In seminario

Narratorio. Da “A vocazzione”

di Ennio Abate 

E così, finite le elementari, in un tiepido settembre del millenovecentocinquantadue –  l’aria era ancora quella dolce dell’estate –, verso sera,   per Chiero – undici anni – giunse l’ora di mettere alla prova la sua  vocazzione.

Accompagnato da Nannìne, zia Adelina, la signorina Dag e ronn’Enze Qu, oltrepassò il portone del seminario arcivescovile. Largo Plebiscito.  Lo avevano salutato e lasciato là. Davanti a quel portone c’era passato tante volte. In due occasioni, con Ronn’Enze e altri ragazzi, erano entrati nel piccolo atrio, dove c’era la porta a vetri del custode. L’interno dell’edificio, però, gli era sconosciuto. Impacciato in un grande cortile. Tra sconosciuti. Seminaristi del secondo o del terzo anno – capelli rasati a zero, divise nere o bluastre, in compagnia di  qualche prete in tonaca nera – passavano e ripassavano attorno a Chiero e ai nuovi arrivati. Senza neppure guardarli.

Nel camerone al primo piano, dove li fecero salire portando ciascuno con sé il materasso arrotolato e la valigia con gli indumenti per i primi giorni, un prete giovane – il prefetto (così sentì chiamarlo) –  gli ordinò di scegliersi una brandina libera.  Ci mettessero sotto la valigia e si facessero il letto. A sera, al momento di dormire – aggiunse – dovevano spogliarsi e indossare il pigiama ma nascondendo il corpo sotto il lenzuolo. Nessuno doveva mostrarsi agli altri o girare in mutande.

Poi suonò una campanella e furono accompagnati nella cappella. Si trovava nel grande cortile ma dalla parte opposta all’ingresso. Era la prima preghiera in comune.  Che impressione quel mormorio cupo fatto di tante voci. E il coro successivo. E i movimenti misurati e automatici dei seminaristi già in divisa.  Al secco comando di un prete, si inginocchiavano, si alzavano, si sedevano. Chiero faticò a  dire le preghiere. Ancor più a unirsi al coro che  cantava. La voce  gli scendeva di tono e  si strozzava in gola.
Non era più come in parrocchia. Nella chiesa di San Domenico, durante le funzioni di Natale o Pasqua, s’era sempre sentito unito alla folla dei fedeli che recitava le preghiere o cantava.  Qualche volta  si era pure commosso  – gli occhi quasi luccicanti – fissando il tremolio delle candele sull’altare già avvolto dalle ombre della sera.

La cena venne servita in un grande refettorio, freddo e tanto vasto da sperdersi a osservarlo. Rumori di piatti e di posate. Comandi.  Chiero s’impose di guardare il tavolo davanti  a lui e  il suo piatto di minestrone. Poi gli portarono  un secondo con  due fettine di mortadella e un formaggino Mio a triangolo.  Già mentre mangiava,  pensò che quella notte avrebbe dovuto dormire tra sconosciuti. Era la prima volta. E che in quell’edificio sarebbe rimasto chiuso di giorno e di notte. A scuola, dov’era andato fino ad allora, a una certa ora usciva. Tornava a casa. Si buttava sul lettino a leggere Sciuscià o Il Vittorioso in attesa del pranzo, che Nannìne stava preparando a lui e a Eggidie. E, mangiato il secondo, s’acchiappava veloce una mela e, morsicandola, già era scappato in strada. A giocare con Rosario, Aniello, Peppeniello. Al Giro d’Italia. Il percorso sinuoso disegnato col gesso. Le crocette delle tappe. Là, davanti alla casa a piano terra dei Martino, sullo spiazzo di  marciapiede a mattonelle. A far scattare, con il pollice a molla sull’indice, iI suo coperchio di scatola di cromatina. Lo riempiva di sapone  e  su ci incollava la figurina di Coppi. Gli altri ci avevano su Bartali, Magni o Koblet.

Ora nella camerata brutta e spoglia. Il dormitorio. Allineate  – come in una caserma – decine di brandine. Tutte uguali. Ah, se Nannìne o Eggidie o Mìneche l’avessero visto! Prima che le luci venissero spente, aveva camminato per lo stanzone. Come per abituarsi al nuovo spazio dove gli toccava stare. Ma era rintronato. E, appena si coricò nella brandina, si guardò attorno. Già tentato di invocare un aiuto. Chiamare uno dei ragazzi delle brandine vicine alla sua? Ma non sapeva che dire. Ci rinunciò.

Dormì a stento e si svegliò presto. Guardò  alla luce del mattino le finestre ora non più  buie, le brandine degli altri ragazzi, molti ancora addormentati, l’angolo con un tendone dietro il quale aveva dormito  il prefetto. Entrò il decano – un seminarista che aveva qualche anno in più rispetto agli altri, un caposquadra. Ad alta voce  diede la sveglia. Li fece mettere in fila per due e li guidò attraverso il corridoio fino al salone dei  gabinetti. Oltre a questi, c’erano lunghe vasche di ferro smaltato, appaiate e attraversate da un tubo di rubinetti distanziati tra loro. Appena girate, le manopole schizzarono acqua gelida.  I ragazzi s’insaponarono, si lavarono la faccia, si asciugarono e pettinarono. In fretta. Il decano camminava alle loro spalle. Lentamente. Uno sguardo antipatico e più gelido dell’acqua dei rubinetti. Le labbra serrate. Sorvegliava. Mise fretta a uno che pareva imbambolato. Poi li riaccompagnò nel dormitorio. Chiero si tolse il pigiama. Si  rivestì  celando il corpo sotto le lenzuola, come gli avevano  ordinato e come facevano gli altri. Si sentì goffo, ridicolo. Nessuno lo spiava. Né lui aveva voglia di osservare gli altri. Di nuovo in fila, due a due. E subito a pregare in cappella.

Dopo, sempre in silenzio e in fila, in refettorio. Una ciotola di latte, del pane, un po’ di marmellata. Poi nelle aule. Ma in quei primi giorni non avevano né libri né quaderni né matite o stilografica. Stettero seduti nei banchi a far niente. Un prete, seduto anche lui dietro una cattedra, li sorvegliò. Con aria svogliata. Che si muovessero tra i banchi o se ne stessero seduti o  alzassero la voce non gli importava.  Non gli rivolse una parola. Non domandò come si chiamavano, da dove venivano. A una certa ora del mattino ancora nella cappella. Per confessarsi. O per pregare e cantare in coro. Ancora inginocchiati,  in piedi, seduti. A comando. A pranzo e a cena minestroni o pastasciutta. Di secondo  mortadella  – ancora! – o una  sottile fetta di carne. Poi frutta: mele o mandarini. Mangiare in silenzio.

La seconda notte Chiero dormì più inquieto della prima. E al mattino, svegliatosi sempre  prima degli altri,  andò da solo nello stanzone dei cessi. Spiò fuori da uno dei finestroni. Vide dall’alto largo Plebiscito, dove s’incrociavano  le quattro strade che conosceva a memoria, tante erano le volte che vi era passato per andare in parrocchia. Da solo o  con gli amici. Spesso di corsa. Vide sulla destra a cappella ro Crucifisse col portone alto e pesante miezz’a ddoie culonne cu’e scheletre dritti, ca parevene duie gemelle. Vide anche l’angolo della via dove c’era il negozietto di Maria Salvato. Nu pertuse. A stento – impilate – ci stavano le cassette della frutta e delle verdure, che vendeva tirandole fuori  ed esponendole sullo stretto marciapiedi. Per rimetterle dentro a fine giornata. A stento c’era lo spazio per la sua sedia di paglia, dove se ne stava seduta tutta la giornata.  Con un braciere acceso d’inverno.

Maria Salvate er’e chell’a ca veneve ogn’e tante a case noste e Via Sichelgaite pe fumà e parlà cu Nannìne. E chiereve cunsiglie pe capì si s’aveve ‘nzurà o no cu nu viecchie ca teneve e sorde ma nunn’ere tant’e iuste co cirvielle.

A quell’ora Maria di sicuro stava tirando fuori le sue cassette. Ma dal finestrone Chiero non poteva vederla. Vide  bene la viuzza con  i lastroni  di porfido grigio levigati che portava allo slargo davanti alla chiesa di San Domenico e alla caserma dell’esercito. Potevano essere le sette del mattino. La gente che passava per la piazzetta era poca. Trasalì quando  notò una donna che avanzava lenta per la discesa verso il centro di Largo Plebiscito. No, non era Nannìne. Gli parve la signora Martino, la madre di Anielle e Peppenielle.  Ma non poté guardare meglio. Alle  sue spalle  si avvicinò il decano. Doveva averlo seguito in silenzio e lo rimproverò. E, brusco, lo spintonò lontano dalla finestra. Per nessun motivo i seminaristi dovevano affacciarsi.  Lo disse con la voce di uno abituato a comandare. Chiero provò un odio immediato. Ere n’ata botte ca sentette. Ecche é: nun carcere o nu seminarie?

Prima di entrare in seminario, Chiero aveva con tenacia collezionato fioretti. Come la signorina Dag suggeriva. Ne accumulava più che poteva durante la settimana. Quasi partecipasse a un campionato.  E gli era piaciuto farli. Per mostrare a lei e a se stesso di essere bravo nel rispettare quelle piccole  regole.  Che lo aiutavano pure a sciogliere i piccoli dilemmi della vita quotidiana.  Quando litigava  col fratello o con  gli amici. Quando aveva a che fare con gli adulti. A farli i suoi fioretti  si sentiva ben piantato e accettato in quel mondo della  parrocchia, frequentato da tante persone  che, anche senza che gli parlassero,  erano per Chiero ormai visi noti e  rassicuranti.  E gli pareva che approvassero quel che faceva insieme alla signorina Dag e agli altri ragazzi. E incoraggiassero anche i suoi desideri più nascosti di valere agli occhi degli  adulti.

L’ingresso in  seminario l’aveva bruscamente separato da quel mondo parrocchiale. Al posto dei fioretti ora c’erano regole imposte da sconosciuti, non più suggerite amorevolmente dalla signorina Dag. Ora provava fastidio. Perché li convocavano  in cappella a pregare con frequenza assillante. Ogni 2-3 ore.  Bisognava confessarsi ogni giorno. Chiero non sapeva più che peccati stesse facendo lì in seminario. O  se dovesse  inventarne  per dire almeno qualcosa al confessore. Non se la sentiva di  raccontare che ce l’aveva con il decano. Che Il cibo del refettorio gli pareva da mensa dei poveri. Che aveva nostalgia e dolore per lo stacco dalla famiglia, dai ragazzi della parrocchia, dai cugini del paese, dalle zie e dagli zii.

Timido ma ambizioso, s’era esercitato con zelo fino a quel momento  nel vago e fantasioso eroismo spirituale dei fioretti e nel sogno della vocazzione. Ma sempre restando assieme  agli amici della parrocchia e anche con quegli adulti a cui aveva cominciato a  voler bene. O ad abituarsi. O a osservarseli  incuriosito dalle loro facce, dai gesti, dalle parlate.  E anche le cose servizievoli che gli facevano fare da chierichetto –  correre a prendere la brioche che la pasticceria Califano conservava a ronn’Enze Qu ogni mattina per la sua colazione in sacrestia assieme al sindaco Buonocore dopo la messa –   non gli pesavano. Non le vedeva come obblighi o imposizioni.
In seminario, invece, preti e  coetanei erano estranei.  Troppo tranquilli e soddisfatti nell’eseguire gesti che a lui ora parevano da marionette. Ci stava male ma non riusciva a parlarne. Con nessuno. E quando – era il terzo giorno che stava in mezzo a loro – all’improvviso, guardando meglio  le  sue lenzuola al mattino,  s’accorse che nel letto c’erano delle piccole macchie di sangue e scoprì che saltellavano delle pulci, s’impaurì. Ma ancora  tacque. Non si sentiva di dirlo a nessuno. Perché  nessuno – né il prefetto del dormitorio né gli altri ragazzi che stavano in classe o dormivano con lui – si accorgevano di lui.

Un altro brutto sentimento lo provò al pomeriggio del quarto giorno. I seminaristi in divisa e i nuovi arrivati senza, allineati per due in una lunga fila, vennero fatti uscire a passeggio. Per il lungomare o per le strade che portavano verso certi prati di periferia, aperti e polverosi. Là per qualche ora potevano sfrenarsi, correre, giocare a pallone. Chiero non provò piacere ad uscire né fu contagiato dall’eccitazione degli altri.  Anzi s’incupì al solo pensiero di do dover attraversare, intruppato in quella lunga fila,  le stesse strade  o i palazzi che aveva  – da solo o con gli amici  o con Nannìne e Eggidie – traversato e quasi respirato tante volte rirenne, pazzianne o currenne.

Cumm’a n’animaluccie ca n’ge facevene fà cose  ca nun vuleve fà, ca nun se vuleve fa addomesticà e vuleve  scappà, ma nun ng’ia faceva….

E, mentre la fila usciva dal portone del seminario, fu invaso da un sentimento di vergogna. Se qualche cugina o zia o qualcuno che l’aveva conosciuto come uno dei tanti ragazzi, – sì, uno ra guagliunera ca ieve sempe in parrocchia, ma  non diverso dai tanti che non ci andavano –  l’avesse visto in quella fila di seminaristi in divisa e con la testa rasata? Lo avrebbero guardato increduli, sorpresi. L’avrebbero deriso   o compatito.
Temeva pure (o  forse ci sperava?) che, passando  davanti al bugigattolo di Maria Salvato, la donna si accorgesse del suo  sguardo triste e lo riferisse a Nannìne. E che avrebbe fatto sua madre? Se lo sarebbe venuto a riprendere per riportarselo a casa? Questo cominciava a desiderare. E se, incrociando  gli occhi di Maria Salvato, gli sarebbe venuto da piangere, non  riuscendo a mascherare il dolore che lo possedeva da quando aveva varcato la porta del seminario? Si sarebbe vergognato ancora di più.  Perché a compatirlo o disprezzarlo sarebbero stati i preti e i seminaristi.

Al quinto giorno si sparse la voce che uno dei nuovi ragazzi di prima media – quella in cui era anche Chiero –  era fuggito dal portone del seminario. Il guardiano non se n’era accorto. Questo ragazzo Chiero l’aveva notato nell’aula, dove erano stati a far nulla sorvegliati dal prete. Basso, robusto, gli era sembrato silenzioso e triste. Come e più di lui. Era proprio fuggito, dunque. Doveva venire da un paese di campagna. Non conosceva neppure le strade di Salerno. Dove poteva andare? Provò simpatia per lui. Ma, anche se avessero parlato tra di loro – lì, in quell’aula –  e avessero deciso di scappare insieme, dove sarebbero andati?  Un due o tre ore dopo la fuga, due vigili l’avevano riportato in seminario. I preti non l’avevano messo neppure in castigo.  Anzi il prefetto adesso se lo teneva sempre accanto a sé. E lo trattavano con una gentilezza eccessiva.

Al sesto giorno lì dentro a Chiero veniva sempre più spesso voglia di piangere. Solo una volta sentì l’impulso di parlare con un prete giovane. Era stato l’unico che gli aveva sorriso e gli aveva chiesto come andava. Ma non lo cercò né gli parlò. Qualcosa ormai gli esplodeva dentro. Se ne  dovette accorgere per forza. La sua pancia era in subbuglio. Sempre più spesso doveva correre in gabinetto. Andava di corpo ripetutamente. E una volta, e due, e tre.

Tenev’a sciorde! N’at’a vote! Cumm’a quann’e ere chiù piccirille, ca erene ra poche arrivate ra Casebbarone rint’a a casa nova e Via Sichelgaite. E ca na vote, mente turnavene saglienne tranquille pe chella vie – isse, Mìneche e Eggidie, o frate chiù piccirille – aveve sentite stu rulore dint’a panze. Ca senteve ca s’aveva scaricà. E subbite. Ma nunn’o puteve fa miezz’a vie. E allore s’ere misse a correre. P’arrivà chiù prieste ca puteva a case, saglienne i gradine  re scale a doie a doie. Pe bussà, chiamanne a Nannìne. Ca arapresse prieste a porte. Ca nun ‘ng’a faceve chiù.

E tutte le   vane cure che  allora – poteva avere 5-6 anni – le vicine o le zie avevano suggerito a Nannìne? Le spremute di limone, il latte di mandorle, il riso in bianco? Rimedi che non avevano funzionato. Finché non si erano rivolti al dottore Pepe.  Quello che, forse per una ferita di guerra alla gola, parlava con una voce  metallica,  come se tenesse una macchinetta in gola e  che aveva ordinato per il ragazzo delle pastiglie di enterovioformio. Che finalmente avevano avuto effetto positivo. E calmato Nunuccie e Nannìne che non sapeva più che fare.

Ora  in seminario la paura tornò. Correva a cesso, si scaricava, si puliva. Ma usciva dal gabinetto più triste, preoccupato e indebolito. Adesso alle passeggiate collettive per le vie di Salerno, che potevano durare ore, ci andava con terrore. Gli attacchi improvvisi di diarrea erano continui.  Si aspettava da un momento all’altro di sentire per strada l’impulso incontenibile nelle visceri di quella schiuma sporca che voleva uscire.

L’aveva ricere o no? E a chi? E addò truvave nu gabinett’e o nu fuosse chiù accuvate pe se scaricà? ‘Sta cose cà o feceve suffrì e o regnev’e e scuorne.

Quello che più temeva accadde. Durante una delle passeggiate la lunga  fila dei seminaristi  si spinse oltre il porto vecchio di Salerno. Il prefetto aveva permesso di gironzolare liberamente sulla spiaggia. Chiero sentette arrivà o rulore e panze. Era un disfarsi. Aveva una voglia di scomparire. Riuscì ad appartarsi da solo dietro alcuni scogli e a scaricarsi. Per pulirsi usò alcuni fogli di carta che per precauzione s’era portato in tasca.  Sacrificò persino una moneta di carta.

Nun parlave cu nisciune e ‘sta cose che nge riceve a panza soie, ca pure forse parlave. Nunn’ere pure chill’e nu dialette? O nu poche dialette e nu poche italiane? Chiù scure e spuorche, vabbè! E che cose iett’ava fore, ca nun suppertave chiù? A vocazzione? Ma figurate si  so sapeve ricere ca chesta era a causa! E o juorne doppe pensaje ancora si là miezz’e, tra e prievete o e guagliune ca rurmevene cu isse a sere, puteve truvà quacchune ca o puteve cunsiglià o cunsulà. Ma nun ngia facett’e a parlà. Nun sa sentev’e proprie. Nunn’ere capace e ricere cert’i cose. Ere chine e vergogne. Ere cumme si nu tappe n’ge chiuresse a vocche. Certi parole – a sciorde, o cesse, appulizzarse o cule – nunn’e puteve ricere. E cuntinuave a ì ao gabinett’e. E o cirvielle? Allore l’unica cose ca o cirvielle suie agitate sapette penzà fu cheste: si mangiave chiù poche, jeve mene e cuorpe.

Chiero pensò di sedare le sue diarree – quelle frequentissime diarroiche espulsioni – mangiando  di meno. Cominciò a  saltare la colazione. A non completare il pasto a mezzogiorno o alla cena serale. E un’angoscia l’afferrò. E  sempre più spesso. Al calare della sera.

Po, quanne ra chillu puzz’e addò ere carute nun sapeve chiù cumm’ascì, succerette na specie è mirachele, na cosa ca niscune s’aspettave. A fine ra settimane arrivaie zi Rine. Chest’ere na zie campagnole, ca ragiunave per piere pe terre e e cose e dicev’e ‘nfaccia. Certi parient’e ne parlavene male. Ricevene ca sule pecchè mo abitave a Salierne, se reve l’aria e na signora. Fatt’e sta ca chella matine venette ra sole rint’o parlatorie ro seminarie. Quanne chiamarene o nipote e Nunuccie arrivaie, aprette a bursette e nge rette ‘n mano o pacchett’e e caramelle e ciucculate ca ngi’aveve purtate. Ma Chiero nunn’e vuleve. Ecché, pensaie ‘sta zie. Cumme mai o nipot’e mie nun vo e caramelle, ca primme me chiedeve ‘ncontinuazione? O guardaje meglie ‘faccie e o verett’e triste e chiù smagrite. Allore o carezzaie, nge ricette quacche parole gentile e se facette ricere proprie chella cosa ca o turmentave.
E ca succerette chella cosa ca ra sule Chiero nun sapeve manche chiù pensà. A zie l’addummanaje: ma tu vuo’ ascì ra cà e venì cu me a case ra zie? E isse ricette sì. Allora chelle iette a parlà cu une re prievete. Nun s’è mai sapute cu precisione che ‘nge ricette. Forze ca o nipote nun steve bene. O forze ca so purtave a casa sule pe nu iuorne, ca ere a fine ra settimane. Fatte sta ca o tiraje fore ra ‘stu seminarie ca mo pe isse ere addiventate na prigione. E po’ o purtaie a casa soie ncopp’a via Pie undicesime, n’ge preparaie nu piatte e spaghette ca pummarola e na bistecche. E po’ facette chiamà a Mìneche e a Nannine e n’ge raccuntaie chelle ca ere succiesse e ca ere meglie ca o guaglione turnasse a case, ca nunn’ere fatte pe stà rint’a nu seminarie. E accussì tutt’e pariente cumminciarene a dicere ca l’aveve salvate…[1]

 

 

Nota

[1] Alla fine della settimana – forse era domenica mattina ? – zi’ Rina […]passò a far visita a Chiero durante l’ora in cui i parenti potevano intrattenersi coi seminaristi nel parlatorio. S’accorse che era triste e smagrito. S’insospettì soprattutto perché il ragazzo rifiutò il pacco di caramelle e cioccolatini che gli aveva portato in dono. Cominciò a fargli delle domande. E Chiero trovò il coraggio di raccontarle delle sue  diarree e dei digiuni che si era imposto. D’istinto la zia decise di portarselo subito a casa sua in via Pio XI. Parlottò con il guardiano dell’ingresso, insistette sul fatto che suo nipote non stava bene, che lei era una zia cara, che lo portava a casa sua e che poi con la famiglia avrebbero deciso che fare. Non si seppe mai come convinse il custode all’ingresso o qualche prete a cui quello si era rivolto. Lo accompagnò  a casa sua e gli preparò un piatto di pastasciutta e una bistecca, avvertendo poi Nannìne di quello che aveva fatto.

 

3 pensieri su “In seminario

  1. Mah, c’è sempre per fortuna qualche zia che salva i Chiero! Sembra che a quell’età il nostro secondo cervello che sta nel colon abbia capacità di ribellione che la testa non ha o non può avere o non deve avere. Chiero si squagliava, io trattenevo tutto fino a spasimi incredibili. Questo ricordo è legato al periodo in cui vivevo in Puglia appunto con una zia, la quale comunque verosimilmente mi salvava da altro.
    Ma cos’è un: ‘coperchio di scatola di cromatina’ ? Noi usavamo i tappi di ferro delle bottigliette riempite di cera, ovviamente con la figurina sopra.

  2. per Chiero undicenne una sola settimana, ma allucinante, diventa una caduta nel baratro…La promessa di passaggio dalla Parrocchia al Seminario per il bambino doveva essere una promozione, forse un’ascesa dal pugatorio al paradiso…di luce in luce. E invece come sprofondare nei gironi piu’ bassi, in un carcere dove fine pena mai. Il bambino lo realizza con chiarezza dopo pochi giorni e tutto il suo corpo ne è scombussolato, il rifiuto è netto, anche se non confessato, ma non trova alleati che l’ascoltino, nè via d’uscita. Mai disperare… non tutti i bambini hanno la loro stellina, nel caso di Chiero fortunatamente si’: come evocata dal nulla, una zia arriva appena in tempo per portarlo in salvo…
    Chissà quanti fanciulli non hanno avuto scampo e hanno dovuto forzare la “loro” natura, percio’ c’è da chiedersi come hanno potuto loro stessi, adulti, diventare educatori e quanti danni hanno perpetuato nei giovani…Una storia vera, una ricostruzione dettagliata e capace di mettere in vita sentimenti e reazioni di un giovanissimo davanti al grosso trauma subito…rimasto scolpito nella memoria

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