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Il guaio con la scienza

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“Se tu vorrai sapere…”

 TESTIMONIANZE PER FRANCO FORTINI  dicembre 1996 COLOGNO MONZESE

Ieri ho messo in ordine nel mio PC la cartella ‘Nei dintorni di Franco Fortini’ datando in ordine cronologico  appunti e interventi che ho accumulato dal 1978 ad oggi.  Li rileggerò e ripenserò  alle ragioni più o meno consapevoli di questa mia lunga  fedeltà alla  sua  figura e alla sua opera, malgrado il mutamento che hanno subìto nella percezione pubblica in questo lungo tempo trascorso dalla sua morte nel 1994. Per ora ripubblico  il contenuto di  un libretto cartaceo di 73 pagine oggi introvabile. Lo costruii assieme ad amici dell’Associazione Culturale Ipsilon di Cologno Monzese e riuscimmo a pubblicarlo nel 1996. Può essere scaricato e spulciato con calma usando il pulsante ‘Dowload  PDF’ ( a destra in alto). [E. A.] Continua la lettura di “Se tu vorrai sapere…”

La critica del marginalismo nelle lezioni

di Franco Romanò

Lasciamo di nuovo Neri Salvadori e Kurz, per ritornare allo Sraffa degli anni ’20. Proseguendo nella disamina dei marginalisti,  Le Lezioni  mettono in evidenza anche le differenze che esistono fra le diverse scuole: Marshall, in particolare, riprende anche alcune delle argomentazioni di Ricardo. Ciò che mi sembra rilevante, sono però le conclusioni cui egli approda e dalle quali inizia il suo affondo nei confronti della teoria e ancora una volta Sraffa sceglie, in questo come in altri passaggi, la strategia comunicativa della critica indiretta. Affida a Petty quello che lui stesso in fondo pensa e cioè che i sentimenti non giocano alcun ruolo nel determinare il costo di produzione, qualunque sia la nozione di costo che si decide di adottare e gli contrappone subito, pur senza entrare nel merito, la concezione soggettivistica di Marshall, poi così prosegue:

… Comincerò paragonando … il costo di produzione secondo W. Petty e i Fisiocratici e secondo la concezione di Marshall. Prima di entrare nel vivo della materia, tuttavia, c’è un punto da chiarire. Dovrò parlare spesso della concezione che i vecchi economisti avevano del costo come se essi possedessero una nozione chiara e accuratamente definita del medesimo. In realtà questo non è vero. Fino a tempi recenti, il costo non è stato considerato dagli economisti come una categoria indipendente – di solito veniva confuso e spesso identificato, con il valore o il prezzo. Persino Ricardo, quando si domanda “se l’affitto entri o meno nel costo di produzione” egli affermava che “l’affitto non è una reale misura del valore”… Mescolando in questo modo diversi problemi che noi oggi consideriamo interamente distinti, soltanto raramente vediamo usata da loro un’espressione come “costo di produzione”: perciò dobbiamo sempre essere all’erta sul pericolo di leggere nei classici non tanto ciò che davvero hanno scritto ma ciò che ci piacerebbe che avessero scritto. La distinzione fra costo di produzione e valore è stata pienamente afferrata dagli economisti solo quando nel molto reale del business e nella vita reale il manifatturiere è diventato una persona diversa rispetto al mercante e come conseguenza la produzione è diventata una funzione economica indipendente dello scambio; conseguentemente, i problemi del valore e del costo di produzione sono diventati i problemi di due diverse categorie di persone. Anche la concezione stessa del costo ha subito un processo di differenziazione e un’analisi delle sue parti componenti si è cominciato a elaborarla quando la teoria classica del valore è stata sfidata. Solo quando gli economisti hanno cominciato a capire che era possibile pensare al valore  come a qualcosa  che andava oltre il costo, che valore e costo sono apparsi come due oggetti diversi e indipendenti. Ora, tornando alle due diverse concezioni, secondo Marshall il ”costo reale di produzione di una merce” è costituito dalla “somma dei sacrifici e degli sforzi coinvolti nell’astinenza e nell’attesa, nonché nel lavoro di tutti i tipi – diretto e indiretto – che è richiesto per la produzione di una merce.”

Sulle parole usate da Marshall e cioè astinenza, sacrificio e attesa esiste molta letteratura, anche per il carattere piuttosto oscuro di due termini simili usati in un contesto economico. Con il primo termine s’intende astinenza dal consumo, per destinare il capitale a investimento oppure a risparmio (attesa). Così proseguono le Lezioni:

Il costo reale è perciò una aggregato di sensazioni spiacevoli di diversa natura vissuti dagli individui che hanno a che fare con la produzione. Per Petty e i Fisiocratici il costo (o ciò che gioca il ruolo di costo nella loro teoria), non è nulla di così soggettivo; è invece uno stock di materia richiesta per la produzione delle merci e questo materiale naturalmente è principalmente il cibo dei lavoratori. Petty ribadisce che la sua nozione di costo non ha nulla a che vedere con i sentimenti piacevoli o spiacevoli degli uomini: “la comune misura del valore è il cibo di un uomo adulto in media e non il lavoro del giorno”. Tale costo è dunque concreto e tangibile, visibile, lo si può misurare in tons e in galloni. Petty si colloca dunque all’estremo opposto della concezione di costo di Marshall, che è privata per ciascun individuo e può essere misurata soltanto dai mezzi monetari richiesti per esplicitarsi … L’intera economia è vista da Marshall come una questione di metodo atto a misurare le motivazioni individuali e per bilanciare esattamente utilità e disutilità, cioè piaceri e sacrifici.

L’ultima parte del discorso di Sraffa è assai importante perché sotto traccia è possibile intravedere il terzo caposaldo del soggettivismo marginalista e cioè la cosiddetta sovranità del consumatore.

Questo punto di vista porta a una concezione di salari e profitti come due cose di natura radicalmente diversa. I salari sono un aggregato di merci che esiste prima della produzione e che viene distrutto durante il processo produttivo: essi vengono così a identificarsi con il capitale o almeno con una parte importante del capitale. I profitti e naturalmente anche le rendite sono una parte del prodotto, e precisamente la parte in eccesso rispetto all’aggregato iniziale. Tutto il prodotto appartiene al capitalista che ha anticipato i salari: ne ricava il profitto e con l’altra parte rimpiazza il capitale consumato … Non c’è mai un momento in cui il prodotto viene diviso fra lavoratori e capitalisti; le loro entrate si trovano ai lati opposti del processo produttivo, in relazione al quale vengono pagati …  Il paragone appropriato non è quello fra salari e interessi sul capitale ma fra i salari e ciò che è pagato dal capitale per affittare un cavallo dal proprietario del cavallo medesimo o per il mantenimento dell’animale. Prima di procedure vorrei far notare che non si tratta qui di dire se una cosa è giusta o sbagliata, ma solo se è rilevante o meno.

Questo passaggio è rilevante perché in esso Sraffa ribadisce il rifiuto del soggettivismo senza tuttavia cadere nello scientismo. L’affermazione che segue lo certifica ampiamente:

Rispetto a una serie di questioni … Credo che la  nozione classica di costi, intesa come quantità di cose usate nella produzione, sia la sola di maggiore importanza dal punto di vista di una teoria del valore … Il punto essenziale per loro (parla dei fisiocratici ndr)  è il concetto di produit net cioè la differenza fra l’aggregato totale di valori merce anticipate e consumati nella produzione e l’aggregato di valori delle merci prodotte …

Sraffa riprende tale problematica proprio nel capitolo finale di Produzione di Merci a mezzo merci: dopo avere richiamato la frase con cui era iniziata l’introduzione, egli scrive:

…si sa che la prima presentazione della produzione e del consumo come processo circolare si trova nel Tableau Economique di Quesnay, ed esso sta in netto contrasto con l’immagine offerta dalla teoria moderna (il marginalismo ndr) di un corso a senso unico che porta dai “fattori della produzione” ai “beni di consumo.”1

Questo passaggio è fondamentale, oltre che per la critica al marginalismo che contiene, perché ribadisce un concetto chiave di tutto il modello sraffiano e cioè che l’economia è un processo circolare e non lineare; corso a senso unico, che procede dalla produzione al consumo come flusso continuo, nel linguaggio di Sraffa significano linearità e cattiva infinità. Ecco come Sraffa riprende questa tematica nell’Introduzione ai Principi di Ricardo:

Ricardo nei suoi primi scritti si è servito di un metodo particolare che consiste nel conferire al grano una posizione speciale come l’unica merce che è necessaria sia per la propria produzione sia per la produzione di ogni altra merce. Ne risulta che il saggio di profitto del produttore di grano viene determinato indipendentemente dal valore, mediante il solo confronto della quantità fisica che si trovava dalla parte dei mezzi di produzione con quella che si trova dalla parte del prodotto, quantità che consistono entrambe della stessa merce; e su ciò si fonda la conclusione di Ricardo che “i profitti dell’agricoltore, regolano i profitti di tutte le altre industrie.”2

Tale affermazione, che pure si trova alle origini dell’economia politica e che fu ribadita da Ricardo anche nelle edizioni finali della sua opera, suona per noi altamente sorprendente. L’idea che si possa misurare un prodotto in quantità fisica e non monetaria suona del tutto anacronistico, eppure l’economia è prima di tutto proprio questo – entità fisica – anche quando parliamo di servizi, che possono essere benissimo rappresentati come quantità di prodotto netto o reddito da destinare al loro finanziamento. Ma perché dovremmo farlo? Quale vantaggio ne avremmo? Il percorso per arrivarci è lungo ma in fondo non più accidentato di quello che porta a stabilire un nesso fra tassazione e prestazioni di welfare. L’origine dell’affermazione sta nell’opera di Ricardo e precisamente nel primo capitolo che Sraffa medesimo definisce sconcertante; poi aggiunge:

Il fondamento razionale mai esplicitamente indicato da Ricardo, al principio del ruolo determinante dei profitti dell’agricoltura va ricercato nel fatto che in agricoltura la stessa merce, cioè il grano, può costituire sia il capitale (inteso come l’insieme dei mezzi di sussistenza necessari al lavoratori), che il prodotto, e quindi la determinazione del profitto, quale differenza fra il prodotto complessivo e il capitale anticipato, come pure la determinazione del rapporto di questo profitto con il capitale, può essere fatta direttamente in termini di quantità di grano, senza bisogno di altra valutazione.3

Neppure Sraffa lo aveva ripetuto in Produzione di merci a mezzo merci, perché lo riteneva superfluo, visto che ne aveva parlato ne l’Introduzione Ricardo del 1951 e quindi prima della stesura del suo libro che è del 1960. Forse il non averlo ripetuto ha tuttavia accentuato assai il carattere criptico del libro. In ogni caso, il suo intento è il solito: salvare il nucleo veritativo dell’economia classica rifiutando le loro assurdità come ribadisce nel prosieguo della lezione:

Per i Fisiocratici solo l’agricoltura produceva un surplus, non l’industria … A parte questa assurdità, tuttavia, non vi è dubbio che in agricoltura, in ragione della identità che esiste fra la qualità del prodotto e quella dei materiali usati per produrlo, la comparazione per il calcolo del surplus è possibile senza introdurre l’elemento disturbante del prezzo per misurare le due quantità: laddove nell’industria, la qualità delle due entità fisiche è diversa, per cui la comparazione può avvenire solo fra valori … Mentre l’idea che solo l’agricoltura producesse un surplus fu presto abbandonata, la nozione di surplus gioca invece un ruolo importante nell’economia classica e fu adottata da Adam Smith. Compresa la nozione di costo.  Sull’altro versante abbiamo Ricardo, che riduce il costo al solo lavoro con qualche dubbio rispetto alla necessità di introdurre o meno in esso anche i servizi del capitale oltre al lavoro necessario a produrre le merci capitale e che esclude definitivamente la rendita dal costo. … Per Ricardo tutte le considerazioni in merito a piacevolezza o spiacevolezza del lavoro, sono irrilevanti. Lavoro significa che ci sono dei lavoratori che vengono pagati nella esatta misura in cui questo serve a mantenerli in vita ed efficienti, così da produrre. La quantità di salario necessaria al raggiungimento dello scopo è completamente indipendente dalle forme diverse di sacrificio o sforzo compiuto dai lavoratori nei diversi rami della produzione. I salari vengono mantenuti al “loro livello naturale” dalla tendenza della popolazione a crescere … Tale livello naturale dei salari non è fissato una volta per tutte, ma cambia in seguito al mutare delle abitudini, causa delle fluttuazioni dell’offerta e della domanda da parte di classi particolari di lavoratori. … e varia da nazione a nazione … … Perciò il lavoro è la costituente ultima del valore non perché rappresenta l’elemento umano della produzione, ma perché si tratta di capitale usato in forma di salario che deve essere rimpiazzato scorporandolo dal prezzo del prodotto. Essendo i profitti proporzionali al capitale, ed essendo il capitale ridotto interamente a salario per lavoro diretto o indiretto, essi attingono alle medesime proporzioni per tutte le differenti merci e dunque non hanno alcuna influenza sui valori relativi di scambio … Come abbiamo visto ci sono in Smith due modi distinti di rappresentare il costo di produzione:  sia come ammontare di lavoro, toil and trouble richieste per produrre una merce; oppure come stock di merci materiali, che sono usate principalmente per supportare quel lavoro specifico. Le due quantità non si possono sommare, senza duplicazione, dal momento che esse non rappresentano distinti oggetti simultanei, bensì due fasi successive della medesima quantità. Ma per Smith, considerando la quantità di lavoro come proporzionale alla quantità di merci consumate per il mantenimento, potrebbero per molte buone ragioni essere trattate come due quantità equivalenti L’opposizione fra queste due concezioni del costo di produzione, corre lungo tutto lo sviluppo successivo della teoria economica; … ed è così anche nella distinzione che Marshall propone fra “costo reale” e “spese di produzione” … Quando in tarda età, a fronte delle difficoltà che sorgevano per la teoria lavoro del valore, dovuto al fatto che i valori delle merci che richiedevano la stessa quantità di lavoro richiedevano però diversi volumi di capitali e dunque ovviamente valori diversi, Smith si decise a tener conto del capitale; tuttavia anche in questo caso il capitale non veniva considerate dal punto di vista dell’elemento umano, in quanto astinenza (dal consumo ndr), ma solo come tempo perso dalle merci capitale in un investimento, mentre avrebbero potuto essere profittevolmente impiegate altrove per supportare il lavoro. In una lettera scritta a McCullogh poco prima della morte egli scrive: “Talvolta penso che se dovessi riscrivere il capitolo sul valore che è nel mio libro, dovrei riconoscere che il valore relativo delle merci era regolato da due cause e non da una soltanto, e cioè dalla quantità relative di lavoro necessario a produrre quelle  merci e dal saggio di profitto per il tempo in cui il capitale giaceva dormiente e fino a che le merci  non fossero portate al mercato”.

Infine Stuart Mill, cui tuttavia Sraffa non attribuisce – almeno fin qui – una grande importanza, per cui lo lascio solo nell’appendice in lingua inglese. Superato Mill le lezioni proseguono in questo modo:

Fino a questo punto abbiamo considerato coloro che, aldilà delle differenze fra loro, hanno un tratto comune: guardano al costo come a un fatto primario del processo produttivo.  Prenderemo ora in considerazioni coloro che pensano il contrario … Questi secondi pensano che nel processo di determinazione del valore l’ordine di importanza va rovesciato. Ciò significa che essi guardano al costo come somma di valori distrutti nella produzione, e tali valori, tutti, essi sostengono, devono essere determinati dall’utilità del prodotto. Non sono le merci capitali e materiali che trasferiscono il loro valore al prodotto; piuttosto, esse derivano il loro valore dal fatto che esse possono venire adoperate per produrre una merce utile che lo sia effettivamente. Stiamo parlando della scuola Austriaca (Menger, Wieser e Bohm-Baverk.

Si ripropone in questo passaggio un modo di operare ormai noto. Dopo avere accennato a un argomento ecco una nuova ellissi che ci porta altrove. Tuttavia, tali spostamenti sono sempre giustificati da eventi e fatti concreti. Lo abbiamo già visto nel passaggio in cui Sraffa mette nero su bianco il fatto che il marginalismo nasce dalla paura che i conservatori hanno nei confronti di Marx. Il progetto di cancellazione dell’economia classica ha un fondamento ideologico e le teorie economiche non nascono dal nulla o dalla testa di Giove, ma sono radicate nel conflitto sociale. La cronologia allora diventa un elemento decisivo e non nozionistico per collocare la nascita di una certa teoria. Fu così per il marginalismo è così anche per scuola austriaca cui si dedica ora l’analisi di Sraffa, che così prosegue:

Essi iniziano classificando le merci in base a questo criterio: se soddisfano bisogni umani direttamente o indirettamente. In cima alla scala ci sono le merci di primordine, cioè quelle pronte per il consumo; ciascuna di queste merci è costituita da merci di secondo ordine che, in proporzioni date, che sono necessarie a produrre le prime. E così via andando all’indietro finché non troviamo merci che sono rimosse dal consumo umano. Laddove una merce di primordine può essere usata per soddisfare un bisogno, quelle di ordine inferiore possono essere usate solo se combinate in proporzioni date così da produrre merci di primordine. Perciò ogni merce consumabile è uguale alla somma delle merci di ordine inferiore usate per produrle, questa somma è ciò che gli austriaci definiscono come costo. Il lavoro non è che una di queste merci di secondo ordine, alla stregua di qualsiasi altro materiale usato nella produzione; la sola differenza consiste nel fatto che esso può esser usato in diversi rami della produzione di merci consumabili. Esso non rientra nel costo in quanto sacrificio o sforzo lavorativo, ma nella forma di una utilità persa non essendo disponibile per altri usi che non siano la produzione applicata. Perciò, gli austriaci si identificano con la teoria di opportunità di costo, che riguarda tutti i tipi di costo, e non soltanto il lavoro e lo considerano costituito dalle utilità che vengono perse negli impieghi alternativi che sarebbero stati disponibili. (perdita delle opportunità). Il punto peculiare della teoria dei costi secondo gli austriaci è il loro modo di intendere la nozione di capitale. Essi respingono  (mi verrebbe da dire ovviamente ndr), il metodo di ridurre tutti i capitali a lavoro accumulato. Per loro sono parti componenti del costo, non solo salari e interesse (lavoro più astinenza dal consumo e quindi risparmio), ma anche il capitale stesso. Essi pensano che guardare al capitale come lavoro accumulato era possibile e ammissibile solo negli stadi molti iniziali dello sviluppo industriale, quando gli strumenti di lavoro e le materie prime sono esse stesse il risultato di lavoro diretto e immediato: ma è assurdo ritenere di ridurre a lavoro accumulato delle macchine che sono il risultato di una lunga serie di processi in cui il capitale stesso e l’elemento maggiormente essenziale. Perciò, dal momento che il capitale è richiesto per produrre merci capitale, il capitale non può mai essere escluso interamente dai costi, ma deve essere preso in considerazione insieme al lavoro … … L’errore principale della teoria austriaca dei costi è che essa è del tutto inutile per la determinazione del valore di un prodotto: dal momento che le componenti del costo derivano il loro valore dal prodotto, questo valore deve essere ricavato da esse come un punto di partenza, deve essere determinate prima che si cominci a parlare di valore costo …  Perciò tali valori devono esseri considerati come dati, prima di poter parlare di astinenza; perciò l’astinenza non può essere usata una seconda volta per determinare il valore, senza cadere in un circolo vizioso …

Si affaccia qui un altro problema cui Sraffa cercherà di dare risposta in Produzione di merci a mezzo merci: i ragionamenti paralogistici che inficiano sia la teoria marginalista sia la scuola austriaca. La confutazione più ampia ed esaustiva, tuttavia, si trova nel commenti di Giorgio Gattei all’Introduzione all’opera omnia di Ricardo, scritta da Sraffa nel 1951. Gattei ricorda come già Dimitriev, all’inizio del 1900, si era reso conto dell’importanza delle affermazioni di Ricardo, ma specialmente delle loro enormi implicazioni, che egli fu il primo a cogliere. Ecco come Gattei ricostruisce il tutto citando proprio Dimitriev:

…Ricardo ci ha consegnato un brillante procedimento per spezzare proprio il rapporto di simultaneità che ancora lega il saggio del profitto ai prezzi e quindi determinare il primo direttamente in termini fisici, preventivamente ad ogni conoscenza dei secondi. È questo il “suo merito immortale”, per dirla con Dimitriev: “di essere stato il primo a mostrare, che tra le equazioni della produzione, ne esiste una che dà la possibilità di determinare la grandezza r (il simbolo del saggio di profitto ndr), senza fare ricorso alle altre equazioni (quelle dei prezzi ndr)4 

È la medesima conclusione cui giunge Sraffa nel brano riportato, tratto dal capitolo terzo di Produzione di merci a mezzo merci, alla pagina 28 e già più volte citata. La cosa stupefacente in tutto questo è che Ricardo scoprì davvero qualcosa di decisivo ma non se ne accorse probabilmente in tutte le sue implicazioni, Marx non se ne accorse perché – pur partendo sempre da Ricardo – seguì una strada prevalentemente diversa, Dimitriev fu il primo a capire l’implicazione fondamentale cui la scoperta di Ricardo portava, Sraffa la riprese nel 1951 come se la scoprisse per la prima volta di nuovo in Ricardo e ne fece la base di Produzione di merci a mezzo merci nel 1960. Qualcosa che stava sotto gli occhi di tutti dal 1815, fu veramente vista oltre cento anni dopo! Sembra di leggere la Lettera rubata di Poe. Per concludere, Sraffa, rifacendosi anche a Torrens, nel capitolo finale di Produzione di merci a mezzo merci, difende, seppure modificandola, la proposizione fondamentale di Ricardo, trasformandola in questa:

La produttività del lavoro sulla terra che non paga la rendita, è fondamentale nel determinare il profitto generale.5

Nella citazione di Gattei ricordata più sopra e riguardante Dimitriev, c’è un altro termine di fondamentale importanza e cioè simultaneità; la ritroveremo nella confutazione di Sraffa a proposito del marginalismo. Sempre nell’Introduzione a Ricardo,6 viene ripresa tutta la questione per dire che in base a quanto scritto in precedenza non si può più parlare di costo del lavoro e ancora una volta l’origine di questa perentoria affermazione la troviamo in Ricardo che riporta il valore di una merce alla quantità di lavoro richiesta per produrla e non alla quantità della remunerazione, cioè il salario monetario pagato per quel particolare lavoro:7 a tale formula Marx apporterà una modifica fondamentale, scrivendo quantità di lavoro socialmente necessario per produrre un merce o un’altra. La risposta marginalista è la seguente: ciò è possibile applicando e dunque generalizzando all’intero sistema economico le equazioni che si applicano a una sola azienda che produce una sola merce. Con tale tentativo il marginalismo cercava di dimostrare che l’assunto di Marx che il capitalismo è un sistema anomico (Marx usa la parola anarchico) e senza direzionalità per definizione, sia errato e che sia dunque possibile generalizzare all’intero sistema le equazioni di base di cui un’azienda si serve per programmare la propria attività, dandone quindi una descrizione formale ordinata e non caotica del sistema intero. In sostanza il marginalismo si proponeva di trasformare la mano invisibile di Smith (dimenticando che – seppure in ultima analisi, Smith si dovette convincere che la mano invisibile era l’intervento statale e non quello privato!) in formule matematiche. Tale generalizzazione però non è possibile perché richiede un vincolo e cioè che la reductio ad unum sia posta all’inizio del processo di equazioni e non alla fine come risultato. Non è possibile citare l’intero capitolo dal titolo Il fallimento della teoria neoclassica (leggi marginalismo ndr): mi limiterò dunque all’essenziale compresa una sola formula, consigliando tuttavia la lettura dell’intero capitolo.

L’estensione al campo distributivo della teoria dell’utilità marginale aveva raggiunto il culmine con un saggio del 1894 di Wichsteed. Qui era stato stabilito per la prima volta il preciso rapporto, valido oltre che per la singola impresa, per l’economia nel suo complesso, tra la remunerazione dei diversi fattori della produzione e la loro partecipazione alla formazione del prodotto netto. La funzione macroeconomica della produzione y = f (N,K) poneva così in relazione derivabile il risultato produttivo y con le quantità di lavoro N e di capitale K, impiegate conducendo alla logica dimostrazione che se si rimunerano i fattori secondo l’esatto contributo di ognuno alla produzione di ognuno al limite del suo impiego ( cioè secondo la produttività marginale, misurata dalla derivata principale della funzione), allora la somma delle retribuzioni non poteva non esaurire senza residui l’intero risultato produttivo. Infatti, per w = salario unitario e r = saggio del profitto, risultava: y = w*N+r*K= (ðf /ðN)*N +(ðy/ðK)*K, dove i due simboli frazionati (tra parentesi) sono le produttività marginali di capitale e lavoro. Con ciò veniva negata ogni consistenza teorica alla pretesa classica dell’esistenza di redditi non guadagnati come il profitto, promosso invece nel nuovo statuto teorico a legittimo corrispettivo del contributo produttivo del fattore capitale, fonte originaria e autonoma di ricchezza al pari del lavoro… Tuttavia tale dimostrazione si basava sulla proprietà di un preciso teorema algebrico, il teorema di Eulero, valido soltanto nel caso di funzioni omogenee di primo grado – il che equivaleva a introdurre (surrettiziamente aggiungo io), la condizione economica di rendimenti di scala costanti.8 

In altre parole non veniva citato il presupposto indicato in precedenza e risalente a Marx e cioè che l’eterogeneità non permette – se le si considera nella loro fisicità di merci – alcuna reductio ad unum in partenza se non considerandole come prodotti di capitali e non di altre merci –  che pretendono di avere diritto alla medesima quota di profitto. Per arrivare dall’eterogeneità al saggio medio era indispensabile  utilizzare il teorema di Eulero, ma questo non era possibile perché tale teorema richiede la reductio ad unum della eterogeneità dei diversi saggi di profitto come condizione di partenza e non come risultato finale. Il primo a rendersi conto di tale incongruenza fu Sraffa in Sulle relazioni fra costo e quantità prodotta del 1925, che Gattei ricorda e ripropone:

Sraffa era giunto alla conclusione che l’ipotesi di rendimenti costanti era l’unica legittima per l’equilibrio parziale di una singola impresa … mentre per il sistema nel suo complesso questa ipotesi era del tutto insostenibile e andava sostituita dalle leggi dei rendimenti crescenti e decrescenti… Il calcolo della produttività marginale e quindi della remunerazione del capitale complessivo, doveva presupporre la riduzione a una identica unità di misura di tutti quei beni capitali, così da renderli omogenei e quindi sommabili in un’unica grandezza. 9

Continua Gattei:

Ma se non si poteva determinare il valore del capitale prima di avere fissato il saggio di profitto, come si poteva sostenere che proprio il saggio di profitto fosse determinato dalla produttività marginale del capitale, per la cui determinazione era necessaria la preventiva conoscenza del saggio di profitto?10

Tale ragionamento circolare e paralogistico dava in sostanza per dimostrato ciò che si doveva dimostrare.

Note

1 Piero Sraffa, Produzione di merci a mezzo merci pag. 121.

2 Piero Sraffa, Introduzione ai Principi di Ricardo, con prefazione e saggio di Giorgio Gattei.

3 Piero Sraffa, Produzione di merci a mezzo merci,  pag. 24 e seguenti.

4 Ivi.

5 La frase usata da Ricardo sarà ripresa da Sraffa in una forma modificata già citata in precedenza. Per un ulteriore approfondimento della questione è bene rifarsi all’originale di Ricardo, ma una dettagliata analisi di tutta questa problematica si trova nel saggio di Gattei all’Introduzione scritta da Sraffa alle opere di Ricardo.

6 Op.cit. pag. 45.

7 David Ricardo, The works and correspondence Section1: The value, in Online Library of Liberty. The value of a commodity, or the quantity of any other commodity for which it will exchange, depends on the relative quantity of labour which is necessary for its production, and not on the greater or less compensation which is paid for that labour. Sezione Il valore di una merce, ovvero la quantità di ogni altra merce con la quale verrà scambiata, dipende dalla quantità di lavoro relativa che necessaria per la sua produzione e non dalla grandezza maggiore o minore della retribuzione che viene pagata per quel lavoro. La traduzione è mia. L’importanza di questo passaggio sta nel fatto che si tratta del titolo di un capitolo e quindi nella determinazione con cui la frase medesima è scritta. Se fosse vero che rispetto al nesso fra lavoro e valore Ricardo fosse stato titubante come gli viene attribuito talvolta, non avrebbe usato un’espressione così decisa e incontrovertibile e proprio nel titolo di un capitolo.

8 Piero Sraffa,introduzione a Ricardo.

9 Op.cit.

10 Op.cit.

APPENDICE TERZA PARTE

The most peculiar point in the Austrians’ theory of cost is their notion of capital. They are opposed to the usual method of reducing all capital into accumulated labour. Therefore they regard as being component parts of cost, not only wages and interest (i.e. labour + abstinence), but also capital itself. They think that this way of looking upon capital as accumulated labour is admissible in the very early stages of industrial development, when the tools and the raw materials used in production are themselves the result of immediate direct labour: but it is absurd to regard reduce only to accumulated labour machines which are the result of a long series of processes in which capital itself is the most necessary element. So long therefore as capital is required to produce capital goods, capital can never be entirely excluded from cost, but must be taken into account alongside with labour. D2.4 51

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(D2/4/3.52)

Thus values must be assumed to be given, before we can speak of abstinence; and thus abstinence can not more be used again to determine value, without falling in a vicious circle. but what about the “quantity” of capital in respect of which waiting takes place? How is it to be measured if value and utility are excluded? How can we add heterogeneous things?) 14 25 ott.

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(D2/4/3.54)

Opportunity cost. In the last lecture we have seen how the Austrian School reduces cost of production to the loss of utility incurred by sacrificing the alternative uses in which the factors of production might have been employed … and it is quite natural, since the Austrians regard value as being entirely determined by utility. The concept of opportunity cost …, arises from an attempt at overcoming certain difficulties which are found when it is attempted to make precise the notion of real cost. In Marshall’s terminology, ‘real cost of production’ is the sum of efforts and sacrifices ‘required for producing a commodity …. Now suppose that the two most obvious difficulties have been overcome; and that we we have succeeded in overcoming the two most obvious difficulties, that is to say 1) that equal amounts of money measure very different sacrifices for different individuals, 2) that of having different incomes; 2) that even if they all has the same income it is impossible, if not inconceivable, to add the

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quantities of feelings of different persons. But apart from these, one difficulty remains. Expenses of production are costs as seen from the point of view of the entrepreneur, who pays wages and interest, and buys materials and machinery. From this point of view all expenses are costs, they are an aggregate outlay in which it is impossible to distinguish what corresponds to sacrifices and what corresponds to rents And of course the whole treatment of the theory process through which the prices of particular commodities are determined, is carried out on the assumption that the remunerations of the factors of production are given. Now these supply prices of the factors, or of raw materials, are determined at the margin, and therefore contain no rents. But when we take the expenses made by one particular firm, they surely include some rents, even if in its industry it is the marginal oneΘ

29 ott 29

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Besides, the distinction between rents and costs holds good only from the point of view of society the community as a whole; but from the point of view of the individual entrepreneur all expenses the factors represent costs for him, in proportion to the prices he has to pay. The remuneration of a factor is of the nature of rent when the supply of that factor is fixed and independent of the remuneration: the supply, say, of land is fixed for a country. But for a single individual or a single industry the amount of land which it is allowed to use is strictly dependent on whether it pays the market price for it or not. This is the starting point of the theory of the opportunity cost.

 

D2.4 56

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(D2/4/3.57)

… These payments tend to equal the payments which the same agents could have commanded in alternative employments. The payments which they could have commanded in alternative employments tend in their turn to equal the derived marginal utilities of their services in those employment

15 It is thus the loss of utility which arises from the fact that these agents of production are not available for alternative employments that is measured by the money costs of a commodity at the margin of production” (164-5) Now it is not easy to understand why we should take such a this such a roundabout way in order to reach that conclusion. The wages that I must pay to a workman in order to employ him secure his services are equal to the wages he can get from somebody else, and therefore equal to the utilities he would produce for the other man; and the real costs are neither what I pay, nor what the workman does, but the utility that a third person fails to obtain in consequence of not employing this workman. D2.4 57

3-44.58-156

(D2/4/3.58)

. The origin of the trouble lies in the fact that, when real costs are conceived as a sum of sacrifices, it is impossible very hard to keep them always distinct from utility: and once we have allowed utility to enter into the supply side of the matter, it has a tendency to swallow up the whole. the first place, in Marshall’s theory the sacrifices to be incurred are always balanced against the utilities to be obtained: therefore they must be quantities of the same nature, different only in sign and magnitude: and when sacrifice is conceived as negative utility, it is almost impossible to distinguish it from a loss of positive utility. Besides, in the very definition of real costs there are elements which are clearly losses of utility, that is to say opportunity costs. While labour is regarded as involving a positive pain, due to the effort involved or to the unpleasantness of the work, abst waiting is But if we look closely at the matter, the same can be said to some extent also of labour. The sacrifice involved in orking, in most trades and professions, is not only the performance of work as such, but the loss of freedom and time that would otherwise have been available for enjoyment. And at the margin, when the worker is supposed to be balancing the disadvantage of an additional hour of work with the advantage of an additional shilling, the loss of leisure may weigh for much more than the fatigue of work; … Therefore in the marginal cost of work there is a part which is not real cost, in the strict sense, but loss of an alternative opportunity. But if the loss of opportunity is admitted in the case of capital and labour, why should it not be for land? The amount of land is fixed, because when we are talking of land we are considering all its possible uses; including for example, the case in which the landlord uses the land as a park for his private use. But what is in this case the difference with capital? Also capital

D2.4 58

3-44.59-156

(D2/4/3.59)

clearly not painful in itself: it is a sacrifice only because one has to give up the utility of consumption: the difference between present and future enjoyments is a quantity of utility D2.4 59

3-44.60-156

(D2/4/3.60)

capital is fixed in amount at any one moment, if we include amongst the possible uses the direct enjoyment on the part of the capitalist. If the rate of interest falls, it is assumed that goods will be transferred from productive uses to the private consumption of the owner: it may be said that if rents fall, the same will happen in the case of land. 30 ott.

16 in Now we must make a distinction between two entirely different kinds of variations in the quantity of a factor, consequent upon a change in remuneration: 1) is increase or decrease of the proportion of it that is sold on the market for money by its owner, 2) is increase or decrease in total quantity existing of that factor, whether used directly by its owner or sold to other people. To make an example, an increase in the hours of worked by of workers in consequence of a rise in wages belongs to the first class – it is merely a redistribution of the total amount of time and energy between the two uses, work for wages and leisure, but the total available is unchanged: an increase in population, consequent upon a rise in wages belongs to the second class. Now it is the first kind of change which the theorists of oportunity cost have in mind, and from this point of view they are quite justified to regard land as a factor very much like the others, whose remuneration enters into cost. The landlord is as free to increase or decrease the proportion of his lan. he allows to be used productively, in response to a change in rent, as the capitalist is free to increase or decrease the proportion of his capital which he lends to others, when rate of interest change

17 Da Marshall, Principi: Marshall, Princ. p. 532

.”“Thus again we see that demand + supply exert coordinate influences on wages; neither has a claim to predominance. … Wages tend to equal the net product of labour; its marginal productivity rules the demand price for it; and, on the other side, wages tend to retain a close though indirect and intricate relation with the cost of rearing, training and sustaining the energy of efficient labour” [in the footnote he repeats this phrase + says “or, more shortly, though less appropriately, the cost of production of labour.” D2.4 59sette

3-44.69-156

(D2/4/3.69)

All the elements of cost of this kind we have already incorporated into utility (i.e. “demand side”) as opportunity cost. What still remains of costs is nothing of the kind. In fact, we ha are left with two kinds of materials (utility, and “costs”physical) each of which can be used as the only basis of a theory of value: we can therefore have two independent theories, but not one which takes both in account.4) Finally, this kind of cost, adopted in the last resort by Marshall etc.,does distinguish between rewards which correspond to real costs and rewards which do not; but instead of putting rent on one side, and w. +int. on the other, it puts wages on one, rent + int. on the other.  It is necessary to “rear, train, support” the worker: but it is no more necessary to support the capitalist than it is the landlord

18 Now that we have examined the various ideas of cost held by successive generations of economists, and the difficulties which are met byeach of them, we shall pass to discuss what are the relations between the value of commodities and the cost of their production; and   in what sense cost of production may be said to determine value and to what extent it has to share this power with demand. Of course, the next part of our inquiry analysis would have been made easier, if first we had found that there is one clear and definite conception of cost of production, about which all economists agree. We have failed to first But we shall first see that, in the detailed application of the notion of cost to the theory of value, we shall be are able to carry our analysis a fairly long way before having compelled to make our {?} up we are faced by the sort of difficulties which may compel us to make up our mind about what exactly we mean by cos.  And this is due chiefly to the fact that ¶ in the determination of price of any one particular commodity, the notion of expenses of production will be sufficient for most purposes, without being necessary to decide whether it is 1) merely a shadow of the “real costs” or sacrifices behind it or 2) another name for the utility of the product (opport. cost) or 3) itself the ultimate real costs (not as a sum of money, but a sum of things consumed in production) and whether it has any solid foundation at all. For some purposes therefore any definition of cost will do. Any definition except one. That is to say, opportunity cost in its most extreme and consistent interpretation …

D2.4 62

3-44.73-156

(D2/4/3.73)

production can have anything to do with the determination of the price of commodities. ” This is fixed by two determinants, which are: 1) the tastes, desires, and resources of the individual consumers. These individual desires are capable of being measured and expressed in money and represented by curves, which may be summed together, so as to form the demand curve for the market. This curve represents a function, that is to say a series of co-existing relations between given amounts supplied and the corresponding marginal utilities. 2) “The amount of actual supply existing in the community. This is not a curve at all, but an actual quantity: it is not a series of coexisting relations, but one single fact, and it determines which of the potential relations represented by the demand curve shall be realized.” Then he asks: “What about the ‘supply curve’ that usually figures as a determinant of price, coordinate with the demand curve? I say it boldly and boldly: there is no such thing.” According to Mr Wicksteed the so called supply curve is in reality the supply demand curve of those who possess the commodity. It represents the “reserve prices” Now that we have examined the various ideas of cost held by successive generations of economists, and the difficulties which are met byeach of them, we shall pass to discuss what are the relations betweenthe value of commodities and the cost of their production; and   in what sense cost of production may be said to determine value and to what extent it has to share this power with demand. Of course, the next part of our inquiry analysis would have been made easier, if first we had found that there is one clear and definite conception of cost of production, about which all economists agree. We have failed to first But we shall first see that, in the detailed application of the notion of cost to the theory of value, we shall be are able to carry our analysis a fairly long way before having compelled to make our {?} up we are faced by the sort of difficulties which may compel us to make up our mind about what exactly we mean by cos.  And this is due chiefly to the fact that ¶ in the determination of price of any one particular commodity, the notion of expenses of production will be sufficient for most purposes, without being necessary to decide whether it is 1) merely a shadow of the “real costs” or sacrifices behind it or 2) another name for the utility of the product (opport. cost) or 3) itself the ultimate real costs (not as a sum of money, but a sum of things consumed in production) and whether it has any solid foundation at all. For some purposes therefore any definition of cost will do. Any definition except one. That is to say, opportunity cost in its most extreme and consistent interpretation …

D2.4 62

3-44.73-156

(D2/4/3.73)

production can have anything to do with the determination of the price of commodities. ” This is fixed by two determinants, which are: 1) the tastes, desires, and resources of the individual consumers. These individual desires are capable of being measured and expressed in money and represented by curves, which may be summed together, so as to form the demand curve for the market. This curve represents a function, that is to say a series of co-existing relations between given amounts supplied and the corresponding marginal utilities. 2) “The amount of actual supply existing in the community. This is not a curve at all, but an actual quantity: it is not a series of coexisting relations, but one single fact, and it determines which of the potential relations represented by the demand curve shall be realized.” Then he asks: “What about the ‘supply curve’ that usually figures as a determinant of price, coordinate with the demand curve? I say it boldly and boldly: there is no such thing.” According to Mr Wicksteed the so called supply curve is in reality the supply demand curve of those who possess the commodity. It represents the “reserve prices”

19 of those who come to the market with supplies of the commodity, that is to say the prices below which they are not prepared to part with their stock, and therefore in fact their own demand prices. The supply curve is thus simply a part of the demand curve, which has already been taken into account.

D2.4 63

3-44.74-156

(D2/4/3.74)

The familiar diagram exhibiting a pair of intersecting demand and supply curves is reached by separating a portion of the demand curve and reversing it in the diagram … but it does not affect the price … which is determined only by the single demand curve. This of course applies to the harvest of one year or to the fish brought to the market on one day. It is also applied by Mr. Wicksteed to the demand and supply of factors of production. The data represented are exactly the same in the two cases. Tutto questo…(1928) v Wicksteed E. J. + v.reg This curve represents the total demand of the whole of the market for the commodity; i.e. it is the sum of the utility curves, expressed in money, of all the individuals who come on the market – both of those who come as buyer, and sellers; i.e. both of those who own some of it and of those who do not. Now, instead of forming one single collective curve, we may divide the individuals in two groups – those who own some fraction of the stock of the commodity, and those who don’t own any, but have the desire and money to buy it – and we form two demand curves, one for each of the two groups. Obviously, the two demand curves will be such that their sum (i.e. the series of the sums of the quantities demanded at each price) will be equal to the original demand curve. D2.4 64

3-44.77-156

(D2/4/3.77)

Now leaving aside this extreme interpretation of costs, what are the conditions under which expenses of production can be said to determine the value of a commodity. The question turns upon whether cost varies or not with changes in the quantity produced.  Of course what constant costs means most per unit, and not total cost, whatever the amount produced. Confusion may arise from the fact that, as we have seen, when the amount of a factor is constant it is p. 61

D2.4 65

3-44.78-156

(D2/4/3.78)

Said that it does not enter into cost…   and therefore does not determine value; whereas when a commodity is produced under conditions of constant costs, value is entirely determined by cost. But there is all the difference in the world between the two cases  … In the first case the total is really constant; in the second, the total cost changes in proportion to the amount produced … In the extreme case in which the whole of the demand curve lies below the cost of production, nothing will be produced: but whenever anything is produced it must be sold at the fixed cost. The same is true for demand: if the demand for a commodity had infinite elasticity, its value would be entirely fixed by demand: and changes in the cost function would not affect it.. Conversely, absolute rigidity of supply, that is to say, when the total supply is fixed, cost does not affect value – in reality it is there is no cost at all – and only demand is the determinant. The same is true if demand is absolutely inelastic * {Sraffa no doubt meant to write ‘it’ instead os ‘is’}.

D2.4 66

3-44.79-156

(D2/4/3.79)

Between these two extremes there is a whole series of intermediate cases The interdependence of cost and quantity produced is quite a modern idea. All the classical economists ignore it altogether so much so that it cannot even be said that they assume constant costs to operate throughout as their argument implies, since they don’t take the question into consideration at all; and their discussions of what are causes of value refer only to whether it is only the quantity of labour, or also profit, or also rent:…  but they are all main agreed in looking for the determin causes only on the side of supply. Θ

7 nov 29

D2.4 67

3-44.80-156

(D2/4/3.80)

 The argument that water and air have a great utility, and but nothing can be conclu obtained in exchange for them, whereas gold has little utility but exchanges with a great quantity of other goods – appeared to be conclusive

But it could not change the values of the particular commodities,because diminishing returns from land affected to equally all products the same extent different commodities, because they all, directly or indirectly, depended were products of agriculture, and therefore their relative positions remained unchanged. It is true that Ricardo often usually speaks only of the production of corn in connection with diminishing returns: but no doubt he uses the term “corn” for agricultural produce in general,… causes many difficulties

 D2.4 69

3-44.82-156

(D2/4/3.82)

coordination between the two, connection between quantity + cost, coordination with demand, is a very recent development, chiefly work of Marshall, and consequence of theory of marg. ut. and attempt at compromise. We shall have often to notice that the fact that the two laws were meant originally for very different purposes from those in which at present they are in valu In the last lecture we have seen how the law of decreasing returns and the law of increasing returns had entirely distinct historical origins, and that they had initially been designed for use in connection with problems which have only an indirect connection with value And that the bringing the[m] into relation with the determination of value has been a comparatively recent development; and that the interpretation which regards them as tendencies which are similar in character, and simply of opposite directions, is still more recent. Now, most of the difficulties which they meet in the new function to which they have been put, can be traced to those very characters which made them well suited to the place they formerly occupied in economic theory; these characters make them, as I think, to a large extent contradictory to the essential conditions on which the theory of value is based. I do not propose at the to discuss examine thoroughly at this stage the conditions to which the use of supply and demand curves in determining value is subject, Naturally this will and the extent to which they are satisfied. Naturally this will come at the end, as the conclusion of the discussion of the basis of those curves, that is to say variable costs and diminishing utility. I shall therefore state them shortly and rather dogmatically in order to make determine what the trend of the argument is leading up to. D2.4 71

3-44.84-156

(D2/4/3.84)

.  The conditions to which supply and demand curves are subject are often summed up in textbooks under the expression “assuming all other things to be equal”. This of course conceals, much more than it express, the conditions which we are actually assuming. The trouble with it is, first, that it includes too much, for it is never really required that everything in the world should remain unchanged while we move our variables: there are of course always innumerable things which may change without affecting the particular problem in hand. In the first place therefore, the condition “other things being equal” is contrary to the principle that the number of our assumptions should be reduced to a minimum. But the really serious danger which it conceals is that amongst the unspecified things which it is essential, for the validity of the conclusion, that they should remain unchanged, there are often concealed quantities which cannot possibly remain unchanged if the variables change Now in our case the conditions which underlie the supply and demand curves are: 1) that the two curves must be independent from one another, 2) that the prices and quantities produced of all the other commodities should remain unchanged, that is to say that all the other prices and quantities

D2.4 72

3-44.85-156

(D2/4/3.85)

should be independent of variations in the quantity and price of the commodity under consideration. Independence of the supply and demand curve means that the shape and position of each must remain unchanged while the other is changed. For example, if a tax is put upon an article, the supply curve will be raised by the amount of the tax, but this fact must not by itself affect the shape of the demand curve. Of course the demand price will be different, if the quantity purchased is different; this change must take place along the preexisting demand curve, and not on a new curve. The reason for this condition is clear. The two curves represent two equations y = f(x) – y1 = (x1 ), where x is the quantity of product bought or sold, y is the supply price and y1 the demand price. In the position of equilibrium the supply price is equal to the demand price, therefore y = y1 and x = x1: we have thus to variables, and the two equations being given, price and quantity are determinate. But if, when a change occurs in the demand function, not only the supply price and quantity supplied are changed, a indeterminate. that is to say the variables x and y1 , but also the constants which are represented by – then the system has no more 2 variables, but at least 3; and therefore we have more variables than equations and the system becomes indeterminate. Or if there is a change in demand, the supply curve must remain unaffected. D2.4 73

3-44.86-156

(D2/4/3.86)

The substance of this is that,…  if a tax is imposed upon it, we can predict the effect of the tax on the price, provided the curves remain unchanged, apart from the addition of the tax to the supply prices: but if they change in shape, we know nothing about the possible effect of the tax until we are told how the change in shape will take place; that is to say, until we are provided with additional equations. The second condition, that the prices and quantities of all other products should remain unchanged, it can arises essentially from the existence of substitutes and products for which there is a joint demand. The demand curve for an article is based on the assumption of a given scale of prices of the other commodities: if these prices changed also the demand price of the for the commodity under consideration would change, because cheaper substitutes would be available

12 nov 29

D2.4 75

3-44.88-156

(D2/4/3.88)

Now, coming to compare increasing and diminishing returns, the we find first of all a fundamental difference in the way in which they arise …. But in their form most usual and widely accepted, there is a fundamental distinction between them. That is to say, diminishing returns in general arise from a change in the proportions in which the different factors are combined in an industry independently of whether the magnitude of the total product increases or falls. Increasing returns on the contrary are in general connected with increases in the actual absolute size of an industry and have only a remote relation with the proportion in which the factors are employed … The apparent equality similarity of the conditions from which incr. + decr. returns arise, is due to the fact that usually This method of successive doses applied to a constant factor is usually adopted, partly because* it is more convenient to represent changes in one quantity while the other remains constant, than to change them both at the same time: but the essence of diminishing returns could be with equal correctness represented by assuming that the two amounts employed of each of the two factors change in opposite directions, and in such proportions as to keep the total product constant. This might be represented by means of an indifference curve, which is a construction well known to those who have followed my advice suggestion of reading Prof. Edgeworth and Pareto: indifference curves are usually used in connection with problems of demand, when the marginal utility of both commodities exchanged is supposed to varD2.4 77

3-44.90-156

(D2/4/3.90)

The curve means that at two different points the total satisfaction experienced from the two combinations of bread and wine represented is equal. This construction can be applied equally well to diminishing returns arising from changes in the proportions of factors of production. Suppose we the factors considered are capital and labour in a particular industry. A given amount of product may be obtained either with by using a large quantity of labour and a small quantity of capital, or with much capital and very little labour: between this two extreme cases there may be a whole series of intermediate combinations, and these are represented by the indifference curve. In By this method we can represent the diminishing returns arising from changes in proportions independently of changes in the size of the industry D2.4 78

3-44.91-156

(D2/4/3.91)

Indifferences curves are as a rule used in questions connected with utility, and not in questions of production, chiefly because they don’t exhibit rent in the way in which the diminishing returns curve does; and also because it is more difficult to visualize the situation represented by them, that is to say three both quantities both factors that change simultaneously, instead of one at a time. 23 6 nov 28

Sraffa, il valore, il lavoro

SECONDA PARTE CON APPENDICE

di Franco Romanò

Torniamo ora alle lezioni di Sraffa. Le abbiamo lasciate in un momento che possiamo ancora considerare un preambolo, che continua con una divagazione che riguarda in particolare Adam Smith e i presupposti della sua ricerca, che Sraffa vede nella necessità di attaccare il mercantilismo. Nel prosieguo, il discorso si allarga alle concezioni filosofiche ed è proprio su questo argomento che Sraffa fa questa affermazione:

… Dobbiamo ricordare … la differenza fra la moderna e nostra concezione della legge naturale e quella che ne aveva Smith … Noi concepiamo la legge naturale come il modo in cui una particolare classe di eventi si verifica, tale che essa non possa avvenire in nessun altro modo. Per Smith la legge naturale è una sorta di forza esterna direzionata verso fini benefici e armoniosi, ai quali è tuttavia possibile sfuggire, a condizione che si diventi però passibili di una sanzione … Tale nozione è particolarmente adatta quando una particolare politica chiamata in causa deve essere rappresentata come una legge naturale, in un modo cioè che la moderna concezione di legge naturale rifiuta. Continua la lettura di Sraffa, il valore, il lavoro

Fortini, la guerra, la pace

di Ennio Abate

Chi sta in alto dice: pace e guerra

sono di essenza diversa.
La loro pace e la loro guerra
sono come il vento e la tempesta.

La guerra cresce dalla loro pace
come il figlio dalla madre.
Ha in faccia
i suoi lineamenti orridi.

La loro guerra uccide
quel che alla loro pace
è sopravvissuto.

(Bertolt Brecht, Poesie di Svendborg)


La Seconda guerra mondiale e Foglio di via La guerra entrò nella vita di Fortini  con il suo richiamo alle armi nel luglio 1941. Nei mesi seguenti egli riuscì ancora ad alternare servizio militare e studi universitari, ma lo sfascio dell’esercito italiano (8 settembre 1943) lo spinse a raggiungere con altri dispersi la Svizzera. Internato nel cantone di Zurigo con centinaia di fuggiaschi italiani ed europei, vi conobbe esponenti dell’immigrazione antifascista, lesse per la prima volta alcuni scritti di  Lenin, aderì al Partito socialista e incontrò Ruth Leiser, che diventò la donna della sua vita. Partecipò anche alla repubblica partigiana formatasi in Valdossola, che però era già in fase di ripiegamento.

I versi di Foglio di via, scelti tra i moltissimi scritti degli anni  ’40-‘44, sono il primo risultato poetico di Fortini giovane. Ricevettero poche recensioni (di Calvino e Ragionieri in particolare), ma scarsa attenzione da parte dei suoi amici letterati fiorentini.

Anni dopo, nella Prefazione del 1967 alla nuova edizione di Foglio di via e in alcune interviste, Fortini sottolineò quale forte cesura la Seconda guerra mondiale aveva segnato nella sua esistenza, sebbene gli eventi più tragici del conflitto mondiale l’avessero soltanto sfiorato e giudicasse ora (un po’ mortificandosi, come nel suo stile) quella sua esperienza “assolutamente trascurabile” se paragonata alle sofferenze di tanti coetanei deportati in Germania, in Africa o in India.

Lo stacco fra  il prima (adolescenza all’insegna dell’elegia, passione per l’arte e la letteratura, partecipazione sia pur diffidente e scalpitante ai Littoriali del regime fascista) e il dopo (servizio militare, sbando, internamento in Svizzera) fu netto e duro. I rapporti che stabilì, da isolato, con militanti politici antifascisti e formazioni partigiane non furono privi di esitazioni e il contatto con soldati e civili nelle caserme o per le vie delle città bombardate gli svelò l’insufficienza della sua cultura “piccolo borghese”. «Che cosa gli poteva servire aver letto Proust, Joyce, Rilke o Gide?», scriverà nella Prefazione del 1967; e in un’intervista aggiungerà poi: “È solo con l’esperienza del servizio militare, l’incontro con i contadini italiani vestiti da soldati, da fanti, che ho cominciato a capire qualcosa” (Fortini, Un dialogo ininterrotto, p.511).

Nella crisi, quel “qualcosa” affiorava a fatica dal populismo tipico dell’epoca. Era sì sufficiente a staccarlo definitivamente dall’ambiente letterario fiorentino in cui s’era formato e ad unirsi a Elio Vittorini, che stava per fondare Il Politecnico, ma tenui sono le tracce  di una visione politica di classe del fascismo e della guerra. Essa maturerà negli anni successivi e, del resto, era quasi assente allora; e non solo fra i suoi coetanei intellettuali. Se rileggiamo, infatti, Agli italiani (8 febbraio 1944), una conferenza tenuta in Svizzera ai connazionali internati come lui in “quarantena” nel campo di Adliswill (cantone di Zurigo), notiamo che la denuncia dell’avventura fascista e la volontà di reagire si appellano soprattutto  ai valori della  patria distrutta.

Nella presentazione alla recente pubblicazione dei Saggi ed epigrammi di Fortini, Rossana Rossanda ha ricordato  i tanti tratti culturali che il giovane Fortini aveva in comune con tutta la generazione degli anni Venti: “stesse letture, stessi interrogativi, stesse frequentazioni, stesso fastidio per il fascismo, stesse incertezze a impegnarsi fino all’occupazione tedesca”. E Fortini, quasi a conferma, così aveva da parte sua rievocato quel clima culturale:

“L’antipatia nei confronti del regime fascista era strettamente collegata con gli atteggiamenti  intellettuali ed estetici di un giovane che allora si interessava soprattutto di arte e di letteratura. Ma questa non era soltanto la mia posizione. Era quella di tanti giovani di estrazione piccolo borghese o borghese che nella Firenze di allora amoreggiavano con la cultura d’avanguardia e con la poesia, amavano il cinema populista francese [...] e trovavano il fascismo soprattutto maleducato e volgare, banale e culturalmente rozzo. [...] L’antifascismo nostro di allora era un antifascismo che potremmo oggi chiamare di destra, cioè un antifascismo  che trovava ridicolo ed insopportabile il fascismo per i suoi atteggiamenti plebei”. (Fortini, Un dialogo ininterrotto, p. 609)

La guerra gli si presenta, dunque, innanzitutto come viva esperienza del mondo dolente e confuso dei rifugiati conosciuti a Zurigo. Di questa realtà insospettata parla come di una “rivelazione”, sottolineando – e qui ha un peso coglie l’impronta fortemente letteraria della sua formazione – che quel periodo fu l’unico della sua vita in cui non avvertì più “nessuna differenza fra la parola stampata e quella detta”. Gli parve che una fluidità sorprendente si stabilisse fra la parola meditata  nell’assenza fisica di interlocutori, propria della poesia e della letteratura, e la parola più immediata e corporea della comunicazione orale con gente in situazioni materiali durissime o sfuggite allo sterminio nazista allora quasi inimmaginabile, come quel gruppo di ebrei dell’Europa orientale che in una cantina recitava preghiere “intollerabili come urla di gente che fosse tormentata e battuta”.

Fra 1944 e ’45, sempre a Zurigo, lesse anche alcuni testi dalla Resistenza francese, ricevendone un ulteriore incoraggiamento a compiere scelte radicali, come affermò nell’intervista del 1993 a Jachia (Fortini,  Leggere, scrivere).

Berardinelli, in uno dei primi studi sistematici dell’opera fortiniana (Berardinelli, Fortini), ha visto in quegli anni un passaggio del giovane scrittore da un “antifascismo dell’anima” ad un “antifascismo politico”, che riguardò le scelte morali e politiche, ma anche lo stile della sua scrittura; ed in   Foglio di via ne abbiamo la prima registrazione.

Nella raccolta, infatti, troviamo da una parte poesie dai toni duri e realistici e un linguaggio che mira all’oggettività e alla coralità e, dall’altra, la persistenza del clima assorto dell’educazione ermetica fiorentina.

 Sul piano letterario il realismo delle scelte linguistiche e stilistiche, spia di una forte tensione verso  l’impegno politico e storico,  è  tipico di quegli anni di guerra, alla cui durezza il giovane scrittore s’impone ora di non sfuggire più nemmeno in poesia, ma l’impronta della precedente educazione, classica ed etico-religiosa, s’interseca ora con i motivi resistenziali e non come elemento inerte; e si presenta – come ha visto acutamente Lenzini – sia come «momento ‘nichilistico’,  di deiezione e angoscia» sia – dialetticamente – come attesa e  speranza.

Fortini non passa, cioè, dalla precedente formazione al neorealismo che dominerà in vari modi dal ’45 fino agli inizi degli anni Cinquanta. Resta più isolato. E basti confrontare il populismo di  tanta letteratura della Resistenza (Pratolini, Viganò, ecc.)  con la ritrosia pensosa (non ostile) verso il “popolo”, evidente nel suo romanzo, Giovanni e le mani, pubblicato nel ’48.

Foglio di via  e Giovanni e le mani  passarono presto sotto silenzio. Non rientravano soprattutto nella retorica tutta «patriottica» della Resistenza, che, surrogando  presto la sconfitta reale dei partigiani, la presentò come lotta di tutto un popolo contro un’invasione straniera, cancellandone  gli aspetti più controversi di lotta di classe e di “guerra civile”, messi poi problematicamente in luce dallo storico Claudio Pavone. E il mutamento del clima politico negli anni Cinquanta portò in letteratura ad una svolta formalistica (la parabola di Vittorini  e il successivo neoavanguardismo  sono in proposito illuminanti), che svalutò la direzione di ricerca imboccata da Fortini, lontana dall’oleografia neorealistica e nazional-popolare eppure in contrasto con l’”americanizzazione” che poi ha trionfato in Italia e in Europa. Fortini dovrà proseguire sulla sua strada in un relativo isolamento e guardando altrove (verso Francia e Germania prima e poi verso la Cina).

L’esperienza della guerra e della Resistenza restano per lui fondamentali sul piano politico, etico ed estetico. Su di esse il suo marxismo si consolidò restando “critico” e il rapporto scoccato in quegli anni fra letteratura e storia non fu mai più sciolto.  Lo testimoniano tutte le sue opere successive e la prontezza con cui reagì alle prime avvisaglie del “revisionismo storico”. Ancora nel 1993, in alcuni incontri organizzati all’università Statale di Milano, Fortini, relazionando su Letteratura e Resistenza, nel suggerire ai giovani le prove letterarie più alte di quegli anni, ricordò ancora con nostalgia l’attenzione dei letterati a quella sorta di “letteratura orale” che nasceva sui treni, allora tanto lenti da facilitare i racconti delle proprie vicissitudini da parte di ogni viaggiatore ad altri sconosciuti.

Primo intervallo: sulla “compresenza conflittuale di storia e trascendenza” in Fortini  Già  in Foglio di via emerge una feconda contraddizione, che agirà in tutta la laboriosa carriera dello scrittore e che maturerà attraverso scelte politiche e di studio.  Berardinelli ha parlato in proposito di “compresenza conflittuale di storia e trascendenza”. È una formula che mette in luce l’inquietudine mai placata della ricerca di Fortini fra le polarità della cultura occidentale cristiano-borghese (materialismo/idealismo, mondanità/religiosità).

Questa sua inquietudine è stata spesso ricondotta al facile luogo comune di un Fortini tormentato, oscuro, intollerante e ha legittimato riserve o giudizi contrastanti su di lui anche da parte di amici e studiosi importanti. Timpanaro, ad esempio, lo considerò solo “un religioso sia pure tormentato”(Luperini, Ricordando Timpanaro, in L’ospite ingrato 2001-2002) e mai un pensatore veramente materialista, mentre Ranchetti ha visto invece in lui “un’etica… non religiosa ma ricca di affetto struggente per le cose reali” (L’ultimo saluto, in Testimonianze 372 febbraio 1995).

La stessa Rossanda scorge nel suo “essere stato mezzo ebreo, mezzo protestante, mezzo antifascista, mezzo resistente” la probabile origine di un’intolleranza verso se stesso e gli altri  più che la molla di un suo orientamento comunista radicale, fertile specie nel panorama della cultura italiana ed europea del secondo Novecento, prima irrigidite dalle contrapposizioni della Guerra fredda e poi acquietatesi nei compromessi della “coesistenza pacifica”.

Isolato da tanti suoi coetanei, più tranquillamente calatisi negli schemi atei, illuministi, marxisti e cattolici (o in soluzioni eclettiche), che la storia dal ’45 in poi ha istituzionalmente offerto, è stato lo stesso Fortini ad esasperare spesso un suo sentimento di esclusione in modi quasi disarmati, come quando in un’intervista per Il messaggero del 7 gennaio 1984, confidò a Renato Minore:

“Pochi giorni fa mi sono trovato di fronte due persone della mia stessa età, fiorentine: una è stata medaglia d’oro della Resistenza; l’altro un vero fascista, molto importante. Queste persone erano cambiate come cambiano tutti negli anni. E io mi sono trovato nello stesso stato d’animo che avevo tra il ’38 e il ’41. Ho avuto un attacco d’angoscia, ero uno che si sente ancora escluso...” (Fortini, Un dialogo ininterrotto, pag 344).

Ma, evitando sintesi e sublimazioni, Fortini ha avuto il merito di affermare verità lucide e radicali su questioni (le sue “questioni di frontiera”!)  cruciali ma di solito ipocritamente stemperate dell’ebraismo, del protestantesimo, dell’antifascismo, della resistenza. E la sua verifica dei poteri è stata continua e rigorosa negli anni (non solo il titolo di un suo libro del 1965). Poche “trascendenze”, insomma, appaiono, come la sua, tanto calate  nella materialità degli eventi storici e capaci di non appiattirla positivisticamente.

La formula della “compresenza conflittuale di storia e trascendenza” se non resta un’astrazione, ma aiuta ad  indagare le prese di posizione concrete, sempre chiarificatrici, di Fortini di fronte agli eventi quotidiani e storici e, nel nostro caso, di fronte alla guerra e alla pace, può, dunque, essere accettata. Fortini non ha mai smesso, infatti, di misurare il proprio sentire, la sua fede cristiana e la sua borghese “coscienza infelice” con il dramma storico e materiale, senza farne un alibi.

E perciò non “ha elevato in tutta la sua opera un altare di lugubre e tormentosa devozione barocca alle idee di guerra, guerra di classe, antagonismo, conflitto, contraddizione”  come scrisse Berardinelli, in Stili dell’estremismo (Diario 10 1993), iniziando, con un infelice autodafé, una revisione riduttiva non solo della figura di Fortini, ma della stessa formula di cui stiamo parlando, coniata tra l’altro dallo stesso Berardinelli. Quel suo saggio affronta temi psiconalitici interessanti da indagare (come aveva già fatto Remo Pagnanelli in Fortini), ma scolla completamente il fondamento psichico  della biografia e dell’immaginario di Fortini  dalla  storia sociale e politica del Novecento.

Eppure il costante ripudio della guerra (altro che “devozione barocca” ad essa!) da parte di Fortini non pare affatto originato da voglia di un interiore quieto vivere né da pulsioni inconsce di cui sia impossibile cogliere le radici storiche. L’inconscio di Fortini, per dirla con Jameson, è politico e   le metafore, che il poeta vi attinge e che Berardinelli giudica “ossessive”, si precisano meglio proprio alla luce di fatti reali e storici.

Una tale rimozione della realtà della violenza nella storia, ridotta da Berardinelli ad immaginario quasi privato poteva aver breve credito, assieme alle teorie della “società trasparente” e di un nuovo ordine imperiale pacificato e quasi augusteo, soltanto all’indomani della caduta del Muro di Berlino del 1989 e dell’implosione dell’ex Unione sovietica.

Ma tutto il “secolo breve” e il ritorno, nel suo scorcio, della guerra come mezzo normale di soluzione dei conflitti internazionali o come risposta ottusa ad oscuri terrorismi, smentiscono l’ottimismo frettoloso di una variegata generazione, comprendente sia Berardinelli  sia il Revelli di Oltre il Novecento e, per certa fiducia in una postmodernità imperiale dai tratti esageratamente progressisti, anche Negri e Hardt.

 Il vecchio Fortini, con la sua  inquietudine mai conciliata e la sua attenzione alla storia e per la volontà di tenere assieme le radicalità di due tradizioni (la cristiana e la marxiana), non ha sottovalutato l’aspetto tragico presente anche nella possibile (“il socialismo non è inevitabile”!) rivoluzione  socialista.

La guerra nel tempo della pace: Fortini e il Vietnam Il tema della guerra ritorna incessantemente in numerose poesie scritte da Fortini negli anni successivi alla Liberazione, quelli “di pace”, del “boom economico” e della falsa “coesistenza pacifica”.

Provando a scegliere dall’indice di Una volta per sempre (ediz. 1978, che raccoglie le poesie di Fortini fino al 1973) solo i componimenti in cui il tema della guerra è più esplicitamente trattato, troviamo l’attenzione al nemico che muore nel pieno della liberazione di Parigi (Quel giovane tedesco, pag. 75), alle stragi (Sono morti ormai,  pag. 126),  alle “notizie divine della guerra” (Science  fiction,  pag. 139), alla confusione e all’ansia dell’8 settembre del ‘43 (Una sera di settembre), alla tragedia  del corpo di spedizione italiano in Russia (Ai nostri caduti in Russia, pag 150).

Col tempo nelle poesie le tracce della guerra  sembrano diradarsi (Dalla mia finestra  pag. 215). Ma essa non è scomparsa, avviene  lontano ed è comunque spiata dalla gabbia della routine quotidiana occidentale (Primo riassunto, pag. 226) o attraverso  notizie filtrate da una sensibilità solitaria, che interiorizza senza false mediazioni partitiche  lo scontro politico altrove ancora armato (4 novembre 1956, pag 230).

La guerra è sottofondo che persiste,  ora in sordina ora minaccioso. Anche in un presente che concede  al poeta la confidenza amorosa e nostalgica (1944-1947 pag. 241) o  in qualche fugace immagine  di gioia, non casualmente legata alla figura femminile (Alla stazione di Minsk,  pag. 245). Per tornare ad essere rivissuta come incubo gelido e mortuario (La linea del fuoco,  pag. 275), attraverso la lettura delle pagine di scrittori amati (Dopo una strage da Lu Hsun, pag 285) o in incontri quasi onirici con una sorta di alter ego fantasmatico (Ricordo di Borsieri, pag 310).

Negli anni Sessanta, dunque, la guerra è in Italia e in Europa un ricordo sempre più rimosso. Si è trasferita nei paesi del Terzo Mondo. Là solo è tragedia quotidiana. Qui è oggetto di controversie politiche o  notizia da manipolare. Essa ridiventa però un punto di alto di contesa politica internazionale con l’aggressione americana al Vietnam.

       Fortini, intervenendo ad una manifestazione per la libertà del Vietnam, tenuta in Piazza Strozzi a Firenze il 23 aprile 1967, prova a scalfire la rimozione collettiva. Il marxismo gli mostra che la vicenda del Vietnam è “una metafora dei conflitti di classe nazionali” e  che un filo stringe quella  guerra lontana alla pace opulenta e falsa dell’Occidente: una medesima violenza di classe si esercita in Vietnam  nella forma della guerra e in Occidente nelle forme dello sfruttamento capitalistico del lavoro.

            Con un breve comizio in dodici punti ribalta l’opinione, prevalente  anche nella Sinistra, che i Vietnamiti  fossero delle vittime e che la “coesistenza” inaugurata dal rapporto di Kruscev fosse davvero “pacifica”. Paradossalmente a trovarsi in una situazione migliore sono proprio i vietnamiti, che almeno lottano apertamente, rischiando la morte, contro l’aggressione americana, e non gli italiani che hanno  accettato la servitù dagli Usa.

     I punti sono trattati con un massimo di assertività;  e più tardi, ritornando anche sugli aspetti formali del comizio, dirà che aveva voluto costruire l’intervento “in forma modulare con variazioni su di un numero definito e ricorrente di frasi” (in forma ampia il ricordo del 1971 è trattato in Memorie per dopo domani, Quaderni di Barbablù Siena 1984).

Quel comizio è rievocato anche nei suoi risvolti politici in un’intervista a “La stampa” del 13 sett. 91:

“Una piazza di Firenze nell’aprile del ’67, dove si tiene una manifestazione per il Vietnam, con Lelio Basso e Giorgio La Pira tornati dall’Asia. C’era un’aria di melassa, con tutti gli interventi ufficiali. Ma era avvenuto il colpo di Stato dei colonnelli greci e a Berlino uno studente era stato ferito dalla polizia. I gruppi maoisti cominciarono a contestare. Io ho letto il mio testo, concepito come testo letterario, ma che ha avuto un effetto opposto. Voglio rileggerne qualche passo. “Sul Vietnam non ci si unisce. Sul Vietnam ci si divide”. “Tra Usa e Vietnam non è solo un film dell’orrore: è un conflitto fra due classi di uomini”. “Non basta dire americani a casa: perché gli Usa se ne vadano dall’Asia devono sapere di avere popoli nemici in Europa”. Claudio Petruccioli, su  Rinascita parlò delle mie “locuzioni deliranti”. In perfetta continuità con la vera tradizione stalinista del Pci, che era l’opposizione a qualunque forma di sovversione marxista, o non, che non passasse per i corpi istituzionali”

Nell’intervista non sfugge alla domanda provocatoria del giornalista, che gli chiede se quel discorso lo riscriverebbe tale e quale dopo i massacri di Pol Pot in Cambogia. Fortini chiarisce che no, non riscriverebbe negli stessi termini quel discorso:

“Certo che no. Assolutamente oggi non lo riscriverei così. Tuttavia, attenzione, non per Pol Pot, per la Cambogia, per le altre cose tremende che sappiamo. Neppure perché è venuto meno il comunismo sovietico. Ma perché è caduta l’altra grande ipotesi antimperialista: quella di un accerchiamento delle città da parte delle campagne, dei paesi sviluppati da parte dei sottosviluppati. È venuto meno, cioè, il mito della Cina. I sottosviluppati si sono trasformati anch’essi in consumatori. Il grado di unificazione del mercato mondiale è incomparabilmente superiore a quello che prevedevamo” ( Fortini, Un dialogo ininterrotto, p.622).

Non dobbiamo ridurci, sembra dire implicitamente, a ragionieri dell’orrore, né a scegliere il regime  in cui l’orrore è minore o meno appariscente (l’orrore americano al posto di quello vietnamita o sovietico o cinese?). Dobbiamo scegliere ipotesi politiche che mirano alla libertà e a conflitti più alti fra gli uomini contro ipotesi politiche che vogliono conservare privilegi antichi e moderni e abolire ogni conflitto. Questo è il senso della sua risposta, in aperto contrasto con l’”aritmetica dell’orrore” che purtroppo, sulla scia del revisionismo storico, si è imposta in questi nostri anni recenti (e di cui il “Libro nero del comunismo” è un esempio).

Secondo intervallo: il professore marxista e i “nipoti felici di verità tranquille” degli anni Sessanta Fortini cala spesso in poesia gli eventi storici da lui vissuti. In una poesia intitolata Vietnam, italiano e storia. 1966 (in  L’ospite ingrato primo e secondo, pag. 126) il presente – che vede la resistenza del Vietnam, il poeta che la segue attraverso le immagini televisive, facendo l’insegnante e chiedendo “un filo di consenso alle orde/ dei nipoti felici di verità tranquille” – è raccordato al passato: “Ricorda il Trentacinque le rose del liceo/ il professor Ugolini che non aveva la tessera.”

Il professore Ugolini di questa poesia sembra un autoritratto per interposta persona o comunque un’immagine di fermezza morale paterna e solitaria. E può  far riflettere un riscontro empirico, raccolto a distanza di tempo, all’indomani della morte dello scrittore. Esso chiarisce a sufficienza quanto fosse arduo recepire la sua pedagogia non neutra, da professore di lettere marxista, da parte di studenti degli anni Sessanta, che pur si risvegliarono nel ’68 dal loro torpore.

Trascrivo perciò alcuni brani della testimonianza-ricordo di un ex studente di  Fortini, Franco Romanò. Essa combacia quasi perfettamente con la situazione delineata nella poesia Vietnam, italiano e storia. 1966 e ci dà,  per così dire, il punto di vista dei «nipoti felici» di quegli anni:

“Conobbi Franco Fortini nel lontano 1965. Ero iscritto all’ultimo anno di ragioneria al Mosè Bianchi di Monza e lui era il nostro professore di lettere. Quando entrò in classe il primo giorno, lo sguardo era serio e severo; aveva una brutta borsa di pelle, identica a quella che gli avrei visto portare venti anni dopo. La mise sulla cattedra e poi, invece di sedersi, scese dal predellino e stando in piedi davanti a noi, ci guardò un po’ e poi iniziò un discorso che per quegli anni si può senz’altro definire memorabile:

“Mi chiamo Franco Lattes, sono di origine ebraica, durante la guerra fui costretto a riparare in Svizzera, tornai a Firenze con la liberazione. Poiché io voglio che ci si conosca bene senza sotterfugi vi dirò che sono marxista, sono stato iscritto al Partito socialista ma oggi non lo sono più, sono un poeta e uno scrittore, mi occupo di letteratura ma conosco anche l’industria. Ho stimato molto un grande industriale italiano, Adriano Olivetti, ho lavorato in quell’azienda, fui io a dare il nome alla prima macchina da scrivere, la lettera elle: il nome lexicon lo suggerii io.”

Dopo aver detto questo si sedette tranquillamente in cattedra. Tutti noi eravamo allibiti, ci lanciavamo occhiate perplesse, interrogative [....]

Altre volte si sedeva in cattedra e non parlava, se ne stava cupo e raccolto in sé; sapevamo, allora, che era successo qualcosa di grave nel mondo, da qualche parte. Fu così, per esempio, quando fu giustiziato da Franco l’anarchico Grimau; a Milano il giorno prima c’era stata una manifestazione credo anche con scontri, lui vi aveva partecipato. In questi casi al silenzio di una  decina di minuti seguiva una rapida spiegazione dei motivi della sua indignazione, poi la lezione cominciava” (in Testimonianze per Franco Fortini, Cologno Monzese 1966)


La contraddizione nelle proprie radici: Fortini e la guerra dei Sei giorni (1967)  Nel giugno 1967 le truppe israeliane e quelle egiziane si scontrarono nel deserto del Sinai; e in Italia e in altri paesi occidentali l’opinione pubblica si schierò subito con Israele, accettando la versione  che la guerra era stata una  risposta ad un’aggressione araba.

Fortini scrisse in quell’occasione I cani del Sinai. Il titolo  del libro derivava da un inesistente proverbio arabo: “Fare i cani del Sinai”, un’espressione che significa “correre in aiuto al vincitore”, “stare dalla parte dei padroni”, “esibire nobili sentimenti”.

Si tratta di un saggio composto di note politiche a caldo sugli eventi di quell’anno in aperta polemica verso i simpatizzanti dello Stato d’Israele, e di un austero resoconto autobiografico sulle proprie ascendenze di ebreo italiano, nel quale si sofferma su vicende di parenti e sulla sua stessa storia familiare e personale (i rapporti con i valdesi, la sua conversione).

 I cani del Sinai sottolinea che, con quella guerra contro gli arabi, “ebraismo, antifascismo, resistenza e socialismo”, fino ad allora pensabili come  “realtà contigue”, non lo sono più.  La guerra ancora una volta ha stravolto l’identità culturale del paese che la fa. Israele  è diventata altro da quello in cui si era sperato al momento della sua fondazione. È ora complice e punta avanzata in Medio Oriente dell’imperialismo statunintense.   E, quando la guerra dei  Sei giorni è diventata notizia, la sua manipolazione e  la sua sterilizzazione a chiacchiera da salotto è talmente imponente che gli stessi amici ebrei di Fortini,socialisti e comunisti, si mostrano sconcertati, indulgenti verso Israele e restii a prendere atto del cambiamento avvenuto. Solo lui insiste, isolato e malvisto, a trovare intollerabili le accuse rivolte agli arabi con argomentazioni – scrive – che trent’anni prima  erano state  usate dai nazisti contro gli ebrei. E mostrerà anche in seguito amicizia e solidarietà attiva verso i palestinesi, come provano le sue accorate riflessioni di un viaggio in Israele del 1989, raccolte in Un luogo sacro di Extrema ratio.

In un’intervista di Gad Lerner  del 1982 a Radio popolare (L’ospite ingrato, 2, 2003), che aveva come sfondo le stragi  israeliane in Libano di quell’anno (Sabra e Chatila, operazione “Pace in Galilea”), ritornano, filtrati dalla memoria e dalla meditazione su tante altre sconfitte, i temi politici de I cani del Sinai: la critica all’opinione democratica e colta, schierata comunque con Israele (“si pensa che gli israeliani esagerano; ma in sostanza, nel profondo, si pensa che sia meglio, possibilmente, cancellare i palestinesi”), quella alla funzione de-realizzante della comunicazione massmediale (“l’occhio dei mass-media è un occhio incaricato di non far vedere, quello che fa vedere viene  nello stesso tempo assorbito e annullato”), la presa d’atto che l’immensa tradizione culturale ebraica è ormai esaurita e che la storia e le vicende dello Stato di Israele nulla hanno più a che fare con essa.

Lerner vorrebbe vedere nel conflitto in Israele una “nuova grande ondata di irrazionalismo”. Ma Fortini gli ricorda che  esistono due razionalità, una cosciente, una meno cosciente, “ma che non per questo è meno razionale, e cioè meno adeguata ai fini che si vogliono raggiungere”.

 Per lui la classe dirigente israeliana strumentalizza le minoranze religiose estremiste, abbastanza esigue in Israele su una popolazione sostanzialmente laica e spesso atea. E respinge pure la tendenza, che in quegli anni di “crisi della ragione” si faceva strada da noi, ad abbandonare ogni lettura degli eventi storici basata sulla descrizione dello stato dei rapporti socio-economici; il che – aggiunge – “costituisce la riprova di una condizione di guerra: come quando nella guerra contro l’hitlerismo e il fascismo vi fu un momento in cui l’interpretazione canonica di tipo marxista venne omessa completamente […] per sottolineare la figura del cattivo, del non-uomo, del mostro”.

Terzo intervallo: la “regola del morto-vivo” in arte Anche se non si sofferma su una propria opera, ma sulla versione cinematografica del libro,  il film Fortini/cani, girato da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet nel 1976, in cui lo scrittore  legge  brani del suo stesso libro, la Nota 1978  all’edizione in francese de I cani del Sinai torna utile per chiarire come Fortini passa dalla riflessione politico-autobiografica su un evento storico  alla sua resa artistica (o più in generale alla poesia).

Siamo in tutt’altro clima rispetto a Foglio di via. Lì scelte linguistiche e stilistiche  tendenti al realismo. Qui, invece,  i fatti  trattati nel libro del ’67, pur giudicati indispensabili (“in loro assenza non si fa nulla”)   vengono allontanati e sono affrontati  come fossero spoglie che hanno perduto ogni passione  e immediatezza. La polemica politica ha ceduto il passo alla meditazione: “Fra qualche anno”, egli afferma, “nessuno comprenderà più che cosa sono stati la guerra in Vietnam e il conflitto arabo-israeliano”.

Gli eventi storici vengono guardati “come beni perduti per sempre e non a noi  destinati”. Ora interessano soprattutto “le lacune del reale” o “un reale senza fantasmi di consolazione”, senza lirismo e senza autobiografia.  Perciò sottolinea: quando nel film parlo di “realtà”, la mia voce si fa stridula, è “soverchiata dall’assenza” di realtà.

Solo così  le parole, dice, diventeranno “cibo di molti”.  È una visione dell’arte (e non solo del cinema, spunto della riflessione in questo caso), che Fortini deriva “da alcuni pochi e assoluti maestri” e si fonda sulla “regola del morto-vivo, dello zombie”. Un’immagine dell’artista che pare quasi modellarsi sul Cristo dell’ultima cena, la cui figura ben si concilia con le regole che qui Fortini sostiene.

Fortini e la prima Guerra del Golfo Sulla Guerra del Golfo del ’90, “operazione di polizia internazionale avallata dall’ONU” subito dopo la caduta del Muro di Berlino dell’anno prima, Fortini scrisse su il manifesto vari articoli.

Lo scritto più elaborato è Otto motivi contro la guerra (9 settembre 1990, ora in  L’ospite ingrato, 2, 2003). È un bilancio epocale dell’atteggiamento tenuto dai marxisti contro la guerra. E viene scritto in una situazione politicamente disastrosa, non dissimile da quella creatasi alla vigilia della Prima guerra mondiale: la maggioranza della Sinistra italiana – portavoce più autorevole Bobbio – è per la “guerra giusta” contro l’Irak di Saddam. L’unica debole opposizione è morale e proviene soprattutto dagli ambienti cattolici.

Il disastro è riconosciuto. A questo punto della storia del Novecento, che ha visto sconfitte le guerriglie terzomondiste e  il crollo della stessa Cina di Mao, Fortini ritiene davvero esaurite le risposte elaborate dalla tradizione socialista, che si aspettava il cambiamento dei rapporti di forza fra gli uomini dal lento evolvere dei meccanismi, e da quella comunista, per la quale la modificazione sarebbe avvenuta per via di coscienza ed organizzazione. E lo dice  nei suoi consueti modi drastici e senza rinunciare a testimoniare anche l’impotenza della sua generazione:

“Quello che è  crollato non è soltanto l’impresa comunista, l’Est, il muro: ciò che è crollato sono due secoli di cultura occidentale. Ciò che è stato demolito non è il comunismo, casomai è il comunismo come parte dell’eredità dell’illuminismo […] Al momento del “crollo” (partiti comunisti ufficiali, muro, Urss) e della “apocalisse”, ossia del discoprimento di ciò che avremmo dovuto vedere anche prima (guerra del Golfo, mutamento delle procedure internazionali) i ventenni andarono in cerca degli ultrasessanteni per farsi spiegare che cosa fosse successo. E abbastanza rapidamente, noi vecchi abbiamo esaurita la sequela delle spiegazioni e dei ricordi, perché il mondo era troppo mutato sotto i nostri medesimi occhi [...] Certo il marxismo di “Quaderni rossi” di trent’anni fa può aiutarci a capire il Giappone, la Corea, il Brasile, la ex Urss e gli stessi Usa, meglio dello pseudolaburismo [...] Ma in queste materie non basta capire [...] Bisogna avere tempo e forza di agire [...]  C’è stata una frattura, un mutamento dei codici [...] e siamo entrati in una situazione mondiale di autodistruzione, dei corpi e degli spiriti, degli equilibri fisici e mentali che unifica il pianeta” (Fortini, Un dialogo ininterrotto, pp. 709-711).

 Che fare, allora, contro questa guerra? I mutamenti indotti dalla superiorità tecnologica e militare degli Stati Uniti hanno svuotato l’indicazione leniniana: trasformare la guerra imperialistica in guerra civile è possibile, sottolinea Fortini,  “solo al di sotto di un certo livello di tecnologia degli armamenti”, ampiamente superato oggi.  E, commentando  il verso di una canzone anarchica (“La pace fra gli oppressi, la guerra agli oppressori”), lo aggiorna: quella pace non è più esente da contraddizioni e conflitti fra gli stessi oppressi e “quella guerra non è necessariamente da combattersi con le armi”.

Non siamo però, come potrebbe sembrare, all’accettazione del pacifismo o della non-violenza. Da marxista, Fortini al pacifismo continua a rimproverare una disattenzione verso “gli effetti distruttivi del modo presente di produrre e consumare” e la svalutazione della “mediazione politica”.

Il pacifismo, scrive, “non mi persuadeva allora [si riferisce agli anni  ‘50] né oggi” e ripubblica come se fosse ritornata attuale una sua lettera a Capitini di quarant’anni prima (1950), alla vigilia della guerra di Corea.

Fin troppo convinto forse che, se una grande confederazione sindacale fosse stata capace di proclamare lo sciopero generale contro la guerra americana, avrebbe avuto il consenso necessario, contrappone la scelta religiosa, morale o filosofica  contro la guerra a quella pratico-politica, per lui indispensabile. Bisogna “uscire dalla morale verso la politica”, scrive, sostituire alla morale dell’intenzione una morale del risultato, scegliere di “combattere politicamente l’impero del mondo”.

 Il bene, dunque, anche in questa situazione catastrofica per la sinistra, non sta nella non-violenza, nel rivendicare una impossibile assenza di conflitto, nel chiedere solo che tacciano le armi. E persino in alcuni passi, dove sembra avvicinarsi a quanti intendono la non-violenza come lotta e non arrendevolezza, ribadisce che la non-violenza può essere presa in considerazione soltanto se è un’arma contro la guerra, magari simbolica come l’Intifada.

L’accento è posto ripetutamente sul valore fecondo del conflitto e sul legame dialettico, anziché di netta separazione, tra conflitto e pace: “senza conflitto non si dà riposo o “pace””. I “facitori di pace” non sono quelli che negano o mistificano i conflitti, ma quelli che “spostano la frontiera degli inevitabili  e fecondi conflitti”. E non smette di  ricordare, contro ogni facile illusione, che il conflitto è sempre un “male” per ottenere un “bene”, il cui raggiungimento però non è garantito.

La sua visione delle cose resta radicale anche in una situazione  in cui non s’intravvede la via d’uscita politica da lui stesso auspicata. Fortini non distoglie la mente dalla tragicità dell’esistenza umana e ripete con altre parole verità scritte già in altra occasione, nel 1985,  ben prima della guerra del Golfo del ’90:

“A me è stato insegnato, e lo insegno, che la vita di ogni uomo, di ogni essere umano è un valore infinito perché è la mia medesima vita, e perché è un progetto, un futuro, una possibilità di tutti. E, nel medesimo tempo e non in contraddizione con questo, mi è stato insegnato, e lo dirò adesso con le parole di Lenin ‘che quando decine di milioni di uomini vengono mandati ad uccidersi sui campi di battaglia per sapere se questo o quel mercato debba appartenere ad un bandito francese o ad un bandito tedesco, può essere necessario sacrificare una generazione, e prima di ogni altro se stessi, nel tentativo di fermare quei massacri e di distruggere quei banditi” ( Fortini, Non solo oggi, p.303)

L’assenza di conflitto non equivale, dunque, alla pace. La storia è conflitto. Compito politico non è sedare i conflitti, ma promuovere quei conflitti che facciano crescere gli uomini e trasformino il nemico prima in avversario e poi in collaboratore necessario e prezioso. E il nemico  che va trasformato oggi è quello “che propone false mete, false coscienze, false solidarietà, false paci”. Questo nemico era nel ’90, più che in passato, rappresentato per lui dagli Stati Uniti (Egli, in altra occasione, li definì un “regime abietto…da quarant’anni nemico del genere umano”).

 La sua critica coinvolge ora anche le posizioni di sinistra che considerano azione politica valida solo quella che si svolga nella metropoli, al “massimo livello di sviluppo produttivo”; e quindi dove la “realtà tecnologica del capitale internazionale che si esprime essenzialmente nella forma che noi chiamiamo americana” si è già affermata.

 Queste posizioni, secondo Fortini, accolgono senza andare per il sottile il “progresso tecnologico con tutte le sue conseguenze anche quelle che si possono prevedere aberranti o pericolosissime”, perché condividono con il nemico una morale “da signori”, basata sull’accettazione della “virile durezza della realtà” e, come i signori, disprezzano quanti nel mondo “non tengono il passo”, rimangono indietro, sono schiacciati dalla macchina” (vivono nella morale “del servo”).

Egli fa i nomi di Tronti, Asor Rosa, Negri e Cacciari e collega questa tendenza al trotzkismo.  Contro di essa scrive un articolo fortemente  polemico (Filoamericani di sinistra: colonizzati  e contentiil manifesto 3 mag. ‘91) respingendo l’illusione di una “superiorità della cultura e della tradizione occidentale”, dannosa e  facilmente, come possiamo vedere, preludio a soluzioni belliche.

Altri interessanti spunti sono sparsi in due recensioni: una a Türke, Nel sottoscala del diritto, la violenza della ragion di stato (il manifesto 21. giu. ‘91), la cui meditazione sulla violenza affrontava la “verità insostenibile del fondamento violento di ogni ordinamento civile”, compreso quello democratico; ed una ad un libro di sociologia delle comunicazioni (Rossella Savarese, Guerre intelligenti) dove  veniva denunciata la complicità inconfessata fra i consumatori e i produttori di informazioni e l’apoteosi del processo di de-realizzazione, che nella guerra del Golfo del ‘90 aveva raggiunto una “limpidezza iperrealista  o postmoderna”.

Ma ci sono anche altri interventi chiarificatori. In particolare ne La guerra in Europa (1993), pubblicato postumo in Jugoslavia perché, Gamberetti, Roma, 1995, ora in L’ospite ingrato, 2, 2003, Fortini  riassume e sembra condividere una serie di tesi  in circolazione  a partire dalla guerra del Golfo: fine delle guerre fra stati sostituite da operazioni di polizia, nascita di un “Impero unico e onnipotente”, svuotamento degli organismi internazionali divenuti agenti dell’unica potenza statunitense, rischi di distruzione fisica ed economica di una “parte anche grande del genere umano”, gestione dei mezzi d’informazione in modo da persuadere “una buona parte del mondo che una guerra del Golfo non c’era mai stata”. Ed arriva ad affermare “la fine tendenziale della nozione di imperialismo” e la costruzione di un potere distruttivo e coercitivo che “non si era mai dato nella storia del genere umano”.

Quarto intervallo: l’”ironia lacrimante” delle Sette canzonette del Golfo      Anche in occasione della prima guerra del Golfo, la riflessione di Fortini sugli avvenimenti è passata in poesia. Ne sono nate Sette canzonette del Golfo, una sezione di Composita solvantur, ultima raccolta edita dal poeta in vita, nel 1994, anno della sua morte. Ne vorrei parlare confrontandole con  la sua prima raccolta, Foglio di via, per cogliere il contrasto fra gli inizi e la conclusione della sua produzione poetica.

Si nota subito che gli elementi elegiaci di Foglio di via, come abbiamo visto, erano immersi in un contesto tragico ma carico di speranze collettive e fraterne, mentre quelli delle Sette canzonette del Golfo trovano intorno una situazione di solitudine e  di  sgomento e Fortini deve affidare all’ironia la sua non rassegnazione e la sua più solitaria speranza.

    Ne Il poeta di nome Fortini, Lenzini ha messo in vista tale contrasto. Una “situazione d’attesa”,  la tendenza alla “coralità”, la presenza esemplare dell’immagine femminile – si tratta di una donna proletaria (A un’operaia milanese), una sorta di “angelo–nunzio della prossima liberazione”, accostabile anche al fanciullesco ladro di ciliegie  di Brecht e alla quale viene attribuita una funzione catartica e salvifica – caratterizzano Foglio di via: “un’umanità nuova” sembra annunciarsi.  Temperie storica e prospettiva “trascendente” si compenetrano. Brecht e Noventa, due degli autori di riferimento di Fortini,  si danno la mano. Tutta al singolare invece, calata in un privato di solitudine carico di sarcasmo, è la vena poetica delle Sette canzonette del Golfo. Assente ogni figura femminile, qui si ironizza amaramente sulla pace del vecchietto, una pace tra l’altro non conquistata, ma concessa dagli dei e che può  allietare solo chi si contenta di poco.

Questa falsa pace, contro la quale il Fortini “terzomondista” mosse tante volte le sue critiche, si consuma mentre “lontano lontano si fanno la guerra» e il «sangue degli altri  si sparge per terra”. Ma ora  questa lontananza sembra insuperabile dagli apatici occidentali: allarmati, essi si succhiano il dito che si sono punti durante qualche faccenduola casalinga, concedendo un pensierino alla guerra che li coinvolge quanto una storia a fumetti.

Una sproporzione abissale si è imposta fra fatti quotidiani e fatti storici. La “derealizzazione” è compiuta. Quel filo rosso che legava negli anni Sessanta la lotta del Vietnam alla possibile lotta di classe in Occidente si è spezzato. Fra socialismo e barbarie sembra abbia vinto proprio quest’ultima.

E la poesia? Essa non soltanto ha perso la benefica figura proletaria dell’operaia di Foglio di via, rimpiazzata dalle immagini scostanti di adolescenti ben nutriti e gaudenti di Aprile torna (“Godono pepsi cola ignude gole”), ma anche il ritmo percussivo e corale della prima raccolta.  Quello qui dominante sembra farsi “ninna-nanna per l’addormentamento, narcosi e ebetudine procurata” (Lenzini).

Come può un poeta ormai isolato, che vive in Occidente, indirettamente complice e beneficiario della “vittoria democratica” armata conquistata in Irak, piangere i morti arabi fatti da Usa e alleati occidentali, se nel suo paese contro le “guerre umanitarie” è venuta meno un’opposizione politica e la maggioranza dei suoi concittadini è favorevole alla “guerra giusta”? La sua poesia ormai non serve neppure come guanciale per i morti (“Potrei sotto il capo dei corpi riversi / posare un mio fitto volume di versi?”).

Vale la pena di notare, per contrasto, che di fronte alla prima guerra del Golfo uno scrittore arabo, sia pur molto “occidentalizzato”, come Ben Jalloun riconosceva ancora un alto valore civile alla poesia. Nel presentare un suo poemetto proprio su quella guerra del ‘90, Dalle ceneri, egli scrisse infatti: “La poesia s’intestardisce a dire. Il poeta grida o sussurra: sa che tacere potrebbe sembrare un delitto, un crimine”. Per Ben Jalloun la poesia, prendendo la parola “per gli insepolti, gli scorticati, gli impiccati, quelli gettati nelle fosse comuni”, ancora serve.

Il confronto non suoni irriverente verso Fortini:  egli fissa lucidamente come si è ridotto  nella gabbia del privato l’uomo occidentale post-comunista in questo fine secolo, qui, da noi. Una poesia epica o una poesia “civile” non ha senso dove l’epos e la civiltà vengono meno. E forse, dai tempi bui che stiamo vivendo, possiamo solo guardare altrove, come  il giovane Fortini guardava a “una folla di sconosciuti fratelli maggiori” nell’Europa sconvolta dal nazismo.

     Le Canzonette del Golfo sono pienamente integrate nei componimenti di Composita solvantur? O svelano sotto la loro ”ironia lacrimante” (l’espressione è di Fortini stesso) elementi più amari e pessimistici rispetto agli Otto motivi contro la guerra visti sopra o, in generale, rispetto alla visione marxista della storia?

L’ultimo Fortini suscita ancora una volta giudizi contrastanti. Luperini, ad esempio,  ha visto nelle Canzonette del Golfo o, più in generale, nella posizione di Fortini su questa guerra un abbandono del suo ottimismo storico sociale e un suo  finale accostamento a motivi ricorrenti e addirittura portanti del discorso di Sebastiano Timpanaro (Luperini, Ricordando Timpanaro, in L’ospite ingrato 2001-2002).

Per Lenzini invece, proprio nel momento più tragico, Fortini è ancora capace  di “ricerca e slancio utopico”, perché il suo pensiero dialettico sa che all’aumento della negatività e dell’oppressione corrisponde sempre lo sviluppo di “altro”.

Edoarda Masi ha ricordato che Fortini (come Lu Xun) ha sempre ironizzato sulla poesia, anche se per lui era in realtà la cosa più importante; e ritiene che  le Canzonette non siano affatto in contraddizione con il suo “proteggete le nostre verità”.

E Composita solvantur, anche secondo il parere di Rossanda, è una  piccola summa del pensiero fortiniano: “è come se avesse voluto tenere assieme una parte delle avanguardie del passato, il meglio del ’68 e il soldato sovietico che, sotto l’avanzata tedesca, grida ai compagni: non possiamo arretrare” (Rossanda, Ospite ingrato 1, pag 169)

Anche per me le Canzonette del Golfo  non sembrano una caduta dell’ultimo Fortini e stanno sullo stesso piano di Composita solvantur . Eppure mi pare che resti il problema d’intendere meglio l’accento in qualche modo diverso non solo  delle Canzonette ma di Composita solvantur rispetto alla precedente produzione. La poesia, anche in questo caso, aggiunge o toglie qualcosa alla prosa.

Non posso che riecheggiare dubbi e impressioni non solo miei e indagare con cautela. Si tratta solo di finzione poetica che, quasi temendo di essersi lasciato troppo andare,  Fortini  in un’appendice autocritica (Considero errore) metta sotto accusa la propria “complicità con avversari e interlocutori” delle Canzonette?

E se davvero la poesia è stata per Fortini la cosa più importante, come trascurare la sua tenacia per tanti anni a «mostrare a dito i limiti della poesia» o dichiarazioni come questa:«Non posso sapere quanto l’esitazione fra i due fantasmi del sé – quello che si rappresenta nell’atto poetico e quello che si figurava in un modo di essere piuttosto che in quello dello scrivere – abbia leso uno dei due o tutti e due» (Memorie per dopo domani, pp. 27-28) ?

A me pare che la coincidenza  fra la malattia che portò alla morte lo scrittore e l’esaurimento della prospettiva comunista in cui aveva lavorato per tutta la sua vita gli imposero quasi contemporaneamente un alt. Composita solvantur mi pare che registri quest’ultima cesura individuale e collettiva assieme: il futuro per la prima volta nella vita di Fortini era da affidare completamente e soltanto ad altri. I progetti che aveva composto per una vita erano minacciati. Non una “svolta”, dunque, non un ripiegamento sul materialismo timpanariano e tantomeno un abbandono nichilistico. Ma neppure più la presenza di un’inalterata “ricerca e slancio utopico” o l’idea della trasfigurazione o della rinascita.

L’inquietudine fortiniana si arrestava. La morte imminente e personale,  sentita più che pensata, mi pare preponderante in tutta la raccolta. Essa disfa le cose composte (dal poeta, dagli uomini in lotta nel tempo storico) e questo scioglimento delle cose personali e collettive va accettato (sopportato). Ma da qui anche l’allarme, la raccomandazione data dal moribondo in punto di morte ai vivi. La sua opera personale è compiuta. Il nuovo ordine sociale è più che mai a venire. Possibile ancora? Impossibile? Non so pronunciarmi. L’appello “proteggete le nostre verità” consegna ai vivi quello che è da salvare, quello che ha contato per l’individuo e per la storia  degli uomini con cui ha vissuto, compresa la verità del comunismo. Ma solo, ancora più drammaticamente, come possibilità.

Concludendo: nella “guerra permanente” a dieci anni dalla morte di Fortini  Nel percorso che abbiamo compiuto abbiamo visto la costanza del ripudio fortiniano della guerra (inconciliabile con l’idea di rivoluzione socialista) e la varietà di toni che esso ha assunto nel tempo: speranzoso e corale nel 1946; assertivo e tendente all’estremo (dire estremista sarebbe una concessione imperdonabile agli avversari di allora e di oggi di Fortini) nel 1967  di fronte all’aggressione americana al Vietnam o a quella israeliana contro gli arabi; allarmato e sempre più amaro nel ’90 davanti alla Guerra del Golfo.

Si delinea così nelle sue opere quasi una parabola che va dalla fine della Seconda guerra mondiale all’attuale precipizio della “guerra permanente”  con in mezzo il picco alto di speranze degli anni Sessanta (Cina,’68-’69).

Dieci anni dopo la morte di Fortini, la nostra rilettura dei suoi testi viene a coincidere con l’acutizzarsi della tragedia di un Medio Oriente sempre più divorato dalle bombe. Gli Usa continuano pervicacemente ad imporre il loro monopolio militare e la guerra “è tornata al centro di uno scenario mondiale che non ha precedenti nella modernità” (Rossanda). Persino i giornalisti più filoamericani avvertono: l’incubo della terza guerra mondiale “è già in corso” (Pirani). E sempre più drammatica è diventata l’assenza di un’opposizione non puramente simbolica alla guerra, mentre  il dibattito politico si è arenato proprio su quelle posizioni  pacifiste, combattute dall’ultimo Fortini. Per lo più, infatti, viene teorizzato il “grande rifiuto della politica”: la politica è “figlia della guerra» ha sostenuto la filosofa Cavarero; è “un fallimentare rimedio al disordine del male” aggiunge Revelli.

Ora chi rileggesse il recente dibattito di LIBERAZIONE, La politica della non-violenza, dovrà ammettere onestamente che alla domanda posta da Ingrao alla sua apertura (“Come si risponde all’aggressione armata? Che cosa si fa contro la violenza armata dell’aggressore?”), le risposte, pur risalenti al ‘90 desumibili dalle posizioni di Fortini, specie dagli Otto motivi contro la guerra sono ancora oggi più lucide e meno elusive di quelle dei tanti intervenuti. (Anche se, personalmente, non mi sento di tacere dei dubbi:  ad esempio, cosa intendere in concreto per “una violenza con altri mezzi e senz’armi” o una “non-violenza eversiva”? In cosa essa si distingue dalla non-violenza attiva, di cui parla almeno una parte dei pacifisti? E ancora: d’accordo sull’”uscire dalla morale verso la politica”, ma oggi in concreto dove e come fare politica? Edoarda Masi, intervenendo su il manifesto, ha negato che la via da imboccare sia quella della politica in senso tradizionale. Bene. Ma il contributo di pensiero innovativo da lei auspicato da quali  soggetti   prevedibilmente potrebbe venire?)

Come mai, allora, tanto silenzio e disinteresse verso questi testi fortiniani e verso posizioni odierne (penso a Rossanda, alla Masi, a Tronti stesso) accostabili a quelle degli Otto motivi contro la guerra ?

 Si dirà che forse è sbagliato chiedere ai testi di Fortini del ’90 o  precedenti delle indicazioni politiche concrete e per una situazione ancora più deteriorata. O che egli non fu un politico puro.  Ma di sicuro in quei testi ci sono antidoti validi contro la cancellazione  della memoria storica di qualsiasi tradizione del comunismo, contro la sua riduzione a pura aspirazione o nostalgia o contro l’annebbiamento ideologico del capitalismo, che sarebbe diventato soltanto un «enorme guazzabuglio» e   si sarebbe «annullato diventando tutto» (Sofri). E anche contro la riduzione della politica a «militarizzazione o ceto politico autoriproducentesi»  (Rossanda).

Dobbiamo sapere che tanto silenzio non è legato a fattori contingenti. Quello calato su di lui è in buona parte lo stesso silenzio che incombe oggi sulle “rovine” del socialismo/comunismo, di cui egli chiese invano negli ultimi anni di vita un “buon uso” da parte della Sinistra italiana.

E proprio perché “lo scandaloso Fortini è così intrecciato con la storia – non solo culturale e non solo italiana – del Novecento” (Bonavita) e la storia del Novecento è stata scossa dai tentativi comunisti, a cui egli legò le sorti della sua persona e delle sue opere, dobbiamo anche sapere che quel silenzio non si romperà, se  non si riporranno in forme nuove e per il momento incognite quei problemi affrontati nelle esperienze comuniste.

Nel frattempo le nostre riletture dell’opera di Fortini dovrebbero evitare le  trappole dell’imbalsamazione o dei dissezionamenti. Non mi pare possibile ritagliare la sua figura dal difficile ripensamento della storia del comunismo.

Qualcuno, però, potrebbe obiettare col cinismo oggi di moda: “Ma dai, Fortini sarà stato comunista, ma il comunismo è morto, quindi anche una parte di Fortini è morta. Salviamo il poeta, il saggista intelligente, il polemista acuto; e lasciamo da parte il suo comunismo, il suo abbaglio, la sua fede. Viva è la sua poesia, come viva ancor oggi è la poesia di Dante.  Morta è la sua ideologia, come morto è il cattolicesimo di Dante”.

Direi  che bisognerà respingere questa semplificazione: troppo essenziale è, a mio avviso, quel legame fra Fortini e la vicenda comunista del Novecento, pur da lui declinata esistenzialmente in modi particolari. Un Fortini poeta e basta, un Fortini senza la sua volontà di essere comunista, da collocare in un contesto modernizzato e ipertecnologico  sarebbe  una decorazione, come lo è stato Dante in epoca moderna.

Meglio, allora, che resti anche lui un marziano: inattuale,  classico, ecc. piuttosto che alloggiato nei loculi predisposti per i “cattivi maestri” su Internet. Se arriveranno dei marziani comunisti, lo riconosceranno e tornerà a parlare.

Ennio Abate 6 settembre 2004

Riflessioni rapsodiche su “Il giardino dell’Eden”

di Franco Romanò

È consueto per il pensiero rivoluzionario immaginare l’utopia rivolgendosi al passato, specialmente quando il presente appare talmente desertificato d’avere almeno apparentemente cancellato tutte le tracce di utopie precedenti possibili. È quello che Walter Benjamin, nelle sue Tesi sulla storia, proponeva di fare in uno dei momenti più tragici per l’Europa alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. Il filosofo tedesco aggiungeva però che occorre andare molto indietro nel tempo per ricercare i semi di una nuova utopia: Spartaco, oppure – citando Flaubert – resuscitare Cartagine. Il motivo, che si intuisce fra le righe di quello scritto così estremo, è che se si rimane troppo prossimi al momento storico che ci tocca di vivere, si rischia di rimanere impigliati, a volte senza rendersene ben conto, nelle code di pratiche politiche ormai esauste.

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Taccuino di un militante di AO. Quattro mesi del 1978

Domani 22 febbraio 2021 alle 17,30, collegandosi su Facebook ( qui) o su Yotube (qui), è possibile seguire la presentazione di “VOLEVAMO CAMBIARE IL MONDO. Storia di Avanguardia Operaia (1968-1977).

di Ennio Abate

Sono stato in Avanguardia Operaia dal 1968 al 1977, cioè fino alla sua scissione. Da allora, in tutti questi anni ho continuato a rimuginare e a scrivere su quella mia militanza politica e sulle vicende degli anni Settanta. Dei numerosi appunti (in forma di diario, di narratorio e di saggio) ho pubblicato finora pochi brani su Poliscritture ma ho sempre colto qualsiasi occasione per tornare su quella storia e confrontarmi con i miei ex compagni di AO. E’ accaduto in particolare nel 2016 sulla pagina FB “Via Vetere al 3”, dove per la prima volta  si affacciò l’idea di una Storia di AO. E quando uno di loro, Luca Visentini, ha pubblicato «Sognavamo cavalli selvaggi», una rielaborazione narrativa della sua esperienza in AO, che ho attentamente recensito (qui).

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Su “La disciplina dell’attenzione”di Roberto Bugliani (2)

di Franco Romanò

La prima suggestione che mi ha colto, leggendo il romanzo di Bugliani, è stata di associarlo a “Sotto il vulcano” di Malcom Lowry, analogia che si è rarefatta durante il prosieguo, ma non del tutto. Diverso il linguaggio, diverso il modo di trattare il rapporto fra narrazione e

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Sì, basta con i (vostri) agguati a chi non si rassegna al “meno peggio”

di Samizdat


A leggere l’appello “Basta con gli agguati”, comparso giorni fa su “il manifesto”, a vedere tra i firmatari non solo nomi di intellettuali rispettabili (come Luigi Ferrajoli) ma anche quelli di vari amici, a leggere su FB certi commenti in sua difesa mi sono cadute le braccia. Epigoni siamo e epigoni resteremo, ho concluso amaramente.

I firmatari si dicono convinti che il governo Conte “abbia operato con apprezzabile prudenza e buonsenso, in condizioni di enormi e inedite difficoltà, anche a causa di una precedente “normalità” che si è rivelata essere parte del problema”; e che non abbia intaccato “la libertà di parola e di pensiero degli italiani e comunque il Governo non è parso abusare degli strumenti emergenziali previsti dalla Costituzione”.

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