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Voci messe a tacere

Nawal al Sa’dawi

di Clara Janés

«E passiamo da queste donne che lottano a viso aperto e dicono ciò che devono dire rischiando la vita, alle più occulte, alle più costrette al silenzio, cioè alle donne afgane con il corpo interamente coperto dal burka, compresi gli occhi, che nonostante tutto si sono espresse in brevi poesie che impressionano per la loro bellezza, la loro incisività e la libertà interiore che riflettono. Sono ovviamente poesie anonime, affidate all’oralità.» (Janés). E perciò  ripubblico oggi questo saggio già comparso sul n. 3 cartaceo di Poliscritture nel novembre 2007 (scaricabile qui)  [E. A.]

Sono ancora tante le voci messe a tacere, voci di donne, voci vincolate alla terra e alla sua ricchezza, e pertanto alla possibilità di dare frutto. Resteranno mute per sempre o come la terra in inverno aspettano il risveglio di primavera? O semplicemente aspettano di raggiungere lo stadio di piena fecondità? Penso ai luoghi in cui non è arrivata la scrittura, alle tribù africane o alla foresta amazzonica… Là quelle voci si manifestano fondamentalmente nel grido, nella ninnananna, nel dolore per la malattia e la morte, ma anche nella preghiera, nella maledizione e nel formulario magico. Non sono mute, tuttavia hanno ancora bisogno di assorbire nutrimento per poter sbocciare. Ci sono altri luoghi nei quali permangono silenziose però convivono con la possibilità di dare frutto, perché la ricchezza del suolo è tale da permetterlo, ma rimane ancora latente. Sono luoghi in cui la società non “oscura” del tutto le donne, però le mantiene appartate, occulte o, perlomeno, differenziate dagli uomini. E lì, mentre la maggior parte di loro sembra rassegnata a tacere, alcune osano svegliarsi: ciò succede anche in paesi nei quali si vieta loro di esprimersi pubblicamente.

Prescindiamo dall’Occidente e limitiamoci alle aree in cui la situazione è incandescente e che presentano enormi contrasti: l’India, i Paesi Arabi, Iran e Afghanistan. Vedremo come si riscontri in questi ambiti geografici sia l’arretratezza che la massima raffinatezza; vedremo come in alcuni, quando la donna giunge a esprimersi, ciò che affiora immediatamente è la questione sociale, mentre in altri è il rapporto tra i sessi; vedremo anche come la poesia si carica di lirismo o di humour, e la prosa si trasforma in arma di denuncia. Eppure, in questi paesi, nonostante gli ostacoli, ci furono fin dalla remota antichità voci femminili sagge e decise.

In India, la donna scrive fin dall’antichità e addirittura fa sfoggio della sua eloquenza nel contesto sociale di cui fa parte. Ciò si riflette nella lirica: infatti nella bella antologia Kuruntokai (dal III sec. a. C. al III d. C.), le poesie, di una bellezza e di una ingenuità incomparabili, sono prevalentemente poste in bocca di donna e riguardano di norma una giovane che, rivolgendosi a una sua amica, dà libero sfogo al lamento per la separazione dal suo fidanzato, che partì in cerca del danaro necessario per sposarsi o per altri motivi connessi con la rigidità delle usanze relative alle nozze.

CIÒ CHE LEI DISSE
        (alla sua amica quando lui rimandò il matrimonio)

 Amica,
sebbene la mia forza
sia venuta meno e la mia verginale bellezza
sia svanita,
sono ancora viva
nella solitudine
                 come le foglie che spuntano durante la pioggia
                 tra le stoppie dei dorati steli del miglio
                 e i pappagalli le mangiano o le distruggono
                 nei campi lungo i declivi.

Non tutte le voci femminili dell’India si esprimono in forme così ingenue e semplici. Nel Mahabharata, epopea scritta più di mille anni prima di Cristo, figura il bel racconto intitolato Savitrì. Dato che nella cultura indù la donna e l’albero si identificano, la giovane Savitrì accoglie in sé tutta la sapienza dei boschi. E chi dice bosco, dice cammino verso la cima, attraversando la “selva oscura”. Lungo questo cammino, l’oscurità non la induce a tornare indietro; la foresta, per lei, diventa luminosa poiché è il luogo della minaccia evidente, della prova e della vittoria. La minaccia è la morte del suo sposo Satiavàn; la vittoria sono le sue parole unite alla sua intelligenza.

Savitrì è l’altra faccia di Orfeo. Se questi con la sua voce dominava fiere e alberi, lei riesce a sottomettere una divinità. Morto Satiavàn, segue Yama, il dio che sta portando via con sé l’anima del suo sposo e con eloquenza gli parla della propria fede e della propria devozione. Passo dopo passo, si addentra sempre più in terreni separati dalla vita. Quattro volte il dio la esorta a lasciar perdere, e le fa anche un regalo, ma lei continua ad avvicinarsi al luogo fatale. Infine il dio, sedotto dal suo parlare, le concede la vita del suo sposo. Ad ogni argomentazione eloquente di lei, Yama risponde con espressioni come questa: “Gioia del cuore, stimolo di sapienza, spirito di bontà sono le tue parole”, e alla fine esclama: “O donna devota al proprio sposo, chiedimi una grazia incomparabile!”. Così Savitrì ottiene che Satiavàn ritorni in vita. Dunque, va più in là di Orfeo, forse perché vive il suo amore come una forma di devozione.

L’India, che ha preceduto le altre civiltà in quasi tutto – basti ricordare la scoperta dello zero – le ha precedute anche nel creare l’immagine della donna intelligente e retta. Questo personaggio femminile è un chiaro precursore – ma lo supera anche – di quello di Porzia, la protagonista di Il mercante di Venezia di Shakespeare, la dama che grazie al suo modo di argomentare salva la vita del suo amato. Nelle terre del Gange, dunque, le donne potevano pur bisbigliare qualcosa, anche se, fin dai tempi antichi, la realtà per loro era dura: si bruciava la vedova sulla pira del marito, la donna abbandonata dal marito non poteva risposarsi ed era costretta a una vita emarginata e senza diritti. Di una realtà non molto migliore di questa le donne sono vittime ancora oggi, anche se è in corso un processo di emancipazione. Il quale, nonostante la persistenza dell’analfabetismo e la mancanza di un contesto sociale adeguato, consente che ci siano delle artiste pubblicamente riconosciute, come la cineasta Depa Metha, la poetessa Sujata Bhatt o la romanziera Anita Nair. Consapevoli che la lotta deve proseguire ora più che mai, le scrittrici indiane mostrano un volto impegnato, da quello combattivo di Savita Singh, a quello di Surekah Vih teso alla difesa della libertà personale. Savita Singh si lancia nella lotta con grande finezza.

SENZA ÀNCORA NÉ VINCOLO

 Il vento rifiniva un’idea
nella testa di un uccello
che si era appena fatto il nido.
Era venuto a dirmi anche
che io sono soltanto un frutto del tempo
e che non sono nessuno per pensare alla mia trascendenza.
La tristezza che senza sosta gocciola nel mio intimo
da un rubinetto ossidato e inarrestabile,
è anche una apertura alla creazione malinconica.

Sul far della notte,
l’uccello era ben insediato nella sua casetta,
mi aveva lasciato a vagare
per il largo mondo,
senza àncora né vincolo.

Sono donne colte le scrittrici indiane di oggi, e hanno anche il vantaggio di possedere bene l’inglese oltre alle rispettive lingue materne, la qual cosa consente loro l’accesso – per partita doppia, dare e avere – alla cultura universale.

È particolarmente interessante la visione piena di humour di Sujata Bhatt. Trascorsa l’infanzia nel suo paese natale, studiò negli Stati Uniti e attualmente vive in Germania. Nella poesia che segue sembra sorridere di alcuni aspetti della vita indiana:

IL VIROLOGO
             a mio padre 

A diciassette anni arrivò a Benares
per studiare medicina ayurvedica.
La prima cosa che fece fu bagnarsi nel Gange
esaudendo i desideri di sua madre.
Poi si sentì sporco
tornò nella sua stanza
e fece un altro bagno.
Quella sera scrisse una lettera
a sua madre – deluso
che mettere il piede nel fiume sacro
non lo avesse fatto sentire più puro.
Doveva esserci qualcosa d’altro – senza dubbio.

Spostiamoci ora all’Ovest e vediamo come nei Paesi Arabi succeda qualcosa di simile, ma con sfumature differenti, come il sesso vi occupi una posizione importante e come la lotta della donna si attui in maniera diretta attraverso la prosa. Anche in questi paesi le donne scrivevano fin dai tempi antichi, fin dalla prima epoca dell’Islam, però a scrivere erano soprattutto le principesse o le animatrici delle feste (feste per uomini, ovviamente), ossia mescitrici o cantatrici, come alcune delle poetesse arabo-andaluse. La libertà con cui si esprimevano continua a sorprenderci, sebbene si debba tenere presente che le storie di Le mille e una notte, così piene di erotismo (le più antiche delle quali risalgono al secolo X), facevano parte della loro tradizione e figuravano narrate da una donna. Nel secolo XI Muhya al-Qurtubiyya, di umili origini, protetta ed educata dalla principessa Wallada, si lanciò a satirizzare la sua signora – chissà per quale motivo – con la stessa incisività con la quale la principessa satirizzava il suo amante, il poeta Ibn Zaydùn.

Muhya scriveva così:

Wallada ha partorito e non ha marito,
si è svelato il segreto,
ha imitato Maria,
ma la palma che la Madonna scuoteva
nel caso di Wallada è un pene eretto.

E ora vediamo quanto è simile nel tono questa poesia di Wallada:

CONTRO IBN ZAYDÙN

 Il tuo soprannome è l’esagono, un epiteto
che non si staccherà da te
neanche dopo che la vita ti avrà lasciato:
pederasta, checca, adultero,
bastardo, cornuto e ladro.

Non è facile intendere come mai nel mondo arabo, nonostante la sua cultura, esistano certe differenze, vedendo che, parallelamente a una immensa maggioranza di donne nascoste e quasi mute, vivono poetesse assai notevoli, vere pietre miliari nella modernizzazione della loro letteratura, come l’irachena Nazik al-Malaika o la palestinese Fadwa Tucàn, autrice di una straordinaria poesia di lotta. Costei, nata in Nablùs, fin da giovane si sentiva calpestata dalla storia, e venne incubando una voce che si sarebbe innalzata profonda e lacerante:

[…] quando passa una brezza su cinquanta corde,
quali cinquanta sanguinanti melodie!
Come poté la cisterna di sangue diventare stelle e alberi?

[…]

Ahimè, spiga nel petto dei campi!
Il tuo cantore dice ancora:
se sapessi il segreto dell’albero!
Se seppellissi tutte le parole già morte!
Se avessi la forza della tomba silenziosa!
– oh, mano di vergogna che pizzica queste cinquanta corde! –
Se scrivessi la mia storia
con la falce,
e la mia vita con la scure…

Questa eccellenza creativa convive con la più terribile arretratezza sociale. È sconcertante la diffusione progressiva dell’Islam rigorista: in Egitto, per esempio, in dieci anni si è passati da un 10% al 90% di donne che portano il velo. Ciò va posto in relazione con l’immobilismo sociale. In questi paesi alcune donne, poche, parlano anche per le tante che non parlano. Ne abbiamo esempi stupefacenti in scrittrici come Fatima Mernissi in Marocco, Assia Djebar in Algeria, o Nawal Al Sa’dawi in Egitto.

Fatima Mernissi, che condivise il Premio Príncipe de Asturias con un’altra lottatrice, l’americana Susan Sontag, è autrice di numerosi libri, però le basterebbe aver scritto Marocco attraverso le sue donne per occupare il posto che occupa nella letteratura di protesta. Storica e sociologa, afferma che il problema della condizione della donna in Marocco è più politico che religioso, e nel libro citato risponde, mediante una serie di interviste, alle seguenti domande: “Che tipo di donna si nasconde dietro il velo?”; “Come vive la donna che, abbandonata la tradizione degli avi, si azzarda a mostrare il viso?”. Nelle sue pagine si ritrova “il reale in presa diretta”. E il reale, in questo caso, è l’imposizione del silenzio mediante l’ignoranza e la costrizione religiosa, e ciò avviene in maniera così brutale che spaventa.

I problemi che le donne intervistate hanno dovuto affrontare fin da piccole (molte hanno cominciato a lavorare a 5 o 6 anni, strappate alla famiglia e al luogo natio) ruotano intorno a due punti principali: uno è in relazione con il sesso, l’altro con il mondo esterno. E vanno dalla lotta per liberarsi di un matrimonio imposto nell’infanzia alla necessità di lavorare, sia pure in condizioni degradanti, per liberarsi della miseria.

Per quanto riguarda il rapporto di queste donne con l’uomo, la posizione sociale è un fattore molto importante, poiché le situa su livelli diversificati rispetto agli abusi del sesso maschile. Per esempio, una donna chiamata Merien confessa: “Cominciai a informarmi sui mezzi per abortire e me li applicai tutti uno dopo l’altro. Uno dei primi consisteva nel bere il succo di sei limoni con una cucchiaiata di pepe forte”. Un’altra evidenza che risulta dalle pagine di Fatima Mernissi è l’ansia delle giovani marocchine di istruirsi, per liberarsi dalla dipendenza famigliare.

Letterariamente sono molto interessanti le opere dell’algerina Assia Djebar e della egiziana Nawal al Sa’dawi. La prima, di educazione francese, è autrice di intelligenti romanzi nei quali sempre si riflette la condizione della donna e la condizione storica del suo paese. Due di essi, L’amore, la fantasia e Ombra sultana, sono imperniati sulla dualità: il primo alterna un evento storico con uno attuale; il secondo propone due personaggi femminili che rappresentano due diversi stadi della evoluzione culturale. Assia Djebar, che è anche cineasta, rende visiva la sua narrazione come se la pagina fosse uno schermo. Leggendo L’amore, la fantasia si ha l’impressione di vedere le immagini concrete di una tribù massacrata nelle grotte di El Kantara nel 1830, la guerriglia di un secolo dopo, la fidanzata di Ben Kadruma esposta come un idolo carica di gioielli, la danza catartica di una vecchia, il gesto di una donna che riscalda con le mani i piedi di una bambina; mentre in Ombra sultana, l’”Ombra” ci impressiona, è una donna oscura che si rintana in una caverna dove si conservano tutti gli echi, è depositaria della vita ancestrale, si prende cura di bambini piccoli sempre attaccati alla sua gonna, non conosce altro che sottomissione o castigo, e va in giro sempre velata. L’altra, invece, la emancipata, la “Sultana”, se la gode, fa l’amore e fa della sua vita una danza multicolore piena di riflessi felici, sebbene alla fin fine questi risultino essere solo dei miraggi.

Assia Djebar ottenne il Premio della Pace della Fiera del libro di Francoforte nel 2002. In Ombra sultana racconta così il primo rapporto matrimoniale:

Lo stupro: non è questo uno stupro? La gente dice che è tuo marito, tua madre dice: “il tuo padrone, il tuo signore”… Lotti nel letto scoprendo di avere un vigore che non ti conoscevi. Il suo petto ti schiaccia. Ti divincoli, cerchi di toglierti da sotto il suo peso, ti irrigidisci sempre più – braccia spasmodicamente strette al petto – dentro l’abbraccio. […] Chiudi gli occhi, la conclusione si avvicina, ricominci la resistenza. […] Si avvicina il momento in cui dovrai naufragare. Chiudere occhi, orecchie e il fondo del cuore. Colare a picco.

– Non avere paura, piccola! – lui snocciola parole incomprensibili.
È necessario cedere? No, ricordati delle strade, si prolungano in te sotto un sole che ha disperso le nubi […] e così rivedi lo spazio esterno in cui si svolge la tua vita di tutti i giorni. Quando il fallo dell’uomo ti lacera, spada rapida, gridi nel silenzio, nel tuo silenzio: “No! No!” Lotti, lui ti colpisce, cerchi di ritornare in superficie. “Lasciati andare!” sussurra la voce nella tua tempia.
Il fallo continua la sua azione, e la bruciatura si ravviva nell’oscurità che va uccidendo in te le immagini della difesa. Non percepisci altro che uno sciacquio. Il maschio si è staccato, e le tue gambe giacciono inerti.[…] L’uomo è scomparso nel bagno. Quando ritorna ti tira un asciugamano, che rimane sulle tue gambe macchiate.
Vede le mie gambe. E vede il mio sangue. Ha comprato questo diritto..

Di queste tre scrittrici arabe la più impegnata, e anche la più perseguitata, è Nawal al Sa’dawi. Medico, autrice di più di 30 libri, studiosa dei problemi della donna da tutti i punti di vista, cominciò la sua carriera letteraria con Il volto nascosto della donna araba, in cui esponeva alcuni dei casi di cui, come psichiatra e medico di campagna, si era occupata, e rivelava avvelenamenti rituali, aborti, escissioni del clitoride ecc. Lottò contro la povertà, la discriminazione, fu incarcerata, visse in esilio, fu processata per apostasia, e non ha mai cessato di denunciare lucidamente l’ingiustizia, il dolore e la solitudine vissuti dalle donne nei paesi islamici, né di individuare le radici di questa situazione (come faceva Fatima Mernissi) che secondo lei sono più politiche che religiose.

Riuscì a diventare Direttrice Generale della Sanità in Egitto, però poi fu rimossa e incarcerata da Sadat. Fu anche direttrice della Associazione per la solidarietà con la donna araba, che ha un ruolo consultivo presso l’ONU. Inoltre è una grande scrittrice, come provano i suoi romanzi Donna al punto zero e La caduta dell’Iman. Le sue radici arabe fecondate dalla cultura universale producono un frutto insolito, che nelle sue mani si trasforma in autentica maestria. In Donna al punto zero – storia vera e terribile di una prostituta che fu condannata a morte per aver ucciso un magnaccia, narrata con una efficacia che fa rabbrividire – oltre alle interviste di quella donna ci fornisce la testimonianza di tutte le miserie da lei vissute prima di giungere all’unico gesto possibile, quello necessario per liberarsi di una situazione insostenibile. Non meno complesso è il romanzo La caduta dell’Iman, specchio della sua generazione, sconcertante eppur seducente, nel quale il tema dell’Islam e della condizione dell’uomo e della donna nella società islamica sfociano in un altro grande tema, quello della libertà. Questo romanzo, orientale per il colorito e occidentale per la sua modernità, è un capolavoro della narrativa araba contemporanea.

Quando affronta l’argomento della escissione del clitoride, riferendosi alle donne interrogate, le vere messe a tacere, Nawal al Sa’dawi osserva:

…la maggior parte non aveva la minima idea del danno che avevano inflitto loro con la escissione, e addirittura alcune pensavano che era un bene per la loro salute, che le puliva e le “purificava”…

Le interviste si sviluppano in genere nel modo seguente:

– Quanti anni avevi allora?
– Ero ancora una bambina. Avrò avuto sette o otto anni.
– Ricordi anche nei particolari l’operazione?
– Sicuro. Come potrei dimenticarmene?!
– Hai avuto paura?
– Molta. Mi nascosi in cima all’armadio (qualcun’altra può dire sotto il letto, in casa di un vicino), però mi acchiapparono e tremavo tutta mentre mi tenevano.
– Ti ha fatto male?
– Molto. Era come se mi stessero bruciando. Gridai con tutte le mie forze. Mia madre mi teneva la testa in modo tale che non riuscivo neanche a muoverla, mia zia mi bloccava il braccio destro e mia nonna si occupava del sinistro. Due donne, che prima non avevo mai visto, mi impedivano di muovere le gambe e me le tenevano allargate forzando. La “mammana” si sedette fra le due donne con in mano un coltello affilato, e con quello mi tagliò il clitoride. Ero terrorizzata e il dolore che mi straziava fu tanto intenso che perdetti i sensi.
– […] Quando hai scoperto che ti avevano tolto un piccolo organo del tuo corpo, che hai sentito?
– […] Mi dissero che se a una bambina non facevano quello, la gente avrebbe sparlato di lei dicendo che poi non si sarebbe comportata bene e che, arrivata all’età di sposarsi, avrebbe cominciato a correre dietro agli uomini, cosicché nessuno l’avrebbe voluta come moglie […].
– Ci hai creduto a quello che ti dicevano. Ovvio. Il giorno in cui mi ripresi dall’operazione ero molto contenta, sentivo che mi ero liberata di qualcosa di cattivo, mi sentivo pulita e pura. 

Pochi anni fa, venne finalmente sospeso il processo per apostasia che incombeva su Nawal al Sa’dawi, e che la avrebbe lasciata priva di qualsiasi difesa quando aveva più di 70 anni. Aveva corso il rischio di essere espulsa dall’Islam e di rimanere alla mercé dei fanatici, che avrebbero avuto licenza di ucciderla.

Torniamo ora alla poesia, che in virtù del suo valore simbolico non è obbligata a essere così diretta come la prosa, ma può ugualmente fungere da arma. Spostiamoci in Iran e parliamo di Forugh Farrojzad (1935-1967), la prima poetessa iraniana contemporanea, una grande rivoluzionaria anche per ciò che concerne lo stile letterario. Subì l’evoluzione del suo paese in senso contrario: cioè nacque in un’epoca di apertura, al tempo dello Scià Reza, che tentava qualche modernizzazione, costruiva ferrovie, creava scuole miste, imponeva con la forza l’abolizione dello chador, anche se non va dimenticato che incarcerava tutti coloro che considerava nemici, per la maggior parte intellettuali… Nonostante il clima di apertura, nelle famiglie della classe media si seguiva la tradizione, e così Forugh, che insieme a sua sorella Puràn frequentò la scuola mista, subì la ferrea autorità paterna (il padre era un militare di carriera) e quella di una società ancorata al passato. Era ancora una bambina quando lo Scià Reza, in seguito alla occupazione del paese da parte delle truppe inglesi e russe, fu deposto. A 13 anni già  scriveva versi in metri classici. A 15 studiava pittura, si innamorò di un lontano parente che aveva il doppio della sua età, e ottenne il permesso di sposarsi. Dopo la nascita del suo unico figlio cominciò a partecipare alla vita letteraria. Per la particolarità del suo carattere e il suo spirito libero, ben presto cominciò a subire gli attacchi e il rifiuto dell’ambiente letterario fino allora considerato una esclusiva del sesso maschile.

Ha 18 anni quando esce il suo primo libro, Prigioniera, le cui poesie iconoclaste e le cui libere concezioni, in particolare quelle relative al comportamento della donna, si scontrano con la disapprovazione degli accademici. Il libro risulta tanto scandaloso che le autorità religiose fanno arrestare il proprietario della maggior casa editrice dell’Iran che lo aveva pubblicato. Si tratta di versi pieni di vitalità, sconforto amoroso, allegria, recriminazioni, solitudine, abbandono, dubbi, sogni… L’uomo vi appare come orgoglioso, possessivo, infedele, conquistatore… Forugh si sente estranea ai ruoli convenzionali assegnati alla donna, il suo matrimonio si rompe. Divorzia, però il figlio viene affidato al suo ex marito, il quale non le consentirà più alcun contatto con lui. Questa è una ferita da cui lei non si riprenderà mai. Tenta di rientrare in famiglia ma suo padre la scaccia. Nel 1956 esce il suo secondo libro, Il muro, e compie il suo primo viaggio in Europa. In sua assenza si intensificano gli attacchi contro di lei da parte di uomini e donne scandalizzati. Nel 1959 va in Inghilterra a studiare cinema e nel ’62 gira un film sulla colonia di lebbrosi di Tabriz, per il quale ottiene il premio al miglior documentario. In questi anni in Teheran si registra una rinascita delle arti e della poesia e lei ne è una delle figure di spicco. Nel 1964 pubblica Nuova nascita, che i critici segnalano come un punto di svolta nella poesia iraniana moderna. Nel febbraio 1967 si preparava per interpretare il ruolo della protagonista nella Santa Giovanna di George Bernard Shaw, quando, al ritorno in macchina da una visita a sua madre, in un incrocio fu colta da malore e per evitare un veicolo sterzò verso un muro e morì.
Forugh Farrojzad era troppo inquietante per gli intellettuali iraniani, anche prima che cominciasse il regime degli Ayatollah. Era all’avanguardia nello stile di vita come nella scrittura. Introduce in poesia la conversazione, il linguaggio quotidiano, e con la stessa naturalezza adatta ad esso la metrica quantitativa tradizionale e, curiosamente, traduce il conflitto tra uomo e donna in un conflitto di stili.
“La mia esistenza intera è un verso oscuro”, così comincia Nuova nascita. Però, nei fatti, la sua poesia è un tendere verso la luce, verso “l’alba dell’eterno crescere”. La sua morte commosse l’Iran e circolò la voce che si fosse scagliata contro il muro deliberatamente. La poesia Si abbia fede all’inizio della stagione del freddo sembrava predirlo. Allora si disse che, tra i poeti dell’Iran contemporaneo, solo lei era paragonabile al grande Nima. Si disse anche che, dopo Hafez Shirazì, era lei il maggior poeta della letteratura iraniana. Una delle sue poesie che all’epoca costituì un grande scandalo, sebbene dal nostro punto di vista non sia possibile giudicare quanto fosse innovatrice, è la seguente:

MURAGLIE DI FRONTIERA 

Ancora una volta nella notte quieta
crescono come piante
le muraglie di clausura, muraglie di frontiera
per recintare i campi del mio amore 

Ancora una volta i rumori della città
come torbidi banchi di pesci spaventati
emigrano dalla mia riva scura
Ancora una volta le finestre
si aprono al gioioso incontro con i profumi sparsi,
gli alberi, nel giardino addormentato, si denudano della corteccia
e la terra, attraverso i miei pori,
assorbe indistinte particelle di luna.

***

Ora vieni più vicino
e ascolta
i palpiti ossessivi dell’amore
che si propagano
come il tam tam dei tamburi notturni
nel canto tribale del mio corpo

[…]

Io vengo dall’ultimo confine delle brezze
correndo attraverso il rifugio della notte,
e nel rifugio della notte
come una pazza mi abbatto
nelle tue mani con i miei capelli gravidi
regalandoti i fiori tropicali di questa zona verde e calda

[…]

Torna da me
torna all’inizio del mio corpo
al profumato centro del feto
all’istante in cui da te, di te fui creata
torna da me
che sono incompleta di te 

Ora le colombe
volano sulle cime dei miei seni
ora sui boccioli delle mie labbra
si sono posate le fuggitive farfalle dei baci
ora il mihrab1
del mio corpo
è pronto per la preghiera d’amore…

E passiamo da queste donne che lottano a viso aperto e dicono ciò che devono dire rischiando la vita, alle più occulte, alle più costrette al silenzio, cioè alle donne afgane con il corpo interamente coperto dal burka, compresi gli occhi, che nonostante tutto si sono espresse in brevi poesie che impressionano per la loro bellezza, la loro incisività e la libertà interiore che riflettono. Sono ovviamente poesie anonime, affidate all’oralità.

Fino a qualche tempo fa, le donne afgane potevano cantare mentre andavano a prendere l’acqua alla fonte o nelle feste. L’arrivo dei Taliban troncò queste minime libertà, però loro, di nascosto, seguitarono a cantare. Nonostante le misere condizioni di vita e pur essendo in genere analfabete, queste donne hanno mantenuto nella loro società l’arte della poesia per mezzo di componimenti brevi chiamati landay. Si tratta di versi non scritti che non seguono schemi né fanno riferimento ad alcun modello classico, ma conservano l’espressività emblematica delle voci del popolo. Sono semplici ed essenziali, cantano la natura, i boschi, i fiumi, le ore del giorno, o sono imperniati sul motivo della guerra, dell’onore, dell’amore, della morte: sono gridi del cuore, squarci di luce.

Presso i Pastùn, popolo guerriero per antonomasia i cui valori e i cui principi sono quelli della virilità e dell’onore, la donna si occupa del gregge, prepara da mangiare, cuce i vestiti, si occupa della concia delle pelli, irriga i campi, trasporta sulla testa pesanti fardelli… e non si lamenta mai. Tuttavia, pur estremamente sottomessa in apparenza, in realtà pratica la sua rivoluzione attraverso le forme del canto o del suicidio (v.: Sayd Bahodine Majruh,  El suicidio y el canto, Ediciones del Oriente y del Mediterráneo, Guadarrama, 2002). E la poesia, quando viene scoperta, equivale al suicidio.

L’amore della donna, presso i Pastùn, è una colpa grave che viene punita con la morte mediante lapidazione. Per questo motivo, quando una donna canta, i suoi versi sono dedicati all’amante lontano o contengono sarcasmi sull’uomo che non sa amare, e se in essi compare il marito, gli viene riservato l’epiteto di “piccolo orribile”, perché in genere si tratta di un uomo bambino, anche quando vanta una certa età.

 Il “piccolo orribile” non fa nulla, né l’amore né la guerra.
La sera, appena ha la pancia piena, va a letto e russa fino all’alba.

*

Apri una breccia nel muro e baciami la bocca.
Il “piccolo orribile” è muratore e saprà ripararla.

*

Vicino a te sono bella, bocca anelante, braccia aperte.
E tu, come un vigliacco, ti lasci cullare dal sonno.

*

Uno muore dal desiderio di vedermi almeno un istante,
l’altro mi caccia dal letto dicendo che ha sonno.

*

Se non sapevi amare,
perché hai destato il mio cuore che dormiva?

*

Oh, amore, se tremi tanto fra le mie braccia, che farai
quando il cozzare delle spade si trasformerà in mille lampi?

All’amante, invece, si riservano ben altri toni, a volte lo si invita anche a correre rischi:

Dammi la mano, amore mio, e andiamo nei campi
per amarci e cadere insieme sotto le coltellate.

*

Vieni pure crivellato dalle pallottole, amore,
io cucirò le tue ferite e ti darò la mia bocca.

*

Impara a mangiarmi la bocca!
Prima di tutto appoggia le labbra, poi forza dolcemente la linea dei miei denti.

*

Vieni e sii come un fiore sul mio petto,
perché possa rinfrescarti ogni mattina con uno scoppio di risa.

*

Sbrìgati, amore mio, voglio offrirti la mia bocca.
La morte si aggira per il villaggio e potrebbe portarmi via.

*

Amore mio, apri la mia tomba e contempla
la polvere che copre la splendida ebbrezza dei miei occhi.

La donna pastùn si confronta costantemente con la morte, canta il destino del corpo ed esalta il cuore come elemento della realtà fisica. In quanto creatura visceralmente terrestre, per lei la morte è un ritorno agli elementi: polvere, vento, erba, acqua, fuoco. Né l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’esercito sovietico, né i massacri e le deportazioni successive, né i Taliban sono riusciti a sradicare la sua necessità di poesia.

                                                                       (Traduz. di Franco Tagliafierro)

 

 

[1]Il miḥrāb è la nicchia che, all’interno di una moschea o di un edificio, indica la direzione della Mecca dove si trova la Kaʿba.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Contro lo snobismo di massa


NEI DINTORNI DI FRANCO FORTINI 1989

Nel 1989 esisteva a Cologno Monzese l’associazione culturale ipsilon e invitammo Franco Fortini, uno scrittore che per tutta la vita si è occupato di cultura. Tenne una conferenza in Villa Casati che registrammo e pubblicammo in LABORATORIO SAMIZDAT, IV, n. 7, novembre 1989, col titolo da lui scelto: “Contro lo snobismo di massa”. Il testo è stato antologizzato anche in “Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994” a cura di Velio Abati, Bollati Boringhieri, Torino 2003. [E. A.]

Si parla molto di cultura di massa, quella che si presenta attra­verso i cosiddetti mass-media. Non stiamo a discutere stasera sul significato delculturla parola «cultura». Sarebbe però interessante notare che cosa è accaduto nell’uso, nell’accezione comune di questo ter­mine. Per esempio, una volta – mi riferisco a molti anni fa – la parola «cultura» aveva un significato che conserva ancora ma solo per certe ricerche di tipo sociologico o antropologico. Esso indi­cava il complesso delle forme con le quali gli uomini producono.

Questa nozione di cultura aveva a che fare certamente con la tra­dizione marxista, anche se non coincideva necessariamente e del tutto con essa. È una nozione che abbiamo usato normalmente, così come si parlava della cultura di determinati popoli o della cul­tura della filosofia tedesca o dell’Illuminismo. O si parlava della cultura del metalmeccanico, intendendo alcuni specifici sistemi, modi, forme, entro i quali costui lavorava e, in definitiva, viveva. Oggi noi vediamo che, mentre questo significato continua ad essere usato a livello della ricerca e delle specialità, nell’ accezione corrente – quella che ci viene trasmessa dalla stampa, dai giornali e dalla televisione – cultura sta ad indicare soltanto un certo settore della comunicazione e delle forme, che ha a che fare soprattutto con le ar­ti e con la letteratura. Nel gergo delle emittenti televisive un pro­gramma «culturale» è un programma dove, invece di avere i balletti oppure un concorso a premi, si parla di letteratura o si discorre sul­l’ultima grande esposizione di pittura fiamminga a Parigi o a Roma.

D’altra parte non è che possiamo inventare in questo momento per nostro uso una definizione migliore. Non è questo il punto. E semplicemente necessario tener presente questa forma di impove­rimento della nostra cultura e capire che non è innocente. Non per caso è avvenuto così. È avvenuto perché rientrava in un disegno, che si propone due cose apparentemente contraddittorie, ma che non lo sono affatto: per un verso omogeneizzare i linguaggi, il sa­pere, le ideologie della gente; dall’altro, il processo, simultaneo e solo apparentemente opposto, è quello della valorizzazione o estre­mizzazione dell’individuo.

La tendenza di quello che conviene chiamare «tardo capitali­smo» è oggi rivolta a queste due mete solo apparentemente con­traddittorie. Per un verso, dunque, ci vogliono tutti simili o uguali: consumiamo gli stessi prodotti, tendiamo a leggere gli stessi libri (o a non leggerli) consumiamo gli stessi elaborati. È quella che chia­miamo «cultura di massa», al suo livello inferiore. Ma, per un altro verso – e basta guardare la pubblicità dei prodotti che riempiono i settimanali e le trasmissioni televisive – si tende a proporre un mo­dello di individuazione estrema: non essere come gli altri, sii di­verso, più bello, più forte ecc.; mettiti nella condizione di gestire il tuo tempo libero in modo originale, fatti una «cultura» …

Questo doppio movimento rientra perfettamente negli interessi del modo di produrre, di vendere, di consumare del mercato capi­talistico. I risultati li vediamo. Sono – come è stato ricordato -1′ al­largamento di un’ area di deprivazione, di neoalfabetismo o di anal­fabetismo di ritorno; e non solo qui in Italia, ma anche negli stessi Stati Uniti. È un fenomeno che riguarda, quindi, un allontana­mento dalla stessa cultura di massa; esso interessa una frangia della popolazione, i cosiddetti esclusi, i marginali. Abbiamo invece una estesissima parte del corpo sociale, alla quale sono destinati saperi, forme artistiche o di intrattenimento, forme di realizzazione di se stessi.

E qui viene un punto molto importante.

Se ci riportiamo al passato – diciamo a venti anni fa o anche solo a dieci – il mio discorso potrebbe finire qui. Avevamo i grandi mec­canismi che formavano prodotti di seconda qualità; e quella era la «cultura di massa», qualcosa che stava tra la divulgazione e i fascicoli della storia della letteratura universale, della religione o della geografia venduti nelle edicole. Il discorso allora sembrava abba­stanza facile, tant’è vero che, se uno come me tendeva a dire: stiamo attenti, dobbiamo lottare contro la falsa ricchezza dell’informa­zione o della cultura e dell’arte «per tutti», veniva immediata­mente bloccato da quelli che replicavano: ma tu sei un aristocratico della cultura e vuoi che determinate opere siano precluse a coloro che ne hanno fame e sete. Nel corso di un convegno, tenutosi a Ve­nezia non troppi anni fa sul tema del rapporto tra letteratura e masse, rammento che nel corso della discussione mi accadde di but­tare lì una battuta, che scandalizzò orrendamente i progressisti se­duti accanto a me. Dissi: «non esiste il “Petrarca per tutti” ». Vale a dire: il tentativo di rendere accessibili alcune opere, che sono state create in un certo contesto storico e che hanno una definibile funzione non può valere per tutti. Concludevo cosi una discussione che andava avanti da venti anni. Venni immediatamente aggredito. Qualcuno mi chiese: «E allora, tu al popolo che cosa faresti leg­gere?». lo evitai di polemizzare sull’uso della parola «popolo» (che mi faceva venire i brividi, considerando che l’interlocutore aveva in tasca la tessera di un partito dalle origini marxiste) e risposi, in modo ancora più scandaloso: «lI Vangelo». Poi spiegai (anche se sono certo di non essere stato capito) che cosa volessi dire riferen­domi al Vangelo. Indicavo, cioè, un libro che – indipendentemente dall’essere credenti o meno – ha le caratteristiche di non essere (o almeno di non essere facilmente) riconducibile all’ordine di un genere letterario. Non è di storia, non è cronaca, non è poesia. È molto difficile dire che cosa sia tutto quell’insieme che noi chia­miamo Vangelo e il tipo di rapporto che richiede al lettore è molto diverso da quello richiesto dalla lettura di Guerra e pace oppure da un’opera filosofica. È un rapporto completamente diverso, perché tende a chiedere in modo prepotente un certo tipo di adesione o di risposta alle domande che pone e che hanno molto a che fare con quelle domande e quei problemi di fondo, di cui abbiamo sentito giustamente lamentare la scomparsa nel corso dei nostri anni. Ma tutto ciò che vi ho detto fino ad adesso e tutto ciò che si riferisce a questo aneddoto ha a che fare con una situazione che non è più quella reale che abbiamo di fronte.

Oggi, cioè, non si tratta più di polemizzare contro una cosid­detta «cultura di massa», contro una volgarizzazione, una riduzio­ne dell’alta cultura per i poveri. Stiamo attenti. La situazione non è più questa, ma è assai peggiorata.

In che senso?

Non posso qui dimostrarvelo. Posso soltanto enunciare quella che è una mia opinione. Sebbene non solo mia. Nella società avan­zata, che è la nostra (ma potrei riferirmi soprattutto a certi paesi dell’Europa e agli Stati Uniti), abbiamo – per utilizzare una parola molto approssimativa – la «zona» delle istituzioni accademiche e degli istituti di ricerca al più alto livello (culturale o letteraria, arti­stica e scientifica … ).

Ora mentre una volta da parte di coloro che producevano a que­sti livelli c’era un atteggiamento di mediazione e distribuzione ver­so gli altri (così è stato certamente il secolo scorso e così è stato per una parte del nostro secolo), quando si è avuto il precipitoso allar­garsi di una cultura di massa, che è diventata essa stessa nel suo complesso un argomento di tale potenza e articolazione da non aver più bisogno, per sopravvivere, del contatto diretto con la cul­tura che potremmo chiamare creativa – la cosiddetta alta cultura universitaria – si è imposto il divorzio, la separazione.

Nella pratica, per un verso cresce il numero dei ricercatori ad al­tissimo livello, che sempre meno forniti di cravatta e di boria acca­demica si dispongono quotidianamente a farsi intervistare, sull’ul­timo avvenimento del giorno (e li vediamo alla TV questi scienziati, padri della fisica, della medicina, della chimica contemporanea, rispondere – in modo estremamente democratico – con delle bana­lità alle banalissime domande che vengono loro poste); mentre, per un altro verso, sappiamo benissimo che la distanza tra la vera ricer­ca ed il resto degli umani non solo è diventata, ma è mantenuta, enor­me, astronomica.

Al di fuori di questa «zona» c’è l’immensa massa, l’immensa pro­duzione, che veniva chiamata «cultura di massa» e che oggi si arti­cola e si gestisce in modo separato, ricreando naturalmente al pro­prio interno delle gerarchie. Facciamo un esempio banale. Stiamo per avere le trasmissioni via satellite. Se si guarda il primo elenco che è già proposto al consumatore, ci accorgiamo che, pagando ovviamente una certa tassa (ma non è questo il punto importante), noi possiamo fruire del programma A, invece che B o C, e che tra questi programmi ci sono delle differenze fortissime di livello e di orientamento culturale. La discriminazione, quindi, avviene ed è fortissima all’interno della stessa cultura di massa.

Questa è, dunque, la premessa del mio discorso: non esiste la cul­tura di massa, esistono delle forme molto differenziate all’interno di strumenti che sono, quelli sì, veramente di massa. E tali strumenti sono quelli che vanno, a rigore, dalla scuola, che è uno strumento di acculturazione – diciamo così – di massa, fino all’ editoria (libraria, giornalistica, periodica ecc.), alla pubblicità, che è un grande feno­meno di cultura di massa, e naturalmente a tutte le forme degli au­diovisivi.

Diventa inevitabile a questo punto dire che viviamo un partico­lare momento, destinato a durare, di concentrazione economico­finanziaria di tale complesso di mezzi; e diventa, quindi, sempre più difficile una fuoriuscita dal sistema attuale, che si fondi su quelle forme ascetiche, che io stesso una decina d’anni fa sono venuto proponendo. Quando parlavo di una riduzione della molteplicità, chiamando questo «ecologia della cultura» (o della letteratura), conservavo, non voglio dire delle illusioni, ma avevo ancora molto viva per delle ragioni biografiche la memoria di una possibile ridu­zione della varietà inutile, appunto.

Alcuni degli autori qui nominati, quelli della Scuola di Fran­coforte (ma potrei aggiungere autori come Brecht oppure Simone Weil. .. ) avevano proposto un simile ascetismo nei confronti della cultura, persuasi (giustamente) che vi fosse più cultura nella capa­cità di fabbricare una sedia che non nella lettura della Critica della ragion pura. Avevano assolutamente ragione; ma i fatti, cioè l’evo­luzione del capitale mondiale nel tardocapitalismo, hanno dato loro radicalmente torto. E, nel frattempo, non si legge più (se non per un esame universitario) La critica della ragion pura e nessuno sa più fabbricare una sedia, fatta eccezione per pochissimi artigiani.

La via della rinuncia ascetica continua a sembrarmi valida sol­tanto come itinerario individuale, per così dire, al bene. Come ci sono delle persone, che la mattina fanno un certo tipo di ginnastica piuttosto che un altro o che consumano solo certi prodotti diete­tici, perché pensano che faccia bene alla salute, così certamente fa molto bene rinunciare alla molteplicità inutile, non passare troppe ore davanti alla TV oppure non rincorrere tutte le novità librarie o non mettersi in coda con migliaia di persone per vedere sette qua­dri di impressionisti, cosa che avviene in questo momento un po’ dovunque in Europa.

Questo possiamo farlo, ma in questi termini, la cosa non va al di là della pia pratica individuale. Appena uno osasse spostarsi al di là e proporla come linea di gruppo, immediatamente saremmo assa­liti da dieci filosofi accademici arruolati dai principali quotidiani, che ci accuserebbero – non sto inventando, sono cose reali che si possono vedere ogni giorno – di essere persone che – attraverso la linea dell’ascetismo, la drammatizzazione della storia, l’ostacolare il godimento dei consumi – vogliono in realtà l’oppressione, la tirannia, il gulag.

Forse non hanno tutti i torti. Non perché chi vuole queste cose desideri il gulag, l’oppressione o la tirannia, ma perché volere quei processi ecologici (che non riguardano soltanto l’industria inqui­nante, il buco di ozono o la foresta amazzonica, ma la testa della gente) significa – per me certamente – scatenare un certo tipo di conflitti, che possono avere, oltre a quelle positive, anche delle conseguenze estremamente negative, cioè quelle che noi chiamia­mo le tirannie o le tragedie storiche.

Non siamo affatto garantiti (come vogliono farci credere i nostri governanti e i loro portaspada o portavoce o portacroce) dalla democrazia. No, non siamo protetti. La democrazia è un complesso di tecniche per l’accertamento delle volontà, per la guida politica di un gruppo, di un popolo, di una nazione, ma non si applica ai va­lori. Per dirla molto sinteticamente, come diceva un mio amico, il poeta Giacomo Noventa, «l’esistenza di Dio non si vota a mag­gioranza». Ma neanche si votano a maggioranza infinite altre cose, che hanno a che fare, appunto, con i valori, cioè con le ragioni che – come si diceva una volta – ha l’uomo di vivere e di morire. La democrazia in queste cose non funziona: i più non hanno ragione sui meno. In tutte le questioni veramente essenziali della nostra esistenza appunto: la vita, la morte, la malattia, l’amore – non vale la regola della maggioranza. Ed ecco perché, allora, sono assoluta­mente persuaso che una lotta per una «ecologia» della cultura, del sapere, ossia per una riduzione del superfluo, qualora fosse portata avanti (cominciando innanzitutto dalla lotta per stabilire cosa è superfluo e cosa non lo è … ) porterebbe a tali conseguenze e così dirompenti che l’ipotesi di una possibile susseguente oppressione (tirannia o violenza) va presa in considerazione. Non per appro­varla, ma per sapere che ad ogni sforzo verso una verità e una vita superiore o migliore corrisponde la possibilità del suo contrario. Detto altrimenti: chi vuole evitare la tragedia, come condizione della vita umana, può farlo. Ma, a questo punto, apra il televisore e se lo guar­di fino al momento della morte.

Chi sono – mi chiedo ora, avviando mi alla conclusione – i padri della lotta contro la massificazione? Si può andare molto in là nel tempo, risalire al Romanticismo; ma quelli che hanno visto questi fenomeni nella loro ampiezza e complessità drammatica sono cer­tamente i filosofi della Scuola di Francoforte. I fenomeni, che Ador­no, Marcuse ed altri avevano già intravisto nella Germania degli anni di Weimar, essi li verificarono in modo drammatico negli Stati Uniti, durante il periodo della loro emigrazione. I libri che ci hanno formato sono stati scritti negli anni quaranta. Hanno ormai mezzo secolo di vita. Rimangono fondamentali – mi guarderei bene dal negarlo – ma le situazioni sono cambiate. Allora il «mostro» della massificazione si presentava come volgarizzazione e come vol­garità. Adesso non è più contro i programmi Tv particolarmente volgari o la letteratura da edicola che dobbiamo lottare. Dobbiamo lottare, invece, contro quella che si presenta come la Cultura con la maiuscola. È quella che veramente, in modo profondo, ci distrug­ge, perché uno dei suoi dogmi è lo sviluppo della «corsa dei topi» culturale, cioè la creazione di uno snobismo di massa. Vogliono fare di noi, di tutti, degli snob, ossia delle persone che tendono conti­nuamente a fingersi quelle che non sono. Da qui la necessità di creare continuamente mode e modelli dietro i quali farci correre. Oggi la «cultura di massa» – usiamo le virgolette – somiglia straor­dinariamente a quella vera, quasi come certi prodotti surgelati somigliano a quelli non surgelati.

Ma, allora, quali armi abbiamo? C’è almeno l’ombra di una pro­posta in quanto ho detto?

Mi pare che le conseguenze siano queste: fintanto che pensiamo di contrapporre un sapere ad un altro, un libro ad un altro, un film ad un altro – starei per dire: un’emittente Tv ad un’altra – pos­siamo arrivare nella migliore delle ipotesi a quella che è la situa­zione in cui già viviamo, visto che siamo in un paese democratico, dove già abbiamo un’opinione non maggioritaria e una certa tradi­zione di «sinistra».

Che cos’è, invece, che ci pone al di fuori?

E l’azione politica, intesa come scelta di comportamenti non in­dividuali, i cui motivi non vanno cercati e neanche verificati esclu­sivamente sul sapere o sulla cultura, ma si fondano – almeno ini­zialmente – sul già saputo, su quello che sta dentro di noi – come si dice – o anche fuori (per me è lo stesso). E questo «qualche cosa», che già sappiamo, ci viene dalla nostra esperienza vitale. E un «qualche cosa» nel quale la sofferenza per 1’ingiustizia e 1’oppres­sione subita il giorno prima si mescola al ricordo di ciò che abbiamo imparato e saputo da quando avevamo cinque anni. Questo «in­sieme» è il nostro sapere, non quello che sta «dopo e fuori», che si aggiunge in seguito e può essere consumato o appreso, può diventa­re «carne e sangue» a condizione che vi sia quel momento iniziale.

E che cos’è l’operazione politica per eccellenza? Trovare i propri compagni, riconoscersi, unirsi, decidere di fare alcunché, fosse anche una conversazione come quella di stasera o una iniziativa come quella che qui è stata proposta.

Ed è veramente il caso di dire in questa occasione che da cosa nasce cosa e che qui siamo, per il momento, ancora fuori dai pro­blemi della cultura, di massa o non di massa.

Infatti i problemi dei libri, del sapere, si pongono immediata­mente dopo quelli che Mao chiama dell’inchiesta, cioè della ricerca per capire com’ è fatto il mondo nel quale vogliamo muoverci e che vogliamo in qualche modo modificare.

Ripeto la mia conclusione: mentre nel decennio in cui, in Italia con notevole ritardo, si sono sviluppate le forme della cultura di massa si è pensato soprattutto a controbattere la degradazione culturale, oggi credo che si tratti di lottare prevalentemente più a monte, in ter­mini di accumulazione di forza politica. Basta pensare alla corpora­zione giornalistica, e soprattutto ai giornalisti della TV, a quelle migliaia di persone che la RAI paga molto spesso per non far nulla (e si parla di dieci-ventimila persone … ). Sarebbe interessante che si stu­diasse il contratto nazionale dei giornalisti e si vedesse la condizione di privilegio incredibile che essi hanno nei confronti di altre catego­rie. Si scoprirebbe, forse, che nel nostro paese vi sono settori, nei quali esistono fasce di privilegio cultural-politico non molto diverse da quelle del mandarinato cinese o della nomenklatura sovietica.

È mia convinzione profonda che proprio nell’ambito di quella che Gramsci chiamava, con parole dimenticate, «l’organizzazione della cultura» la lotta politica oggi può dare risultati, che non poteva dare trenta o quarant’anni fa.

Fino a quando esisteva una classe operaia nel senso marxiano e leniniano della parola, depositaria (o ritenuta tale) di valori uni­versali, sì che, se essa non li affermava, l’intera società deperiva, si poteva avere dell’organizzazione della cultura l’idea che ne ebbero Lenin e Gramsci, e cioè l’idea di un qualche cosa di sostan­zialmente subordinato al potere economico-politico. Ma oggi, non possiamo più usare i termini con i quali Lenin e Gramsci descris­sero gli intellettuali. Oggi gli intellettuali non sono più quelli del tempo di Lenin e Gramsci. Sono invece quegli intellettuali «di massa» o intellettuali-massa, di cui il ’68, con eccessivo anticipo, dichiarò l’esistenza, quando non c’erano ancora; mentre oggi ci sono e nessuno più ne dichiara l’esistenza. Intendo riferirmi a tutti i docenti, i tecnici, gli addetti alla riproduzione del sapere, al gior­nalismo, alla TV, alla pubblicità. È una fascia straordinariamente importante del «nuovo terziario», senza la quale non si fa nulla.

Nella guerra civile – se vogliamo chiamarla così – o lotta di classe la «linea del fuoco» passa oggi attraverso le scuole, le redazioni, gli uffici dove si elabora un sapere che – ripeto – è «di massa», ma non ha più le caratteristiche di trenta-quaranta anni fa.

Ho pensato anni fa che i primi «caduti» di questa lotta si sareb­bero avuti nelle redazioni al momento in cui – così come gli operai di centocinquanta anni fa, affrontando lo sciopero, affrontarono non solo i fucili dei carabinieri ma il licenziamento e, quindi, la fame loro e delle loro famiglie – uno di quei mezzi busti della TV prenderà la parola alle ore tredici e dirà una verità non prevista dal copione. Sarà immediatamente cacciato. Quel giorno si potrà dire non che ci sarà stato un singolo eroe, ma che sarà avvenuto qual­cosa capace di rompere la profondissima omertà nel campo del­l’informazione di massa. E la stessa cosa vale per molti altri settori della comunicazione e del sapere. Il mio è quindi un messaggio di speranza abbastanza ironica e – come potrei dire – autosorvegliata. Perché conosco l’estrema difficoltà di questa strada e, tuttavia, cre­do che essa esista.

La fede opaca di Fortini

Questo saggio è già comparso sul n. 6 – dicembre 2009 di Poliscritture cartacea scaricabile qui

Donato Salzarulo

Con te a volte appuntamento
mancato, ala d’eclissi, soffio
innevato.

C’è una poesia della raccolta «Composita solvantur» (Einaudi, 1994) che non mi risulta abbia ricevuto sinora molta attenzione o commenti. Eppure Fortini le attribuì una posizione “strategica”: collocandola all’inizio; facendola stampare in corsivo, con un carattere tipografico diverso dalle altre; dandole una funzione di apertura e di “illuminazione” del clima generale della raccolta, di guida implicita, ecc. In breve, un insieme di segnali che il lettore non può non notare. La poesia, senza titolo, è questa:

Per quanto cerchi di dividere
con voi dal vero le parole 

la fede opaca di che vivo
è solo mia. La tento ancora 

e l’occhio guizza, la saliva
brilla sull’orlo dei canini, 

o incerti amici, o incerte prove.

                   *

 Per quanto cerchi di conoscere
che cosa guarda dal sereno 

dove il celeste posa in sé,
di questo sono certo e fermo: 

i globi chiari, i lenti globi
templari cumuli dei venti 

non sono me.

Quattordici versi in tutto, orchestrati meravigliosamente e con incomparabile sapienza. Quattordici versi suddivisi in due tempi perfettamente equivalenti: sette e sette. Evidente la simmetria. La composizione è una, ma è divisa come una foglia di alloro in due parti. Sia i sette versi della prima che quelli della seconda sono distribuiti in coppie di novenari. Ancora il due, quindi, e ancora la simmetria. Ma i versi sono dispari e uno alla fine resta solo (“o incerti amici, o incerte prove.”, “non sono me.”). L’ultimo verso tronco è mimesi della poesia che si tronca e smette di dire. «L’uno che in sé si separa e contraddice, e tu fissalo; finché non sia più uno. E poi torni ad esserlo, e ti porti via» aveva scritto Fortini in «Una volta per sempre» (Einaudi, 1987)Una volta per sempre».

I primi versi di ambedue le prime coppie sono sdruccioli e in rima tra loro (“Per quanto cerchi di dividere”, “Per quanto cerchi di conoscere”). Sette: numero sacro per eccellenza, espressione della mediazione fra umano e divino. Sette sono le luci del candelabro ebraico, simbolo della fede perennemente accesa; sette i sacramenti, sette i peccati capitali, sette le virtù (quattro cardinali e tre teologali), sette le note musicali, sette i giorni della settimana, ecc. ecc. Il simbolismo del sette è ricchissimo. Poi, l’Uno che è in sé Due. Le coppie di novenari della prima e della seconda parte sono tre e tre. Altro numero di carattere indubbiamente simbolico, come il padre Dante e tutta la storia del cristianesimo insegna. Del resto anche la scelta di una misura metrica come il novenario non è certo dovuta al caso. Il simbolismo del sette, l’Uno che è in sé Due, la distribuzione trinitaria delle coppie, il ritorno della solitudine dell’Uno, le pause ritmiche del novenario, il verso tronco finale… Fortini ha insegnato che in poesia la forma è il contenuto. Il come di questo testo dice, allora, già molto di sé. Vorrei soltanto ricordare che «Composita solvantur» è l’ultima opera di questo poeta e rappresenta un po’ il suo testamento.

Sulla tessitura musicale non voglio dilungarmi più di tanto: appare come è evidente fitta di ripetizioni e variazioni attraverso rime, assonanze e consonanze, ecc. Nella circostanza, preferisco andare ad un’analisi più ravvicinata del testo: sia il primo verso sdrucciolo della prima parte che quello della seconda sono aperti da una locuzione congiuntiva, di natura concessiva, che ha implicitamente il sapore e il tono di un bilancio interiore: “Per quanto cerchi di dividere”, “Per quanto cerchi di conoscere”. Il gesto del cercare di dividere (che vale sul piano semantico sia come “condividere”, “rendersi partecipe” che come “frazionare”, “distinguere”) e quello del cercare di conoscere appaiono ripetuti come tentativi tenaci anche se condotti su terreni sdrucciolevoli e incerti nei loro risultati.

La prima coppia concessiva recita: “Per quanto cerchi di dividere / con voi dal vero le parole”. C’è un Io poetico, quindi, che si rivolge a un Voi con cui sembra avere in comune un’attività: quella di condividere con loro e/o di distinguere “dal vero le parole”. Sì, perché le parole, pare di intendere, non sempre provengono dal vero o non sempre sono capaci di rivelarlo. Ricercare e indagare su quelle parole che segnalano e mostrano il vero è perciò attività assolutamente importante. Ma questo vero di che natura è? Non è sicuramente quello a portata di mano, quello per cui alla domanda se in questo momento stia piovendo, una persona possa rispondere vero o falso. Il vero che l’Io poetico cerca di percepire e distinguere con quel Voi a cui si rivolge è tale che si trascina dietro un’importantissima confessione: “la fede opaca di che vivo / è solo mia.”  È un vero, allora, in relazione con la fede, che richiede una risposta personale, coinvolgente, impegnativa. Sottolineo: non è in questione un’opinione più o meno fondata, la verifica di un’ipotesi scientifica o la dimostrazione di un teorema. Fede è adesione piena di una persona, credenza profonda di cuore e mente, di sensibilità e ragione. Riguarda il tutto.

Il mettere in primo piano questa certezza personale, non credo comporti una preconcetta svalutazione di quel Voi collettivo, impegnato, come l’Io poetico, nella ricerca del vero. È consapevole, però, di muoversi su un terreno scivoloso, incerto (“o incerti amici”). È probabile, infatti, che non tutte le persone di quel Voi siano impegnati allo stesso modo, con lo stesso sforzo e la stessa intensità nella ricerca. Da qui il tono di una confessione intima e, allo stesso tempo, risoluta; libera e necessaria; partecipata e tuttavia distaccata. Una dichiarazione di fede che appartiene alla vita dell’Io e che coinvolge tutte le fibre della sua esistenza individuale e sociale.  “Fede opaca”, scrive Fortini. E bisogna intendersi. Opaca è aggettivo che oscilla dal “non trasparente” al “poco comprensibile”, dal “poco luminoso” al “poco rischiarato”, allo “stare in ombra”. Non penso che Fortini attraverso l’aggettivo voglia sminuire il sostantivo, dargli meno valore.  È poeta che so traduttore di figure limpide come Simone Weil. Scrivendo “fede opaca”, è probabile che avesse presente Giovanni della Croce o altri mistici per i quali la fede è «notte oscura dell’anima». Non è luce, produce luce. È certezza interiore che appartiene in modo esclusivo e totale al singolo.  Non è credenza cieca, superstiziosa, dogma incrollabile e inattaccabile. Di queste credenze anche collettive possono a volte alimentarsi le ecclesie. È confessione esplicita di certezza, punto fermo in ombra, poco luminoso che, forse proprio per questa sua opacità, riesce a produrre, come sostenevo prima, grani di luce; è, comunque, un nutrimento (“di che vivo”) da sperimentare, da mettere ancora alla prova nella vita quotidiana (“La tento ancora”). Nutrimento che produce sul piano individuale effetti salutari come mostrano proprio i versi successivi della poesia: “e l’occhio guizza, la saliva / brilla sull’orlo dei canini”. Guizzare, brillare. Azioni indubbiamente vitali, scatti, segnali di vivacità e luce. Così quest’Io, che ancora una volta mette alla prova la sua “fede opaca”, ne trae benefici per nulla disprezzabili: l’organo della vista risulta potenziato e si muove dinamico e brioso; e, come nel famoso esperimento di Pavlov, di fronte allo stimolo che essa rappresenta, aumenta la salivazione del soggetto. L’acquolina in bocca è riflesso condizionato; è, però, anche manifestazione della voglia di mangiare, assimilare e nutrirsi; segnale di presa di possesso, pulsione e desiderio forte, per certi versi, aggressivo di mordere e afferrare il cibo. Ma qui il cibo da afferrare, mordere, assimilare, il pane e vino da mangiare e da bere sono le relazioni sociali dell’Io col Voi, sono quegli “oggetti d’amore” e conoscenza rappresentati dai tentativi ostinati di condividere e individuare le parole dal vero. Conclusione dell’Io poetico: “o incerti amici, o incerte prove”. Il tono è un po’ sconsolato, ma non rassegnato e rinunciatario.

Conclusione mia, provvisoria, riferita a questi primi sette versi: il testo è attraversato da una dialettica di certezza-incertezza. La prima è relativa alla fede personale, la seconda alle condivisioni sociali, ai tentativi e alle prove che vengono effettuate per distinguere insieme agli altri “dal vero le parole”. Generalizzando si potrebbe dire: sul terreno sociale e/o “ecclesiale” dell’appartenenza, che rappresenta sia il momento della “tentazione” della propria fede, del metterla alla prova e sperimentarla, sia quello della vitalità e vivacità esistenziale, domina l’incertezza. Nella storia sociale e politica mentre le “amicizie” di ognuno di noi sono incerte e incerti sono i tentativi che facciamo per raggiungere le verità, è certa, invece, la fede opaca che ognuno si porta dentro e con cui nutre le sue prove di esistenza.

La dialettica certezza-incertezza domina anche nella seconda parte della poesia. L’incertezza questa volta è relativa agli atti conoscitivi, soprattutto quelli rivolti al “che cosa guarda dal sereno // dove il celeste posa in sé”. Il “celeste”: aggettivo sostantivato. Relativo al cielo, cioè ad un luogo in cui qualcosa che sta tra un “corpo”, un “regno”, un “padre” più o meno sublime e ineffabile, è immobile, fermo in sé, sia nel senso dell’adagiarsi, calmarsi, sia nel senso dell’appoggiarsi e aver fondamento. È qui, da questo luogo sereno, terso, privo di affanni che proviene uno sguardo verso un oggetto, un “che cosa” impossibile da conoscere nella sua totalità e completezza, per quanto l’Io poetante tenacemente si sforzi. A fronte di questa incertezza, in antitesi, c’è l’annuncio poetico di una certezza e di una fermezza un po’ simile a quel posarsi in sé del celeste: “di questo sono certo e fermo:” E su cosa non ha dubbi e tentennamenti quest’Io? “i globi chiari, i lenti globi / templari cumuli dei venti // non sono me.” La parola ripetuta, che fa da baricentro è “globi”, cioè le sfere terrestri e celesti. Ma potrebbero essere anche i globi oculari di quel celeste che guarda dal sereno. Comunque, i globi sono il soggetto della proposizione che, dopo alcune apposizioni, si conclude con la sottolineatura di una non identificazione: “non sono me”.  La certezza dell’Io è dunque questa: pianeti e universi luminosi, tersi come quel sereno in cui “il celeste posa in sé”, conosciuti e lenti nei loro movimenti, ammassi religiosamente sovrani (“templari”) dei venti (del divenire e della trasformazione), non s’identificano con il me, oggettivato dall’Io. “Dove il celeste posa in sé […] non sono me”. La rima precipita il significato verso questa non identificazione del Sé celestiale e del Me poetico. Come dire? Questi Me, questi accusativi che ognuno di noi produce fino alla morte, queste oggettivazioni artistiche, poetiche della propria esistenza sono altra cosa rispetto al Sé immobile e autoriflesso che guarda dal suo luogo sereno non si sa bene cosa, con globi contenenti cumuli di divenire. Se è vera questa non identificazione e se il sereno col “celeste che posa in sé” rappresentano modi di indicare il Divino, se ne deve dedurre che esso non è solo o prevalentemente una “costruzione” degli esseri umani. Non è il frutto delle loro illusioni e alienazioni.

Difficile trarre conclusioni meno che provvisorie da questo modesto tentativo di lettura. A me sembra che in questi versi circolino pensieri importanti relativi alle seguenti questioni:

  1. Rapporto “ecclesia” (anche comunista, sebbene nel nostro presente sia quanto mai sprofondata nelle catacombe) e “fede opaca” del singolo. Nell’ecclesia si sta insieme per distinguere e conquistare il vero, ma bisogna stare all’erta, non dimenticare il terreno sdrucciolevole e incerto degli amici e delle prove. La certezza può essere a carico della propria fede, non della propria appartenenza. Fortini non è individualista, ma la lotta per dividere “dal vero le parole” è un compito centrale e viene prima di qualsiasi appartenenza. D’altronde che Fortini sia stato tutt’altro che “intellettuale organico” alle varie svolte di questo o quel partito del movimento operaio è abbastanza noto. Così come noto è il suo insistere, sul tema dell’amicizia, piuttosto che sull’incontrarsi sul separarsi e estraniarsi.
  2. Nel luogo sereno in cui essere e divenire coincidono, il me non c’è. Le oggettivazioni umane non sono alienazioni, ma non sono neanche attributi della Sostanza divina. Il celeste è l’altrove, il luogo da cui guarda un qualcosa d’incerta comprensione e concepimento umano. Domanda: Fortini quale concezione ha di Dio? Conoscendo la sua biografia, la risposta potrebbe apparire scontata: quella giudaico-cristiana. In un’altra poesia, infatti, della raccolta – poesia posta sulla prima di copertina – parlando di come gli diventerebbe più acuto il dolore delle ossa, rivolto quasi certamente a Dio, lo invita a incenerirlo: “Grande fosforo imperiale, fanne cenere”. Dio, quindi, come intelligenza suprema e sovrana. Mi viene anche in mente che pochi anni prima, nel 1991, aiutò Paolo Jachia a raccogliere un’antologia dei suoi testi, una specie di dizionario composto da cinquantanove voci («Non solo oggi. Cinquantanove voci», Editori Riuniti, 1991) e una di queste era proprio Iddio. Non si trova nessun discorso filosofico o teologico. È semplicemente ripresentata una bella poesia già apparsa in «Una volta per sempre». Titolo: “La partenza”. Forse è opportuno, a questo punto, rileggerla:

 

Ti riconosco, antico morso, ritornerai
tante volte e poi l’ultima.
 Ho raccolto il mio fascio di fogli,
preparata la cartella con gli appunti,
ricordato chi non sono, chi sono,
lo schema del lavoro che non farò.
Ho salutato mia moglie che ora respira
nel sonno sempre la vita passata,
il dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.
Ho scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non perdono.
E ora sul punto di dormire
un dolore terribile mi morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago del mondo in me.

 Fra poco, quando dai cortili l’aria
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza capovolge i platani, scenderò per la via
verso la stazione dove escono gli operai.
Contro di loro fiume triste, di petti vivo,
 attraverso la mobile speranza
che si ignora e resiste,
andrò verso il mio treno.

 La poesia è datata 1960-1962. Partire è un po’ morire, dice il proverbio. Prima di morire davvero, Fortini ci regalò ancora per oltre un trentennio le note acute dei suoi pensieri e delle sue riflessioni. È significativo, però che nel 1991, riproponeva questo componimento. Dentro c’è l’Iddio: questo “antico morso”, “dolore terribile”, “ago del mondo” conficcato nella sua e forse nella nostra carne. È il Dio dell’Antico Testamento, il “grande fosforo imperiale”.

Bisognerebbe togliere credo la poesia iniziale che ho cercato di commentare dal suo splendido isolamento, connetterla con altre sorelle e con altri testi. Obiettivo: comprendere meglio la dimensione religiosa di Fortini insieme alla sua saldatura con quella politica e culturale. «La religione non può essere identificata col misticismo o con l’irrazionalità. Hegel lo sapeva. E anche Marx.» scrisse il poeta in «Insistenze» (Garzanti, 1985). Esplorare i molteplici sensi di questa “fede opaca”, capire come alimenta energie vitali e produce importanti visioni dialettiche, rimane perciò compito fondamentale di ognuno di noi. Le nostre fedi, come quella di Fortini, dovrebbero saper scendere per le vie, incontrare i volti vecchi e nuovi del lavoro sfruttato e produrre, anche sulle questioni ultime e penultime, salutari eresie e intelligenti combattimenti culturali e sociali.

26 Ottobre 2009

Il viaggio di un cetomedista

di Ennio Abate

O Dio, se si potesse leggere nel libro del destino
e vedere come il volgere del tempo
appiana le montagne, e i continenti,
stanchi di restar solidi, si stemperino
nel mare; e veder altre volte
che la cintura costiera dell’oceano
 è troppo larga per i fianchi di Nettuno; come i giochi
 del caso e il mutamento colmino la coppa
 dell’instabilità con liquori diversi!
Oh, se questo si vedesse, anche il più spensierato
dei giovani, guardando il suo cammino futuro,
 i pericoli passati e le prove a venire,
chiuderebbe quel libro e vorrebbe morire»

(Shakespeare, Enrico IV  citato in Viaggio nella   presenza del tempo, p. 294)
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Montaldi riletto nel 2006

Elogio di un compagno periferico

di Ennio Abate

Io e Montaldi

Ho conosciuto di striscio Danilo Montaldi tra 1973 e 1975, quando ho scambiato con lui alcune lettere e l’ho in contrato in due o tre occasioni. In quegli anni ero un militante di Avanguardia Operaia  e a lui, non so come, era capitata tra le mani un ciclostilato, una “Lettera aperta ai compagni del Pci” di Cologno Monzese che avevamo distribuito  per strada. Continua la lettura di Montaldi riletto nel 2006

Un «filo» tra Milano e Cologno Monzese

Disegni di Tabea Nineo 1978

Franco Fortini e gli “intellettuali periferici”

di Ennio Abate

quel filo che più
non brilla e che fu
tuo, mio.
Franco Fortini, Poesie inedite
 
 

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Gli anni Settanta nel «panorama storico» di Gianfranco La Grassa

Articolo uscito sul n.8 cartaceo di POLISCRITTURE (dicembre 2011) scaricabile qui

di Ennio Abate

Tempo fa un giovane storico mi confidò che, a suo parere, molti colleghi più anziani di lui erano rimasti fissati (questo il termine usato) agli anni Settanta. Non gli dissi che anch’io, senza essere storico, torno spesso su quegli anni; e, anzi, ho tentato invano di indurre amici, che come me da lì politicamente e culturalmente vengono, a rifletterci assieme. La damnatio memoriae non cede. Ogni tanto, però, scopro con piacere  che qualcuno non li liquida come «i peggiori della nostra vita»[1] e ci torna su quegli anni in modi non banali. È il caso di Raffaele Donnarumma, che in un saggio dedicato al «terrorismo nella narrativa italiana»,[2] si attesta sulla posizione moderata di chi «combatte da anni per impedire l’equiparazione tra gli anni Settanta e gli anni di piombo»[3] e così sintetizza il trapasso da un’epoca a un’altra avvenuto allora: 

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2005 Intervista a Michele Ranchetti

di Ennio Abate

Ennio AbateIl tuo libro [Non c’è più religione] ripercorre «storicamente» gli elementi della dottrina cattolica e contesta in modo rigoroso il magistero della Chiesa cattolica. Resta – mi pare – nella dimensione religiosa e ripropone però con attenuazioni e problematicamente il recupero di «un senso religioso della vita», lasciando in sospeso la questione della necessità o meno di un tale recupero. Come mai questa sospensione? Cosa t’impedisce di affermarne decisamente la necessità?  

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Il gatto di Fortini

di Donato Salzarulo

Ripubblico nella rubrica ANTOLOGIA DEI VECCHI SITI DI POLISCRITTURE questo saggio di Donato Salzarulo, comparso nel 2012 e non accessibile al momento sul vecchio sito (2010 -2013). Ricordo che il saggio si trova però anche sul sito LA POESIA E LO SPIRITO (qui )e sul vecchio sito di MOLTINPOESIA (qui). [E. A.]

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