Al posto della “vocazzione”

 Tabea Nineo, R dormiente, disegno 1978

Riordinadiario 28 aprile 1978/2002/2023

 di Ennio Abate

Da giovane l’ho desiderato. Ma i miei pochi tentativi di lavorare professionalmente come scrittore o come artista sono sempre falliti.  E ho accettato senza troppi drammi di fare altri lavori (impiegato, operaio notturnista alla SIP, insegnante) per mantenermi e mantenere la famiglia che mi ero fatto, continuando però sempre – sia pur da isolato –   sia a  scrivere (soprattutto) e, più episodicamente, a disegnare o dipingere.

Il ridimensionamento (ma anche occultamento, nel periodo della militanza in Avanguardia Operaia) del desiderio (di scrivere, di dipingere), che è stato in me sempre fortissimo, porta il segno della mia condizione sociale di partenza. Non ha mai trovato incoraggiamento o sostegno né dalla mia famiglia di origini sociali ed economiche modestissime (padre ex maresciallo dei carabinieri, padre casalinga) né  dai vari ambienti in cui mi sono trovato a vivere. Né a Salerno dove sono vissuto  fino al 1962. Né poi a Milano o a Cologno Monzese, dove abito dal 1964.
A Salerno, nessuna delle persone che influenzarono la mia vita culturale ed emotiva – alcuni amici studenti più grandi di me e dirigenti dell’Azione Cattolica, come Amedeo Postiglione o Filodemo Iannuzzelli; tre o quattro coetanei del liceo; alcuni preti, come  il parroco della chiesa di S. Domenico e don Enzo Tortora o don Claudio Bucciarelli, conosciuti ad alcuni campeggi estivi) –  avevano vera attenzione all’arte o  alla letteratura. Semmai, avevano preoccupazioni etiche e religiose, che le respingevano o svalutavano. Quel desiderio rimase nell’ombra. Seppellito dal problema, allora centrale nei discorsi che  facevo con loro. E che ruotavano attorno al dilemma: diventare o no ancora prete, malgrado il primo – infelice e interrotto – tentativo di entrate in seminario a 12 anni (qui). (E poi non è detto  – almeno non lo ricordo  – che gli avessi confidato mai in modo chiaro quel mio desiderio. Quindi, potei al massimo  sostenerlo attraverso le mie letture: delle antologie scolastiche, di romanzi che mi facevo prestare, di  giornali come Il Mattino o riviste come Epoca, Selezione del Reader’s Digest, L’Illustrazione italiana, che arrivavano in casa.

A Milano, dove ero venuto anche con la speranza (mai dichiarata neppure a me stesso) di trovare un terreno più favorevole per soddisfare quel desiderio,  ho fatto esperienze d’altro tipo. Che prescindevano da questo desiderio, essendo riuscito a stabilire  legami (innanzitutto di lavoro e poi amicali e affettivi) solo con ambienti che lo ignoravano o lo respingevano. Ho sempre continuato a scrivere. Quando ho lavorato da impiegato al Comune di Milano per un anno.  Quando, per reazione ad una delusione amorosa, mi sono licenziato da quell’impiego e ho tentato di procurarmi un lavoro più vicino ai miei interessi per l’arte (sulla quale in quel momento mi ero concentrato più che sulla scrittura).  Faticosamente e sempre in condizioni  economicamente precarie riuscii a diplomarmi in educazione artistica e ad ottenere anche l’abilitazione in disegno artistico,  ma  finii per abbandonare questa strada.  Rifiutai un lavoro (in un laboratorio di orafi a  Valenza Po) che mi aveva trovato un professore di Brera, Gasparini.  Feci anche una prova in un laboratorio di ceramica ma poi non ci andai più.  Interruppi  con rabbia  questa strada, prendendo a pretesto  la nascita del mio primo figlio, Fabio, e l’insopportabile senso di colpa che mi veniva dal doverci mantenere solo con il magro stipendio d’impiegata della mia prima moglie, R.
Pesò il sentimento di umiliazione per aver dovuto  frequentare – disoccupato, mantenuto  malvolentieri prima in casa di un amico a San Giuliano e poi in casa della famiglia di  R. E per la penosa e regressiva esperienza  che mi imposi: tornare a fare lo studente per alcuni mesi  al liceo artistico di Brera, non essendo valido in quegli anni (1963-’64) per l’accesso a quegli studiil diploma di liceo classico di cui ero in possesso. Un’autopunizione per un desiderio che vivevo colpevolmente, essendo del tutto estraneo e malvisto o appena sopportato dalle persone a cui mi ero legato?

L’ostacolo non veniva soltanto dall’esterno, dagli altri, indifferenti  o occupati o preoccupati da altri pensieri o desideri. Veniva anche da spinte mie interne, da altri desideri in contrasto con quello, che  me lo facevano svalutare. Come se mi accorgessi che  non poteva rientrare in una delle forme pubbliche che  consentivano di coltivarlo assieme ad altre persone.  E io stesso finivo per reprimerlo.

Un tentativo simile a quello che feci a Brera nel ’63-’64  (ma non così penoso e umiliante) l’avevo compiuto, quando ancora ero a Salerno. Avevo  abbandonato la facoltà di Legge, a cui mi ero appena iscritto, su pressione di mio padre e seguendo gregariamente la scelta dei miei amici  di liceo e mi ero iscritto a Lingue e letterature moderne. Frequentai un anno, superai bene i primi esami, ma interruppi (per vari motivi che ora non tratterò qui). E me ne venni a Milano, senza nessun appoggio e facendomi prestare da alcuni amici i soldi per il viaggio e  l’affitto di un mese  per  una stanza in  coabitazione.

Si trattava di dissidi interiori? Allora, per chiarirli, pensi non più o soltanto ai condizionamenti sociali e culturali, ma a spinte inconsce che la psicanalisi potrebbe aiutare a individuare e nominare. Ma entrambe le possibili interpretazioni – la sociologica o la psicanalitica – mi rimandano al periodo cruciale della vocazzione, che forse ha segnato anche le mie scelte successive.  Quel mio desiderio di scrittura e di arte, soffocato quando cominciò a spuntare nel periodo degli studi liceali – (e al liceo classico  mi iscrissi ancora perché lì si studiava il latino, indispensabile allora per un eventuale rientro in seminario, quindi ancora nella prospettiva non del tutto respinta del farmi prete) –  funzionò  faticosamente da antidoto all’influsso dell’ambiente clericale dell’Azione Cattolica, in cui ero inserito a Salerno.
Quel desiderio era poi attrazione per un mondo da cui ero socialmente lontano e che allora potevo soltanto  immaginare inseguendo le poche tracce che, come detto, raccoglievo dai giornali, e da alcune riviste. Lo sapevo esistente e reale ma per altri miei contemporanei, non per me.

Abbandonare il mondo reale, soffocante, ma in cui mi ero formato e a cui avevo aderito profondamente per l’altro, attraente ma ignoto e anche temuto, perché vissuto solo nell’immaginazione, non avendo mai avuto rapporti con scrittori o artisti reali e viventi non fu facile.  Nessun amico, a cui proposi di accompagnarmi a Milano, accettò di buttarsi in quella che giudicavano un’avventura quasi folle. E dovetti compierla da solo. E smarrendomi. Bussole non ne avevo.  Maestri  neppure. Nell’isolamento ero a Salerno, Nell’isolamento mi ritrovai nei primi tempi a Milano.

La scelta che mi si impose  e che alla fine ho adottato – scrivere o disegnare e dipingere di fatto in solitaria facendo altro per campare (l’insegnante di italiano e storia) –  mi accomuna a tantissimi.  Quel mio desiderio, però,  l’ho conservato e rafforzato anche in condizioni che avrebbero potuto soffocarlo del tutto.  Certo, ha dovuto assumere forme che non avrebbe  preso, se l’avessi potuto perseguire in condizioni appena più agiate o incoraggiate da chi mi ha vissuto accanto. E deformarsi, poco o tanto. Paga lo scotto dell’oscurità e riceve l’attenzione di pochissimi.  Porta le cicatrici della mia condizione reale di vita. Ma non me la sento di parlare di fallimento. Ho dato la precedenza ad altri bisogni (materiali, affettivi, amicali). E anche alla politica.

Quel desiderio è mutato  col tempo. Non è più puro e assoluto, come lo vivevo da giovane, quando faticai non poco a staccarmi dal piano religioso che lo conteneva, lo tratteneva e lo reprimeva pure. S’è sporcato. Con il lavoro subordinato, con le rigidità della militanza politica, con lo spleen della vita in periferia. Ma ha resistito e ha dato i suoi frutti. Che le mie scritture non troveranno la forma meditata e ordinata che vorrei  raggiungere e i miei disegni e dipinti resteranno sconosciuti conta di meno.

8 pensieri su “Al posto della “vocazzione”

  1. @ Angelo

    Il “male” non sta nello “scrivere per se stessi” (o nello scrivere per gli altri). Queste sono due forme che rispondono a diverse funzioni della lingua e dei bisogni umani, in teoria apprezzabili entrambe. “Male” è che le nostre scritture dobbiamo depositarle in un medium (oggi il Web) che le frulla e le rende invisibili rispetto alla Comunicazione mainstream. Per cui, senza volerlo, finiamo per somigliare a quegli ebrei dei lager che seppellivano sottoterra i barattoli contenenti i loro messaggi (scritti per se stessi o per gli altri) con la vaga speranza che un giorno qualcuno li avrebbe dissepolti.

  2. In generale, io la penso come Zeno (Svevo), si scrive come autoterapia. L’arte ha una funzione psichica. Il voler essere letti fa parte dello stesso bisogno, direi che chi non si cura più di tanto dell’essere letto ha un bisogno minore. Stesso discorso internet: chi vive bene, di vita piena, difficilmente perderà molto tempo su internet. Chi ci passa molto tempo, in qualche modo sente che il suo bisogno di comunicare non è del tutto soddisfatto dalla sua vita vera, quotidiana, in tre dimensioni.

  3. @ Lorenzo

    In parte d’accordo. Ma a patto di aver chiaro che è un’autolimitazione e un “uso improprio”: cfr. sotto il brano di Fortini in Appendice, anche se riferito in particolare allo scrivere versi e non ad altri generi di scritture. Autolimitazione e “uso improprio” dovuti a fattori esistenziali e storici che stanno (forse e in buona parte) alla base stessa del bisogno di autoterapia (o di cura di sé).
    Allargando il discorso, si potrebbe riproporre il problema nelle forme in cui spesso l’ho posto su Poliscritture parlando di io/noi: perché uno deve ricorrere all’autoterapia (dell’io) trascurando la terapia del noi, che una volta si chiamava politica? Si può rinunciare alla politica, al noi? Ci si può “salvare” da soli?

    APPENDICE

    7 E’ difficile pensare a un giovane adolescente studente che non si sia cimentato, perlomeno una volta, con la scrittura di una poesia. Ecco, perché in ogni età, cultura e condizione si scrivono versi?

    Effettivamente con la successione delle tendenze letterarie e delle tendenze culturali o, diciamo ideologiche, degli ultimi due secoli a partire pressappoco dall’età della Rivoluzione francese, la scrittura in generale e la scrittura poetica in particolare sono diventate uno strumento di introspezione, sono diventate una via alla ricerca della propria identità. Insomma ogni scrittura che non abbia delle finalità puramente pratiche, sembra guidare alla scoperta di se stessi: allora scrivere versi diventa, in misura minore, anche tenere un diario o scrivere delle lettere reali o immaginarie. Scrivere versi diventa un modo rapido, un modo economico e, ahimé, un modo illusorio di risparmiarsi una crescita psicologica o un trattamento psicanalitico. Per esempio è diffusa l’idea che le scritture poetiche private siano alcunché di gratuito che uno può fare o può non fare, invece ci si accorge che questa è la conseguenza del fatto che le classi dominanti a partire dall’inizio dell’Ottocento avevano investito la categoria degli intellettuali di quelle funzioni che erano state nei secoli precedenti propri della casta sacerdotale, e esaltarono all’interno di questi intellettuali i letterati e i poeti come dei portatori di qualcosa di particolarmente rilevante, libero, gratuito, sublime e hanno continuato a mantenere questa sorta di illusione attraverso l’educazione di massa, attraverso i media audiovisivi, nonostante che appunto l’educazione di massa e i media audiovisivi, l’industria culturale dei nostri tempi, abbiano tolto ogni mandato sociale, ogni compito collettivo al letterato. So benissimo che mi si dirà che questo non è del tutto vero. Certo, fittiziamente vengono mantenuti, ma vengono mantenuti con una funzione analoga a quella che hanno i corazzieri al Quirinale. Il poeta si lascia adulare grazie ai suoi supposti rapporti col mondo dell’invisibile e dell’inconscio, come vedremo supposti, ma non del tutto falsi. Insomma per risolvere dei problemi affettivi, morali, psicologici, religiosi, metafisici è meglio non fare assegnamento sulla scrittura dei versi. Se si scrivono o se si leggono dei versi senza qualche coscienza critica o storica della tradizione letteraria per un verso e della loro destinazione, della loro collocazione nella realtà di oggi, si fa una strada falsa, non dimenticando che una letteratura di consumo di apparente immediatezza esiste ed è quella che troviamo per esempio in molte forme pubblicitarie, nell’uso della parola nei testi pubblicitari o nelle canzoni di consumo.

    (Da Franco Fortini, Cos’è la poesia?, intervista a RAI EDUCATIONAL del 1993 https://moltinpoesia.blogspot.com/2010/10/proposta-di-lavoro-n1-)ottobrenovembre.html#more)

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