Da giovane l’ho desiderato. Ma i miei pochi tentativi di lavorare professionalmente come scrittore o come artista sono sempre falliti. E ho accettato senza troppi drammi di fare altri lavori (impiegato, operaio notturnista alla SIP, insegnante) per mantenermi e mantenere la famiglia che mi ero fatto, continuando però sempre – sia pur da isolato – sia a scrivere (soprattutto) e, più episodicamente, a disegnare o dipingere. Continua la lettura di Al posto della “vocazzione”→
Senza un ordine preciso rileggerò e selezionerò le cose scritte da vari autori (quasi tutti incrociati su FB) sulla guerra in Ucraina dal momento del suo scoppio (la mia prima reazione del 23 febbraio 2022 qui). Questo è il primo appunto.Continua la lettura di Sulla guerra in Ucraina. Rileggere, rileggersi (1)→
I primi pensieri e ricordi che poi svilupperò in A vocazzione in corso di stesura e pubblicazione qui su Poliscritture.
accettai come medicina/ da mani amiche/ nauseante clausura/
a decenni di distanza e d’esperienza/ con tremito di nuova/breve sconfitta [1]/ ho fotografato la mia prigione di una settimana nel tiepido autunno del 1951/
con quanta imperizia da bambino/ palpai frastornato le immagini del mondo che mi avevano assegnato/ loro/ i filosofi oscuri/ i parenti sfuggiti alla guerra/(e non potevano morire/ senza gravarci del viscido ossequio/ ai gestori dell’angoscia e della morte?)/ sono riusciti nell’impresa educativa/ quel loro linguaggio sta ancora nel nostro linguaggio/ pericolosa permanenza/ e fa disperata la scommessa nel futuro/ anche se evitasse puerilità e imbecillaggini/
e la vergogna di sfilare nella parata dei seminaristi teste rasate?/ l’orrore delle pulci nella brandina sconosciuta?/ la prepotenza in sguardi e gesti di chi è abituato al comando del capo sala?/ l’esempio intravisto – (ribellati anche tu!) – del fuggitivo riacciuffato? [2]/ il cibo scarso?/ la solitudine in mezzo a sconosciuti?/ peccati?/ e che peccati?/ l’indisponibilità al gioco/ lo sfottò negli sguardi della gente/ la dipendenza da consapevoli-inconsapevoli torturatori/ angoscia pesantissima e inesprimibile allora in parole / compagni (di sventura)/ uno si chiamava Tisi Aldo/
Salerno? manicomio clericale/ capitalismo?/ ma se eravamo ignari leccaculo di un sindaco democristiano e del parroco?/ ci salvò il risveglio sessuale/ si ribellò da solo il corpo/ l’intelligenza non poteva/ nessun pensiero allora se non di salernitudine/ manco un figlio di comunista tra i coetanei/ la voglia di amicizia/ claustrofobia/ poche fanciulle/ quali punti di appoggio per liberarsi ed esprimersi?/ anche fuori dal seminario/ così fortunosamente attraversato e sfuggito dopo quella settimana/ le amicizie erano solo quelle/ le strade solo quelle/ aggirarsi sentendosi traditori/ fra stessi preti e stesse bigotte/ non aver soddisfatto le loro attese/ loro restavano ancora i potenti/ avevano centri d’organizzazione e autorità/ riaccolto come simpatizzante/ ora che era sfuggita la vocazzione/ persa la via più luminosa per addestrati ambiziosi/
non servirono le immagini paesane raccolte a Barunisse da piccolo/ (non fummo mai primitivi, però)/ me le avevano già spazzate via/ arrivato a Salerno ero purificato come un impiccato di Villon/ cavia volenterosa per gioie possibili solo in città , in parrocchia e nei dopoguerra/ poche speranze/ scampate ma in esilio [3]/ scampate ma per ribellione delle mie visceri/ (marchiato comunque/ sì, ma ribelle comunque)/
da dove venivo/ veniamo compagni?/ da questo marcio/ marcio visibile per voi/ addosso dentro sotto la pelle per noi/ anni passeranno/ studi amicizie letture altre ribellioni impercettibili/ e soltanto per prendere le distanze/ soltanto per poter fotografare/ ancora un po’ la mano tremante/ quella prigione/ non reliquia/ quel seminario arcivescovile/ mentre la DC già perdeva voti/ diminuivano le vocazioni/ su Epoca conoscevo le prime illustrazioni a colori degli impressionisti/ conoscevo il primo comunista/ imparavo a cercare nei libri i segni di un mondo più respirabile/ altro che conoscenza libresca!/ per me i libri erano un oggetto di lusso da rubare/ incontravo gente/ carte assorbenti per me/ assorbivano un po’ i miei spurghi d’angoscia/ i miei innamoramenti da Guerrin Meschino [4]/
gente gente gente/ impiegati operai studenti/ incontri che tornano ad essere pochi/ e saltuari/ e difficili/ basterà mai essere fuggito in esilio?/ e quelli che restarono in quel seminario e sono oggi preti?/ per un pezzo scartato/ quanti riusciti?/ e uno scarto è sempre uno scarto/ porta il segno di un progetto diverso nel suo corpo/ non basta l’invettiva a trasformarlo/
ora siamo scampati a un seminario rosso [5]/ anche qui appena in tempo e non senza danni/ le carte ancora scompaginate/ l’osservatorio lì in alto/ che doveva permettere una visione unitaria del passato e del mondo/ è più in basso che mai/ ai piedi della montagna/ manco a metà strada/ ci si deve rimettere in cammino/ nuovo esilio/
vederci ancora ragazzi/ quasi proletari/ vittime di un’istituzione cattolico borghese/ perché il cattolicesimo riguarda i proletari/ la parte più sguarnita dei proletari/ ma basta?
Note
1. Riferimento alla militanza in Avanguardia Operaia (1969-1976).
2. Uno dei ragazzi era scappato dal seminario ed era stato poi ritrovato per le strade di Salerno e riportato tra di noi.
3. Riferimento alla mia “fuga” a Milano nel ’62.
4. Di questa figura della tradizione cavalleresca a me arrivò ragazzo solo il nome e qualche suggestione attraverso la lettura di un fumetto. Non saprei dire se apparso sui primi numeri usciti nel dopoguerra de Il Vittorioso. Mi aveva colpito un’espressione che il cavaliere rivolgeva al suo cavallo: “la mia salvezza è affidata ai tuoi garretti”. Che non riuscivo a decifrare ignorando il significato di ‘garretti’. Mi accorgo soltanto oggi che è una corposa opera scritta intorno al 1410 da Andrea da Barberino. (Wikipedia)
5. Ancora riferimento alla mia militanza in Avanguardia Operaia.
Quelli i temuti giudici delle sue azioni e parole. (O osservatori occasionali?). Della loro attenzione nei suoi confronti, del resto, era lecito sospettare. Come fantasmi, però, c’erano. Per lui. Nessun dubbio. E non rinunciava a interrogarsi e a interrogarli. Lo gidicavano troppo protettivo? Piccoli episodi quotidiani parevano una conferma. Non aveva coi figli abbuonato spesso e a loro vantaggio i turni pattuiti per le piccole faccende domestiche? Aveva persino accompagnato in auto la figlia E. fino alla lontana discoteca, malgrado non ne avesse voglia. E si era dato da fare per le difficoltà scolastiche di D., coetanea di E., correggendole i compiti di latino e facendola ragionare al momento in cui lei voleva abbandonare la scuola . Quei piccoli fatti confermavano una sua disponibilità riottosa e burbera a ritrovarsi alleato dei giovani. Pur provando altre volte un vago sentimento – di “debolezza” lo definiva – di contrapporsi a loro. Continua la lettura di Prove di narratorio 1982→
SULL’ASSEMBLEA DELLE LISTE CIVICHE (ARTLISTA E CSD)
6 OTTOBRE 2022 IN VIA PETRARCA A COLOGNO MONZESE
di Ennio Abate
Ieri sera sono stato all’”auditorium” di Via Petrarca per seguire l’assemblea pubblica di ArtLista e CSD. La prima dopo il commissariamento del Comune di Cologno Monzese ma anche dopo la clausura per Covid e lo sconquasso per la guerra in Ucraina. Un po’ di pubblico (di anziani, molti di loro con un certo passato politico alle spalle) e anche qualche giovane.
Che delusione, però!
In una notte piovosa. C’era uno omino con una testa grossa che, mentre correva, perdeva pezzi del suo corpo. Perse dapprima un piede. Poi la mano, mentre il fascio di luce di un lampione (che subito dopo si spense) gliela illuminò, squarciandola). Biancore tremendo. Si sentì l’inizio di una musica: un andante disperato. Un cane latrò. La musica si arrestò.
L’ombra dell’uomo che correva – aveva perduto ormai tutto il petto, cuore compreso – schizzò davanti a lui. Fermati, ti prego! – gli disse – Non sei più quello di una volta. Fatti in là, maledetta – sibilò l’omino – Non mi hai voluto coprire quando avevo freddo. Adesso vattene!
Passavano alcuni giovani. Uscivano da un cinema discutendo della trama del film appena visto. Esprimevano impressioni bambinesche e se le ributtavano addosso l’un con l’altro. Ad alta voce. L’omino voleva intervenire. Aveva visto anche lui quel film.
Ormai, però, aveva perso quasi tutti i suoi pezzi. La sua testa tonda stava finendo di rotolare verso un muro in fondo alla strada. Il suo occhio, prima che la testa si fermasse dolcemente sul ciglio del marciapiedi tra mozziconi di sigarette e cartacce colorate, staccandosi saltellò oltre sull’asfalto come una biglia .
Riapro la cartella 1973-1975. I fogli sono dattiloscritti. Alcuni sono di carta velina. (Allora si usava ancora per ricavare una o più copie di un documento dattiloscritto, mettendo tra i fogli la carta carbone[i]Continua la lettura di Riordinadiario 1975→
Prima del Laboratorio Moltinpoesia di Milano. Lettera a Maurizio Cucchi su moltitudine e poesia
Caro Maurizio, ti ringrazio per le osservazioni al mio scritto. Vorrei rassicurati circa i timori che mi pare di cogliere in alcuni passaggi della tua lettera. Gli incontri in preparazione sulla poesia fra i redattori milanesi di INOLTRE e alcuni poeti (Majorino, tu, Neri, ecc.), proprio perché seminariali e d’approfondimento, dovrebbero evitare le battaglie da pollaio. Lascio da parte la questione del successo letterario, estranea alle mie ambizioni(su questo punto credo di essere, con tutte le conseguenze anche negative, un asceta, un eremita). Invitando voi, che comunque avete pubblicato e conoscete dal di dentro (o più da vicino) i meccanismi di selezione e riconoscimento di editoria e accademia, non ho inteso tendervi una “trappola” per dar sfogo ai latenti (e pur presenti, lo sai bene) mugugni di poeti o scrittori “non ufficiali” contro altri “ufficiali”. Sono convinto, quanto te, della ingenuità di una manichea divisione tra ufficialità e non ufficialità e in quel che scrivo e faccio credo di contrastarla decisamente. Meno convinto, invece, resto sulla inutilità di una fortiniana verifica dei poteri delle corporazioni (o, se la parola infastidisce, degli aspetti istituzionali ed organizzativi sui quali la poesia pur poggia; a meno di non vederla come colomba spirituale che volteggia sulle umane miserie e si posa imprevedibile sugli eletti ora in un casolare di montagna ora in un vicolo napoletano ora in un ufficio metropolitano). Riconsiderare gli aspetti “materiali” e “socio-istituzionali” del fare poesia può sembrare oggi superato. Tu giustamente sottolinei alcuni dati che scoraggerebbero un impegno in tal senso: le corporazioni ci sono sempre state, e semmai peggiori [di quelle d’oggi]; chi è dentro ha più o meno lo stesso ascolto di chi è fuori. Vale a dire sostanzialmente nullo; mai la ricerca letteraria che conta ha avuto un vero pubblico; e comunque, malgrado le corporazioni, i poeti veri (Fortini, Penna, Sereni, ecc.) non sono mai stati trascurati. Di mio aggiungerei addirittura altri inconvenienti. Ad esempio, che questo tipo di ricerche potrebbero dar la stura a chiacchiere sui poeti, sulle biografie, sulla dimensione sociologica della poesia a scapito delle questioni più interne (formali, psicologiche, linguistiche, stilistiche, interdisciplinari, tecniche, metriche, di rapporto con il “mondo”, la “realtà”, ecc.). Eppure, malgrado queste nubi incombenti sulla serietà dei miei intenti, credo che serva oggi una riconsiderazione della poesia in grado (se ne fossimo capaci!) di criticare con ponderazione sia la routine accademico-editoriale, che si è ritagliata prevalentemente [il compito del]la trattazione specialistica – spesso raffinata e ammirevole – degli “interni” della poesia, trascurando boriosamente o stoicamente o cinicamente le crepe della sua facciata, il crollo dei cornicioni, ecc., sia l’ossessiva e tumultuante ripetizione di arrembaggi inconcludenti da parte di esclusi o rampanti: dotati o meno, scrittori in ombra o scriventi, bisognosi di terapie più che di poesia o termometri di un disagio vero non solo esistenziale ma anche del sapere poetico (e, in generale, letterario o artistico o umanistico). E proprio per incrociare e far valere alcune delle esigenze che tu pure – mi pare con una certa disperazione – hai presente (quando parli di un qualunquismo e una confusione generale organizzata; o quando sottolinei che chi pur sta dentro se la vede brutta). Perciò, malgrado le obiezioni, la tua lettera mi incoraggia. Sei scettico sull’ esodare e mi poni la questione: come si fa a uscire quando non si è davvero dentro? Quando nessuno ti vuole davvero dentro? Qui censuro la mia molla “utopese” che si troverebbe forse in attrito (e a mal partito) col tuo lombardo realismo. Intendendo il termine dentro da te usato non semplicemente riferito – che so – ad un’istituzione, ad un ambito pubblico visibile, mi limito per il momento a constatare che siamo tutti dentro un affanno esistenziale e storico che ci impone, appunto, mercato o lamentazione. L’esodo forse deve essere da questi due ghetti: uno oggettivo (terribile!) e l’altro soggettivo (logorante fino alla follia). Un caro saluto Ennio