ai costi reali: Ciò che muta è la quantità dei fattori impiegati per unità di prodotto, ma non il prezzo. Se cambia il prezzo l’intero schema perde di significato avremo così costi crescenti se li misuriamo dal punto di vista del fattore il cui prezzo sia caduto, e costi decrescenti nel caso contrario Prima di abbandonare questa materia, voglio enfatizzare un paio di punti che sono piuttosto importanti e andrebbero ricordati. 1) la differenza fra costo marginale per una ditta e costo marginale per un intero comparto industriale, una differenza che compare non appena ci sono in gioco economie esterne. Ciò è dovuto al fatto che la media e il costo marginale devono essere uguali per la ditta (dal momento che sono dei punti di flesso della curva dei costi medi), ma sono differenti per l’intero comparto. La proposta di Pigou di pagar dei compensi alle industrie con rendimenti crescenti, al fine di equiparare i prodotti marginali complessivi va in questa direzione.

2) La causa della uguaglianza dei costi medi e della divergenza dei costi marginali fra quelli di una impresa singola e dell’industria nel suo insieme è questa: il costo marginale è relativo a un cambiamento di prodotto – cioè è il tasso di crescita del costo totale in presenza di una crescita del prodotto – e quindi vi sono due costi marginali separati, uno in relazione ai cambiamenti dell’impresa, e l’altro a causa dei cambiamenti nel prodotto totale dell’industria. Mentre il costo medio è semplicemente il costo totale diviso per unità prodotte e perciò non è relativo ad alcun cambiamento, cioè indipendente dai cambiamenti  3) Abbiamo visto come le economie esterne possano influire sulla forma delle curve individuali in modo tale che, quando un comparto si espande, la singola impresa può accrescere il suo prodotto e diminuire i prezzii. Ma questo non contraddice l’affermazione che una condizione di rendimenti crescenti individuali sia incompatibile con la condizione di equilibrio.

Abbiamo visto come tanto con RC a causa di economie esterne, che con RD dovuti a fattore costante, il costo medio e quello marginale per una singola impresa sono uguali. Sono pure uguali al prezzo di offerta dell’industria nel suo insieme. Ma mentre per i RC questo prezzo di offerta è uguale alla media dei costi dell’industria, per i RD  sono uguali al costo marginale. (La ragione sta nel fatto che in regime di RD cresce la rendita e per di più questo incide sul costo della singola azienda ma non riguarda l’industria. Ora, nel caso in cui entrambe le forze e cioè economie esterne più fattore costante, agiscono contemporaneamente in un intero comparto, abbiamo ancora uguaglianza fra utilità marginale e media dei costi per la singola azienda e a loro volta uguaglianza di prezzo di offerta dell’intera industria. Ci dovremmo aspettare questo punto che il prezzo di offerta non sia uguale a quello marginale e neppure alla media dell’industria, ma che sia da qualche parte in mezzo fra questi due costi: ma le cose non stanno così. La curva dell’offerta è più alta sia di quella marginale sia della media dell’industria. Perché? Il prezzo di offerta collettivo deve essere ovviamente uguale al costo marginale per una impresa singola altrimenti lavorerebbe in perdita. Il costo marginale individuale è più alto del margine collettivo a causa delle economie esterne. Ma è anche più alto del costo medio di comparto perché esso è uguale alla media di tutte le singole imprese che includono le rendite e deve per forza essere più alto di quello di comparto che non tiene conto della rendita.

Ora prendiamo in considerazione il caso in cui le due forze, per caso, esattamente si bilancino, per cui per esempio il prezzo di offerta sia costante supponendo che il suo equilibrio sia a una quantità OM e che il totale del prezzo pagato sia OP. Possiamo disegnare una curva che divide quest’area in due: rendita dei fattori costanti e remunerazione dei costi reali. Tale curva in realtà non esiste. Solo il punto P è reale, l’altro non lo è dal momento che la curva intera è soggetta alla condizione che il prodotto sia OM. Essa rappresenta che cosa accadrebbe se le economie esterne fossero assenti  mentre invece sono presenti. Possiamo dedurre tale curva da una curva di indifferenza, in cui le proporzioni fra i fattori sono cambiate, mentre il prodotto no; e quindi, dato che le variazioni nella produttiovità marginale dipendono da proporzioni, ci fornisce la produttività marginale di lavoro e capitale quando le proporzioni mutano..

La maggiore difficoltà nel determinare la nozione di economie esterne riguarda la loro relazione con le invenzioni. Dovremmo rivolgere lo sguardo alle invenzioni e in generale ai miglioramenti nelle tecniche di produzione come parte delle economie esterne che devono essere prese in considerazione per la curva dell’offerta forse? E in caso contrario, dal momento che i costi devono decrescere necessariamente coinvolge certi miglioramenti nelle tecniche, dove vediamo la differenza fra due tipi di miglioramenti che possono essere presi in considerazione e altri no>?> Marshall sostiene che nel costruire lo schema dell’offerta per le industrie a rendimenti crescenti “escludiamo da ogni considerazione le economie che possono risultare da sostanziali invenzioni, mentre dovremo includere quelle che ci si aspetta di vedere aumentare ma nell’ambito degli adattamenti naturali delle idee esistenti.” )(460). Ciò che io ricavo da questa affermazione è che ciò che rilevante non è tanto se le invenzioni sono sostanziali, ma se possono o meno essere previste. Nel complesso ritengo tale distinzione accettabile sebbene da qualificare nel senso che i miglioramenti non devono sorgere naturalmente ma solo come conseguenza alla crescita del prodotto in una industria data. Pigou, d’altro canto, sembra guardare alla dipendenza delle invenzioni dalla crescita del prodotto come il solo criterio della distinzione fra quelle invenzioni che vanno prese in considerazione oppure no. Egli pone la distinzione in questo modo: …v ref..

Ora, a parte il fatto che non è così chiaro per me che non esistano difficoltà logiche nello speculare sulla storia che avrebbe potuto svolgersi diversamente, il problema reale mi sembra questo: Se nuove invenzioni future devono essere prese in considerazione per disegnare una curva di offerta dei rendimenti crescenti, ogni speranza di disegnare una curva attuale dell’offerta deve essere abbandonata per sempre, dal momento che prima che gli economisti possano misurare gli effetti che una nuova invenzione ha sui costi è necessario che tale invenzione sia già avvenuta.

Il prof Pigou distingue fra due tipi di nuovi cambiamenti nei metodi di produzione e nelle applicazioni tecniche dovute alle invenzioni: “Alcuni cambiamenti avvengono più o meno ‘spontaneamente’, cioè sono dovuti a fattori che opererebbero anche se il prodotto dell’industria rimanesse costante. Altri sono invece il risultato dei cambiamenti di scala del prodotto e vengono chiamati in causa in risposta a cambiamenti nella domanda.” … Poi procede nel dare una definizione di industrie a rendimenti crescenti che include, fra tutte le cause possibili dei costi, la seconda classe di invenzioni mentre esclude la prima.

Naturalmente, si potrebbe disegnarle per il passato, ma costruzioni come le curve della domanda e dell’offerta, che inducono a speculare su diverse possibilità in un momento dato, hanno senso solo se proiettate nel futuro. Per quanto riguarda il passato, una delle curve si è effettivamente realizzata mentre  le altre si sono dimostrate impossibili in quelle circostanze. …. È utile tracciare una storia passata se essa può gettare qualche luce sul futuro, ma nel nostro caso lo escludiamo. Le invenzioni passate sono già state fatte una volta per tutte e non si riproporranno in futuro, mentre quelle future se fossero conosciute già, cesserebbero di essere qualcosa di futuro  – dal momento che una invenzione diventa tale nel momento in cui viene conosciuta. Perciò credo che la soluzione corretta per quanto attiene la questione dei miglioramenti della tecnica industriale dovuta a invenzioni, è la soluzione data da Marshall che tutto quello che riguarda metodi superiori processi o forme di divisione del lavoro, o macchine ha senso se le consideriamo se sono conosciute adesso, anche nel caso in cui non siano adottate perché nel momento presente la scala di produzione non le rende convenienti. Ora dobbiamo domandarci: se le curve della domanda e dell’offerta debbono rappresentare, come si suppone facciano, le cause attuali che determinano il valore di una merce, che influenza può avere il fatto che gli economisti le sappiano individuare in modo corretto oppure no? Non è forse vero che un’invenzione ha a che fare con il costo sia che lo si sappia o no? La risposta naturalmente è che la curva dell’offerta, essendo disegnata da un economista, può rappresentare soltanto quello che sa e quando questa conoscenza diverge dai fatti la curva dell’offerta è dalla parte del torto. A parte le nuove invenzioni ci sono altri tipi di miglioramenti nella tecnica dovuta a processi di adattamento delle idee esistenti emerge un’altra difficoltà e cioè che tali metodi sono stati adottati in un momento di crescita del prodotto e non possono costituire una regola  quando il prodotto diminuisce. Perciò Marshall afferma: “La lista dei prezzi dell’offerta può aver ben rappresentato la caduta effettiva nel prezzo di offerta…ma se l’offerta dovesse diminiuire..l’andamento di ritorno prenderebbe un corso inferiore..”

Ma questo è un modo troppo blando di descrivere la cosa: significa che dobbiamo introdurre una nuova variabile e alla lunga il sistema diventa indeterminato. …. il che equivale a dire che in quel caso le curve della domanda e dell’offerta non ci dicono quale sia il valore della merce.  

Questa è la mia ultima lezione del trimestre. Perciò concluderò questa parte dell’argomento trattando delle variazioni di costo. Ho ancora poche cose da dire sui limiti dell’uso delle economie esterne come base dei RC. Abbiamo visto come un secondo gruppo di economie che non possono essere prese in considerazione per la costruzione delle curve di domanda e offerta riguarda i miglioramenti permanenti nei metodi di produzione i quali, se sono stati introdotti in precedenza a causa di un aumento del prodotto, non vanno perduti se c’è una riduzione a una scala precedente. Quando diciamo che non possono essere presi in considerazione, intendo dire che essi non possono essere rappresentati in una curva statica dell’offerta, perché questo causa una modifica nella curva stessa. Una curva rappresenta un’equazione essa dunque può mostrare cambiamenti nella variabili, ma non i cambiamenti nelle costanti – cioè nei parametri che definiscono la forma e la posizione della curva stessa.   Cambiamenti nelle costanti implicano che si debba disegnare una nuova equazione e quindi una nuova curva. Ma c’è un altro gruppo di economie esterne che non possono essere prese in considerazione: quelle economie grazie alle quali la crescita di alcune industrie va a beneficiarne anche altre; il che equivale a dire che il costo di produzione decresce nelle industria nella loro totalità e non soltanto per l’articolo che stiamo considerando.

Escluse dalle economie esterne:

-invenzioni

-miglioramenti irreversibili

-economie comuni ad altre industrie

tali requisiti equivalgono a dire che le economie esterne lo devono essere dal punto di vista delle single aziende, ma da considerarsi interne se si guarda all’intero comparto industriale. La curva dell’offerta basata sulle economie esterne assume per forza di cose che ci sia una stretta interdipendenza fra i costi di una impresa e la quantità prodotta da altre della stessa industria, ma pretende al tempo stesso che vi sia totale indipendenza fra tali costi e la quantità prodotta dalle altre. Perciò, la classe più importante di economie esterne, cioè quelle che derivano dallo sviluppo generale dell’ambiente industriale (Marshall), deve essere espunta dall’analisi: per esempio i costi più bassi di produzione delle nazioni molto industrializzate rispetto alle nazioni ancora agricole, sono dovuti principalmente a fattori di carattere generale piuttosto che caratteristici di una singola industria.… Ora, la ragione  per cui questo tipo di economie esterne non devono essere prese in considerazione è la stessa che abbiamo incontrato a proposito del RD, che sorgono dalla impossibilità di crescita di un fattore che venga usato contemporaneamente in diverse industrie o comparti … Conseguentemente, le condizioni che la curva dell’offerta dell’industria presa in considerazione dovrebbe essere indipendente dalla corrispondente curva della domanda, non sarebbe soddisfatta dal momento che in generale la forma della curva di una domanda di un articolo cambia quando i prezzi delle  altre merci cambiano … Per esempio, la crescita di uno dei fattori, rende possibile lo sviluppo di mezzi di trasporto meno costosi per esempio le ferrovie, e questo vantaggio si riflette ovunque generale piuttosto che da fattori particolari legati a una particolar industria p comparto Tali limitazioni restringono il campo delle applicazioni delle economie esterne alla curva dell’offerta il che non è affatto sorprendente e questa è la ragione per cui si trovano pochi esempi nei libri di testo! Vediamo dunque sia i rendimenti decrescenti sia le economie esterne possono essere prese in considerazione per un numero limitato di casi …

LA SVOLTA.

A questo punto e con ben altra consapevolezza di tutto il percorso, possiamo ripartire dallo Sraffa del 1940. Egli ritorna nello stesso punto dove aveva interrotto la sua riflessione degli anni ’20, ma questa volta riconosce subito la forza dell’argomentazione marxiana:

Marx si appella a un principio comunemente accettato che dovrebbe essere reso esplicito: se due cose sono equivalenti l’una rispetto all’altra devono essere equivalenti rispetto a qualche altra cosa.

Poi prende in considerazione le critiche che vengono rivolte a tale convinzione, in particolare quella di Cassel, ma solo per respingerla. Dopo aver riconosciuto che fra due equivalenti ci deve essere un tertium comparationis ecco la conclusione:

Se si considera il profitto uguale a zero i valori delle merci sono proporzionali alle quantità di lavoro in esse incorporate. A questo caso si applica la teoria del valore lavoro ed il lavoro è la sostanza comune,

Occuparsi di Cassell è la coda delle oscillazioni precedenti ed è l’ultima e lo dimostra in fatto che nelle terze equazioni che entreranno in Produzione di merci a mezzo merci, il lavoro viene quantificato. Anche Neri Salvadori e Kurz ripartono da questo  punto:

Mentre nella prima e nella seconda equazione Sraffa considera il salario come una quantità di merci fisiche, … nel caso preso in considerazione con la terza equazione, dove esiste un surplus, Sraffa s’interroga – tornando a Ricardo –  sulle implicazioni della partecipazione dei lavoratori al surplus e giunge alla famosa proposizione sulla distribuzione e cioè che il saggio di profitto è inversamente proporzionale alla quota di salario erogata. Se i lavoratori partecipano alla distribuzione del surplus il concetto di salario espresso in merci fisiche diviene obsoleto. Tuttavia non si ferma qui. L’adozione di questo nuovo concetto di salario obbliga Sraffa a riconsiderare tutta la questione e a domandarsi quindi che cosa distingue il nutrimento dato a un cavallo, per esempio, con il salario necessario al sostentamento dei lavoratori? Anche questa è una vecchia domanda che era stata posta anche ai suoi studenti nelle Lezioni. La risposta, allora era che il nutrimento del lavoratore fa parte del reddito nazionale mentre quello del cavallo no. Nel 1940, tuttavia, Sraffa aggiunge qualcosa d’altro e cioè che mentre nel caso del cavallo è solo il proprietario a decidere la quantità e qualità del nutrimento, nel caso dei lavoratori dipende dai rapporti di forza. Sraffa chiarisce in un appunto del 1942 che nelle prime due equazioni egli considera il salario alla stessa stregua del foraggio dato a un cavallo.

Questo passaggio dissolve la polemica precedente, quando Sraffa aveva imputato a   Marx, addirittura di occuparsi di cose metafisiche. La necessità di distinguere fra salario e foraggio porterà Sraffa alla necessità di quantificare il lavoro, ma anche a comprendere la differenza fra lavoro animale e lavoro umano in un modo in fondo non diverso dalla considerazione di Marx. La compresenza fra due diverse accezioni del termine lavoro dipende però dalla sua connessione con l’ente generico o meno. Potremmo definire il sistema capitalistico come il tentativo di eliminare completamente l’ente generico e trasformare gli esseri umani in macchine specializzate del tutto alienate da se stesse, nel linguaggio di oggi in macchine post umane. Quindi nel caso di produzione del surplus, il lavoro umano non poteva più essere trattato come gli altri tipi di lavoro (animale ecc.) e dunque come un costo reale espresso in termini fisici, ma bisognava prenderlo in considerazione in quanto tale e quindi nella sua diversità. Dal momento che i salari venivano pagati in relazione al lavoro svolto Sraffa si convinse che il lavoro doveva essere trattato come una quantità misurabile a differenza di quanto sostenuto nel ’27. I dubbi sulle sue idee precedenti, però, emergevano già nel 1929, ma fu solo in questi appunti che il mutamento appare chiaro e credo che abbia a che fare con la cura delle opere di Ricardo.

… Un altro concetto classico perse molto del suo appeal e cioè il salario come ante factum cioè anticipo che implicava di rapportare il salario come appartenente al capitale anticipato all’inizio del periodo di produzione. Ricardo e Marx adottarono il punto di vista dell’anticipazione in un primo tempo, Sraffa li seguì, ma poi avanzo la sua ipotesi di salario come interamente pagato dal prodotto. Tale mossa lo portò a riconsiderare la distinzione classica fra beni necessari e beni di lusso che lo portò infine a distinguere fra prodotti di base e prodotti di non base. Questo passaggio è fondamentale per arrivare alla terza serie di equazioni.      

Considerazioni finali.

Nelle conclusioni Neri Salvadori e Kurz prendono le distanze da Stademann. La materia sarà controversa per un bel po’ di tempo ed è bene dire per l’ennesima volta che l’opera di Sraffa si presta a interpretazioni diverse, anche se la possibilità di accedere ad essa in forma più o meno completa è destinata a far cadere molti pregiudizi se ci si pone da un punto di vista dei suoi sviluppi e quindi anche della sua storia niente affatto lineare. Ecco come essi ricostruiscono il tutto:

…. With regard to Sraffa’s analysis, of (single-product system), without and with a surplus and given (commodity) wages, he pointed out that the general rate of profits and relative prices are fully determined by the ‘objective data’ for which Sraffa har started. Being themselves merely derivates of the given physical conditions, labour value magnitude have no role to play in  this determination and are therefore superfluous in developing a materialist analysis of history…

Riguardo all’analisi di Sraffa del sistema a prodotto singolo, senza o con un surplus, e con un salario dato in forma di merce, egli mise in evidenza che il saggio generale di profitto e i prezzi sono interamente determinati dai ‘dati oggettivi’ da cui l’analisi di Sraffa ha preso avvio. Essendo dei meri derivati di condizioni fisiche date, la grandezza del valore lavoro non gioca alcun ruolo in tale determinazione ed era perciò superflua  ai fini dello sviluppo di una analisi materialistica della storia

Anche Neri Salvadori e Kurz affermano a questo punto che si può considerare valida l’interpretazione di Stademann per il periodo 1927-31 ma non per il dopo. Peraltro, anche considerando quel periodo, abbiamo già visto come in singoli appunti, frasi e qualche nota, i dubbi e gli interrogativi erano già presenti. In realtà, ciò che prevale in quel periodo è la confusione, poco c’è di univoco e la parte di gran lunga più valida della stesse Lezioni è quella in cui Sraffa attacca senza mezzi termini il marginalismo. Le conclusioni di Neri Salvadori e Kurz, che condivido, mettono in evidenza uno Sraffa che riaccredita Marx nella propria analisi; tuttavia, proprio perché la materia è controversa e continuerà ad esserlo, preferisco entrare direttamente nel merito delle Lezioni e delle altre parti dell’archivio – nonché di Produzione di merci a mezzo merci – per arrivare a una qualche conclusione. La questione dei rapporti fra Sraffa e Marx, infatti, va divisa in due parti distinte. Un conto è dire che ci sono stati equivoci e diffidenze ingiustificate nei confronti di Sraffa, che in gran parte si stanno dissolvendo; altro sarebbe sostenere che allora il rapporto Marx-Sraffa sia diventato improvvisamente del tutto lineare, cosa che non è affatto. Inoltre, i due attori principali, non possono più essere lasciati soli: c’è un convitato di pietra fra loro –  John Maynard Keynes  – specialmente dopo i libri fondamentali di Anna Carabelli e altri che tuttavia andranno presi in considerazione, per esempio Augusto Graziani.

3 pensieri su “Verso le conclusioni

  1. Testo di grande impegno per chi lo ha scritto e per chi lo legge.Le riflessioni che genera mi piacerebbe vederle tradotte su un piano di proposta politica.Ci sono esempi che vi si sono avvicinati,Franco? Grazie!

    1. La parte più politica si può trovare nell’articolo di Paolo Di Marco che accompagna sempre questi testi (in questo caso Sraffa, Marx e la primavera):
      con Franco ci siano sempre coordinati proprio per creare un binomio che indicasse – o accennasse- i possibili sviluppi

  2. SEGNALAZIONE

    LUIGI PASINETTI RICORDATO DA RICCARDO BELLOFIORE


    Stralcio:

    “Ricordo ancora lo stupore quando nel 2010 a Roma, ad un convegno su «Produzione di merci» in cui facevo da discussant a Gary Mongiovi, lui, che era il chair, e che il giorno prima era venuto a sentire Scott Carter, volle spendere qualche minuto della sua introduzione per pronunciare parole di forte curiosità ed incoraggiamento nei confronti di una prospettiva un po’ eterodossa sulle carte di Sraffa, come quella di Scott e mia, che non è che fosse stata troppo bene accolta. ”


    Articolo completo dalla pagina FB di Riccardo Bellofiore:

    Ci ha lasciati Luigi Pasinetti. Quella che segue in calce è la sobria nota della Società Italiana degli Economisti. Superfluo ribadire quanto gli dobbiamo un po’ tutte e tutti. Inclusa la mia vecchia sede universitaria (dove ci teneva sempre a venire), ed io stesso personalmente in mille occasioni.
    Ricordo ancora lo stupore quando nel 2010 a Roma, ad un convegno su «Produzione di merci» in cui facevo da discussant a Gary Mongiovi, lui, che era il chair, e che il giorno prima era venuto a sentire Scott Carter, volle spendere qualche minuto della sua introduzione per pronunciare parole di forte curiosità ed incoraggiamento nei confronti di una prospettiva un po’ eterodossa sulle carte di Sraffa, come quella di Scott e mia, che non è che fosse stata troppo bene accolta.

    È bene comprendere non solo la tristezza del momento, ma il suo significato. Con Pasinetti se ne va l’ultimo – l’ *ultimo* – di una generazione di economisti italiani che non ha eguali, che hanno fatto la differenza tra gli anni Cinquanta e i Settanta del Novecento, e di cui ho detto qualcosa altrove.
    Basta fare un elenco (sicuramente incompleto) dei nomi di chi ci ha lasciato per comprendere la soluzione di continuità: prima di Pasinetti, se ne sono andati Siro Lombardini, Paolo Sylos Labini, Claudio Napoleoni, Augusto Graziani, Federico Caffè, Pierangelo Garegnani, Giacomo Becattini, Marcello De Cecco, Giorgio Lunghini, Fernando Vianello, Andrea Ginzburg.
    Tutti noi che veniamo dopo, sicuramente più bravi di loro nella autopromozione mediatica, meno nello scrivere libri e articoli classici che resteranno, siamo – come mi capitò di dire una volta – null’altro che poveri rappresentanti di una “decadenza”. L’età d’oro è la loro.
    Avrà ragione il mio amico Giorgio Gattei a dire che, come nani, possiamo vedere più lontano dei giganti sulle cui spalle ci appoggiamo, ma non ne sono così sicuro.
    Possiamo almeno provare a non sfigurare troppo, e a far parlare le cose che scriviamo, e non le comunità che promuoviamo, in una professione sempre più mediatica e, in fondo, sempre più noiosa, anche nel suo corno alternativo.
    Una volta a Torino Giuseppe Bertola mi raccontò di un seminario di Paul Samuelson al MIT. Alla domanda di cosa ne fosse della disputa tra neoclassici ed i loro critici , Samuelson replicò (riadattando probabilmente una battuta che faceva regolarmente a lezione): «funeral by funeral, we are winning».
    I mainstream possono permetterselo. Noi non possiamo accontentarci delle celebrazioni (col rischio di ritagliarci ciò che ci piace).
    Ecco, come seppe fare quella gloriosa generazione di economisti italiani che portò avanti insieme teoria economica e storia dell’analisi, potremmo provare a non imbalsamare le verità del passato, ed evitare di inventare nuovi culti. Potremmo invece – soprattutto i più giovani, perché io, come dire, ho dato – mettere a frutto in modo creativo la miniera di innovazioni categoriali e di spunti interpretativi che troviamo nei loro scritti.
    —–
    La Società Italiana di Economia esprime il proprio cordoglio per la scomparsa del socio Prof. Luigi L. Pasinetti.
    Luigi L. Pasinetti (1930-2023) è stato uno degli economisti italiani più conosciuti e apprezzati a livello internazionale.
    Si è laureato in Università Cattolica, ha conseguito il PhD a Cambridge (UK) e svolto attività didattica e di ricerca presso le Università di Oxford e Harvard.
    Ha ricoperto la cattedra di Econometria e di Analisi economica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove è stato nominato Professore emerito.
    E’ stato Socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei, membro fondatore della STOREP e Presidente della European Society for the History of Economic Thought (1995-97).
    E’ stato Consigliere (1989-1992), Vicepresidente (1983-1986) e Presidente (1986-1989) della Società Italiana di Economia.
    I funerali si terranno venerdì 3 febbraio p.v. alle ore 11:00 presso la Parrocchia di Santa Maria di Caravaggio (Via Francesco Borromini, 5) a Milano.
    La SIE si associa al lutto dei familiari e di tutta la comunità accademica.

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