Der Erzähler refurbished. Benjamin revisionato da Baricco

di Marco Gaetani

Ripubblico questo saggio  già comparso sul vecchio sito non più accessibile di POLISCRITTURE 20210-2013 . Ricordo che è, però, presente  nel PDF del n. 8 di Poliscritture – rivista cartacea  del dicembre 2011 (scaricabile qui) [E. A.]

«Ich kenne diese Benjamin!»
Bertolt Brecht (testimonianza)

Non è improbabile che il lettore di queste righe condivida con chi le scrive una serie di convinzioni – e si dica pure «pregiudizi», nel senso ampio del termine –, verosimilmente di segno opposto, a proposito di Walter Benjamin e di Alessandro Baricco. Altrettanto probabilmente l’accostamento dei due nomi, delle due personalità, moltiplica e rafforza queste prevenzioni, nella fattispecie quelle negative; convogliando le maggiori riserve verso quanti – le sempre più irriconoscibili (ma ormai da tempo fin troppo riconoscibili) edizioni Einaudi – risultino più direttamente responsabili di questo accoppiamento in apparenza così poco giudizioso[1]. Il quale, piaccia o meno, genera un volume tascabile che deve proprio alla presenza in copertina del nome del curatore, più che di quello dell’autore, l’inclusione nella sezione ‘riserva’, o ‘top di gamma’, della collana economica einaudiana – quella che si fregia cioè dell’iperbolico e allarmante appellativo di «Super».

Tanto vale manifestare subito i pensieri più maligni, quelli presumibilmente affiorati alla mente di chiunque sia rimasto sorpreso, infastidito o contrariato di fronte alla scoperta di una qualche contiguità esistente tra l’autore della Passagenarbeit e quello di Seta[2]. Pensieri (e sentimenti) malevoli che non tardano ad aumentare, e a corroborarsi di tutti i preconcetti di cui sopra, constatando come nella quarta di copertina – chi volesse perlustrarla, per capire di cosa precisamente si tratti – il nome del curatore risulti tipograficamente più in evidenza rispetto a quello dell’autore (cui spetta soltanto la porpora di un grassetto in cima a una più che laconica nota bibliografica; ma il carattere resta notevolmente ridotto rispetto a quello che, nello stesso color porpora, fa risaltare, oltre al nome del curatore, alcune sue suggestive parole prese dalla Nota conclusiva al volume). Non se ne vuole fare una questione di tipometro, di mero design (e marketing) editoriale – tanto più che i risvolti riequilibrano abbastanza la situazione (ma i risvolti, va da sé, son celati alla vista). È evidente (e ‘comprensibile’) come l’editore abbia puntato assai più sul richiamo esercitato da una vedette del calibro di Baricco che su quello, verosimilmente assai più flebile e circoscritto, che ci si può attendere da un Benjamin. Di cui del resto ci si limita a ri-pubblicare, nella classica traduzione di Renato Solmi, uno scritto ben noto a tutti i frequentatori dell’autore berlinese, o anche soltanto di quell’altrettanto ben noto Angelus Novus da cui il saggio sul narratore viene estratto per esser proposto, sotto gli auspici di Baricco, all’attenzione (o alla disattenzione) del ‘grande pubblico’.

Nella storica antologia di ‘Saggi e frammenti’ benjaminiani le Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov occupano poche paginette[3], una porzione tipografica piuttosto esigua che qualcuno non mancherà di considerare inversamente proporzionale al valore e all’importanza del saggio. Il quale (però) si scopre ora aver costituito per qualche tempo uno dei libri di testo, per così dire, prescritti agli studenti della torinese (e baricchiana) «scuola di narrazione» intitolata al protagonista del libro-feticcio di Baricco, The Catcher in the Rye. Ma dire ‘libro di testo’ è dire poco e male, se è vero che, come lo stesso docente si premura d’informare nella Nota introduttiva al nuovo volume (di oltre cento pagine), in realtà il saggio benjaminiano del 1936 alla «Holden» veniva sottoposto a lettura intensiva, e a un commento circostanziato più vicino alle prassi didattiche degli studia medievali che a quelle che ci si potrebbe attendere da una scuola postmoderna. Pratica che a ogni modo, ci viene riferito non senza qualche nostalgia, non è più invalsa nelle aule in cui si esercitano i nuovi narratori italiani[4]. In compenso quell’esperienza didattica frutta una dispensa, se così si può dire, ora disponibile per un pubblico ben più ampio di quello che poteva a suo tempo avvalersene come sussidio formativo.

Che la titolarità del volumetto einaudiano spetti più a Baricco che a Benjamin è circostanza che va oltre le considerazioni meramente quantitative – del genere di quella, per intendersi, che fece risolvere Cesare Garboli (e il suo editore) ad ascrivere al proprio nome il libro delle poesie famigliari pascoliane; ed è fatto che, soprattutto, sovrasta (pur sicuramente coinvolgendole) le stesse strategie commerciali di un grande editore. Che sia messo in circolazione un nuovo libro di Baricco non è necessariamente un fatto negativo (perché non dovrebbe, infatti?); che circoli sotto il nome di Walter Benjamin, invece, è un evento di cultura (nel senso più ampio del termine, che include l’economia politica della cultura), e un segno dei tempi, che possono ben suscitare qualche riflessione.

  1. La «piacevole fatica» (p. 93) di Alessandro Baricco commentatore di Benjamin è consistita nel far precedere e seguire i diciannove capitoletti del saggio sul narratore da una Nota introduttiva e da una Nota conclusiva (questa, come si vedrà, di gran lunga più decisiva di quella). Inoltre tra un capitolo e l’altro del testo benjaminiano – ed è la più gran parte dello sforzo profuso dal commentatore – s’inseriscono le «note a commento», di cui si dirà diffusamente tra poco. Nella prima delle due Note, siglata ‘A. B.’ e datata da Roma all’ottobre 2010, vengono fornite essenziali notizie sulla prima pubblicazione a stampa di Der Erzähler, e sulla rivista che ospitò originariamente lo scritto. Poche informazioni anche su quel Leskov le cui opere – viene affermato subito, a vincere ogni presumibile resistenza di chi s’accosti alla lettura ancora in dubbio, timoroso d’impelagarsi nei meandri di uno studio specialistico – fungono soltanto da «pretesto» alla trattazione benjaminiana[5]. Seguono i ragguagli circa l’uso didattico del saggio, quali sono stati riferiti qui sopra, con in più l’interessante riferimento alla «mutazione antropologica» nel frattempo intervenuta negli allievi della «scuola di narrazione», mutamento che impedirebbe ormai in quella sede di affrontare, col supporto di Benjamin, «problemi puramente teorici». Infine, qualche pratica istruzione di lettura: il commentatore suggerisce all’utente dell’annotazione di non interrompere la lettura dei brevi capitoli del saggio cercando le note, ma di integrare queste ultime solo al momento della rilettura. Nel consiglio traspare forse qualcosa di più e di diverso dall’implicito, ‘modesto’, ritrarsi per cedere il proscenio all’autore, e dallo stesso proposito di investire il lettore del ruolo di vero protagonista («naturalmente ognuno può fare quello che gli pare, compreso saltarle proprio, le note»).

C’è da dire subito (a suo merito) che Baricco prende molto sul serio l’impegno didattico-esplicativo che si è assunto. Intento dichiarato del commentatore è soprattutto di porsi al servizio di chi legge, più ancora che di chi scrive (cioè del testo), agevolandone in tutti i modi il processo di comprensione («aiutare il lettore a comprendere»). Baricco si fa scrupolosamente carico della delicata funzione di mediatore, e gli va riconosciuto un indubbio talento – per usare un termine a lui caro – di divulgatore. La sua è anzi  una vera e propria vocazione, che si è venuta dispiegando negli anni in forme molteplici, e attraverso un progetto ‘multimediale’ variegato, comprendente iniziative (non solo editoriali) sicuramente per molti aspetti discutibili; e nondimeno coerenti rispetto a una ben precisa posizione ideologica – cui si connettono altrettanto precise e coerenti linee di poetica[6].

Possono essere individuati almeno tre livelli sui quali, in margine a Der Erzähler, si esercita l’annotazione del commentatore: 1) il chiarimento letterale, volto a rendere intellegibili fin dalla lettera, appunto, i passaggi più oscuri del testo; 2) la presentazione di notizie e informazioni, di carattere storico, cronachistico, letterario, ecc. indispensabili a una sua soddisfacente comprensione; 3) l’interpretazione propriamente detta (o se si vuole, nei noti termini benjaminiani, la Kritik, nel suo emergere e distinguersi dal Kommentar). Premesso, com’è del resto evidente, che questi tre livelli sono reciprocamente correlati, costituendo una compagine ermeneutica organica, è probabilmente soprattutto al primo di essi che Baricco si dimostra un commentatore ammirevole e, lo si dice senza ironia, un didatta esemplare. Si evita deliberatamente la locuzione limitativa «nel suo genere»: l’apprezzamento per questo aspetto del lavoro di Baricco deve essere fatto valere tout court, e senza riserve sostanziali. Molti commentatori (non solo entro i limiti della Benjamin-Rezeption) più ‘ortodossi’ (e accademici) di lui potrebbero trarre profitto dalla sua impresa. Baricco annota il testo non dando nulla per scontato, lo elucida pazientemente ricorrendo volentieri a esempi, parafrasi, riassunti, puntualizzazioni, ecc. Lo di-spiega analiticamente, insomma, con encomiabile accuratezza.

Anche sul secondo livello dell’annotazione – quello culturale in senso stretto – Baricco non sfigura: vi si muove con una certa svagata scioltezza, è vero, ma non senza puntualità. Si capisce che la sua documentazione, e si dica pure la sua cultura, è ampia, ricca, approfondita – nello specifico dell’autore e del testo commentati, e più in generale. Con caratteristico understatement (qualche volta, però, paradossalmente rimarcato) il commentatore si limita sovente a fornire le nozioni più strettamente indispensabili, si restringe all’essenziale. Effettua delle scelte, qualche volta opinabili (come quando glissa ostentatamente su Origene e Ernst Bloch, senza dar mostra di supporre che chiarire chi fossero costoro può ben rientrare tra i servizi cui il lettore ha diritto), ma generalmente legittime e sempre funzionali rispetto all’argomentazione, ai suoi obiettivi prioritari. Una movenza, questa, che rientra nell’accentuata personalizzazione di un commento che malgrado la dichiarata valenza tutoriale, se non proprio gregaria, non si propone affatto di essere un supporto neutro alla comprensione del testo, non si qualifica come strumento asettico e trasparente. Questa marcata coloritura personale del commentario si mostra più scopertamente, certo, in ciò che si è definito il momento propriamente ermeneutico dell’annotazione, che è infatti quello in cui appare più chiaro il desiderio del commentatore di proporre la sua interpretazione del saggio, di far valere la propria immagine di Benjamin. Per la verità in sede introduttiva Baricco afferma di essersi prefissato «meno spesso» (rispetto al semplice intervento al servizio del lettore), nel suo commento, «di sviluppare i ragionamenti di Benjamin o di contestarli» (p. X).  Ciò rientra nell’atteggiamento consapevole e pragmatico di chi viene annotando il testo[7], ma corrisponde alla verità solo in parte e in un certo senso preciso, e cioè nella misura in cui è vero che il lavoro di rielaborazione e appropriazione del pensiero benjaminiano posto in atto dal commentatore non risulta essere quasi mai frontale, diretto, conclamato. Questo non significa però che tale lavoro sia meno attivo e potente. Esso si esprime, in effetti, nella forma di un discorso obliquo, che più che coinvolgere, come del resto è inevitabile che accada, tutti i livelli del commento che si sono sommariamente individuati sopra (e non solo dunque il terzo, che potrebbe parere quello più adeguato a farsene carico), e la loro organica interazione, si dispiega nell’apparato (se è lecito, per un lavoro come quello di Baricco, il termine accademico)  in forma molecolare e diffusa.

Non si vuole sostenere che il fenomeno in questione sia riconducibile a una scelta deliberata, o peggio che debba essere considerato comportamento subdolamente doloso. Con ogni probabilità è anzi il frutto di uno spontaneo conatus ermeneutico, di un’assimilazione del saggio commentato che ha molto a che vedere con una sua lettura legittima, oltre che con un coinvolgimento morale e intellettuale profondo (e, si badi bene, in sé certo non disprezzabile). Resta che le pagine di Benjamin nel commento di Baricco soggiacciono a una specie di trasformazione alchemica, per cui il loro inconfondibile senso (non si dice, naturalmente, il loro vero significato) vaporizza, e finisce per confondersi del tutto con un che di estraneo e additivo: i sentimenti, le idee, i valori di chi le commenta. Nemesi cui va incontro chi, commentando Brecht, aveva ritenuto giusto dar spazio anche alla propria voce[8]?

  1. È prima di tutto, infatti, proprio una questione di voce. L’habitus enunciativo adottato da Baricco nel commentare Benjamin è, anche con riferimento all’origine scolastica del suo impegno analitico-ermeneutico, di tipo quasi socratico. L’andamento del suo discorso prende qualcosa della cadenza orale, o para-orale; come di chi si trovasse fisicamente in presenza del suo ascoltatore/lettore[9]. Nulla di solenne, beninteso: il tono è anzi colloquiale, rilassato, informale. In un simile registro – che non rinuncia quasi mai a una sua dissimulata eleganza, come destrutturata e, si direbbe, ‘casual’ – sono abbastanza ben riconoscibili alcuni dei tratti più noti della scrittura dell’autore torinese, i suoi tic espressivi più o meno vistosi, quel suo caratteristico idioletto sempre sul punto di farsi gergo[10]. Baricco dispone indubbiamente di una voce propria[11], e non esita a dispiegarla anche al cospetto di Benjamin. Questa voce, col suo inconfondibile timbro, partecipa di un personaggio consistente, allude al fantasmatico profilo dell’autore, è traccia ed epifania della sua individuale presenza. Il tono assunto dalla voce del commentatore impregna il suo discorso, definendo un ethos personale di cui il lettore è empaticamente invitato a condividere i termini essenziali.

Non è il caso di procedere a descrizioni minute, di produrre circostanziati repertori[12] – tanto più che si rischierebbe di rimanere coinvolti nella disistima dell’autore nei confronti della critica «in quanto disciplina esplicativa volta alla comprensione del “come funziona”» (Scarsella, cit., p. 19). Si segnala qui soltanto, come fenomeno esponente ma non certo esclusivo, una certa tendenza all’assertività apodittico-aforistica, talora ostentatamente irriverente o blandamente dissacratoria – nei termini di quel ribellismo ovattato e narcisisticamente decantato che è la marca riconoscibile di Baricco, del suo fatuo anarchismo adolescenziale. Ecco allora, per esempio, che con grande nonchalance il grande saggio benjaminiano sul Trauerspiel viene detto «per lo più incomprensibile» (p. 5), o ancora, una pagina dopo, che la prova portata da Benjamin a sostegno della sua tesi sul tramonto dell’arte narrativa viene definita senza mezzi termini «ridicola». Ma nella stessa direzione procede anche l’attribuzione all’autore berlinese di un «impavido pressappochismo» (p. 30), o la drastica etichettatura di una citazione benjaminiana (da Lukács) come «taglia e incolla» (p. 63).

Altre volte, è vero, il commentatore ostenta maggior prudenza, e un certo rispetto reverenziale (in cui si contemperano ammirazione e provocazione: «Bella frase, ma, se posso permettermi, esplosa un po’ a vuoto», p. 49). L’effetto è tuttavia il medesimo: far salire le proprie quotazioni agli occhi del lettore, accrescere il proprio carisma personale (più che propriamente autoriale). Ma attenzione: non si tratta ora semplicemente di segnalare quello che è un elemento abbastanza spesso sottolineato dai detrattori del Baricco scrittore-e-personaggio – vale a dire una sua certa qual narcisistica autoreferenzialità. Piuttosto di mettere in stretta relazione questo costrutto psicologico (ma meglio: esistenziale e morale), e i corrispondenti dispositivi retorici, con la figura di quel lettore di cui l’autore cerca continuamente la complicità, cui la sua voce si rivolge nella certezza di riceverne puntuale risonanza. Tra i due capi della relazione comunicativa s’instaura infatti – non bisognerebbe trascurarlo, se si ammette che siano in gioco meccanismi di matrice narcisistica – un sistema complesso di riflessi multipli, di mutue corrispondenze, di incrociate proiezioni e gratificanti riconoscimenti. Perché c’è da ammettere che rispetto a chi legge l’autore è (o mostra di essere, il che nella scrittura letteraria fa più o meno lo stesso) in perfetta, speculare sintonia. La sua peculiare ‘autorevolezza’, il suo prestigio personale, non deprime affatto il lettore, non lo umilia. Si fonda e s’impernia, anzi, proprio su una petizione di eguaglianza in nome di una sottintesa, comune, profonda, compiaciuta ‘normalità’ umana[13]. Autore e lettore – e, nel caso che qui ci interessa, anche lo scrittore commentato, che viene cooptato dal suo mediatore nel mondo giusto (si dica per il momento così) – sono complici e confidenti, e solidali contro un mondo esterno che costituisce l’«inferno dell’esperienza»[14]. Un registro espressivo condiviso e riconoscibile (antiretorico e ‘parlato’, in cui incuria e sprezzatura striano con calibro accorto un tessuto linguistico-retorico discretamente sofisticato[15]) allude sottilmente a una comunanza di vissuti, di valori, di orizzonti. Sulla base di ciò il lettore si riconosce nell’autore, gli si affida, lo investe di un credito e di una fiducia in forza dei quali il commentatore si può permettere anche, per esempio, di correggere Benjamin con invidiabile naturalezza (p. 35).

C’è da riconoscere che ‘didatticamente’ questa postura ravvicinata,  confidenziale, funziona. È, in un certo senso, intrinsecamente maieutica. Conoscere bene i propri lettori – essere, o mostrare di essere, esattamente come loro – aiuta a prevederne gli impasse, a individuare in anticipo i passaggi del testo che sarà bene ‘decifrare’ a loro uso. Il rapporto fiduciario che s’instaura tra chi produce il commento e chi ne fruisce si fonda anche sulla sincerità con cui il primo non nasconde al secondo le difficoltà del testo, avvertendone anzi schiettamente e dichiarando che lui stesso ne ha incontrate (p. 49). Chi commenta è come noi e legge insieme a noi. Una simile identificazione aiuta a spiegare certe premure pedagogiche da parte del commentatore, certi suoi scrupoli quasi materni. Un capitolo particolarmente «denso», per esempio, «può essere utile spezzarlo in sezioni», e di fronte a qualcuna di esse Baricco «non resiste alla tentazione di sottolineare com’è costruita» (p. 16). La notazione di dettaglio non impedisce peraltro il rilievo strutturale, d’insieme (p. 18), e questo genere di descrizione può comportare anche il riconoscimento di sotto-sezioni, zone più circoscritte del testo, la cui identificazione può far tutt’uno con precise istruzioni di lettura: i capitoli XIII-XV «vanno letti come le tre campate di un’unica, compatta riflessione» (p. 58), i tre successivi costituiscono un «microsaggio» su Leskov (p. 72). Quando poi il dettato benjaminiano si fa «più difficile», «ondeggiante», «un po’ confuso», «meno lineare», quando del testo è proprio impossibile tacere la «confusione un po’ macchinosa», il commentatore soccorre puntuale, elucida analiticamente, semplifica, spiega. E prima di procedere oltre fa il punto su quanto chiarito, ricorrendo a un «riassuntino», per essere sicuri che tutto sia chiaro davvero (cfr. pp. 44-5 e 58).

Le risorse affabulatorie del narratore Baricco sono tra i suoi estimatori addirittura leggendarie, e in genere riconosciute anche da chi vi è meno sensibile. In margine a Il narratore tali risorse vengono tutte mobilitate intorno all’alto fine pedagogico. Frequente è l’uso del paragone e dell’analogia, qualche volta nella forma della trovata o dell’immagine ‘brillante’ intese a spiazzare e colpire, a destare ammirazione[16] – senza peraltro che se ne possa disconoscere, per lo più, una qualche effettiva capacità esplicativa. Prolifera pure la divagazione, l’excursus narrativo, l’estravagante rievocazione autobiografica (cfr. per esempio le pp. 40 e 49). Per far posto ai quali il commentatore può svagatamente scegliere di omettere informazioni o dettagli più pertinenti, forse addirittura necessari. Non infrequenti pure certe caratteristiche sortite (fastidiose, irritanti oppure francamente odiose per chi non apprezza Baricco), tra il cameratesco e il goliardico, secondo un’attitudine che si era del resto immediatamente captata nella Nota introduttiva, in quel vagamente adescatorio e sfacciato «Ehi gente, questo libretto è per voi» che la concludeva.

Il lettore di Baricco si sente a casa, si trova perfettamente a proprio agio. Chi gli parla è colto e intelligente, ma gradevole e non intimidatorio, mostra di sapere molto di lui, non s’inalbera e sa come farsi comprendere («beh, naturalmente Lukács non usava espressioni del genere: è per capirsi…», p. 64). In tal modo si compie una specie di miracolo: annotando Benjamin con quella stessa «informalità della conversazione spontanea» (Bellavia, cit., p. 153) che l’autore persegue nella prosa dei suoi romanzi, il commentatore lusinga il senso di appartenenza di una piccola comunità ermeneutica, allude a un’affinità umana, scommette su una complicità che si coagula strada facendo. Certe vere corrività possono assurgere così – da miseri cascami di una relazionalità quotidiana spicciola e meccanica, di mera pertinenza sociolinguistica – al rango di koinè etico-identitaria, di codice di riconoscimento demo-elitario (il frusto «per la cronaca» che introduce qualche notizia su Hamann, p. 67; certe insipide spiritosaggini, p. 72; il bathos corsivo con cui, nel riferire la storia di Filemone e Bauci, si osserva che nell’occasione gli dei dovevano essersi «un tantino innervositi», p. 77)[17].

Anche quando il commentatore pare tutto assorto e introverso, intento a parlare tra sé e sé o a divagare, in realtà il suo proposito costante è rassicurare e incoraggiare il lettore inesperto o prevedibilmente in difficoltà, impedirne lo smarrimento, ‘motivandolo’ e accompagnandolo passo dopo passo verso la meta di un’adeguata comprensione («molto chiaro», «tutto quadra abbastanza», p. 65). Talora è con l’illustrare il meccanismo di pensiero che ha condotto se stesso a comprendere che si consegue un singolare effetto di prossimità con il lettore, il quale è spronato a seguire l’esempio proposto («ora proviamo a immaginare», p. 53). Ma sono soprattutto, forse, i marcatori fatico-pragmatici, sempre emotivamente connotati e di cui il commento è costellato, a contribuire in maniera più decisiva al conseguimento dell’effetto di senso ora in questione («proviamo», p. 49; «bene», p. 53; «voilà», p. 55; «spiego», p. 29; «e ancora una cosa», p. 32; «attenzione», p. 48; «ma sì», p. 89; «e poi un’altra cosa», p. 91).

Per quanto la voce e la personalità del commentatore finiscano per venire continuamente in primo piano e imporsi (tanto più che ogni occasione è buona per notificare al lettore i propri gusti e le proprie idee, le proprie idiosincrasie e «irresistibili» predilezioni), Baricco non perde mai di vista, pragmaticamente, il suo intento didattico (intenzionalmente si preferisce questo aggettivo a «divulgativo»). Ma c’è qualcosa di meschinamente piccoloborghese in questa programmatica aspirazione pedagogica, se il magister auspica che il baccelliere possa riuscire a «raccogliere» e «portarsi a casa» qualcosa di ciò che legge (pp. 45, 60). E, soprattutto, sarà il commentatore ad additare quale debba essere ritenuta la parte più cospicua o preziosa del bottino, ad illustrare i modi più adeguati per appropriarsela. In questa prospettiva, ciò che più di tutto preme a Baricco è sottolineare per i suoi lettori il valore estetico della pagina benjaminiana, il suo potere di suggestione, la valenza eminentemente spettacolare e quasi performativa della sua scrittura. Così si scopre, per esempio, che il saggio sul narratore in realtà è una pièce teatrale in tre atti (pp. 13-4, 18), e la sua conclusione non può che lasciare il lettore/spettatore a bocca aperta, senza parole di fronte a tanta funambolica bravura. Emblematico (oltre che caratteristico specimen del gergo baricchiano[18]) il laconico commento («applausi», p. 92) che accompagna il sipario, vale a dire la conclusione dello scritto.

Baricco rivela all’utente del suo commento un Benjamin artista ricco di talento e di ‘numeri’, un virtuoso che si esibisce in ‘colpi’ irresistibili (p. 39), capaci di magnetizzare il lettore (il pubblico, lo spettatore) avvinto e soggiogato da tanta destrezza. La fruizione del testo che viene incoraggiata è in definitiva imprescindibilmente edonistica, è sempre la «bella frase» a colpire e reclamare l’attenzione (p. 67), a suscitare sorpresa e meraviglia[19]. La scrittura saggistica finisce per essere qualcosa da doversi ‘gustare’, come si gusta un aneddoto, per esempio quello sulla morte di Cechov (pp. 49-50). Non ha uno statuto differente da quella narrativa, o teatrale, con le quali intrattiene un’indubbia parentela all’insegna della propria valenza incantatoria, spettacolare.

Non che l’acquisto cognitivo, lo si chiami così, che Benjamin consente col suo saggio venga da Baricco sottaciuto, svalutato o negato. Ma ad autorizzare una lettura in chiave prevalentemente estetica è la convinzione che nella scrittura di Benjamin (e non solo in essa) vero e bello si corrispondano e confondano: «è tutto meravigliosamente vero», può estasiarsi il commentatore (p. 68), quando non tradisca un entusiasmo che smargina nell’invido e adolescenziale disappunto, al cospetto di tanta perspicuità (e scatta allora una locuzione in schietto gergo baricchiano: «maledettamente vero», p. 88). Tanto più che, era stato detto preventivamente, «Benjamin produceva perlopiù convincenti verità indimostrate» (p. 5). L’attenzione può spostarsi così sulla mera forma, di cui i contenuti rischiano continuamente di risultare accessori solo contingenti[20]. Forma tutta da «gustare» (p. 81), che procura un «sottile piacere fisico» (come la musica, significativamente: p. 49), che «piace» (p. 91) senza pudore. Fioriscono coerentemente apprezzamenti oltremodo eloquenti, quali «apodittico ma bello», «formidabile» (p. 10), «delizioso» (p. 30), «sintetico, un tantino pubblicitario, ma chiaro» (p. 36), «bello, non c’è niente da fare» (p. 39).

E in definitiva, nei tratti del narratore così come li delinea Benjamin non sono forse ravvisabili, almeno un po’, quelli dello stesso autore berlinese? La cui immagine amabilmente affabulatoria (mentre, timidamente galante, si rivolge alla donna di cui è innamorato) il commentatore non può infatti trattenersi dal far scorgere ai suoi lettori, come dal buco della serratura (pp. 31-2). Un’analoga seduzione esercita, sul suo lettore, il commentatore. Intorno a lui si dispone idealmente un uditorio coeso, congeniale, partecipe. La voce di chi spiega e chiosa Benjamin proprio per noi attrae e alimenta una comunità di lettura attraversata da sottili correnti di simpatia, percorsa da fremiti di reciproca intesa, innervata di implicita solidarietà[21]. Come Benjamin (nella lettura di Baricco) tratteggiando il narratore leskoviano descriverebbe anche se stesso, così Baricco presentando l’immagine dell’autore di  Der Erzähler intende mostrare anche la propria, accreditandosi a un tempo come alter-Benjamin e come alter-Erzähler.

  1. Le «intrusioni» del commentatore (che a p. 86 se ne dice dispiaciuto) dilagano in margine all’ultimo capitolo del saggio. È in questa sezione del commentario che appare in piena evidenza come chi lo redige si riconosca e rifletta nell’immagine del ‘narratore originario’ tracciata da Benjamin, o meglio come nel corso dell’annotazione Baricco abbia costruito quest’immagine guardando prevalentemente alla propria. Nelle note al capitolo XIX la trasfigurazione, a lungo preparata, si compie sotto gli occhi del lettore senza suscitarne la sorpresa, prende la forma dell’incontrovertibile riconoscimento. Baricco si è progressivamente introdotto nella scrittura di Benjamin e vi si è sostituito – tanto che risulta ormai impossibile distinguere la voce dell’uno da quella dell’altro[22]. Si comprende inequivocabilmente che il narratore di cui dice l’autore berlinese altri non è, fatti i debiti aggiornamenti, che Baricco medesimo. Le Betrachtungen di Benjamin sull’opera di Leskov sono state ‘tradotte’ in altrettante considerazioni di Baricco su Baricco stesso, e ciò che poteva sembrare tutt’al più un libro parallelo è in realtà un libro unico, vale a dire il libro dell’Ars poetica baricchiana. Alessandro Baricco si serve di Benjamin per comunicare le proprie idee su che cosa debba essere, oggi, la narrazione, e su quale sia o debba essere nel presente la funzione del narratore. Perché la tesi benjaminiana circa la scomparsa dell’arte narrativa non convince pienamente l’autore, che su questo punto è esplicito (come può estinguersi infatti ciò che s’ipotizza costituire «un istinto socialmente insopprimibile», «un bisogno collettivo che sopravvive nei secoli, immutato»? pp. 33, 100). Il problema è semmai quello di intercettare, in un contesto in cui proliferano le narrazioni scadenti o pericolose (lungo l’annotazione non era mancata l’occasione di riferirsi all’universo dell’informazione multimediale, dell’intrattenimento audiovisivo, del web: cfr. pp. 25-6, 36, 45), quelle buone, quelle di qualità, quelle ancora degne di ascolto e lettura – quelle insomma per cui valga la pena spendere qualche denaro.

Pur indirettamente viene avocato a sé, in quanto narratore di mestiere (p. 90), un «privilegio» (p. 88), che deriva dall’essere detentore di un «talento» (p. 92). Ma siccome «megalomania» e «narcisismo» è bene che si temperino attraverso l’«umiltà» e la «ritrosia» (ibidem), occorre anche che il talento (che come noto si riceve gratis) venga adeguatamente messo a frutto, pazientemente coltivato. Viene così valorizzata, sulla scorta di alcune celebri e suggestive osservazioni di Benjamin, la valenza artigianale della scrittura, il suo essere pur sempre, per l’appunto, un «mestiere»[23]. La convergenza tra il Narratore e Baricco qui è esplicita, palmare: il commentatore afferma di sapere bene per diretta esperienza (p. 91) a cosa si riferisca l’autore berlinese quando parla della solidità e dell’utilizzabilità proprie di ogni opera di vero narratore. Posto che è impensabile riferire queste utilità e solidità a «una macabra resa al mercato» senza che Baricco si spazientisca (incrinandosi così, in via eccezionale e non senza qualche significatività, l’immagine sorniona e umoristicamente compassata a lui tanto consueta[24]), e che egualmente impensabile sarebbe voler coinvolgere il narratore-Baricco (si dica ormai così, per meglio comprendere l’avvenuta perfetta sovrapposizione delle due figure), nella vita politica del proprio paese (sarebbe «contro ogni logica», ci assicura l’autore), in che cosa consiste oggi l’utilità concreta, pratica, del narratore e della sua opera per la «gente»? È la Nota conclusiva che s’incarica di chiarirlo senza possibilità di equivoco.

In questa Nota Baricco perfeziona la propria poetica svincolandosi, anche tipograficamente, dal discorso benjaminiano, sottraendo la propria argomentazione all’intreccio intertestuale – e all’effetto-ventriloquo – cui andava soggetta nell’annotazione ai capitoli di Der Erzähler. Se cessa così ogni ambiguità, e a parlare è ormai Baricco a titolo personale, è proprio nel prendere le distanze dal testo di Benjamin che il commentatore suggella il suo esserselo compiutamente appropriato, che si sancisce l’avvenuta assimilazione.

Si parte dalla constatazione che «ci troviamo a vivere in una società fortemente segnata dalle narrazioni», che si assiste nel presente a un «trionfo della narrazione in qualsiasi campo e in qualsiasi contesto» (p. 102). Se da una parte questo «desiderio, semplice, di raccontare storie» (e di farsele raccontare, si è tentati di aggiungere con qualche malizia) viene valutato in termini positivi (contro l’«estremismo antinarrativo» del modernismo avanguardistico novecentesco, che si sarebbe protratto «fino almeno a tutti gli anni Ottanta del secolo», per essere finalmente interrotto da un positivo ritorno al piacere del racconto), dall’altra non se ne nascondono i gravi rischi: adottare «lo storytelling come grimaldello universale» (pp. 104-105) significa svalutare, occultare, depotenziare «fatti» e «ragionamenti»[25]. Viene insomma opportunamente rilevato il «potere ipnotico» che la narrazione in sé può esercitare, e di fronte al quale si rende necessaria una sua «dissezione critica». Stupisce Baricco che Benjamin stesso non vi abbia proceduto, o non ne abbia almeno segnalata la necessità nel suo saggio, pure redatto nel momento in cui l’autore tedesco si trovava a sperimentare drammaticamente, anche in prima persona, il trionfo di un dispositivo ideologico, quello nazista, a ragione ritenuto da Baricco come «ipernarrativo». La narrazione, insomma, è un «incantesimo pericoloso», un «sortilegio» cui occorre sapersi sottrarre. Singolare osservare tuttavia che il primo a doversi mettere in salvo rispetto a tale nefasto potere sia proprio il narratore, e non l’ascoltatore/lettore, che pure vi è più passivamente esposto. Ma è evidente che, come si è già osservato e come si dovrà tornare a vedere, Baricco pensa alla sostanziale complementarità e reversibilità dei due ruoli, del narratore e del lettore/ascoltatore: questo si rispecchia in quello – ne è la necessaria controparte.

La traccia salutifera la offre ancora Benjamin, riferendosi conclusivamente al narratore come «figura in cui il giusto incontra se stesso». Si salva quel narratore soltanto la cui immagine si rifletta in quella del giusto. Il giusto non è – Baricco segue Benjamin che interpreta i personaggi leskoviani – qualcuno che sia detentore di una non meglio precisata bontà (l’autore torinese vuole fermamente distinguersi da ogni «generico buonismo»; e in effetti la sua è una prospettiva ideologica, ma anche narrativa, assai più raffinata), ma chi sia caratterizzato dalla «giustezza di un passo», dall’«adesione istintiva a una misura» (p. 105). In un Narratore simile l’autore si sente di riconoscersi, di poter affidare la causa della propria salvezza.

Ma il lettore-Baricco è anche il lettore-di-Baricco, e l’immagine del giusto[26], sembra fatta per riconoscervi i tratti dell’autore-personaggio non meno che quelli dei suoi lettori d’elezione, effettivi o potenziali. Di coloro i quali, cioè, al termine dei propri esercizi di ammirazione vorranno o potranno passare – per così dire – dall’altra parte della scrittura: dal leggere allo scrivere, dall’ascoltare storie a narrarne a loro volta, da semplici spettatori a protagonisti d’ogni sorta di performance. Magari frequentando con profitto le lezioni torinesi del Maestro, ovvero preparandosi privatamente con il sussidio prezioso delle sue dispense, dei suoi vademecum, dei suoi kit per la produzione di «oggetti narrativi»[27].

I caratteri del giusto (che c’informano di come Baricco si veda e voglia esser visto, di come Baricco vuole che si vedano i propri lettori) sono antropologicamente quanto meno abbastanza ambigui. Se Benjamin – del quale andrebbero del resto esplicitate criticamente le ben note ambivalenze teoriche e contraddizioni ideologiche, che Baricco invece oblitera incorporandole all’immagine eterodossa del genio, nella figurina costitutivamente anomala del fuoriclasse – effettivamente scrive che il giusto è «il portavoce della creatura e insieme la sua più alta incarnazione» e gli riconosce «un elemento materno» (p. 74), ciò si traduce per Baricco in «una certa presa di distanza dall’intelligenza» (p. 76), in una curvatura etico-esistenziale che in ultima istanza rifugge dalla ragione e dal linguaggio (polemica contro l’intellettualismo) per puntare tutto sul ‘creaturale’.

Il narratore postmoderno (e, per ciò che gli concerne, il suo partecipe lettore) si colloca così per molti versi a metà strada tra il romanziere moderno e il raccontatore epico, tra chi cerca (e offre) il senso della vita e chi propone una morale per la Storia[28]. Egli produce, in un certo senso, miniature a bassa definizione e affreschi ad alta (pp. 59-60). Ma la sua saggezza, ancorché debitamente ironizzata e integrata al disincanto, in definitiva rinvia ancora a quel corso del mondo (p. 53-5) che non è altro se non il corrispettivo di quel mondo mitico, «inteso quale dominio della “necessità”», la cui critica nell’autore berlinese «resterà rilevante fino agli ultimi lavori»[29].

Tale ambigua saggezza comporta l’adesione a un universo in cui vigono quei «valori accantonati», o «di ritorno» (Scarsella, cit., pp. 28-9), che non hanno nulla in comune con i detriti di un mondo sconfitto ed emarginato in cui l’autore di Einbahnstraße vedeva pur sempre il segno perdurante e perturbante di una resistenza, di un’ancora possibile redenzione. Si tratta piuttosto di una dimensione regressiva, ripiegata, negata a ogni Erlösung[30], che recupera semmai, nelle forme aggiornate del comfort dei consumi culturali e dell’home entertainment, e nell’illusione di sottrarle al filisteismo, quelle Sekurität e Geborgenheit borghesi da cui Benjamin si era voluto invece allontanare (Schiavoni, cit., p. 20).

La valorizzazione baricchiana delle «zone oscure», dell’immediatezza esperienziale, dell’«accadimento»[31], implica in ultima istanza il rifiuto della mediazione, e dunque il misconoscimento di quella componente discorsiva, illuministico-kantiana, che in Benjamin deve essere considerata pur sempre essenziale[32]. Rifiuto che si mostra esemplarmente nella formula vagamente ricattatoria, se non proprio cripto-terroristica, attribuita a Louis Armstrong a proposito della natura del jazz («se devi chiederlo, non lo saprai mai», p. 76), cui possono essere ricondotte tante massime sapienziali di pseudo-zen metropolitano, e che non a caso denota una sinistra aria di famiglia con l’adagio meschino per cui chi domanda il prezzo di una merce lo fa perché non se la può permettere. La «geografia del nuovo» (Scarsella, cit., p. 32) cui Baricco sarebbe particolarmente sensibile si compone in realtà di creature goffamente un po’ idiote, ma angeliche e ‘giuste’, che non si fanno inutili domande e colgono l’essenziale senza bisogno di troppe parole[33]. Ma che di certo intendono al volo quelle allusive di Baricco[34], alle cui opere e performances assicurano verosimilmente duratura fortuna[35]. Perché, alla fine, la gente è «disposta a pagare pur di guardare il mondo con gli occhi del talento» (p. 69).

«Tutto quadra abbastanza», come forse direbbe il serafico Baricco. Ma non sarà inutile riservare qualche osservazione conclusiva a quei lettori, più probabilmente giovani, che accederanno a Benjamin per la porta magica del «Super ET» curato dall’autore di Oceano mare, ricevendo dalla sua interpretazione un imprinting forse irreversibile. Non si tratta ora tanto di difendere Benjamin dal suo ingombrante ammiratore (per quanto sia comunque sbagliato pensare che un ‘classico’ abbia forza sufficiente per difendersi da sé, e forse più consono alla riflessione di Benjamin ritenere invece la tradizione come minacciata soprattutto da chi se l’appropria occultandone il valore di verità); ma di preoccuparsi di quei lettori (e forse anche autori), presenti e futuri, addestrati a riconoscere il profilo dell’autentico Narratore in quello ambiguo tratteggiato da Benjamin-Baricco. È infatti pensato per loro questo aureo libretto, lo sappiamo. Esso vorrebbe costituire qualcosa di usabile, di buono come le scarpe. Ma l’utilità del manufatto è quanto meno sospetta, se il rischio è che per gli utenti la voce «calda e unitaria» (Scarsella) di Baricco resti per sempre appiccicata a quella, dal timbro ben diverso, di Benjamin; e che le Considerazioni di questi siano in perpetuo quelle che parlano di un Narratore come Baricco, e che fanno dell’autore berlinese niente più che il profeta di un Messia che ne è al contempo l’unico interprete praticabile – quindi il più attendibile.

E non mancheranno quanti, magari lettori non proprio dei più sprovveduti, non soltanto riterranno Baricco un esegeta sostanzialmente affidabile, se non proprio ottimo, del saggio di Benjamin (e la narrazione, dunque, l’arte ammiccante e un po’ ruffiana del coinvolgimento/intrattenimento[36]), ma saranno persuasi che il primo abbia addirittura migliorato il secondo. Perché con la sua Nota conclusiva non perfeziona forse, Baricco, il proprio malcelato «istinto competitivo» (l’autore di Novecento, tocca apprendere, trova «irresistibili» i duelli[37]) nei confronti dello scrittore tanto entusiasticamente commentato? Come Benjamin con Valéry[38], Baricco «poteva anche fermarsi e portare a casa un bel pareggio». Ma «il virtuosismo sfacciato di quella storia» dei giusti, «l’incursione della categoria etica», gli ha consentito addirittura di vincere la partita.

Baricco è il classico narratore di talento, che mai potrebbe accontentarsi di Benjamin. Il quale perciò ci viene consegnato opportunamente re-visionato, sostanzialmente epurato di quella «istanza utopica e messianica» da cui pure egli fu «sempre sollecitato» (Schiavoni, cit., p. 253) e che malissimo si concilia con la commistione di entusiasmo e nichilismo che connota l’ideologia sottesa alla narrativa baricchiana[39]. Di un autore commercialmente sterile e deplorevolmente inutilizzabile dall’industria si produce così un Maestro cult, perfettamente riacclimatato e reso consumabile al di fuori del circuito accademico, impeccabilmente confezionato nel suo coloratissimo packaging (l’illustrazione di copertina – di Simone Pieralli, certo un lettore di Baricco – meriterebbe un’esegesi a parte). Baricco fa dell’autore di Der Erzähler un pensatore finalmente presentabile, rimediando a un inammissibile spreco[40]. Una volta, beninteso, che sia stato completamente ricondizionato – come si dice delle merci con qualche difetto di fabbrica, sottoposte a revisione tecnica e re-immesse sul mercato come ‘quasi nuove’. «Con tanti saluti al pur grande» Benjamin.

Note

[1] Cfr. infatti Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, Note a commento di Alessandro Baricco, Torino, Einaudi 2011 (a questo volume, se non diversamente indicato, si riferiscono sempre i numeri di pagina nel testo e nelle note). Che l’iniziativa della pubblicazione spetti prioritariamente all’editore lo dichiara l’autore del commento nella Nota introduttiva, p. VI.

[2] La meraviglia può forse stemperarsi un poco considerando le armoniche benjaminiane che è stato possibile ravvisare fin nel romanzo d’esordio dell’autore torinese: cfr. A. Scarsella, Baricco, Fiesole, Cadmo 2003, p. 38 n. 16. Ma attinenze benjaminiane anche nel testo teatrale Davila Roa (cfr. ivi, p. 80) e, anche in questo caso con riferimento al grande studio sul dramma luttuoso barocco, nello stesso saggio su Rossini che costituisce, in assoluto, il primo volume pubblicato da Baricco (cfr. C. Pezzin, Alessandro Baricco, Verona, Cierre 2001, pp. 80-81). Sullo specifico interesse di Baricco per la figura del narratore secondo Benjamin cfr. infra, nota 28.

[3] W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi 1962; il saggio su Leskov, collocato alle pp. 247-274, apre la sezione Saggi critici.

[4] E in cui contestualmente, è opportuno sottolinearlo subito, si plasmano i gusti di un nuovo pubblico di lettori, attraverso la «proposta di una concezione della letteratura diversa da quella scolastico-accademica» (cfr. A. Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, Bologna, il Mulino 2007, p. 82).

[5] Si tratta del resto di un’opinione largamente diffusa tra gli studiosi: di «pretesto saggistico» scrive per esempio Giulio Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità. Un percorso biografico e concettuale, Torino, Einaudi 2001, p. 301. Dal volume di Schiavoni (p. 239) è tratta la testimonianza brechtiana posta in epigrafe a questo articolo.

[6] Sulla multiforme attività del Baricco operatore culturale e «uomo di spettacolo» si può vedere la già menzionata monografia di Scarsella (con bibliografia), da cui si riprende (p. 27) la definizione tra virgolette.

[7] A quel peculiare senso della realtà, cioè, che in un’occasione fa scrivere al commentatore: «Qui non si tratta tanto di commentare, o di discutere: è già un bel risultato capire» (p. 45).

[8] Cfr. Schiavoni, cit., p. 244. Si considerino in particolare le parole di Edoardo Sanguineti ivi riportate: «il commentatore parla di sé: non spiega il classico, ma si spiega».

[9] Sulla particolare cifra della scrittura narrativa di Baricco, considerata come sempre «in fieri» tra oralità e scrittura, cfr. la già menzionata monografia di Claudio Pezzin (cit., p. 42; ma passim).

[10] Per una disamina particolareggiata della lingua e dello stile dei romanzi baricchiani, fino a City, si veda E. Bellavia, La lingua di Alessandro Baricco, «Otto/Novecento», a. XXV, n. s., n. 1, gennaio-aprile 2001, pp. 135-68.

[11] Se si è disposti ad ammettere qualche connessione tra ciò che qui viene detto «voce» e quello che comunemente si definisce invece lo «stile» di un autore, la peculiare inconfondibilità (quindi la falsificabilità seriale) della scrittura-griffe di Baricco è sottolineata anche da Giuseppe Antonelli, Lingua ipermedia. La parola di scrittore oggi in Italia, Lecce, Manni 2006, pp. 72-3.

[12] Bellavia (cit., pp. 135-154) passa in rassegna i fenomeni più vistosi che avvicinano la lingua dei romanzi di Baricco a quella dell’italiano colloquiale contemporaneo.

[13] Sulle forme disinvolte assunte dal «contatto» tra Baricco e i suoi lettori si vedano le caustiche osservazioni di Giulio Ferroni nel pamphlet collettivo (con Alfonso Berardinelli, Filippo La Porta e Massimo Onofri) Sul banco dei cattivi. A proposito di Baricco e di altri scrittori alla moda, Roma, Donzelli 2006.

[14] Cfr. Scarsella, cit., p. 31. Che la «narrativa fortemente filosofica» di Baricco prenda di mira una realtà considerata inautentica, e presupponga un atteggiamento oppositivo nei confronti del mondo massificato e consumistico, è opinione di Pezzin (cit., pp. 24 e 85; ma su Baricco «oppositore non trasgressivo» cfr. le puntuali osservazioni di Casadei, cit., p. 48.). Analoghi elementi negativi contrassegnano la «storia esterna» vissuta dai protagonisti di Seta («storia esterna» che corrisponde, nella lettura dello studioso, alla realtà esperita dai lettori del romanzo) secondo Guido Ferraro (cfr. Id., Storie intraducibili. Appunti di lettura su Seta di Alessandro Baricco, in P. Bertetti [cur.], Nuove narrazioni: Tarantino, Baricco, il cyberpunk, Torino, Centro Ricerche Semiotiche 1996, pp. 145-158).

[15] Di «prosa altamente sofisticata ma quasi confidenziale», oltre che di «esibizionismo da grande jongleur» scrive a proposito della prosa dell’autore torinese Eugenio Ragni (cfr. Id. e T. Iermano, Scrittori dell’ultimo Novecento, in Storia della letteratura italiana. Il Novecento, pp. 925-1155, Roma, Salerno 2000; citazioni alle pp. 1136-7).

[16] «Più che un capitolo, è un cassetto», si dice per esempio del XVII, introducendone l’annotazione.

[17] Sul particolare «target di lettori» (‘colti’, e non popolari) identificato nei romanzi di Baricco dal/col ricorso al registro linguistico-stilistico informale si veda Bellavia, cit., pp. 149-51.

[18] Bellavia (cit., p. 159) individua nella «semplificazione sintattica» (fino all’estrema rarefazione di quello stile nominale tipico del linguaggio giornalistico tanto diffuso nel parlato giovanile, soprattutto) una delle componenti dell’asserita «varietà» stilistica del Baricco narratore.

[19] Sempre Bellavia (cit., pp. 161 e 168) segnala nei romanzi di Baricco una costante «volontà di stupire» il lettore, fino a ritenere la sorpresa un «elemento sempre inseguito» dall’autore torinese. Di «poetica della meraviglia» scrive Pezzin (cit., p. 11) a proposito del primo romanzo baricchiano.

[20] Significativa in questo senso la concezione ‘ornamentale’ che Baricco attribuisce all’esemplificazione benjaminiana (pp. 5 e 46).

[21] Nello «schermo di complicità che caratterizza il tipo di contratto stipulato da Baricco con il suo lettore» rientra inoltre quel «circolo virtuoso del consumo letterario di qualità» (Scarsella, cit, p. 100) che è componente peculiarmente postmoderna della produzione dell’autore torinese. Ma nella stessa direzione possono esser visti procedere anche quegli espedienti strutturali, e al limite metanarrativi, intesi a riprodurre e captare la sensibilità dei lettori di riferimento del romanziere (cfr. G. Ferraro, cit., passim, e in particolare le Conclusioni). Secondo Casadei (cit., p. 68) la consapevolezza, da parte di Baricco, di «muoversi sullo sfondo senza tradizione dell’attuale immaginario collettivo» lo induce a siglare, nella «super-lingua “dell’impero” massmediatico», un vero e proprio «patto con i nuovi lettori-barbari».

[22] Si tratta dello stesso fenomeno che Alfonso Berardinelli (Non incoraggiate il romanzo. Sulla narrativa italiana, Venezia, Marsilio 2011, p. 121) registra incidentalmente a proposito di un’altra opera baricchiana recente, Omero, Iliade: «Gli autori sono due o è uno solo?», «Si legge e non si sa che cosa si sta leggendo. Omero diventa Baricco e Baricco diventa Omero». Di fronte all’operazione divulgativa posta in atto dal «sostituto di Omero» il critico può così reclamare polemicamente l’istituzione di «un ministero dell’ecologia culturale» in grado di tutelare dalle manipolazioni i grandi testi della tradizione. Al di là della boutade, di fronte alla pericolosa formula («meglio di niente») che pur a malincuore rischia di avallare tali manipolazioni, forse non hanno valore esclusivamente retorico le domande che Belardinelli si pone: «E se invece fosse meglio niente? Le bugie culturali devono essere apprezzate in quanto ‘culturali’ o invece respinte perché ‘bugie’?».

[23] Su questo aspetto si veda Scarsella, cit., p. 29. Il mito (beninteso, anche benjaminiano) del lavoro e del prodotto artigianale viene proiettato da Baricco sull’operosità del narratore contemporaneo («scrivere libri resta un lavoro sostanzialmente artigianale», p. 41); ma mentre l’attività dell’artigiano si qualifica per la sua capacità di produrre oggetti d’«irripetibile singolarità» (p. 39) una simile alta ambizione risulta evidentemente impedita al narratore postmoderno. La contemporanea riproducibilità tecnica degli oggetti narrativi non esclude tuttavia, secondo Baricco, che all’esperienza e alla perizia artigianali possano rimandare perfino taluni prodotti del più consumabile cinema commerciale (p. 42). L’autore torinese sembra avere dunque un’idea piuttosto ampia del mestiere di artigiano (e di quello di narratore), un’idea che significativamente include l’opera di Valéry e quella delle multinazionali nordamericane dell’intrattenimento: e si vedano infatti le significative conclusioni cui si perviene per questa singolare apertura, alle pp. 99-100. A chi ritenesse che queste conclusioni siano compatibili con il proposito benjaminiano di «fare implodere, non esplodere, la fantasmagoria del capitalismo» può essere ricordato che per l’autore berlinese la merce si riscatta, mostrando il suo occulto valore di verità, soltanto «nel momento in cui il valore d’uso e quello di scambio dell’oggetto sono azzerati» (cfr. G. Gilloch, Walter Benjamin. Critical Constellations, Cambridge, Polity Press 2002; tr. it. di S. Manfredi, Walter Benjamin, Bologna, il Mulino 2008, pp. 178 e 194). Nel caso di Baricco si è notevolmente distanti, parrebbe, da questo duplice azzeramento.

[24] Claudio Pezzin (cit., pp. 48 e 108) riporta quest’attitudine di Baricco da una parte (significativamente) alla figura dell’«uomo di buon temperamento» di nietzscheana memoria dall’altra alla lezione di certo teatro anglosassone, in particolare quello di G. B. Shaw.

[25] Al «declino dei fatti, a vantaggio delle narrazioni» Baricco si era già riferito annotando il capitolo VI, p. 26.

[26] Caratterizzata secondo Baricco da «uno stare al mondo friabile, mansueto, misurato, gentile, un po’ eccentrico, appartato, obliquo. Infantile, istrionico. Poco intelligente, molto acuto», da «una certa istintiva estraneità alla corrente maggiore, e un privato andare leggeri per sentieri sfumati eppure fermi» (p. 105).

[27] Cfr. Scarsella, cit., p. 26; il riferimento è al progetto denominato Totem (1999, 2000 e 2003).

[28] Significativa in questo senso l’interpretazione di Alberto Casadei, secondo il quale la narrativa di Baricco manifesterebbe l’intenzione di riproporre la forma del romance, per quanto «abilmente manipolato» e piegato «nella direzione delle grandi domande della vita» (cfr. Id., cit., pp. 68-9). Egualmente significativo che, sempre secondo Casadei, l’opera baricchiana rappresenti il tentativo «di recuperare lo status del narratore benjaminiano», status «d’altra parte storicamente e sociologicamente ora inattingibile». Ragion per cui oltre che collocarsi all’esterno rispetto alla tradizione del novel i testi dell’autore torinese, «benché si adattino assai bene a un’eventuale lettura recitata», sarebbero da ritenere estranei anche a «quella della narrazione benjaminiana» (ibidem).

[29]  Cfr. Schiavoni, cit., p. 74. Lo Zeit-traum capitalistico riattiva infatti una dimensione onirica nella quale agisce una «compulsione mitica». Ed è appunto una «collettività sognante» quella che secondo Benjamin occorre ridestare e redimere (cfr. G. Gilloch, cit., pp. 172 sgg.).

[30] Non si può consentire dunque con l’apologetico Scarsella (cit., p. 30), quando considera «un errore rinchiudere il metodo di Baricco nei domini del vagheggiamento di una società organica di cui il gruppo dei suoi lettori e spettatori, in comunione con un cantastorie postmoderno, rappresenterebbe una sorta di riproduzione in scala ridotta. Al contrario, contestando la contemporaneità, Baricco osa sfidarla e sconfiggerla sul suo stesso terreno». Laddove infatti lo studioso sembra scambiare per prassi contestataria e antagonistica (o forse perfino rivoluzionaria, ‘implosiva’ à la Benjamin?) ciò che è un fatto di semplice concorrenza – mentre l’alta lezione impartita dall’autore alle nuove generazioni consiste all’incirca nella decisiva esortazione a tingersi i capelli di verde e a cercare «di stare nel, nel. Non fuori. Nel» (ibidem; sulla valenza nietzscheana da riconoscersi all’uso dei corsivi in Baricco ha attratto l’attenzione Pezzin, cit.; ma sul ricorso al sottolineato, non solo materiale, nella narrativa baricchiana probabilmente più perspicue le osservazioni di Casadei, cit., p. 69).

[31] Cfr. Scarsella (cit., pp. 19 e 23), che riporta brani giornalistico-saggistici tratti da Barnum 2: nel primo è l’eloquente illustrazione, da parte di Baricco, del «principio di complessità» applicato alla letteratura, con l’elogio delle «zone oscure» («Se vi suona oscuro allora ci siamo»); nel secondo è la presa di distanza dell’autore torinese dalla lezione di Italo Calvino, in nome della «terra» e dell’«umano» contrapposti alla «mappa» e alla «radiografia». Intorno all’interpretazione dell’opera romanzesca di Baricco nel triplice segno del nichilismo nietzscheano, dell’ontologia heideggeriana e del ‘pensiero debole’ di Vattimo, s’impernia la monografia di Pezzin, cit. (i debiti dell’autore verso la prospettiva teorica vattimiana, in particolare, sarebbero stati da Baricco esplicitamente dichiarati nel libro d’esordio su Rossini: cfr. cit., p. 20).

[32] Cfr. l’Introduzione di Renato Solmi ad Angelus Novus, cit., passim (il saggio si può leggere ora anche in R. Solmi, Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, Macerata, Quodlibet 2004, pp. 227-55). A dire il vero Solmi sottolinea l’influsso esercitato su Benjamin dal neocriticismo marburghese (H. Cohen), laddove una presa di distanza dalla prospettiva aperta dall’Aufklärung sarebbe da ravvisare in tutta l’opera benjaminiana, come sottolinea per esempio Graene Gilloch (cit., p. 194). Ma lo stesso Gilloch (ivi, p. 339) deve poi osservare anche come la riflessione di Benjamin preluda, se non altro, a quella interpretazione ‘dialettica’ dell’Illuminismo (nel senso della Dialektik der Aufklärung, evidentemente) che non sembra da doversi ritenere esorbitante rispetto ai termini della tradizione razionalistica occidentale. Al punto che forse anche per Benjamin, fatti i debiti aggiustamenti, si potrebbe felicemente adoperare la formula che proprio Solmi (cit., p. XXXIII) riferì a Karl Kraus, alludendo alla sua vicenda intellettuale come alla «tragedia dell’illuminista moderno».

[33] Pezzin (cfr. per esempio, cit., p. 17; ma passim) sottolinea ripetutamente la pulsione verso il pre-verbale riscontrabile nei romanzi di Baricco. Sempre Pezzin riconduce la centralità delle figure infantili (nel ricorrente personaggio di «un essere primordiale, elementare, istintuale, originario», p. 92), facilmente riscontrabile nelle vicende narrate dall’autore torinese, all’immagine dell’Übermensch nietzscheano (ed è significativo che lo studioso si spinga poi a individuare una «componente infantile e onnipotente» nello stesso Baricco). Sull’insufficienza del linguaggio e sull’‘intraducibilità’ (e sull’incommensurabilità, anche assiologica) tra il piano della storia oggettiva (quindi del segno) e quello della dimensione soggettiva (tra lo spazio del reale e quello del desiderio, si potrebbe forse parafrasare) s’impernia la lettura di Seta proposta da Ferraro (cit., passim), che sottolinea convincentemente come il romanziere tocchi in tal modo strutture «che sono importanti in un certo tipo di sensibilità e di cultura diffuso, specialmente tra i più giovani» (p. 158). Sulla questione cfr. anche la nota successiva.

[34] Bellavia (cit., pp. 162 sgg., passim) accenna all’importanza che nei romanzi di Baricco rivestono, nel suscitare la partecipazione del lettore, l’implicito e gli stessi valori d’intonazione (ma per Casadei, cit., p. 67, tale allusività, «ancorché evidente», è da ritenersi «portato secondario» rispetto ai processi di enfatizzazione patetico-spettacolare). È ciò che si potrebbe definire il lato apofantico, o mistico (di un mistico pop, evidentemente), proprio della scrittura baricchiana. Non sarà inutile ricordare qui, con Solmi (cit., p. XXVI), come al contrario nulla fosse più alieno a Benjamin «della pretesa di sostituire, al movimento concettuale del pensiero, l’organo privilegiato dell’intuizione».

[35] Sulla peculiare abilità di Baricco nel «garantirsi un pubblico costante nel panorama della super-offerta attuale», e sulla pagina baricchiana come «sistema […] ben congegnato per la conquista del lettore» cfr. gli accenni preziosi di Casadei, cit., pp. 48 e 69.

[36] Di ben altra natura – occorre precisarlo, prevenendo gli argomenti di quanti eventualmente intendessero accreditare l’esperienza radiofonica dell’autore berlinese come il corrispettivo delle performances postmoderne del narratore in veste di affabulatore radio-televisivo – l’Unterhaltung benjaminiana, la cui valenze pedagogiche hanno precise connotazioni illuministico-brechtiane (cfr. infatti, per esempio, Schiavoni, cit., pp. 179 sgg. e Gilloch, cit., pp. 225 sgg.).

[37] Ma già lo si sapeva: cfr. infatti Pezzin, cit., pp. 66, 96, 100-1.

[38] Da qui in poi si segue da vicino il testo di Baricco (pp. 90-91) facendone il parodico détournement.

[39] L’osservazione è tra quelle maggiormente condivisibili della (per il resto legnosa e un po’ scolastica, anche se – prescindendo dall’inevitabile tono iperbolico-encomiastico – non del tutto sprovvista di argomenti) monografia di Pezzin (cit., pp. 9 e 97). Sempre Pezzin riscontra inoltre la presenza, in Baricco, di una componente esistenzialistica, quando dovrebbe essere piuttosto rilevata, con Casadei (cit., pp. 69-70), la funzione di «occultamento delle angosce» svolta dalla retorica baricchiana – che procede anche in tal modo nella direzione di una caratteristica ‘patinatura’ (ibidem) dell’esperienza.

[40] Le Tesi sul concetto di storia nel commento di Baricco son citate una sola volta, incidentalmente, come nulla più che «un altro suo saggio» e non certo come l’ineludibile «testamento spirituale» di Benjamin (Schiavoni) – saggio buono giusto, per Baricco, a prelevarne col rampino una citazione krausiana (nemmeno delle pregevoli, per una volta: p. 7). Paradigmaticamente, il marxismo di Benjamin viene edulcorato da Baricco riconducendolo a una generica (e in fin dei conti veniale e innocua) attitudine «a riportare la storia della cultura a precise matrici sociali, e qualsiasi tramonto d’idee all’esito di precisi conflitti tra forze produttive» (p. 35); laddove, al contrario, più «che al suo metodo e alla sua forma» Benjamin guardava (per Baricco sarà penoso apprenderlo, ma è il demodé Renato Solmi a scriverlo tanto brutalmente: cit., p. XV) né più né meno che al «suo contenuto (lotta di classe)».

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