Piccola commedia umana del “Laboratorio Moltinpoesia di Milano” (2006- 2012)

James Ensor, Autoritratto-con-Maschere-

Preparando una replica a “Il poeta Bovary” di Matteo Marchesini (2)

di Ennio Abate

Questi appunti sono il bilancio personale della esperienza del Laboratorio Moltinpoesia di Milano (2006-2012).

          

  Quel che poteva essere il Laboratorio Moltinpoesia.

Poteva essere:

1. un “laboratorio della moltitudine poetante” per quanti fossero interessati a confrontarsi sulla questione di come essere molti in poesia oggi; e cioè a capire: cosa sta diventando o diventerà la poesia in una società di massa postmoderna o ipermoderna (R. Donnarumma); e come l’Istituzione Poesia potrebbe mutare se, ad occuparsene, non sono più soltanto alcune élite ruotanti attorno a università, riviste accademiche, case editrici nazionali ma molti, appunto. E, cioè, quella intellettualità diffusa venuta su in Italia con la scuola di massa a partire dagli anni Sessanta.

2. un esperimento di comunicazione ragionata e a più voci (con un numero crescente di interlocutori…) su tale questione, che, centrato inizialmente sul gruppo di persone, che si sono incontrate  e hanno discusso faccia a faccia negli incontri periodici alla Palazzina Liberty di Milano, poteva proiettarsi atraverso una mailing list all’esterno, verso altre persone operanti in varie città d’Italia; e, dal maggio del 2009, attraverso un blog (http://moltinpoesia.blogspot.com/).

3.  un esperimento di fluidificazione (non di  miracolosa abolizione o di contestazione parolaia) delle gerarchie culturali cristallizzatesi pure nella nostra “democratica” società. Essendo il Laboratorio gratuito ed aperto a tutti/e (ed in effetti negli incontri, nella mailing list e sul blog si sono affacciati sia il professore universitario che la casalinga autodidatta), venivano frenate le tentazioni snobistiche di segno opposto (verso il basso e verso l’alto) o “corporative” e “di parte”, che caratterizzano le “scuole di scrittura” o “di poesia” a pagamento, diventate oggi di norma, quelle professorali (unilateralmene dall’alto al basso) o quelle politiche, mascherate da comunicazioni culturali. (Non casuale dunque il riferimento, non scolastico né totalizzante, a Spinoza in varie mie riflessioni[1]).

Non lo è stato per queste probabili ragioni:

1. Il discorso di partenza del Laboratorio (quello del 9 novembre 2006 [2]) e i princìpi appena delineati che lo sorreggevano non sono stati mai veramente discussi, approfonditi e condivisi da quanti pur hanno accettato di partecipare all’iniziativa. È rimasto in pratica “il discorso di Ennio”. E il Laboratorio Moltinpoesia è diventato la semplice insegna di un luogo (la Palazzina Liberty), di una mailing list e di un blog, in cui le esigenze disordinate  di riconoscimento individuale  si son fatte sentire con più forza rispetto a quelle che avrebbero dovuto elaborare il discorso-collante di un gruppo o di un’area d’opinione più vasta.

2.  Queste esigenze di riconoscimento individuale, oltre a trascurare il contesto (il discorso di base del Laboratorio), confliggevano tra loro. I testi poetici  proposti dai singoli – nei reading  o nella mailing list , sul blog – sono stati eterogenei per contenuto e qualità. Le opinioni (di poetica, di gusto, di visione del mondo) altrettanto. Che fare? Considerare rispettabili e indiscutibili tutte le poesie e le opinioni espresse dai singoli partecipanti, considerandoli frammenti di un discorso dei molti che si sarebbe costruito da solo progressivamente e spontaneamente? Si doveva, per non alimentare un ginepraio di equivoci e di false attese, rinserrare la porta del Laboratorio? O chiamare prudentemente i partecipanti a discutere solo testi di poeti “classici” o “riconosciuti”? O problemi “generali”? Oppure rinunciare di fatto all’idea di laboratorio, inteso come confronto critico anche conflittuale tra varie competenze e varie visioni della poesia (e del mondo), e tornare ad una “scuola di poesia”, dove chi ne sapeva di più teneva lezioni a chi riconosceva – ma con quanta convinzione? – di  saperne di meno e si poneva nella posizione del discente?

3. La mia funzione di coordinatore è stata quella di spingere tutti a fare laboratorio critico sia sui testi proposti che sulle opinioni espresse. E per breve tempo, con il lavoro del Gruppo Critici all’interno del Laboratorio, pareva che anche altri avessero accettato di muoversi in questa direzione, puntando alla reciprocità dello scambio di pareri critici sui testi e alla discussione franca delle opinioni contrastanti, evitando chiusure egocentriche. Ho esagerato a puntare in questa direzione o sono stati altri troppo pigri o restii a mettersi in gioco?  È fuori tempo, anacronistico, puntare a fare gruppo in questi modi?
Lascio aperto il problema. In effetti, riconosco che l’elaborazione di un discorso sui moltinpoesia è rimasto problema mio e poco operante nelle pratiche di scrittura e nelle riflessioni degli altri. E la dialettica interna si è bloccata in quattro posizioni fisse e incomunicanti: – la mia, mirante a delineare  anche teoricamente il  discorso di come essere moltinpoesia; – quella di alcuni “alleati viaggiatori” (fra cui Giancarlo Majorino) che, condividendo più lo spirito della mia proposta che il contenuto, si sono affiancati con  un loro discorso al mio; – quella di alcuni pervicaci oppositori ostili: alla mia insistenza sull’importanza della critica come strumento per fronteggiare la crisi della poesia; ai risvolti politici (veri o presunti) della mia prospettiva di una poesia “esodante”; ai toni della mia polemica, per me schietti, per loro offensivi; – quella dei “silenti” attestati in una posizione “limbica” (direi più di attesa diffidente o di sconcerto che di simpatia verso il tentativo di Laboratorio, non so se visto come troppo elitario o troppo populistico…).

Anche la struttura organizzativa, inizialmente rappresentata dal coordinatore + il momento dell’incontro assembleare – quasi mensile e faccia a faccia – alla Palazzina Liberty; poi dal tentativo di  tenere gruppi di lavoro su temi particolari (l’unico che ha funzionato ma in maniera episodica è stato il Gruppo Critici), non è mai divenuta  veramente collegiale, sintomo sempre più evidente della resistenza dei singoli ad assumere i compiti minimi del fare gruppo (o laboratorio): proporre, discutere, dedicare una parte del proprio tempo e dei propri pensieri al noi che non verrà mai fuori automaticamente dalla gestione individualistica degli io.



Note

[1] «Questa nostra dottrina sarà forse accolta con un sorriso da coloro che, riservando alla massa del popolo i vizi propri di tutti i mortali, dicono che il volgo è in tutto sregolato, che fa paura se non ha paura, che la plebe o serve da schiava o domina da padrona, che non è fatta per la verità, che non ha giudizio, ecc. Invece la natura è una sola ed è comune a tutti… è identica in tutti: tutti insuperbiscono del dominio; tutti fanno paura se non hanno paura, e ovunque la verità è più o meno calpestata dai cattivi o dagli ignavi, specie là dove il potere è nelle mani di uno o di pochi che nell’istruire i giudizi non hanno di mira la giustizia o la verità, ma la consistenza dei patrimoni»         (da Baruch Spinoza, Trattato politico)

[2] I MOLTI NELLA POESIA D’OGGI

Il senso di questa serata è sintetizzato nel titolo e sottotitolo dell’iniziativa: I molti nella poesia d’oggi. Microfono aperto. Letture in vista di un laboratorio.  

Il titolo allude a due campi da esplorare:

– quello dei testi in cui sia individuabile una presenza significativa (implicita o esplicita) dei molti (in altri termini del sociale, delle classi, della gente), circoscrivendo l’indagine alla poesia contemporanea ma senza escludere incursioni attualizzanti nei secoli trascorsi e fino alle origini della poesia italiana: basti pensare ai molti nella Commedia di Dante…);

– quello dei soggetti scriventi poesia o similpoesia (questo è punto cruciale e controverso), che si sono moltiplicati e rappresentano un fenomeno oggi più che in passato notevole, ma le cui implicazioni estetico-politiche – secondo me potenzialmente positive – resteranno confuse se si continuerà a vederlo riduttivamente come mero epigonismo, futile moda o normale escrescenza letteraria.

 Il sottotitolo  propone un metodo: l’ascolto  della varietà di voci anche dissonanti – più esattamente di segmenti di questa nebulosa di scriventi – che senza forzature e settarismi  possano liberamente confluire in un laboratorio, dove avviare confronti paritari, inchieste puntuali e riflessioni critiche coraggiose anche sullo stato attuale della poesia italiana contemporanea.

Chi vi parla, e fa tale proposta di lavoro, negli ultimi anni ha sondato su tale materia le opinioni di alcuni poeti e critici, condotto con scarsi mezzi e in  compagnia di amici trascinati un po’ per i capelli una piccola inchiesta  e sviluppato un inizio di riflessione teorica poggiandosi su concetti filosofici (moltitudine, esodo) e socio-politici (lavoro immateriale, postfordismo)  per dare respiro problematico e non corporativo al discorso che andava costruendo. Per onestà intellettuale preciso che   diversi miei interlocutori si sono mostrati in vari modi scettici sul rilievo non tanto sociologico ma estetico-politico che io tendo ad attribuire in prospettiva al fenomeno dei tanti che scrivono versi.

Tuttavia il discorso comincia a circolare e qui, nella Casa della poesia della Palazzina Liberty, è stato organizzato nel marzo scorso un primo incontro  con  letture di poesie e testi  di critica, che viene ripreso e approfondito questa sera.

Senza ombra di cortigianeria ringrazio di ciò G. Majorino  per l’avallo cauto, intelligente  ma soprattutto non esteriore che mi ha dato.  Chi frequenta, infatti, la sua poesia sa che essa  ha incorporato (termine ricorrente nel suo lavoro critico) i molti (la realtà dei molti); come sa quanta attenzione egli abbia prestato  ai complicati e ambigui aspetti dell’«epoca del gremito» tra cui quello dei «tanti che scrivono versi».  Questo non vuol dire che ci sia  coincidenza di vedute tra noi: ad es. i suoi accenni a quel centinaio di «poeti veri, capaci di stile» (p.48) restati fuori dalla sua ultima edizione di Poesia e realtà non è detto che  alludessero alla «nebulosa o moltitudine poetante»  di cui mi sono azzardato a parlare io.  Importa però che  il tema dei molti in poesia si presti a confronti senza preclusioni e a  insistenti interrogazioni.

E alcuni interrogativi divenuti ormai “miei/suoi”  richiamerò stasera,  spostandomi  un attimo in zona poetica (o similpoetica?) e  leggendovi  questo frammento in versi a cui sto lavorando e che  proprio a lui e al tema in questione si rivolge:

Quali colombe dal disio chiamate…?
No, come gocce d’ignote bufere
alle vetrate della Casa della Poesia
Giancarlo, premono molti scriventi.

Chi sono? Quanti? Perché così scrivono?
A che mirano? Curarsi di  loro
o il brusio di pubblico dal palco reggere
modulandone ossequi e domande?

E chi sono per noi che su riviste
di poesia pubblichiamo i versi
che ci piacciono? Fratelli? Concorrenti?
Compagni di strada? Pedine da manovra?

Possiamo aprirci benevoli ad essi
reggere invidia,  angosce, deliri
non sfuggirli, non costruire valli
interiori? E mostrare anche l’errore

dell’energia spostata dal reale
dal vero alienata? E parlare a lungo-
con loro, seguirne lo sciamare
nella notte e poi riprendere a scrivere?

Ma torniamo all’ipotesi di laboratorio. Come dovrà chiamarsi, che  attività svolgere, che temi affrontare e quali condizioni porre ai partecipanti?  Sono tutte questioni aperte. Per conto mio, esso dovrebbe ospitare quanti potranno o vorranno dire la loro sul tema dei molti in poesia, che siano tiepidi, scettici o persino ostili e mossi da tutt’altro orientamento.

Il laboratorio dovrebbe servire a porre i problemi giusti, a  raccogliere le spinte fondate  su intelligenza, attitudine al confronto con la realtà, passioni vere. Dovrebbe far discutere assieme e schiettamente i poeti laureati con i poeti in attesa di laurea o con quelli a cui le lauree importano poco. Mi aspetto solo che i molti (un centinaio come dice Giancarlo o tanti di più?)  escano così da un anonimato generico, che si diradi la loro nebulosa e che si mostri – spero – come  un aggregato di singolarità vere.

Più in dettaglio cosa dovrebbe fare questo laboratorio? Alcune proposte  erano già state presentate nell’iniziativa del  marzo scorso: – preparare un questionario da rivolgere agli  scriventi versi (quelli che pubblicano di solito su riviste cartacee o ora on line o presso piccole case editrici);  – organizzare occasioni di confronto tra  loro e critici o poeti-critici, magari su un testo o una raccolta di versi o un saggio. Altre idee potranno venire fuori mano mano. Penso pure che i momenti di confronto andrebbero organizzati in forma di agili seminari e che sia  prevista la presentazione pubblica dei risultati. Ma di questo si parlerà se e quando il laboratorio s’avvierà.

Termino con un indovinello. Di chi parla Vladimir Holan in questa poesia che ho scovato quasi per caso nelle ultime settimane?

Dissi: ”No, non chiamatela
Col nome di battesimo!”
E lui: “Ma è proprio quello che le piace!”
Dissi: “No, alla sua porta non bussate,
non è in casa forse, e io ne avrei paura!”

E lui: “Macché, quella
È sempre dappertutto!”
Dissi: “Forse non si è ancora
Decisa!”
E lui: “Possibile che abbia una misura
Lei che è senza confini?”

(Vladimir Holan, Il poeta murato)

Ennio Abate 9 novembre 2006 Casa della Poesia Palazzina Liberty, Milano

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