Poesia Moltitudine Esodo

Tabea Nineo, Partenti

Preparando una replica a “Il poeta Bovary” di Matteo Marchesini (3)

di Ennio Abate

Questo lungo saggio era comparso sul n. 7  inverno 2003/ 2004 della rivista INOLTRE edita dalla Jaca Book. Pur silenziato da poeti e critici allora operanti –  quasi tutti hanno preferito poi andare in direzioni   opposte all’ipotesi di poesia moltitudinaria e esodante da me proposta alla discussione –  lo ripubblico  in questo cupo 2023. Come documento di riflessione. Esistono ancora minoranze o singoli che non si sono rassegnati alla cancellazione di  ogni dialettica tra poesia e politica. Malgrado la crisi di entrambe. E prima o poi bisognerà pur  venir fuori dai pantani dell’iperspecialismo pseudo-accademico o  della spettacolarizzazione  dell’io liricheggiante in cui in troppi si sono cacciati.

Premessa

Che poesia viene scritta oggi, da parte di chi e perché? E cosa si dice in giro sulla poesia italiana contemporanea?

Con la “fine del Novecento”[1],  sono cresciuti i dibattiti sullo stato e le sorti della poesia soprattutto fra gli addetti ai lavori. Analisi di vecchie  e nuove questioni[2] si mescolano a tentativi di bilancio, epocali o generazionali[3]. E in esse, malgrado distorsioni specialistiche o dilettantesche, la poesia si presenta come un campo dove certe tensioni contraddittorie della nostra epoca si colgono  in forma pura. In analogia infatti con altri campi del sapere, la poesia contemporanea pare presentarsi con tre facce che  convivono e si scontrano ambiguamente fra loro: una privata e oggi sorprendentemente di massa (l’ambigua produzione poetica o parapoetica no profit  di una nebulosa poetante costretta perlopiù nella dimensione del “privato”  e della comunicazione amicale); una partitica, che organizzata in gruppi, cenacoli, riviste cerca, all’insegna della “novità” (avanguardista, postavanguardista) o del Ritorno all’Origine, di conservare o allargare il posto della poesia in quel che resta di una dimensione pubblica; e infine una manageriale, universitaria e editoriale, finora regolatrice in modi abbastanza autorevoli del processo di inclusione/esclusione dei testi poetici dalla più ampia comunicazione sociale  ed  ora in competizione corporativa con i nuovi poteri mediatici e internettizzati, sostenitori di una ‘poesia applicata’ alla comunicazione commercializzata e spettacolare (il fortiniano ‘surrealismo di massa’, l’estetizzazione del quotidiano, ecc.).

Che in poesia abbia più rilievo la spinta caotica (spontanea  e indotta) o quella di parte (mirante ad un progetto) o quelle manageriali (altamente formalizzate e selettive), che esse collaborino tra loro, trasformandosi  e forse arricchendosi reciprocamente, o  si ostacolino e distruggano con veti incrociati, è un problema politico (se si vuole di micropolitica) che accosta la poesia al resto delle vicende politiche e sociali dell’epoca postmoderna. Dalle soluzioni materiali e pratiche che verranno approntate in tutti i campi dipenderà sia la produzione di testi poetici belli, originali e all’altezza dei problemi d’oggi[4] sia la loro collocazione nella comunicazione sociale, che potrà essere o quella internazionale o europea arroccata in una logica da “fortezza postmoderna” o quella variopinta e cangiante che sembra profilarsi  negli esodi planetari.

Qui tento una prima riflessione su alcuni aspetti problematici della poesia italiana contemporanea, confrontandomi con quanti, impegnati nella ricerca accademica o più o meno ancora ‘militante’, si sono di recente interrogati sulle sue sorti. Lo faccio da un’ottica esodante[5], con una mappatura incompleta e provvisoria di posizioni tratte da alcune antologie e atti di convegni, puntualizzando il mio punto di vista e accennando in appendice a qualche problema in via di definizione. Spero in una discussione a più voci che per il momento Inoltre ha dovuto rimandare[6].

  1. Alcuni esempi di come si discute oggi sulla poesia italiana

    Primo esempio: Linee odierne della poesia italiana a cura di Roberto Bertoldo e Luciano Troisio, I quaderni di Hebenon, supplemento a Hebenon, rivista internazionale di letteratura,  nn.7-8, aprile-ottobre 2001.

 Nelle due brevi introduzioni dei curatori e nei saggi raccolti salta all’occhio la gabbia di un linguaggio critico che non collega coerentemente la ricerca poetica all’extra-poetico, cioè al mondo o a quello che ne riusciamo a conoscere, scivolando su formule di comodo: «crollo delle ideologie…naufragio dei codici…declinare delle “poetiche epigoniche”». È un sintomo di come poeti e critici letterari  stentino a uscire dal loro specialismo e ad inoltrarsi in esplorazioni, elementari ma indispensabili, dei saperi non strettamente limitrofi al loro. Ma anche in quest’ultimo, la riflessione sullo stato della poesia come istituzione è ormai quasi ignorata[7] e  prevale  il mugugno “da sottocorporazione” sull’inclusione/esclusione dalle graduatorie e dalle antologie dei vip della poesia italiana. Il tono risentito di vari interventi è, infatti, quello di chi, ai margini o “giovane”, cerca il suo “spazio vitale” o, più piattamente, una cooptazione ad un livello più prestigioso: al «centinaio di autori», definiti polemicamente «lo stabilizzato parlamentino dei soliti noti», basterebbe aggiungere le «voci meno citate, specie delle giovani generazioni». Tutti qua i problemi politici dell’istituzione-poesia?

Nel caso di Hebenon, la rivendicazione di più poeti nel “parlamentino” della poesia italiana innalza due bandiere: «ritorno all’ordine» e  al «vero» poetico contro «posizioni preconcette, agonismi acidi», cioè i sani (per me) dubbi sulla poesia come valore autonomo; e «superamento della modernità, recuperando una dimensione sacrale dell’esistenza che va oltre l’orizzonte dell’Occidente ellenico e cristiano per riscoprire la vitalità del mondo pagano»[8].

Molti degli interventi  sono diseguali per qualità e ragionamenti: a volte sono farraginosi,  allusivi e  zeppi di elogi per i poeti preferiti; a volte invece danno un‘idea approssimativa, se non soddisfacente,  dei vari  arcipelaghi poetanti, sparsi un po’ in ogni città italiana[9]. Prevale, dunque, la frammentarietà. Essa riguarda sia le «linee» poetiche, individuate spesso con categorie enfatiche[10], sia i giudizi sui singoli spesso fiacchi e impressionistici.[11] In questa scheda mi soffermo su  due interventi che, agli antipodi fra loro, esprimono l’uno il rifiuto e l’altro l’attenzione al problema della moltitudine poetante che a me sta a cuore e di cui dirò più avanti.

Il primo è di Giorgio Barberi Squarotti (Situazione attuale della poesia italiana),  che nega ogni «crisi della poesia» e dichiara senza mezzi termini: «La situazione della poesia in Italia è fra le più liete e confortevoli, in confronto ad altri generi, come la narrativa, per lo più ripetitiva, banale, sbiadita, incapace di reinvenzioni e trovate»[12]. Fra le pecche della situazione poetica contemporanea, Barberi Squarotti annota proprio l’esistenza di un poetare di massa («c’è un’infinità di poeti che tali non sono, anche se magari sono glorificati in antologie»), da lui considerato fenomeno costante e trascurabile della storia letteraria italiana.[13] Anzi, a vergogna dell’attuale «infinità poetante», aggiunge che la produzione, diciamo, parapoetica dei secoli passati era capace di «usare le rime e i vari metri»[14]. Nulla di nuovo, dunque,  attorno al pomerio della Poesia: «Tutto questo discorso è di sempre, non soltanto di ieri e di oggi, e così sarà ancora nel futuro». E via, subito dopo, con l’elenco dei nomi «degni e a me cari» da contrapporre ai «numerosi e vaniloquenti versificatori». Per arrivare ad affermare che «il mondo esiste ancora se l’arte dura e, in particolare, se qualcuno inventa tuttavia la poesia e la poesia è letta e meditata». Il ribaltamento antimaterialista tocca qui un vertice ineguagliabile. Forzando: crepi il mondo con le sue guerre e le sue miserie, importante è che ci sia «la poesia».[15]

Il secondo è di Rinaldo Caddeo[16]. Egli richiama Raboni, che ha parlato di «simil-poesia» per designare il fenomeno dei tanti «aspiranti all’eroico titolo (con o senza incoronazione) di poeti», Artaud, che fu attento alla «poesia diffusa» intesa come «energia spontanea e naturale», e non snobba neppure l’influenza della cultura di massa (linguaggio pubblicitario, spot di reclame, titoli di giornali e telegiornali).  Caddeo parla di «poeticità virtuale e diffusa (ennesimo esempio di globalizzazione?)», che «sembra aver sostituito, soprattutto negli ultimi anni, la Poesia» (con la «P» maiuscola, intesa come valore),  e presenta il fenomeno come «una specie di parassita della poesia», generatosi in seguito alle trasgressioni delle avanguardie storiche. Malgrado una palpabile prudenza, Caddeo dà importanza a questa trasformazione in corso. Ammette che «la poesia non sta più nel bagaglio stretto della letteratura» e che «si tatua sotto altre scritture per ritornare, magari, al punto di partenza (museo, accademica, biblioteca, letteratura)». Se dà, dunque, per scontato che «è defunta la Poesia», non confonde  tutto il fenomeno della nebulosa poetante con il surrealismo di massa, cioè con il linguaggio pubblicitario o il «grande circo massmediale». Mi  pare perciò che veda la nebulosa poetante come un luogo possibile (se non il luogo) per «una ricerca autonoma e letteraria», da condurre, a suo parere, sulla linea dell’allegoria moderna teorizzata da Luperini. L’unica mia riserva riguarda il fatto che il suo discorso rimane nell’ambito della riflessione sulla poesia dall’interno della poesia e manca, come ho già detto e come accade a quasi tutti i saggi qui presenti, di attenzione a quello che una volta si diceva l’«extrapoetico»: «la storia», «il sociale», «la politica».

 

  1. Secondo esempio: Ákusma. Forme della poesia contemporanea, Metauro Edizioni, Fossombrone (PS), 2000

 Ákusma (=“ciò che si ode”) si presenta come un progetto di confronto e dialogo fra poeti e critici che  vogliono «ricominciare dalle opere, dalle poesie». Il sentimento di una  frattura forte col passato (poetico, ma anche politico) è qui tenuto in primo piano. A differenza de I quaderni di Hebenon, la volontà di voltar pagina e di ricominciare proprio dalla poesia dopo la «sconfitta utopico-rivoluzionaristica» vissuta durante il tempo della politica (Tronti) degli anni Settanta non si rifugia ancora una volta nell’autonomia della poesia o nel premoderno pagano o sacrale. Ákusma  raccoglie la ricerca poetica di una generazione che dichiara di aver  fatto «i conti con le avanguardie novecentesche e con gli sperimentalismi» e che viene dopo  anche la fallita esperienza del Gruppo 93[17], i cui  reduci qui  hanno una significativa presenza. Dando per esaurita  la «tradizione del nuovo» (della neoavanguardia) e mantenendosi critici verso il postmodernismo,  quelli di Ákusma vogliono tornare in poesia ad un «piano di comunicazione riconoscibile», non pacificato né omologabile a quello della consueta comunicazione letteraria, e mettono in primo piano «il narrato e il parlato, la memoria e il progetto, la secchezza e la lutulenza del linguaggio».[18]

In questo «progetto» la “storia” non è abolita e sono ancora presenti esigenze, oggi davvero rare, di tenere assieme il piano letterario-culturale  e quello socio-politico. Ma l’influsso delle tendenze impolitiche  prevalse negli anni Ottanta-Novanta si fa sentire e i legami più saldi  col passato sono cercati soprattutto con la cosiddetta «poesia etica»[19]. Anche quando, infatti, una tensione storica (con più chiarezza in Marco Palladini[20])  sembra spingere a risalire fino al ’68  (per capire «da dove veniamo»), i problemi degli anni Settanta  appaiono  tabù e, con troppo senno di poi, quanto allora si tentò si riduce ad ad un semplice «transitare per il politico», quasi ad un pedaggio servito in fin dei conti a un «riappropriarci del momento poetico»[21], scopo oggi considerato prioritario da quelli di Ákusma?

L’acquisizione di politicità anche in poesia in quegli anni lontanissimi (ardua e piena di trappole, ma innovativa) appare ora irrecuperabile e schiacciata. Qui non viene  detto che sarebbe stato meglio proseguire a far poesia senza immischiarsi di politica già allora (come viene da pensare leggendo gli interventi di Hebenon)  e neppure ci si abbandona a vecchi piagnistei sulla militanza politica che senza alcun buon motivo “castigò” o “represse” poesia e letteratura e chissà  quante altre cose. Tuttavia le ragioni profonde e serie di quel rifiuto della poesia degli anni Settanta da Ákusma non vengono più colte anche nei loro aspetti positivi[22], né a quella militanza politica vengono riconosciuti anche  alcuni meriti. E «la sconfitta utopico-rivoluzionaristica» non viene neppure spiegata, ma offerta come un postulato indiscutibile del discorso  d’oggi. (E se non fosse stata tutta sconfitta? E se, senza quel movimento,  neppure i problemi sollevati da Ákusma si sarebbero posti?)

Alla storia – pesante, tremenda, plumbea, anche se andiamo oltre gli anni Settanta o guardiamo quella che si va facendo sotto i nostri occhi –  Ákusma sostituisce la «sua storia». Che si fonda, in pratica, sul processo che ha portato ad «una piccola scelta di poesie» e di testi critici da esse suscitati. Il criterio selettivo è nettamente generazionale: le poesie sono quelle dei «nati dal 1950 in poi». Esso trascina con sé altre scelte: non si vuol sentir parlare di storia letteraria, di poetiche,[23]  di precetti teorici, di obbiettivi comuni di gruppo, di un canone di riferimento  né di «incasellamento di un autore all’interno di una tendenza o contro di essa».

Certo, accusare Ákusma di fingere un’impossibile virginalità culturale sarebbe esagerato, ma l’intento di diffondere la sua posizione aggregando nuovi partecipanti «per affinità» (non sfuggendo, dunque alla regola, magari non detta, di qualsiasi gruppo anche se non “partitico”), i toni mesti da pensiero debole che vorrebbe evitare il «carattere agonistico, classificatorio, gerarchico che la critica canonica, e anticanonica per conflitto di poteri, pratica con veemenza», nonché qualche eccesso nell’esibire volontà di «dialogo e confronto», lasciano perplessi, anche se l’iniziativa sotto vari lati ha un suo rigore.

L’antologia è suddivisa in  diverse sezioni: una di testi poetici, un’altra di lettura critica di alcuni di essi (da parte però degli stessi autori coinvolti nell’iniziativa), un’altra di saggi brevi e note di poetica, e una penultima con «prove di ascolto» su alcuni libri di poesia. Nell’ultima, Da Odradrek ad Ákusma, la “storia” del gruppo attraverso i suoi documenti motiva l’esclusione dei  più «adulti» dal progetto in modi  difensivi[24].

 

  1. Terzo esempio: Genealogie della poesia nel secondo Novecento. Giornate di studio, Siena, Certosa di Pontignano, 23-24-25 Marzo 2001, in Moderna, III, 2, 2001, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa-Roma

                      Il convegno ha ripensato la poesia del secondo Novecento  alla luce dei concetti di moderno e postmoderno interrogandosi su  questioni generali:  se sia davvero concluso il Novecento, se la modernità sia stata soppiantata  del tutto dalla postmodernità e se la poesia  possa o debba avere “commerci” con la comunicazione di massa.  È sicuramente la riflessione accademicamente più agguerrita fra quelle che ho potuto leggere mentre preparavo queste note. Ma la qualità critica delle relazioni, l’intelligenza e incisività di molti interventi, lo spessore raro dell’inquadramento storico dei problemi  sono posti al servizio di una inaccettabile logica da après nous le déluge che sembra dominare l’intero convegno. Come ha fatto notare giustamente Antonio Prete, in esso «si è delineato un arco funereo in cui il linguaggio [letterario] muore».[25] E  il bilancio conclusivo di Guido Mazzoni,  che, a chiusura del volume, sottolinea che dopo  la stagione di Officina e dei Novissimi non sembra esserci più nulla d’interessante nella ricerca poetica italiana, sembra una pietra tombale. Mentre la poesia contemporanea viene “declinando”, il cartello hic sunt leones è collocato appena fuori la soglia della poesia consacrata dalla ricerca universitaria, dove «prolifera la poesia selvaggia: migliaia di libri stampati a pagamento e centinaia di piccole riviste che pubblicano autori più o meno sconosciuti»[26]. Qui nessuno si vuole inoltrare. Non  resterebbe che arroccarsi sugli ultimi baluardi anti-postmodernismo: la poesia di Edoardo Sanguineti e quella di Elio Pagliarani, non a caso ospiti d’onore di queste giornate senesi. Oppure riproporre für ewig l’Avanguardia, come fa il suo nume tutelare e intramontabile, Edoardo Sanguineti[27]. Di lui colpiscono la lucidità ora  borghesemente cinica, supportata da un’erudizione letteraria scoppiettante[28], e la pervicacia da don Giovanni di fronte al Convitato di pietra. Il suo “realismo” (materialistico certo)  non si libera però di questo cinismo: ci ricorda  che viviamo in una società capitalistica (c’è bisogno?), che questa dispone del “nuovo” (il mercato) e del “vecchio” (il museo), che il cinema è stato importantissimo per il Novecento insegnando il montaggio tra parole e immagini fino ad arrivare ad una contrapposizione frontale fra un «pensare in termini di sintassi»  e un «pensare in termini di montaggio», che «la natura non c’è più», ecc.

Ma di chi e per cosa oggi l’Avanguardia potrebbe essere avanguardia? Sanguineti sorvola. Approfondisce anche lui il solco fra la «generazione di ferro» (quella delle avanguardie all’opposizione) e  l’attuale «generazione di paglia», fatta da poeti che piagnucolerebbero sulla loro emarginazione, colpendo persino quello che si va facendo nelle vicinanze degli istituti universitari da parte di poeti “giovani”. E con tono papale[29]si isola  nell’autocelebrazione epocale delle avanguardie in una sorta di orgogliosissimo “volli, fortissimamente volli essere all’avanguardia dal Romanticismo in poi”. Nessun ripensamento dei loro limiti storici (lo scollamento dai linguaggi comuni ad es.) e del fatto che una comune sconfitta ha ormai sfumato certe contrapposizioni viperesche del passato (Si pensi al suo scontro con Officina).

Il conflitto si  presenta in forme generazionali anche in queste giornate di studio. Per  Ermanno Krumm, «molti giovani scrittori stanno ripartendo come se il Novecento non esistesse».[30] E allora? Affannarsi, come lui fa, a ricordare che il Novecento è stato «un secolo di una ricchezza e di una singolarità forse ancora tutta da esplorare»? Ricordare che Novecento non significa solo avanguardie, ridimensionando il ruolo di queste ultime e facendo i conti con una storia complessiva in cui  far rientrare sia «la tradizione del nuovo» (le avanguardie) sia «la tradizione secolare della nostra letteratura»?[31]

Negli interventi dei giovani il baratro generazionale sottolineato da Sanguineti è ancor più enfatizzato: in Gabriele Frasca viene giustificato con l’esistenza di un «nuovo tempo della comunicazione di massa» che avrebbe costruito un mondo percettivo-linguistico a sé stante[32]; in Rosaria Lo Russo prende toni da battaglia femminista «contro la schiavitù del gender e i feticismi del patriarchismo letterario».[33] Facendo di questa immersione nella cultura di massa un emblema “generazionale”[34] o agitando in un ambito specialistico e accademico un fantasma femminista socialmente esaurito non si va – mi pare – molto fuori dalle convulsioni endoaccademiche.

Da nessuna delle due generazioni (vecchie glorie, giovani speranze)  che si sono misurate a Pontignano è venuta una proposta di lavoro “intergenerazionale” o “metagenerazionale”.  Manca, anche qui, ogni “collante politico”.[35]

Luperini, che pure ha ricordato nel convegno l’esigenza di «mettere in rapporto il letterario con l’extraletterario» e «il poetico con l’extrapoetico», quando s’affaccia sui nostri giorni, nasconde egli pure a stento il disappunto. Il quadro che dà del presente è di un pessimismo troppo lucidato di amarezza per essere utile anche solo a ricostruire un’idea di poesia “critica” o la figura del poeta-critico che egli non ha abbandonato[36]. Se dei vecchi colpisce l’orgoglio e l’amarezza, dei giovani, ammantati di citazioni raffinate o di un femminismo manierato  (indispensabili “corazze ideologiche” per aggredire  il clima pesante dell’accademismo odierno?), stupisce la limitatezza del concetto di «extraletterario»  che sembra combaciare esclusivamente con il massmediale. Fuori del letterario sembra non esserci che il massmediale, in cui si sono “formati”[37]. Fine dell’esperienza? Ne siamo davvero convinti?  Una conoscenza non letteraria di  quello che si è andato modificando nel lavoro e nel Capitale  permetterebbe forse di uscire dalle secche di una contrapposizione Moderno-Postmoderno che rischia di essere letta esclusivamente in termini letterari, come fa, ad esempio, Berardinelli.[38]

Solo in leggera controtendenza al prevalente discorso sul «declino della poesia» si pongono gli interventi di Pusterla e Cataldi, entrambi sostenitori di una funzione ancora positiva dello stare ai margini della poesia. Il primo ne parla con autoironia: i poeti contemporanei sarebbero ormai dei membri di una sorta di «sacra corona unita della poesia» o coatti di una «resistenza catacombale» al «linguaggio [che] diventa il luogo della produzione»[39]. Il secondo insiste sul fatto storico che nella modernità il posto della poesia è stato sempre ai margini, perché «parla una lingua antica in mezzo ai moderni», anzi fa sua «la necessità di rivolgersi ai morti in una lingua morta» e, perciò, pur «percepita come un’attività arcaica», essa sarebbe «in alternativa al mercato»[40].             Cataldi diffida perciò di ogni poesia che oggi tenti di «stare al passo coi tempi», finendo per farsi invadere dalla «seconda natura» troppo marcata dai «segni del potere», come succede a quella che diventa «l’ingrediente pervasivo e innocuo della pubblicità», inserendosi nella «koiné mercantile della produzione-consumo» e alimentando così soltanto un nefasto «surrealismo di massa»[41]. Di conseguenza nell’attuale fenomeno della  diffusione di scritture in versi, vede esclusivamente una falsa «apoteosi della democrazia espressiva»: la poesia ridotta  a un «bene di consumo cui tutti possano accedere… senza filtri e senza pedaggi», essendo saltato ogni canone, sarebbe diventata «un immenso corpo acefalo». La sua «polverizzazione» avrebbe portato solo disimpegno e disgregazione sociale e ideologica o un «sogno di coesistenza pacifica». I poeti-massa costretti come sono a «cibarsi di poetese pubblicitario e di simbolizzazione massmediale» non troveranno nella poesia nessun «residuo di autenticità». Con la fine del canone, la crisi del moderno, il doppio mercato di letteratura classica e leggera, in assenza di maestri, Cataldi sembra suggerire solo, richiamandosi a Celan, il silenzio contro un ormai insopportabile rumore di fondo.

  1. Quarto esempio: Il convegno organizzato dalla rivista Atelier nel settembre 2001 a Borgomanero (Novara) su La responsabilità della poesia, i cui atti si leggono nel n.24 della omonima rivista.

La domanda di partenza è quasi classica: ha senso interrogarsi sulla poesia in tempi così drammatici? E anche l’idea della rivista che il «fare poetico» non si risolva «unicamente all’interno della sfera ludica», ma debba fare i conti con le «ombre della storia» sembra una buona premessa.

In nessuno dei partecipanti al convegno, però, la “storia” (invocata del resto solo da alcuni interventi) riesce a prender corpo con qualche riferimento puntuale ad eventi o problemi: oscura nelle cause del suo moto («il germe agonico dell’umanità»), rimane un fantasma, una metafora («i frangenti della storia»), «un brusio di sottofondo tremendo e banale, squallido e stupefacente», al cui interno «il poeta» (una figura idealtipica) «cerca una musica» particolare «rispetto alla musica dell’epoca». Come sempre, «il poeta» da una parte, dunque, e la storia (forse meglio il «caos») dall’altra.

Così, anche a Borgomanero, i discorsi si avvitano  presto su problemi “endopoetici” (Ad esempio: «Chi può dirsi poeta?»). E, come per Ákusma, torna una scelta di dialogo e di confronto rigidamente generazionale: i temi del convegno  riassunti in una traccia di partenza, che «richiede una risposta personale» e punta ad un «dover essere della poesia», sono proposti «ai giovani trentenni» (un centinaio i contattati), considerati senza motivata ragione portatori di un «nuovo» che «il sistema» starebbe con «strategie sottili per assorbire». Forse di loro Atelier apprezza un po’ troppo, mi pare, l’assenza (dichiarata, ma quanto reale?) di «bandiere ideologiche o poetiche», la tentazione (facile) di lasciarsi decisamente «il Novecento alle spalle», la tranquillizzante convinzione che, «rimossa l’Avanguardia», «scrivere non è un vizio borghese».

Il questionario di partenza interrogava i partecipanti sulla «chiusura della poesia nel privato» e, per contrasto, su «cosa la storia ci chiede di testimoniare»; contrapponeva (con un po’ di snobismo) i «sociologismi viziosi» sul pubblico della poesia al discorso etico (individualistico però) sulla «responsabilità del poeta», che dovrebbe essere «rivolta, anzitutto all’oggetto del proprio discorso»; poneva persino la questione dell’“ispirazione” («che cosa ci ispira poesia oggi») e chiedeva infine di pronunciarsi: su «quale poesia sta soppiantando quella novecentesca»; sulla contrapposizione fra simbolismo (l’«annuncio di un evento assoluto») e «una poesia più inerente alla Storia»; sulle tendenze alla «restaurazione di metri tradizionali e forme chiuse»; sulle scelte linguistiche («italiano medio» o  plurilinguismo); e sul criterio discriminante del quale si dovrebbe servire la critica.

Non è corretto dire che negli interventi-risposte, raccolti nel citato numero della rivista, c’è proprio di tutto. Affiorano però esigenze abbastanza comuni. Torna, infatti, con insistenza l’ambiguo leit motiv, già sentito in Hebenon e in Ákusma ma operante anche a Pontignano e che è sbagliato considerare generazionale, perché copre qualcosa di epocale con cui si stenta a fare i conti. Torna cioè il tramonto della politica o del conflitto politico sostituito dal primato dell’economico, del pensiero unico e ora dal clima di guerra permamente (terminologia assente da questo convegno, assieme alla realtà cui allude). A Borgomanero le esigenze espresse restano magmatiche e non sondate a sufficienza. Prevale il tono assembleare. I nodi non vengono sciolti o nettamente precisati (come accade a Pontignano) ma convivono uno accanto all’altro irrisolti. Né il tentativo (credo della redazione di Atelier) di classificare per gruppi le posizioni con titoli ora troppo programmatici ora generici riesce a dare un ordine al discorde materiale. E, in effetti, non possono conciliarsi i ripetuti rifiuti della storia[42] con l’esigenza (tuttavia vaga, come detto) di una «poesia dalla storia» (titolo dell’ultima sezione) o con l’esaltazione di una poesia «responsabile solo verso se stessa» e che coinciderebbe automaticamente «con la sua responsabilità verso il mondo». Né qualche invito ad un uso sobrio del termine ‘ispirazione’ o ad aprirsi ai saperi scientifici-tecnici contemporanei poteva essere accolto da quanti[43] si propongono la «rottura degli argini verso gli sconfinamenti del “divino”», l’ascolto dell’«indicibile silente», il recupero del corpo «inteso come spazio in direzione dell’origine». Ci sono poi  le spinte estetizzanti[44] volte ad una religione della parola (Anche qui ripenso a Fortini, che combatteva la sporca religione dei poeti!), per cui si enfatizza «un bisogno di paradiso latente in ogni uomo» e  «maggiormente nell’artista» (ovviamente!), si esalta il solipsismo di un’aristocrazia dello spirito[45], di un bellezza astorica («La bellezza è sempre uguale, la stessa di Omero e di Dante») o «un’etica della (nella) bellezza, della (nella) forma», di una poesia che «sa entrare nel quotidiano… e riconoscervi l’impronta del divino».

La forte incidenza di una cultura cattolica, non toccata però dalla crisi del divino dei grandi pensatori del Novecento  che pur ha operato anche in Italia[46], si indovina facilmente in parecchi interventi. Sul piano della poesia essa suggerisce ora adesioni populiste un po’ acritiche al linguaggio di massa (al «parlare la lingua passata e ripassata fra le mani della gente, usurata negli uffici, nei cinema, nelle radio e alla tivù») con l’intenzione di ridarle chissà come «il sangue, la luce limpida e fredda della rivelazione, dell’ipnosi conoscitiva», ora spinte più mistiche, presenti specie nella quarta sezione Rispondere al dono.  In questa  si insiste sul «velame che da sempre avvolge la nostra esistenza», sulla  poesia che «succede» come «un evento imprevisto, uno scatto, un «manifestarsi imprevedibile» che  può solo «essere ricevuto e trasmesso come un dono» (citazione da Celan), sulla necessità di attenersi al «vissuto individuale del poeta». Ne consegue il rifiuto «della sociologia, della storiografia, della filosofia, della politologia» per riproporre il «valore eterno di questa nobile arte» (la poesia), alla quale viene affidato il compito di «vaticinare, profetizzare, sentirsi nel cerchio del sacro e del sacrificio». Siamo ancora una volta al «culto della Parola» (con la ripresa dell’identificazione fra poesia e religione presente in Giovanni Testori), magari con una torsione da femminismo cattolico («È la donna ad emergere con avida potenza dai versetti evangelici, la sua tellurica sovranità, la gloria delle sensazioni dell’emotività e del materno istinto»).

 

 Un’ipotesi di poesia moltitudinaria ed esodante

Il dibattito odierno sulla poesia, così come appare in questi esempi, sembra arenato su posizioni nostalgiche: da un lato quelle legate alla stagione sperimentale (più Neoavanguardia  che Officina) come nelle giornate di studio di Pontignano, dall’altro quelle di ritorno al valore assoluto di una poesia comunque fuori dal tempo storico: o mitopoietica, premoderna e paganeggiante come in Hebenon, o spiritualista, come nel convegno di Atelier, dove quotidiano e storia sono riassorbiti nuovamente nella religione della parola. Solo la ricerca di Ákusma, pur nei limiti dell’impolitico, sembra più ibrida, meno nostalgica e aperta a nuove possibilità comunicative orizzontali, rifiutando l’orgoglio avanguardistico e accogliendo il contatto problematico coi linguaggi di massa.

Esorcizzato o non considerato più con l’attenzione necessaria è però quanto avviene fuori dall’accademia o dagli immediati dintorni del gruppo di ricerca costruito per «affinità». Fuori, ossia nell’extrapoetico vero, in quella che chiamo la moltitudine vivente e lavorante (o in altri termini: vita, società) e, più da vicino, nel – diciamo pure provvisoriamente –  parapoetico, cioè proprio in quella nebulosa poetante (per me potenziale moltitudine poetante[47], per altri massa di scriventi poesie o simil-poesie) più o meno fantasmaticamente evocata o presupposta dai protagonisti di questi convegni e gruppi di ricerca.

Il clima degli anni Ottanta e Novanta ha imposto, sia a quanti si muovono nell’accademica sia a quelli che la contrastano o operano in disparte da essa, una disattenzione crescente alle trasformazioni del lavoro (e della vita) e, in campo culturale, una svalutazione, snobistica o imbarazzata a seconda i casi, delle pratiche culturali dei molti perlopiù assimilate piattamente al consumismo massmediale. Gli uni e gli altri perciò, in assenza di movimenti di rilievo[48], hanno mirato a consolidare o liquidare la “tradizione” del Novecento e badando a non uscire troppo dal seminato politico e poetico più riconosciuto e riconoscibile. Da qui il culto antologico dei poeti-leader del «secolo breve» con contorno di scuole e discepolati o il riaffacciarsi di gruppi cautamente o “necessariamente” su basi strettamente generazionali (Abbiamo visto Hebenon  e Ákusma, per molti aspetti su sponde opposte, riecheggiare con toni più pacati e quasi dimessi il contrasto  urlato  fra neoavanguerdie e  neorfismo, ma l’osservazione vale anche per i convocati da Atelier…).

In questo quadro comunque dominato dalla nostalgia di qualche epoca dorata della poesia o dal gusto del “giardinaggio in proprio”, mi pare importante guardare, magari con un po’ di strabismo, tre fenomeni per ora incomunicanti o poco comunicanti[49]: le trasformazioni del lavoro, le migrazioni planetarie e la nebulosa poetante[50] – fenomeno ambiguissimo quanto si vuole, non puramente “giovanile” né riducibile al dilettantismo dei “poeti della domenica”.

 Di solito, per quest’ultimo, si preferisce  non affrontare gli interrogativi posti dall’insistenza di molti a scrivere, e a scrivere poesie, senza mandato, con scarse o nulle possibilità di pubblicare o di essere letti: perché lo fanno? potrebbero non farlo in quel modo? quale relazione esiste fra dilettantismo e iperspecialismo poetico?

Ci si limita a prendere le distanze, accentuando magari gli aspetti negativi di tale produzione pur poco indagata: assenza di coscienza critica e storica della tradizione poetica, deficit estetico dei testi prodotti, immediatezza “selvaggia”. Così però si occulta e  si accentua una grave divaricazione, storica ma non ovvia  né naturale, fra  cultura alta e cultura di massa[51] tra specialismo e dilettantismo. Essa danneggia la ricerca poetica sia nei trascuratissimi punti “bassi” sia in quelli – a torto o a ragione – ritenuti “alti”, i quali non dipendono mai, come facilmente si crede, da facoltà sviluppate solo da individui eccezionali, ma da facoltà individuali/sociali diffuse e ben coltivate.

Tranne pochi spunti in Fortini[52] e altri più consistenti in G. Majorino[53] (attenti alla questione, ma con riserve forti e forse con in mente soluzioni diverse da quelle che vorrei cercare…), in campo letterario non ho trovato incoraggiamenti ad affrontare i problemi della poesia contestando la divaricazione crescente (da taluni giustificata addirittura come naturale) tra pratiche dei molti e dei pochi, tra quantità e qualità dei testi. In campo filosofico ho invece ricevuto suggerimenti dal pensiero di Spinoza (la comunicazione moltiplica il pensiero di tutti; nessuno pensa mai da solo; la lingua è conservata contemporaneamente sia dal volgo che dai dotti), di Negri e di Virno[54]. Al momento questi pensatori mi offrono una base teorica sufficiente per cominciare a indagare la poesia contemporanea (sia quella riconosciuta come tale, sia quella sbrigativamente o motivatamente confinata a parapoesia o non poesia) in una prospettiva non elitaria.

Ho accolto perciò nel mio lessico il termine spinoziano di moltitudine[55](più nella versione problematica di Virno[56] che in quella  forse troppo compatta e senza pieghe, ma comunque importante, di Antonio Negri[57]). Esso mi pare aiuti a pensare al singolo (quindi anche al singolo poeta o poetante) come facente parte di una moltitudine, vivente, lavorante e (in senso vasto) poetante, che è in fluida (e sempre faticosa!) metamorfosi. Ma limita anche i rischi di smarrire la singolarità (il poeta X, il poetante Y) in un’astratta rappresentazione (la poesia, le poetiche, il movimento) che può amputare o semplificare eccessivamente  la sua irriducibile esperienza di singolo.

Il concetto di moltitudine (inseparabile dunque da quello di singolo e singolarità) rivela anche crudamente il limite di fondo della cultura democratico-liberale dominante:  malgrado la sua  “democraticità”, la riuscita è dei pochi e non dei molti sia nella vita che nell’arte[58]. Esso ricorda anche che la riuscita (anche solo artistica) dei singoli come facenti parte di una moltitudine è cosa ben diversa da quella che oggi  essi ottengono solo mediante e grazie al distacco dalla moltitudine (o meglio dalle masse, che la cultura democratico-liberale confonde con la moltitudine, riducendo questa e quelle a folla fagocitante, pletora di concorrenti, volgo minaccioso e abbrutente[59]).

Sarà possibile la costruzione di una grammatica della moltitudine poetante sulla falsariga di quella preparata da Virno per le forme di vita contemporanee? E anche di un’estetica moltitudinaria? A me sembrano tutte e due indispensabili. Difficile però precisarne subito i termini. Per la prima mi limito ad affermare un astrattissimo principìo: il necessario ordine del discorso (Foucault) dovrà essere quello della moltitudine, non quello dei pochi.

Quanto all’estetica, è vero che il massimo di resistenza al bello della moltitudine si concentra proprio su questo livello; e non si tratta di resistenza semplicemente corporativa[60]. Al momento penso che non si debbano  negare differenze di qualità (fra i testi o fra le facoltà degli individui) empiricamente valide o rifiutarsi di stabilire delle gerarchie fra bello e brutto, riuscito e non riuscito. Ma di impedire che esse da provvisorie diventino permanenti e sempre più immemori della violenza che comunque fissano a livello simbolico (e quasi sempre a vantaggio dei pochi in nome dei molti). Potranno ‘eccellenza’ e ‘mediocrità’ avere un altro senso (includente e non escludente)[61]?

Non si può comunque continuare a difendere in poesia una qualità neutra, una bellezza neutra, che continuano ad avere connotati elitari o sono estensioni “democratiche” di valori nati dai modi di vita delle élite oggi impraticabili. I modelli di questa bellezza neutra, continuamente riusati e quindi convalidati socialmente (attraverso la scuola e oggi sempre più i mass media), diventano indiscussi e automaticamente con la loro evidenza materiale impediscono di porre il problema di una qualità e di una bellezza comuni, di tutti e per tutti.

Una bellezza comune, moltitudinaria, per sorgere e affermarsi ha bisogno di un linguaggio comune, moltitudinario. Non è quello semplificato sì, ma inerte, di cui i mass media c’invadono. Non sono le sue regole che possono entrare nella grammatica della moltitudine poetante e farla diventare un De vulgari eloquentia adatto a questi tempi postmoderni. E neppure, credo,  quelle novecentesche elaborate dalle neo e postavanguardie contro la banalizzazione mediatica inferta alla lingua di uso.[62] Un linguaggio comune può venire solo da una piena espansione delle potenzialità poetiche[63] dell’esperienza che come singoli-moltitudine riusciremo a fare nel tempo di vita/lavoro sempre più interconnessi e, in molti casi, già indistinguibili.

Per approssimazioni analogiche esso dovrebbe essere una sorta di nuova koiné planetaria: non un cervellotico esperanto, ma un ibrido di lingue a forte traducibilità e comunicabilità[64] ricavabili da un’oralità vis à vis non subordinata ai codici banalizzati,  ristretti e fortemente centralizzati, imposti in quasi tutti i mass media, con un possibile coefficiente comune di espressività anch’essa sempre in fluida modificazione, anche quando dovesse rifarsi – com’è prevedibile – a contenuti per noi astorici o distanti dalla nostra “storia”.

Esistono alcune di queste ipotetiche tendenze comuni nella scrittura che già oggi va producendo la moltitudine poetante? È difficile dirlo in mancanza di una analisi sui testi[65]. A me pare che  una prospettiva moltitudinaria in poesia possa essere solo intravista emblematicamente accostando con la forza dell’immaginazione le figure dei migranti, quelle dei lavoratori dell’immateriale e quelle della nebulosa poetante. Sono esse a ricordarci, malgrado fortissime ambivalenze, che viviamo nel tempo dell’esodo e a sollecitare, con la loro presenza spesso troppo muta, la costruzione di una lingua comune, una lingua che sia anche lingua dell’esodo, per fuoriuscire dai limiti delle tradizionali culture nazionali e incontrarci, traducendoci, nella libera circolazione di tutte le istanze fondatrici di nuovi luoghi comuni  moltitudinari.

Migranti, nuovo proletariato, scriventi poesie: non si può dire con nessuna certezza quanto essi vogliano esodare e quanto invece voglia essere semplicemente riconosciuti dentro il contesto attuale, costruendosi – come si dice – una  normale ‘identita’ con i materiali che riusciranno a raccattare per proprio conto o puntando ad un’autoaffermazione individualistica e circoscritta.

 

 

Appendice

Brano di conversazione con Giancarlo Majorino, 5 giugno 2002

Esiste oggi una tendenza a fare indagini sulla poesia soprattutto negli immediati dintorni del critico o poeta  (al limite fra i propri amici o coetanei). Ti pare del tutto utopistico, invece, una ricerca come quella che vorrei tentare su un consistente campione di quasi sconosciuti scriventi poesia?

– L’esigenza di scrutare davvero e non così impressionisticamente  questa massa di scrittura poetica è positiva. I testi però, che arrivano sul mio tavolo,  a volte sono poesie per modo di dire. A  volte sono delle comunicazioni poeticistiche. Questo un po’ dà fastidio. Non lo dico per una difesa corporativa (almeno, per quel che mi riguarda,io sono attento a ‘sta faccenda). Il fastidio nasce perché tante energie vengono a volte imbrigliate per cose che forse non sono le vere cose che si cercano.Tante volte son forme di solitudine, di assenza di comunicazione; altre volte anche di bisogno di esserci, di avere una presenza.Così  tutto diventa subito un po’ ambiguo: come se uno sognasse che entrando di lì, dalla scrittura in versi (che mi obbliga a tener conto primariamente di ciò che sento necessario e non meno della possibilità di dare forma a ciò), potesse venirne chissà cosa. Mi sembra che ci sia una domanda muta che è ancora più forte, una insoddisfazione verso la vita che si fa. E questa è una grande molla di cambiamento. Ma, per esempio, se uno senza saperlo ripete forme poetiche già collaudate come se fossero proprie, in questo vedo un’illusione, ma anche un’ignoranza sul fatto che il ricorso a sé, all’interiorità di sé, non dà maggiore autenticità. Il  ‘sé’ è pieno di condizionamenti: è solo lo studio accanito, il confronto senza paura con l’altro da sé che può aiutare.

 Secondo te, questa massa di scriventi cadrebbe in queste trappole dell’immediatezza anche  se i poeti, i critici o le istituzioni che si occupano di poesia avessero un’attenzione più alta nei nei loro confronti e ne alimentassero la ricerca con iniziative più mirate? Tu hai detto una volta: io  presto una certa attenzione, ma poi preferisco leggere Dante, ecc. Ma così l’esplorazione verso gli altri (e i molti scriventi poesie sono “gli altri”…) non si riduce? Questo non fa problema?

– Sai, un po’ io l’ho fatto (scelte, letture, manifestazioni, ma tieni conto della mia età e degli impegni che mi prendono interamente (lo scrivere anzitutto).. Proprio non ce la faccio a leggere tutti i libri di poesia che arrivano. È difficile fare un discorso in generale.  Credo che ognuno debba farlo concretamente in base al proprio tipo di vita.  Sono straconvinto che siamo tutti gravati da una frenesia folle, da un gremito non fasullo, vero. Con tutti gli amici che un tempo vedevo  adesso non riusciamo mai a incontrarci. La quotidianità di ciascuno, soprattutto in città, è diventata convulsa. Io faccio una lunga mattina di lavoro dalle cinque alle due. Se mi salta, già m’incomincio a innervosire. Poi il pomeriggio e la sera cerco di liberarmi, di non legger più, di fare un’altra cosa, di vedere gente. Io alle due, per dirti, non ho più voglia di legger niente, ma davvero: anche libri di persone che conosco, poeti veri. Sono semistremato. Allora questa curiosità legittima verso quello che fanno gli altri è  ancora più soffocata, se vuoi. Tieni poi conto che  pratico fonti scritte e fonti viventi. Mentre con le fonti scritte bazzico continuamente, ho come l’impressione che, al di là di risentimenti corporativi discutibili, al di là di certe ambiguità della cosa,sia difficilissimo spalancarsi con disponibilità a migliaia di sconosciuti. È difficile, perché che cosa spingerebbe a questo? Un letterato potrebbe anche analizzare che tipo di tecniche passano in questa produzione, ma la forma che ti arriva è quasi sempre una forma non pienamente realizzata. Mentre, invece, se vi fossero  studi attendibili e rigorosi che dicessero che cos’è questo fenomeno, li leggerei davvero. Ma fino a quando questo non c’è… Io non riesco a guardare neanche le antologie.. C’è una vera restrizione del nostro orizzonte di curiosità, di attenzione,  che tutti quanti proviamo. Non c’è la libertà, la disponibilità all’ascolto. E questo non  dipende solo da arroganza o saccenteria.

 Ma, oltre all’esperienza di vita convulsa e ai condizionamenti materiali, fisici, a me pare che ci sia anche un certo tipo di cultura che è chiusa a questa esplorazione sui molti. La poesia, specie quella italiana, è sempre stata più pronta ad annusare aristocrazia piuttosto che plebe o popolo. Mi chiedo, allora, se non si sia consolidata una forma mentis culturale, rafforzata da un certo armamentario ideologico, per cui sei più spinto ad utilizzare il tempo di cui disponi  in una certa direzione (verso i “pochi ma buoni”) piuttosto che in un’altra (verso  i molti, di cui sotto sotto si diffida sempre).  Faccio un esempio:  in questa ricerca sto usando il concetto di moltitudine (poetante l’ho aggiunto io…), che ho ripreso da Spinoza, tramite letture di Negri, Virno,   e altri. Mi pare un concetto che m’incoraggia ad affrontare anche le difficoltà di una ricerca sulla realtà dei molti (nel caso gli scriventi poesie). Perciò l’ho fatto mio, malgrado riserve e diffidenze anche di amici con cui collaboro. Mentre se utilizzassi un altro concetto, che so: ermetismo, coscienza, minoranza, restringerei la mia proiezione verso i molti. Allora, c’è anche un problema di impostazione del proprio agire intellettuale. Se certi concetti venissero elaborati e poi usati e messi in circolazione, l’attenzione dell’individuo comune ma anche dell’esperto si riorenterebbe verso certi fenomeni trascurati. Quando c’era un certo tipo di marxismo, Asor Rosa si occupava di scrittori e popolo, no?

– Sì, io penso che questa sia una tesi sostenibile. Bisognerebbe però portarla oltre. Noi siamo in grande difficoltà persino quando diciamo cos’è bello e cosa non lo è. «Poesie e realtà 1945-2000» mi ha causato difficoltà e su due fronti, che si ritengono opposti. Da una parte una certa guarnigione corporativa, lottizzata da modelli tradizionali, al seguito di rapporti di potere, dall’altra persone, magari in buona fede incompetenti (non sono pochi, difatti, coloro che chiamano poeti certi cantautori o semplici portatori di “poeticità”). C’è un equivoco di fondo, un problema che dovrebbe far parte di questo tuo corredo critico di attenzione  verso il fenomeno della nebulosa poetante, come tu la chiami. Da una parte c’è una domanda diffusa, che presuppone chiarezza comunicativa e accusa di oscurità e di aristocraticità letteraria una certa produzione poetica. Dall’altra parte c’è il richiamo:  fai il tuo mestiere, tu sei un poeta, non sei un critico che vuol diventare anche un praticante di lotta. Chiaramente qui tutti coloro che ritengono che la poesia sia da valutare in sé, nei propri valori, che ancora ci sono o ci dovrebbero essere, ti rimproverano che tutte le volte che esci da lì, entri nel  “sociologico”; e ti  immischi con cose che con la poesia non hanno niente a che fare. Ma, peraltro, è sbagliata anche l’altra posizione, perché ritiene che, se tu adotti la comunicazione e assumi dei contenuti seri, sei già a posto. Per arrivare ad una nuova definizione di estetica, a me sembra che si debba insistere su un punto comune e debole di entrambe: che è poi sotto sotto , se vuoi, l’ignoranza, la mancanza di criticità in atto, quella criticità che deve investire sia la poesia sia quello che c’è di rilevante nel mondo. Io sento non–criticità  in tutte e due le  parti. Allora, torniamo al concetto di moltitudine poetante e alla voglia d’indagarne la consistenza possibile nella realtà…..È vero che non bisogna essere esclusivamente orientati da lavori che portano già in una direzione. Però la faccenda ha come due nemici, non ne ha uno solo. E allora come la mettiamo? Se tu parli di «moltitudine poetante»  e la tratti come una grande massa di persone che scrive poesie, già lì ti viene l’obiezione: ma son poesie davvero? Perché, se non son poesie davvero, è una cosa; se sono masse enormi di persone che credono di scrivere poesie, la faccenda cambia. Si tratterà, allora,  di  «moltitudine poetante» tra virgolette, una moltitudine che comunica attraverso modi che crede poetici. Questo cambia tutta la situazione. Son davvero poesie? Non  lo so. Questo  non è un discrimine da poco. Se usi il termine «poetante», è come se dicessi che ci sono milioni di persone che scrivono poesia e la corporazione e altri non prestano attenzione. Sotto sotto la domanda è: non è una colpa?  Ma io chiedo: scrivono poesie o scrivono comunicazioni diaristiche, righe che ogni  tanto vanno a capo, che rifanno moduli poetici consumati. Si rientra allora nel vastissimo e generico campo delle comunicazioni (non in quello delle espressioni: niente male, solo che se le cose stanno così, il discorso critico deve adottare altri tipi di misurazione, per capire come sono fatti, cosa significano i testi in questione).

Sì, questo è un punto delicato, che mi pare di aver già colto. Infatti, per me il termine non dovrebbe far pensare unilateralmente a qualcosa di già esistente e neppure soltanto a questa massa di scriventi poesie. Voglio andare a vedere anche all’interno della poesia riconosciuta come tale e dei suoi testi (Questo dovrebbe essere un altro aspetto indispensabile del lavoro critico e storico da affiancare a quello dell’inchiesta sulla «moltitudine poetante» che sta partendo…). La domanda iniziale in tale senso potrebbe essere: si percepisce nei testi dei poeti riconosciuti la presenza della moltitudine in generale e magari anche qualche “effetto” su di essi  riferibile alla nebulosa o moltitudine poetante? Non vorrei separare l’analisi del fenomeno a livello sociologico da quello dei testi prodotti anche dai poeti riconosciuti come tali. Vorrei cercare tutte le possibili e spesso trascurate interferenze. Anche nei poeti riconosciuti trovi, se vuoi, “aspetti non poetici”, non ben formalizzati, ecc… Si individuerebbero così dei punti  di raccordo fra i due poli, che oggi sempre più divaricati, e cioè fra la pratica di massa degli scriventi poesie e quella dei poeti riconosciuti. Dovrei riesaminare un certo tipo di poesia che ha accolto, magari anche solo a livello di citazioni, certe istanze dei molti. Che so, il “basso” di Montale, un certo parlato quotidiano che tu pure hai usato…..

– Sì, se non entri in questa  problematica, la cosa che ti proponi di fare sembra benevola a priori verso la massa degli scriventi a cui sembri dare una sorta di discutibile patente poetica. Questo è uno dei punti da affrontare. Se  i tanti che  credono di scrivere poesie, fanno della “poeticistica” è un guaio. O trovano delle persona che glielo dicono  o diventa una specie di compensazione…

 Mi indicheresti una rosa di nomi di poeti italiani nei cui testi è penetrata quest’attenzione ai molti?

In «Poesie e realtà 1945-2000»  faccio un po’ questo discorso, anche se è solo l’inizio di un discorso, un canovaccio, uno zibaldone.  Sono pochissimi quelli che prendono in pieno questo aspetto. Mi pare che abbiano valore quei poeti che si mettono comunque dentro due posizioni:  sia l’accoglienza dell’altro, sia la capacità di formalizzare ciò che sentono. Questo doppio mi sembra già qualcosa. Non ci sono, o ci sono molto parzialmente persone, poeti  che riescono a dare forma  in un modo così ricco a tutte e due le componenti. A volte si servono di una sola. Per i nomi, che mi chiedi… Trasanna, ecco… Quello è uno dei poeti che potrebbe indicare una delle vie possibili. Ha percepito a fondo questa necessità dell’esserci degli altri e qualche volta è riuscito a dargli anche una forma. Su un altro piano, Tessa. Ci sono altri casi, ma li devi vedere nel tempo, perché se tu prendi solo il presente non è facilissimo. Trasanna è uno. Di Ruscio parzialmente è un altro. Parzialmente, perché ha questo galoppo, mette in atto delle macchine di scrittura poetica e quando ci prende, ci prende. Ancora parzialmente, uno noto come Pagliarani; e forse più nelle cose milanesi che in quelle dopo. C’è poi la recente storia della letteratura Garzanti. Berardinelli, a cui è stata affidata la poesia, fa un inizio in cui mette Pagliarani, me e Sanguineti come la zona più interessante per questo tipo di discorso, perché uniremmo degli aspetti di attenzione di fondo agli altri con degli aspetti di formalizzazione e di linguaggio.

 C’è stata mai interferenza fra la lettura di altri poeti più o meno sconosciuti in quel momento e la tua produzione?

– Sì, ma non credo con intensità pari alla conoscenza reale delle persone. Questa a me arriva più autentica. Sono allenato a scrutare le persone. Io agisco a volte più sul piano delle persone che sul piano delle idee o sul piano dei testi poetici…

Ricordi qualcuno in particolare…

– Cucchi quando faceva «Il disperso»… Mi colpiva questo modo, che non era il mio, di trattare la quotidianità umilmente. Era una persona che era completamente diversa da me. Altri poeti che mi hanno colpito: Lumelli, Giampiero Neri.. O forse la tua domanda riguardava persone sconosciute e rimaste tali?…..

 

Note 

[1] È un problema irrisolto. Basti pensare, in ambito generale, a Oltre il Novecento di Marco Revelli ma anche a Impero di Negri e Hardt. La  loro generosa, ma troppo ottimistica proiezione verso un oltrepassamento del secolo breve, se non smentita come i malevoli s’affrettano a proclamare,  deve fare i conti con un orizzonte di guerra addirittura permanente. Gli elementi di “novità” (e le speranze) degli anni 2000 riaffondano nella melma tragica del secolo delle due guerre mondiali.

[2] Esiste un canone della poesia del Novecento? La poesia deve accettare la sfida della comunicazione di massa o rimanere estranea?

[3] Varie le ipotesi affacciate: ‘declino della poesia’, ‘poesia applicata’ al mondo  massmediale, ‘marginalità critica’ della scrittura poetica…

[4] Perché non è detto che essi si affermino automaticamente e indipendentemente da esse. Quanto genio l’umanità ha finora sprecato, accontentandosi  solo della genialità meno disturbante per i potenti?

[5] Evitando, se possibile, un uso solo teorico o gergale dei termini esodo  e esodante, preciso che per ottica o prospettiva esodante sul piano della ricerca poetica intendo, come si vedrà leggendo questo scritto: – una ripresa non dei modi ma degli interrogativi, anche politici e sociali, presenti nella «poesia critica» degli  anni Sessanta; – il rifiuto di un’idea di poesia intesa come autosufficienza della parola (o della Parola) e “bene rifugio” dell’anima o dell’io (Io) in tempi grami; – la critica politica al rapporto gerarchico fra pochi e molti consolidatosi anche nell’istituzione poesia (materiale come tutte le altre) sia nella critica  che nell’estetica (e quindi all’interno dei processi linguistici e di pensiero di cui la poesia inevitabilmente si serve); – l’allontanamento critico dalla Poesia- nazione  e un ripensamento, in poesia, delle prospettive multiculturali e plurilinguistiche non nei termini apologeticamente giocosi  del caos, ma mirando ad una lingua comune (semplice, ma non banale e commerciale) capace di fluidificare gli esodi materiali e culturali in corso fra milioni di uomini e donne a livello mondiale. Rimando, per i miei precedenti tentativi di approfondimento ai seguenti scritti: La militanza nel tempo dell’esodo, in  Inoltre 4, inverno 2001; La poesia da lontano. Qualche ragionamento su «Poesie e realtà 1945-2000» di Giancarlo Majorino, in Esercizi critici. Letteratura e altro, gennaio 2002; Per una scrittura in clandestinità, in INOLTRE n.5, primavera 2002; Per una scrittura esodante, in Atelier n.27 settembre 2002; Primi appunti su moltitudine e poesia, un documento a circolazione amicale del giugno 2002, che è stato poi la base di due interventi più sintetici in via di pubblicazione, Moltitudine e poesia (su Il Monte Analogo) e Quattro appunti su moltitudine e poesia (su Le voci della luna) oltre ad un’inchiesta avviata assieme ad alcuni amici (Paolo Rabissi, Lelio Scanavini, Franco Tagliafierro e Adam Vaccaro) .

[6] Le fatiche della vita quotidiana e le interferenze distruttive del clima di guerra permamente hanno impedito infatti quei “seminari aperti” che proprio sulla poesia contemporanea avevamo previsto per il 2003.

[7] Considerazioni di sociologia della lettura e della scrittura di poesie appaiono solo nell’intervento di Lucio Zinna,  Dalla “trasparenza” al “concreto” (o degli equilibri della poesia),  in Linee odierne della poesia italiana etc., pag. 148.

[8] Questa prospettiva è esposta da Franco Romanò in Dal mito dell’opposizione alla mitopoiesi (pag. 136). È una liquidazione “revisionista” e compiaciuta della neoavaguardia, alla quale vengono contrapposte tutte le esperienze che essa avrebbe marginalizzato  negli anni Sessanta e Settanta (quelle di  una seconda linea lombarda e percorsi quasi individuali di altri poeti: Bertolucci, Luzi, Caproni, Erba, Risi, Orelli, Cattafi, Bellintani), ma soprattutto quelle della «schiera» opposta o indifferente alla neoavanguardia: La parola innamorata, Valduga, Magrelli, la rivista Niebo di De Angelis, il movimento Mitomodernista di Giuseppe Conte e altri.

[9] Non sarebbe da tentare una volta tanto una sorta di “pagine gialle”, se non un dizionarietto ragionato della nebulosa poetante?

[10] Ad es. nell’intervento intitolato L’ambra e la gioia. Riflessioni sulle poetiche di fine Novecento in Italia di Flavio Ermini (pag.39): «L’inaugurazione del senso», «La responsabilità della parola», «La verità frammentaria».

[11] Due esempi a caso: di Giuseppe Conte si dice che « la sua poesia ha qualcosa di magico e di irresoluto, qualcosa di inquieto e tuttavia composto» (pag. 121); di Luigi Manzi che «parla con le erbe, con i fiori, con gli animali… Ma niente di mistico ravviva i versi, perché il poeta si fa egli stesso fiore e animale e sente con la loro sensibilità» (pag. 122).

[12] Cfr. Situazione attuale della poesia italiana, di Giorgio Barberi Squarotti, pag. 11, in Linee odierne etc.

[13]  «Questo è il destino di tutta la poesia da quando è stata inventata la stampa, e non sono più numerosi oggi gli autori di versi di quanto fossero nel Seicento o nel Settecento o nell’Ottocento, quando costantemente si moltiplicarono gli autori di rime per matrimoni, lauree, monacazioni, funerali, ecc.» (pag. 11).

[14] Ma perché certi segni distintivi delle corporazioni poetiche del passato, dovrebbero essere coltivati  ancor oggi senza perplessità? Esagerando: in omaggio alla tradizione, non è il caso di costringere i poeti d’oggi a usare anche esclusivamente  la penna o la stilografica invece del computer?

[15] «La poesia esiste come forma e dura in quanto è eternità contro la storia» (pag.12).

[16] Rinaldo Caddeo, La poesia italiana oggi, in in Linee odierne etc., pag.22.

[17] Il Gruppo 93  tentò di proseguire e aggiornare con molti distinguo e ambivalenze l’esperienza di  trent’anni prima del Gruppo ’63 di Sanguineti e altri. Raccolse poeti e critici  di diverso orientamento (i milanesi della rivista «Alfabeta», i romani di «Quaderni della critica», i senesi di «Allegoria», i napoletani di «Altri termini» e poi di «Baldus» oltre ad alcuni ex protagonisti della stessa Neoavanguardia) per svolgere una funzione “militante” contro il postmodernismo più ludico e disincantato. Il suo riferimento teorico oscillò fra il Benjamin dell’ allegoria e una concezione materialistica della letteratura.

[18] Giorgio Patrizi, Una generazione che riapre il conflitto, pag. 132, in  Ákusma etc.

[19]  Viene citata la «poetica della comunicazione» di Giancarlo Majorino e, oltre a lui,  si fanno i nomi di Pagliarani, Volponi, Roversi, Raboni e Giudici ( pag. 107). Non mancano richiami a Fortini, ad Adorno e a Beckett.

[20] Marco Palladini, Risposta all’Odradrek, in Ákusma. Forme della poesia contemporanea, Metauro Edizioni, Fossombrone (PS), 2000, pag. 265

[21]Sotto sotto traspare la comoda tesi della modernizzazione: al posto della “rivoluzione” abbiamo avuto una bella modernizzazione del Capitale, godiamocela nelle nuove professioni. La militanza politica degli anni Settanta  è comunque servita a farsi le ossa al nuovo ceto dirigente politico-culturale accademico o massmediale dopo più o meno dignitosi autodafé.

[22] Solo un Fortini poteva spingersi a tanto  (Cfr. Politica e poesia, in Non solo oggi. Cinquantanove voci, Editori Riuniti, Roma, 1991, pag.209-2011. Ma già lui era un “dialettico” e un comunista!

[23] Anche se poi in una delle sezioni, forma figurazione pubblico appaiono «brevi saggi e note di poetica» (pagg.139-192).

[24] Ci sarebbe stata un’urgenza di confrontarsi «con coetanei e più giovani, «vittime» della stessa krisis storica (culturale, sociale) esplosa (letteralmente e sappiamo con quanti morti…) nei secondi anni ‘70». Questo pare un tallone d’Achille di Ákusma : non si capisce infatti perché le “vittime” (ammesso che si debba ridurre la storia degli anni Settanta in Italia alle vittime)  sarebbero state solo o soprattutto fra i «nati dal 1950 in poi». Pare che non si colga che un’identità generazionale non surroghi davvero una identità politica, sicuramente persa, ma il cui vuoto fa problema. Più avanti: si afferma anche che  «il taglio eccessivamente intergenerazionale.. potrebbe, in questa fase, essere ipoteca troppo dura da sopportare» (pag. 260).

[25] Antonio Prete, in Genealogie etc., pag.220.

[26] Guido Mazzoni, Per un bilancio, in  Genealogie etc., pag. 225

[27] Edoardo Sanguineti, Avanguardie e non, in Genealogie etc., pag.143.

[28] Esempi: Baudelaire «è il primo poeta che si rende conto di una situazione di concorrenzialità tra gli autori» (pag.144); «Il futurismo, come una ditta, vive di pubblicità» e Marinetti passa gran parte della vita  non a scrivere versi ma a inviare telegrammi ad agenzie di stampa (pag. 144); delNovecento restano  solo le avanguardie (pag. 144) che stando dentro il mercato  lo farebbero anarchicamente “esplodere”, per  «assenza di modelli, assenza di regole, sovversione di regole e di modelli ereditati».

[29] «La mia tesi è che, del Novecento, in letteratura, come su qualunque altro terreno, non sopravviva altro che quello che le avanguardie, vecchie e nuove, hanno fatto: il resto non esiste», in Genealogie etc., pag.144

[30]  Ermanno Krumm,  in Genealogie etc., pag. 77.

[31] Giorgio Patrizi, in Genealogie etc., pag. 134.

[32]  Gabriele Frasca, Le forme fluide, in Genealogie etc., pag. 35. Egli elenca«sette varietà di lingue intermedie (fra uso quotidiano e istruzione, pragmatica performativa e virtuosismo chirografico) che occorre presupporre “formative” per ogni scrittore nato fra gli anni ’50 e gli anni ‘60» (idem, pag.40).

[33] Rosario Lo Russo, in Genealogie etc., pag. 165.

[34] Sottolineando il distacco fra «una generazione di scrittori rivolti più a modelli di comunicazione extraletteraria  rispetto a quanti hanno avuto o hanno un’esperienza esclusivamente o soprattutto letteraria», come fa Giorgio Patrizi, in Genealogie etc., pag. 134.

[35] L’assenza nel convegno di  ogni richiamo anche problematico a Fortini, che pure a Siena ha lasciato segni non cancellabili del suo magistero politico-culturale e sulle questioni proposte a Pontignano ha detto cose storicamente chiarificatrici o almeno non eludibili, sembra una pecca incolmabile di queste giornate di studio.

[36] Nel suo «catalogo riassuntivo per formule» elenca :«fine delle poetiche, scomparsa della conflittualità, tradizione come rapporto sincronico, prevalenza del poeta-poeta e del critico-critico, scomparsa del rapporto tra letterario e extraletterario, assenza di qualsiasi legittimazione dell’atto poetico»; e più avanti dichiara: «È la fine del canone». Cfr.  Romano Luperini, in Genealogie etc., pag.217.

[37] E ha ragione – mi pare – il vecchio Sanguineti a ricordare che «non è vero…che il fatto di essere nati con la televisione acumini la comprensione del mondo» (Edoardo Sanguineti, in Genealogie etc. pag. 176)

[38] Alfonso Berardinelli, Poesia e genere lirico. Vicende postmoderne, in Genealogie etc., pag.81. Il critico sostiene che in letteratura si è verificato nel Novecento un processo che ha portato anche la poesia verso la prosa. Ma nessun legame è stabilito fra questo processo endoletterario  e le vicende extraletterarie  del Novecento.

[39] Fabio Pusterla , in Genealogie etc., pag.139.

[40]  Cataldi, in Genealogie etc., pag. 154:«Non pensavano forse antico Dante e Leopardi in mezzo a due svolte radicali di modernizzazione?» . Resta il dubbio:  non tutto ciò che è marginale è  davvero in alternativa (se non ideale forse) al mercato.

[41] Pietro Cataldi, La fine del canone. I poeti e il postmoderno, in Genealogie etc., pag. 148.

[42]  Nella quinta sezione Leggende biografiche (pag. 70 e sgg.), proprio «una poesia fondata su leggende biografiche» viene contrapposta alla storia «che è stata l’abbaglio e l’alibi di alcune generazioni»

[43] Vedi la terza sezione  Azzerare ogni tipo di evasione: inspirare il presente, pag.42 e sgg.

[44] Vedi Rifare il trucco alla bellezza (il corpo della poesia), pag,24 e sgg.

[45] Francesco Camerini, nel suo intervento Il paradiso del poeta, dichiara: «Di che cosa possiamo essere poeti, dunque, noi rari pensatori in questo mondo? Di noi stessi, penso io, di noi stessi certo e dei pochi che ci ascoltano seriamente», in Atelier, Anno VI, dicembre 2001, pag.25.

[46] Si veda l’ultimo libro di Michele Ranchetti, Non c’è più religione. Istituzione e verità nel cattolicesimo italiano del Novecento, Garzanti 2003, Milano.

[47] Nebulosa poetante o moltitudine poetante? E, sottilizzando, perché non parlare di nebulosa scrivente o moltitudine scrivente?  O ancora, come mi è stato fatto notare, perché fermarsi alla poesia , se essa è diventata una “specie protetta”? Non è meglio intendere il poetare nel senso vasto del termine, come l’etimo suggerisce (poiein = fare), inglobando perciò ogni tipo di  formalizzazione della vita? Certo, in questo senso generale del termine, nella nebulosa poetante o moltitudine poetante rientrano i migranti (che tentano di dare una nuova forma alla loro esistenza), i lavoratori (che danno forma a beni materiali o immateriali) e gli scriventi poesie, saggi o romanzi (che danno forma a desideri, idee, immagini). Ma  l’unificazione sarebbe astratta e salterebbe distinzioni e separazioni reali e socialmente imposte anche per via ideologica, legislativa e spesso militare. È bene non dimenticarle mai, pur dichiarando con chiarezza che il nostro intento è di fluidificare queste distinzioni e non di irrigidirle.

[48] I no global sono u fenomeno tutto sommato recentissimo.

[49] Le connessioni fra esodi planetari, trasformazioni attuali del lavoro, soprattutto quello cosiddetto immateriale  che coinvolge una nuova intellettualità di massa e induce nuove forme  di percezione della realtà , e  scritture poetiche o parapoetiche di massa si intuiscono, ma non mi è facile esemplificarle o documentarle. È un limite del mio discorso che accetto consapevolmente.

[50] Qui nel senso  ristretto del termine per indicare gli scriventi poesie.

[51] O, come afferma Cataldi,  un «doppio mercato», un «doppio destino: letteratura classica da un lato, letteratura leggera dall’altro» (in Genealogie etc, pag. 153). E i due ambiti, senza interventi politici, hanno e avranno soltanto «scambi e osmosi» mercantili: «come la Quinta sinfonia di Beethoven e le Quattro Stagioni di Vivaldi si vendono negli autogrill insieme alle compilations di Sanremo, così le poesie di Prévert possono, e potranno in futuro, trovare posto nei supermercati accanto ai romanzi rosa delle collane di consumo» (Ibid. pag.153).

[52] Del resto per me poco incoraggianti, ma comunque da tener presenti. In una intervista (ora in http://www.emsf.rai.it/interviste) a Rai Educational dell’8.5.1993, Che cos’è la poesia,  Fortini sfiorava indirettamente il fenomeno della moltitudine poetante, affermando che in molti casi: «scrivere versi diventa… anche tenere un diario o scrivere delle lettere reali o immaginarie». Il suo giudizio era drasticamente negativo e quasi senza appello: «Scrivere versi diventa un modo rapido, un modo economico e, ahimé, un modo illusorio di risparmiarsi una crescita psicologica o un trattamento psicanalitico».

[53] Cfr. G. Majorino, Passaggi critici, Cooperativa Editrice PUNTI DI MUTAMENTO, Grafica Bergamo, Bergamo 1984

[54] In particolare, Paolo Virno, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee, DeriveApprodi, Roma, 2002

[55] Scelgo il concetto di moltitudine per vari motivi: – perché marca la distanza  da un’epoca in cui anche in Italia la classe operaia era soggetto economico, politico e culturale (Cosa impossibile oggi. Con una vecchia formula di Offe: ci sono gli operai, ma non c’è più la classe operaia) ; – perché l’idea di moltitudine svela l’ambiguità, oggi ancora più rischiosa di ieri, dell’avanguardia e dei gruppi, inevitabilmente viziati dal limite di agire come rappresentanti di; – per la funzione di rottura e ripensamento politico dell’estetica che se ne potrebbe ricavare.

[56] La moltitudine viene giustamente vista in modo non trionfalistico (finita la classe operaia, ecco la moltitudine che fa la rivoluzione) ma come segno  di «crisi della società del lavoro». La persistenza del lavoro salariato  rende non emancipante la trasformazione postfordista, che consiste nella ulteriore subordinazione del lavoro erogato dai singoli anche se la ricchezza sociale viene ricavata dalla scienza, dal general intellect (Cfr. Virno, Grammatica etc., pp. 107-108)

[57]  Questo va precisato, sapendo quanta diffidenza esiste “ a sinistra” e “a destra” su  di esso e sul suo uso attuale nel dibattito culturale e politico. Preciso anche che non  sono  “negriano”, ma che diffido dell’effetto antiNegri  sempre a fior di pelle nella cultura  italiana che conta, di ieri e di oggi, e che rivela un rimosso storico, una “coda di paglia”, una “ferita” se si vuole, non occultabili con i discorsi acidi sul “personaggio” né  con la demonizzazione delle sue teorie, respinte “istintivamente” ma da pochi veramente lette o studiate. La lotta agli eretici in Italia ha una lunghissima e penosa tradizione…

[58] Storicamente parlando, è indubbio che la cultura liberale abbia permesso solo una riuscita di pochi, sostenuti da maggioranze (ora popolo  di destra ora di sinistra) che ne hanno indirettamente  e limitatamente tratto bernefici.

[59] Nella poesia contemporanea italiana un esempio di questa  sensibilità anti-molti (ridotti a masse) mi pare rappresentato da Eugenio Montale. Ma storia letteraria e storia tout court ci mostrano numerosi esempi di un elitarismo occulto o mascherato anche nella Sinistra. Per una lucida  critica filosofica di questa confusione tra moltitudine/masse e popolo/maggioranza si veda Virno, Grammatica etc. pp.11-17

[60] Cfr. Appendice: Brano di conversazione con G. Majorino, 5 GIUGNO 2002

[61] Proprio del concetto di moltitudine mi pare la valorizzazione di tutte le possibili differenze, senza arrivare ad irrigidirle, come fa il pensiero elitario (liberale, razzista, classista o sessista) in gerarchie. Quest’ultimo, contrapponendo irrimediabilmente fra di loro le differenze esistenti e usando a tal fine meccanismi di potere (anche linguistici), le rende “naturali”, le fissa e ostacola i processi che le sviluppano e contaminano in permanenza. Una moltitudine va pensata come cooperazione sempre mutevole di singoli. Essi si valorizzano per separazione e contrapposizione (non eliminiamo per carità i conflitti, ma è la guerra che li impedisce!) e non individualisticamente ma cooperativisticamente. Non credo neppure che una prospettiva moltitudinaria debba abbandonare l’ipotesi di una possibile unità delle differenze o di una base comune pur nelle differenze. E in poesia? Perché non pensare alla fecondità  degli scambi, delle contaminazioni,  delle dialettiche (non più a senso unico) fra riuscito e non riuscito, fra livelli qualitativamente alti, medi, bassi?

[62] Altro discorso farei per le avanguardie storiche  che operarono a ridosso della Grande Guerra e della rivoluzione russa del 1917.

[63] Qui in senso vasto, che non comprendono dunque esclusivamente la scrittura di poesie

[64] In cui entra la macchina, e di certo anche Internet, ma con una funzione parziale di fluidificazione che non può sostituire l’incontro effettivo dei corpi in ambienti fisici anch’essi in mutamento.

[65] Da qui l’importanza dell’inchiesta. Quella da noi avviata è solo un prototipo.

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