Le contorsioni di Chiero (1)

Tabea Nineo, Gioie dell’educazione cattolica, 1977

Narratorio. Da “A vocazzione”

Dopo ronn’Enze Qu  – legnoso e sbrigativo – Chiero  aveva conosciuto nel 1949 ronn’Enze  To, un prete dinamico e simpatico. Era l’assistente diocesano dell’Azione Cattolica. Viveva in un paese di provincia e nella parrocchia di San Domenico capitò la prima volta per fare gli esami di catechismo.
I ragazzi avevano risposto benissimo a tutte le domande. Ronn’Enze To aveva lodato molto loro e la signorina Dag che li aveva preparati. E dopo qualche mese vennero a sapere che avevano vinto o gagliardette. Soddisfazione per il premio e piccola cerimonia  nella saletta delle adunanze per festeggiare. Spinto dalla signorina Dag, Chiero scrisse e lesse emozionato un discorsino davanti agli altri ragazzi e ai genitori. Poi una foto tutti assiepati attorno a questo gagliardette.

A rivederla oggi quella foto in bianco e nero. Che visi di fantasmi – tirati o ingenui o svagati o intontiti.  Chiero aveva la giacca nuova. Era quella preparata dal sarto, venuto due volte fino a casa in via Sichelgaita: per prendere le misure e poi, dopo la prima imbastitura, per provargliela.  È accanto a Eggidie e ad altri quattro ragazzi. Nella fila in alto,  in piedi. Probabilmente sulle sedie impagliate allineate al muro. Sotto di loro una fila di ragazzi e genitori, tra cui Mìneche con il faccione serio e  squadrato  e Nannìne col viso affilato e una camicetta bianca ricamata sotto una giacca nera. E poi ancora una fila con altri ragazzi e mamme sedute con al centro la moglie del sacrestano. E poi, accosciati o seduti per terra un’altra fila di ragazzi: uno in posa spavalda e teatrale e uno – Mario Barl che poi finì suicida – con un sorriso raggiante.

Grazie a quella vittoria, per la prima volta  un po’ di  ragazzi della parrocchia, accompagnati dalla  signorina Dag,   salirono su un treno per andare a Roma.  A città ro Pape.

Ai tempi di Mussolini, a Roma c’erano stati in viaggio di nozze Mìneche e Nannìne. Nannìne aveva raccontato ai figli che, all’andata, lei era così intimidita che sul treno, pur avendo fame, non se l’era sentita di mangiare davanti agli estranei la colazione che si erano portati. Aveva mangiato soltanto Mìneche. Nel primo cassetto del comò che stava nella camera da letto dei genitori, assieme a vari libretti con foto in bianco e nero delle statue e dei palazzi di  Via Fori imperiali, Chiero aveva  trovato una volta la foto scattata in quella occasione. Sullo sfondo la cupola di San Pietro. A destra, in primo piano, Mìneche con la faccia “uè che vuò?”, la cravatta e nella mano sinistra un giornale piegato. Al centro Nannìne, che guardava lontano, assente, in testa un cappellino buffo di quei tempi, la gonna lunga quasi fino alle caviglie, una borsetta nera in mano. E, a sinistra, una signorina – una parente romana? o chi? –  pure lei con un cappellino ma più piccolo ed elegante, la gonna a mezze gambe e le braccia conserte. Tutti e tre senza sorrisi.

I ragazzi a Roma ci andarono che doveva essere il 1950. Pioveva forte. Si mossero – a piedi? –  fino alla basilica di San Pietro.  E poi – come? –  raggiunsero Castel Gandolfo per vedere il Papa. Che era Pio XII. Entrarono in un grande cortile pieno di ragazzi raccolti lì da  chissà quante  città d’Italia. Un vociare. Impermeabili. Ombrelli aperti che si scontravano. Aspettavano di sentire dal Papa chissà che discorso. Ma il Papa s’affacciò  per pochi secondi a una finestra in alto. Fece un segno della croce con la mano per benedirli.  E subito si ritirò. La finestra fu chiusa.

Che tiempi guagliù! E cumm’ere roce o munne ca nun cunuscevane. O gagliardette! O gagliadette! Amm’a vinto o gagliardette! Che sciemi! Ecché sapevene che ere na cosa  e guerre stu gagliardette? Ca o purtavene gli arditi nella Prima guerra mondiale? E Mìneche nnun’ere state ra giovane rint’a chella guerra? E nun ngerene iute pure zi Vicienze, Zi Totonne, Zi Camillo, ca  rint’o portafoglie ca Mineche teneve accuvate nell’armadio n’gerene  e fotografie? E nunn’erene gagliardette  chille re fascisti sempe rint’e foto ca po Chiere  verette – tardi! sempe tardi! – rint’è libri e storie, quanne finalmente sa mettett’a sturià a storia  ca s’ere  rusicate a vita e Mìneche e re parenti suoie? E chilli strunze re  prufessori ro licee! Ng’avessere  ritte quaccose! Pe tutto o tiempe ra vocazzione e tutti chill’anne e scola passate a Salierne, niente! Tutte cose cancellate, Tutte cose  morte e scurdate.

 Si ricordò – ma quanti anni dopo? – che nella saletta, dove le prime volte – doveva essere il ’47-‘48 – la signorina Dag  insegnava il catechismo ai ragazzi seduti in cerchio, c’era ancora sul muro un manifesto: un soldato tedesco con l’elmetto  e il fucile a tracolla che  porgeva la mano. E che, quando la domenica mattina, assieme a Eggidie o a Mario Barl, andava a chiamare per la messa Renato (‘o pisciottese’, perché suo padre era segretario comunale a Pisciotta), e Renato non era pronto e li faceva salire in casa sua al terzo piano e l’aspettavano nella stanza d’ingresso, piena di libri sugli scaffali e di  riviste sparpagliate su un grande tavolo, oltre alla collezione del Borghese, c’era una  testa in marmo nero di Mussolini.

Chell’ere a vita soie allore: nu mascuotte.   E Chiero tutt’e i ghiurne o n’zuppave rint’a stu minestrone cattoliche ca nge passavene a parrocchia e a scola.

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