Su due scritti di Romano Luperini e Emanuele Zinato

 *Romano Luperini insegna Letteratura italiana alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena. Ha pubblicato, tra l’altro, La scrittura e l’interpretazione. Storia della letteratura italiana nel quadro della civiltà e delle letterature dell’Occidente (in collaborazione con Pietro Cataldi, Palermo 1999), Breviario di critica (Napoli 2002) e L’autocoscienza del moderno (Napoli 2006). Dirige le riviste di critica e teoria della letteratura “Allegoria” e “Moderna”. E’ autore di monografie su Montale, Tozzi, Verga e Pirandello. Ha pubblicato due romanzi: I salici sono piante acquatiche (2002) e L’età estrema (2008)
* Emanuele Zinato (Venezia 1958) lavora presso il Dipartimento di Italianistica dell’Università di Padova. Ha pubblicato saggi su questioni di critica e teoria della letteratura e su numerosi scrittori del secondo Novecento (Calvino, Vittorini, Fortini, Primo Levi, Bilenchi, Zanzotto, De Signoribus). In contatto con Paolo Volponi fin dal 1990, ha curato due raccolte di prose volponiane (Scritti dal margine, Manni, Lecce 1994; Del naturale e dell’artificiale, Il lavoro editoriale, Ancona 1999) e la raccolta delle Poesie 1946-1994 (Einaudi, Torino 2001) e ha pubblicato la monografia Volponi (Palumbo, Palermo 2001)

 

Su  Romano Luperini, Cinque tesi sull’insegnamento della letteratura in L’ospite ingrato I, 2005  e Emanuele Zinato, Dei confin idella letteratura. Le prospettive di una didattica interdisciplinare, in Allegoria, 37, 2001 (e in Chichibìo, n. 39) 

 

Letteratura, studi postcoloniali e didattica. Una riflessione del 2007.

In Appendice un carteggio Abate-Zinato.

 

Vorrei qui dichiarare la mia simpatia per gli attuali studi postcoloniali e difendere il valore della loro contestazione nei confronti delle “nostre” letterature. Esporrò perciò brevemente alcune perplessità sulle cose intelligenti ma diffidenti (mi pare) scritte in proposito da Romano Luperini (Cinque tesi sull’insegnamento della letteratura in L’ospite ingrato I 2005) e  da Emanuele Zinato (Per distinguere il bimbo dall’acqua sporca in Chichibìo n. 39, sett.-ott. 2006).

Nelle sue tesi ampiamente condivisibili, Luperini al punto 2 tocca il tema dello «studio delle letterature straniere» e propone «un canone interculturale» che prevede uno studio a tre livelli delle letterature straniere: dalle più vicine per storia e lingua (autori europei, autori occidentali «particolarmente dell’America del Nord e del Sud», p. 97) alle più lontane (autori africani e asiatici).Le mie perplessità insorgono quando Luperini giudica più complesso estendere lo studio agli autori del terzo livello – quelli «di lingue non occidentali»  e pur affermando che «una letteratura senza frontiere è il preludio migliore a un mondo senza frontiere» (p.98) finisce – a mio parere – per ridimensionare quel ”principio di presunzione di eguale valore” dell’antropologo Charles Taylor da lui citato, con questa dichiarazione:  esso «non deve significare rinuncia a un’identità culturale, ma suo allargamento», p. 99).  Per cui si tratterebbe di «avere una identità nazionale ed europea forte» e, allo stesso tempo, di «nutrirla dialogicamente con contributi provenienti da altri mondi e da altre culture» (p. 99).

Mi chiedo: perché lo studio di autori africani e asiatici sarebbe più complesso? Non voglio credere che lo sia per mere questioni pratiche (meno traduttori di quelle lingue). Se Luperini stesso ricorda che «ciascuno di noi ha ammirato Guerra e pace o Delitto e castigo, riconoscendoli come capolavori letterari, pur senza sapere una parola di russo» (p. 96) questo può valere anche per Soyinka o Lu Hsun. E allora perché è più complessa l’estensione dello studio al terzo livello?

In secondo luogo, non credo che si possa allargare un’identità culturale, senza abbandonare almeno qualcosa di essa. Sempre Luperini cita l’esempio illuminante degli insegnanti di letteratura italiana delle tre università toscane, che nello stilare il programma delle Ssis per il Settecento  hanno scelto Goldoni e hanno dovuto sacrificare Alfieri e Parini.

In terzo luogo, non ritengo che «ogni dialogo è tanto più fruttuoso quanto più l’interlocutore, muovendo da una sicura coscienza di sé, è disposto a mettersi in gioco confrontando la propria autocoscienza con quella altrui» (p. 99). Spesso, tanto più compatta è questa «coscienza di sé», tanto più si svela superba, autosufficiente o pronta a mille acrobazie per riaffermare il “suo” universalismo e annettersi in subordine le ragioni degli altri e delle altre.

Ma c’è di più. Per costruire quella «civiltà del dialogo a cui tendiamo» (p.98), temo che non disponiamo più (e da tempo) di una «coscienza di sé» unitaria. Quella esistente è in fondo una coscienza nazionale, più o meno ampliata (europeizzata o occidentalizzata), ma marchiata, purtroppo, da una storia fatta non tanto di dialogo ma di aspri e sanguinosi conflitti religiosi, etnici e di classe. Dilaniata già al suo interno, è stata poi “globalizzata” in altri mondi; e sempre attraverso l’assoggettamento, la repressione e l’esclusione degli altri (i “selvaggi”, i “primitivi”,  gli “arretrati”); ben poco dialogando con loro.

Semmai punterei a quel tanto di «coscienza di sé» (residuale e dispersa) in crisi o infelice, espressa da movimenti di lotta e da intellettuali (pochi purtroppo!) che hanno saputo esplorare le viscere della storia “comune” europea ed occidentale, quella che ha partorito stermini di indios e pellirosse, colonialismi, due guerre mondiali, la Shoah, Hiroshima e Nagasaki.  Solo questa «coscienza di sé» ha aperto alcuni varchi per accostare gli “altri” e le “altre”, che – eretici, streghe, classi pericolose, folli prima; banditi, contestatori, femministe, precari, extracomunitari più recentemente – restano, malgrado tutto, figure opache e ancora rimosse.

 

Ora, nel disordine mondiale incalzante, che secondo alcuni logora senza vie di scampo gli Stati-nazioni (i fondatori della «coscienza di sé» unitaria, ufficiale) o secondo altri (lo sostiene, ad es., Saskia Sassen in un’intervista de il manifesto, 3 feb. 07) sta cambiando la loro fisionomia “assemblando” a livello globale le loro élite, la proposta di Luperini mi pare insufficiente.

Uno studio delle letterature straniere, che sembra quasi ripercorrere la strada maestra seguita dall’espansione europea e occidentale sul resto del mondo e rischia di mantenere inalterate le vecchie gerarchie o di erigerne nuove, magari non più strettamente nazionali (o nazionaliste) ma, per così dire, tra gruppi di nazioni più “affini”, non mi convince. Pur riconoscendo il suo “realismo”.

A questo punto, però, per uno come me, allevato nella gabbietta “nazional-popolare”, dalla quale a stento ha potuto spiare le «letterature straniere», il discorso si fa arduo. Non ho le carte in regola per condurlo più oltre, né mi sento  di ribaltare provocatoriamente o velleitariamente la proposta di Luperini, promuovendo – che so – al primo posto o al secondo le letterature africane o asiatiche. Mi limito quindi ad agitare senza se e senza ma il «principio di presunzione di egual valore» di Taylor e ad auspicare – non so come – che lo studio della contemporaneità di tutti i popoli e di tutte le letterature del mondo possa essere affrontata in una logica assolutamente antigerarchica.

 

Altrettanti dubbi mi suscita pure la strisciante polemica che Zinato conduce su Chichibìo n. 39  nei confronti dei postcolonial studies, accusati di considerare la letteratura come «uno dei discorsi del dominio».

Forse mi attardo troppo sul vecchio Fortini, ma non riesco a togliermi la spina che ficcò nel fianco di chiunque ami la letteratura: «Eppure mi è sempre stato chiaro che la poesia [ma il discorso vale anche per la letteratura, nota mia], proprio in quanto forma che si oppone al mutamento, ha anche una sua dimensione conservatrice e conciliatrice. Come gli stessi Horkheimer e Adorno hanno scritto, il canto della poesia e dell’arte è al servizio del dominio non solo perché è frutto dell’agio e del consumo come spreco e piacere ma perché la promessa di felicità e l’immagine di pienezza, che arte e poesia portano in sé, non possono essere altro che promesse e immagini, fiori sulle catene».[1]

Detto questo e precisato che la letteratura (ogni letteratura) non si esaurisce unicamente, esclusivamente, totalmente in un discorso di dominio come quelli di Bush o altri potenti del pianeta, non vedo come possa non appartenervi. Vi appartiene  nei modi ambigui ad essa propri  e che sono tipici anche della filosofia, delle scienze, delle arti e persino dei mass media. Non capisco, infatti, perché per Zinato soltanto la letteratura sia «caparbiamente ambigua» o perché il discorso letterario resti «il solo a dare voce al represso, magari anche contro le intenzioni dell’ideologia dell’autore». Ripeto: anche filosofia, scienze, arti e mass media (questi ultimi in forme forse più rozze o brutali) mostrano il represso.

Interessante sarebbe discutere quanto credito vada ancora concesso all’ambiguità e, nello specifico, all’ambiguità della letteratura. Rispetto agli studi postocoloniali, la questione al momento a me pare di accenti, significativamente diversi però. E mi chiedo allora: perché Said metteva in luce quanto Conrad facesse parte, malgrado il suo universalismo, del  mondo dei dominatori europei,  mentre a Zinato basta un «commento autoironico del narratore» per affermare che Conrad «supera, grazie alla forza critica della sua scrittura, gli stereotipi culturali della sua epoca e rappresenta, senza pregiudizi, la cruda situazione del dominio coloniale»? 

Concludo. La contestazione che gli studi postcoloniali fanno alle nostre ambigue letterature la prenderei molto sul serio (e del resto lo stesso Zinato su Allegoria, 37, 2001 la prendeva – mi pare – più sul serio che oggi su Chichibìo). Certo, «il discorso letterario allude a un “universale umano” di natura diversa da quello postulato dal neoliberismo», ma si tratta pur sempre di un’allusione!  E molti, troppi, nel mondo sono quelli che non possono contentarsi di allusioni. 

 

[1]F. Fortini, Dei confini della poesia in Nuovi saggi italiani 2, pag. 324, Garzanti, Milano, 1987

 

 APPENDICE 

Carteggio del maggio 2007

 

1. Zinato ad Abate:

 

Caro Abate,

 la prospettiva postcoloniale è, anche per me,   imprescindibile nell’ orizzonte critico attuale, ma ciò non toglie che non sia irta di pericoli, riassumibili nel rischio sempre in agguato di contenutismo e ideologizzazione.

 Marx ed Engels, come si sa,  hanno parlato di “trionfo del realismo” a proposito  de La Commedia umana di Balzac:  legittimista e reazionario l’autore, rivelatori di profonde contraddizioni sociali i suoi romanzi. Ma le estetiche prescrittive della Terza Internazionale, che pure a Marx e a Engels dottrinariamente si richiamavano,  hanno invece bollato come “decadenti” tutte le opere letterarie che non veicolavano eroi positivi e che non distinguevano didascalicamente il  bene dal male. Le aggressioni verbali agli scrittori precedevano in tal modo quelle fisiche: Zdanov arrivò a definire “iena” e “puttana borghese” una grande poetessa russa… 

  Questo “trionfo” delle verità artistiche è (come aveva capito Schiller all’alba dell’età borghese)  connesso a qualcosa che precede o che segue una scissione. E proprio Fortini in Verifica dei poteri considerava la forma estetica come custode di una prefigurazione, allusione a   una umanità indivisa, capace di redimersi, di darsi appunto una forma oltre la barbarie. Contro gli operaisti come Asor Rosa, in Astuti come colombe difendeva infatti, paradossalmente, la poesia pura.

  La letteratura è vergogna del privilegio, è fiore sulle catene? Ogni volta che un movimento ha lavorato per il mutamento dello stato di cose, ha finito per abbisognare a sua volta (così come di un corpo di specialisti della politica) anche di semplificazioni e contrapposizioni a-dialettiche, talvolta armate: schemi utili come clave propagandistiche, contrapposizioni secche fra nemici e amici, ragioni e torti. Tu dici che a chi lotta non può bastare l’ambivalenza, la polisemia. La letteratura, inerme e talvolta parzialmente complice, guarda però oltre questa scissione e, seminando i suoi dubbi e le sue misantropie, pur alludendo a una ricomposizione in apparenza “aristocratica”, proprio nel confondere le carte, non smette di alludere all’unità del genere umano.

  Questa alta considerazione dello statuto conoscitivo e utopico della letteratura può esser applicata a testi canonici “occidentali” così come a testi per eccellenza “postcoloniali”, purché si eviti, nell’interpretare gli uni e gli altri, di ridurli alla loro superficie contenutistica e ideologica(ora reazionaria, ora rivoluzionaria). Prendiamo come esempio un testo di una letterata-migrante contemporanea:    Igiaba Scego (Roma, 1974), scrittrice italo-somala che, nei suoi racconti, ha affrontato, attraverso il tema del corpo, le problematiche della doppia appartenenza.

 Si tratta de La strana notte di Vito Renica leghista meridionale (2004) un racconto pubblicato nel 2004 in rete sulla rivista “El Ghibli”,  il cui protagonista, Vito Renica, è un italiano emigrato da Napoli a Milano. Divenuto responsabile del personale in un’azienda, tenta di aderire alle mitologie del denaro e del successo individuale e rifiuta la sua appartenenza meridionale,  cancella la memoria del suo dialetto d’origine e non vuole più incontrare i suoi genitori.  Aderisce così alla Lega Nord, movimento che ha propugnato la secessione della cosiddetta “Padania” dal resto dell’Italia. Renica è razzista nei confronti degli stranieri migranti e paradossalmente anche nei confronti degli italiani del Sud. Il corpo però gli si ribella tra le mani e, come prezzo della rimozione della propria identità,  Vito soffre di colite cronica. “Chattando” in rete conosce ladybird1974, nick name di una donna di idee democratiche. Attratto dall’idea di conquistare una ”femmina” ideologicamente avversa, Renica  parte per Roma e, durante il viaggio, continua a maledire gli immigrati che intasano  stazioni e  autobus.  A causa di un black out a Roma, tuttavia, ha modo di incontrare gli “stranieri” in un momento in cui il suo intestino ribelle, non più controllabile, lo sottopone a un disagio corporeo che gli farà riconoscere ciò che di sé aveva rimosso.  

   Veniamo ora all’interpretazione e al giudizio di valore. Dove questo raccontino mostra la sua debolezza e dove, viceversa, la sua forza?

 La debolezza l’avvertiamo proprio là dove il testo sembra voler veicolare una “tesi” interculturale: quella tipica della letteratura migrante sorta  come movimento ad opera di giovani intellettuali  nati in Italia,  figli della generazione approdata nel nostro paese negli anni Ottanta. L’evento che ha portato a consapevolezza questo movimento è infatti la morte di Jerry Masslo, un ragazzo sudafricano venuto a lavorare nei campi di pomodori in provincia di Caserta,  ucciso nell’agosto del 1989 da una banda di razzisti. Obiettivi polemici del testo di Igiaba Scego sono dunque la Bossi-Fini, il razzismo leghista, l’intolleranza. Alla superficie il racconto mette in scena un personaggio-bersaglio, Vito leghista, e un   personaggio “troppo” positivo (e assai sfumato),  ladybird1974, ragazza meticcia, ecologista e antirazzista, che rappresenta il rovescio del rampantismo nevrotico e razzista. Non sfugge a esempio che la data di nascita del personaggio femminile, esibita nel nick name, sia la stessa dell’autrice.

La forza del testo invece l’avvertiamo un po’ più in profondità: nell’identificazione che  esso segretamente ci chiede  proprio con Vito Renica,  coi sommovimenti del suo corpo, con l’esigenza nevrotica di far carriera, di avventure amorose, di tagliare i ponti con le radici famigliari, con la sua  solitudine e le sue idiosincrasie.  

La strana notte di Vito Renica leghista meridionale mobilita la simpatia del lettore per  Vito. Ciò non salva il testo da una conclusione fortemente ideologica e semplificante: Vito nella notte del black out si redime, cambia identità. In verità noi sentiamo che le cose sono assai più complesse: i migranti stessi in primo luogo sono spesso assetati di nuova appartenenza, integrazione, successo, arricchimento. I leghisti, poi, difficilmente cambiano la propria visione del mondo. Ma l’onore del piccolo testo di Igiaba sta nell’affermare in filigrana (oltre le conclusioni “positive”): siamo tutti, italiani del Nord e del Sud, magrebini, cinesi, somali, almeno per metà, per “la metà del vero”, dei Vito Renica.

 “Tra i nomi dei nemici scrivi anche il tuo nome”. “La poesia non muta nulla, ma scrivi”: queste affermazioni, che Fortini affidava ai propri versi (Traducendo Brecht) per la loro contraddittorietà, non possono trovar spazio in un manifesto politico e forse nemmeno in un saggio critico. In un testo letterario, (anche in quello di Igiaba) sì.

 

Emanuele Zinato 

 

2. Abate a Zinato:

 

Caro Emanuele,
ora che ho letto su Chichibìo la risposta che mi avevi già anticipato per e-mail, vorrei aggiungere alcune osservazioni:
– nel mio scritto ho riconosciuto che “la letteratura (ogni letteratura) non si esaurisce  unicamente,esclusivamente, totalmente in un discorso di dominio” e perciò la tua risposta, tesa a ricordarmelo, sfonda una porta aperta;
– tu  eludi (così mi pare…) il problema da cui partivo: l’ambiguità della letteratura, che è poi – diciamocelo – ambiguità verso il potere (determinati poteri), è un limite; e la rassegnazione ad alludere soltanto a un “”universale umano” di natura diversa da quello postulato dal neoliberismo” è un’autogiustificazione dei letterati, insopportabile quando ci si mettesse di fronte a “quelli che non possono accontentarsi di allusioni”;
– temi che  la prospettiva postcoloniale  risusciti estetiche prescrittive e contenutismi zdanoviani da guerra fredda; può darsi (non sono un conoscitore diretto di questi studi);  e fai l’esempio del romanzo di Igiaba Scego; ma esso per me conferma non solo il limite delle posizioni contenutistiche ma anche quello dei difensori dell’ambiguità della letteratura;
– anche per me, infatti, la debolezza di questo romanzo sta, come tu noti, nel veicolare una tesi interculturale troppo scopertamente propagandistica e una visione “semplificante” dei rapporti tra nuovi migranti e italiani; ma Igiaba rimedierebbe parzialmente a questo difetto se fosse più consapevole dell’ambiguità della letteratura (che forse è poi soprattutto ambiguità delle letterature occidentali?); e se, insomma, invece di assorbire la tradizione contenutista, zdanoviana, assorbisse quella del marxismo critico alla Fortini, in cui noi ci muoviamo;
–   invece di contrapporre – come forse abbiamo fatto in questo nostro botta e risposta – le posizioni di un Fortini “giovane” (Verifica dei poteri) a quelle  di un Fortini “vecchio” (la mia citazione), e quindi adornismo e post-adornismo, dobbiamo portare più oltre la staffetta che Fortini ci ha consegnato sul finire della sua esistenza;
– è possibile – questa l’idea che mi gira in testa – cominciare a pensare e a lavorare per una letteratura “disambigua” (o meno ambigua) senza cadere nelle semplicazioni zdanoviste? Questo significherebbe per me mettere tra i nomi dei nemici “anche il tuo nome”, cioè mettere anche il nome della letteratura.
Un caro saluto
Ennio

 

3. Zinato ad Abate:

 

Caro Ennio,

ci sono delle difformità notevoli nel nostro modo di intendere la letteratura. Provo a sintetizzarle, con spirito di dialogo ma senza mezzi termini.  

La questioni centrale che tu poni è poetica e politica: lavorare per una letteratura disambigua. Per forme estetiche che anziché  ubriacare risveglino. Per me l’ambiguità è una risorsa,  per te un limite.

Il vero modello per me, a tale proposito, oltre al Fortini di “astuti come colombe”, è Francesco Orlando, con la sua teoria freudiana della letteratura.

Non credo che la letteratura allegorica, didattica e impegnata, dall’illuminismo fino a Brecht, sia di serie B rispetto a quella simbolico-analogica.  Non lo credo però perché  quei testi apparentemente  disambigui e trasparenti, rivelano a loro volta  in filigrana  solidarietà segrete  con le ragioni “superate” che a prima vista mostrano di voler bandire.  Questa intrinseca  ambivalenza può legittimare le letture incentrate sull’indecidibilità del senso (come fanno i nichilisti e decostruzionisti), ma anche può arricchire di dubbi la nostra autocoscienza di lettori e rivelare con lampi chiaroveggenti le linee di faglia di un’epoca culturale, occultate da tutte le ideologie.

Di quei dubbi, di quella criticità e di quella profezia io sento oggi il bisogno, e per questo non scrivo il nome “letteratura” tra quelli dei nemici. La metà di me stesso che sento di includere nella lista dei nemici riguarda al contrario una certa mancanza di problematicità e di sbrigativa risoluzione in favore della “prassi”che in gioventù posso aver a volte mentalmente praticato, riducendomi a pensare che il fine giustificasse i mezzi. Non sono un “pentito”, ma non sono neanche cieco alle abbaglianti manifestazioni della crisi dei movimenti antagonisti: forse troppi – tra cui quella metà di me stesso – dei partecipanti  passarono di semplificazione in semplificazione, riducendo la complessità del reale a uno schemino fumettistico. Come scrive Sciascia, se quei giovani  barbuti avessero letto Stendhal non avrebbero compiuto quelle semplificazioni.    Altro che tra i nemici….

Grazie dell’opportunità di discutere

Emanuele

 

 

 


[1] F. Fortini, Dei confini della poesia in Nuovi saggi italiani 2, pag. 324, Garzanti, Milano, 1987


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