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Poliscritture 3. Un confronto

 di Giulio Toffoli e Ennio Abate

Rendiamo pubblica questa  riflessione di Giulio Toffoli e mia. Partita da una poesia, è diventata interrogazione preoccupata sulla fine  della storia da cui veniamo, sul mutamento sconvolgente e pieno di rischi che  l’umanità sta affrontando; e anche – in piccolo – sul senso stesso di continuare una rivista come Poliscritture oggi che ogni discorso di cooperazione critica  sembra divenuto impraticabile. Sui vari temi entrambi abbiamo dubbi  e giudizi diversi  o contrastanti.  E riconosciamo che è venuto meno   quel linguaggio comune, che  c’era o ci siamo illusi ci fosse fino a un recente passato. Tuttavia, pensiamo sia ancora utile confrontarci anche con altri e cercare dire al meglio, per quanto è possibile,  le nostre (scisse)  verità. [G. T. e E. A.] Continua la lettura di Poliscritture 3. Un confronto

Duccio Demetrio: «Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione»

NOTE DI FINE ESTATE (8)

di Donato Salzarulo

[Questa recensione fu pubblicata per la prima volta nella rubrica “Viva la Scuola” del sito “La poesia e lo Spirito”. Il libro di Duccio Demetrio rimane un’ottima lettura anche in vista delle prossime vacanze natalizie.]

A scuola scrivere è quasi sempre un dovere. Temi, esercizi, riassunti, relazioni, mappe, questionari…Tutto è finalizzato alla verifica degli apprendimenti e alla valutazione. Probabilmente non può essere che così. Una vasta quantità di scrittura ordinaria è funzionale allo studio o al lavoro. Anche qui, però, di tanto in tanto brilla la scrittura personale, quella intima, urgente, che accoglie tracce del Sé, del piacere o diletto con cui si è cercato le parole da depositare sulla pagina bianca. L’insegnante sa riconoscere il tema scritto oltre l’obbligo, l’utilità immediata, la ritualità scolastica e sociale. Facile immaginare il giudizio: «Ottimo! La traccia è stata elaborata in modo molto personale ed originale…»

Cosa fa debordare la scrittura? Cosa la fa uscire dai confini? Cosa la rende viva, interessante?… È la passione, l’amore, il desiderio di cercarsi per conoscersi meglio; la voglia di tessere il filo della propria vita e, se necessario, di darsene una nuova; di recuperare ricordi, immaginare futuri e non farsi adoratori dell’istante; è il bisogno di educare la propria sensibilità, di avere di fronte uno specchio, una confidente che può farsi amante docile, ma anche molto crudele. «Scrivere non è una professione, ma una vocazione all’infelicità» confessa Georges Simenon.

Tanti anni fa, inciampai per caso in un articolo di Roland Barthes (molte buone letture avvengono così). Elencava dieci ragioni per le quali lui immaginava di scrivere. Diventarono subito anche le mie. Spesso, da giovane, capita di mettersi totalmente nei pensieri di un altro. O, almeno, di averne l’illusione. Scrivo per un bisogno di piacere collegato al rapimento erotico, diceva Barthes. Come potevo negarlo? Non ero forse contento, soddisfatto quando pensavo di aver prodotto una bella poesia o un grande articolo? Scrivo per decentrare me stesso, la mia parola, la mia persona. Altro che narcisismo. Narciso c’entra, ma la scrittura decentra. E, infatti, sulla pagina ero io e non ero io. Medesimità e alterità. Scrivo

«per mettere in opera un “dono”, soddisfare un’attività distintiva, operare una differenza; per essere riconosciuto, gratificato, amato, contestato, contrastato; per assolvere impegni ideologici o contro-ideologici…» E così via fino al desiderio di «contribuire ad incrinare il sistema simbolico della nostra società» e a quello di produrre «sensi nuovi, ossia forze nuove, per impadronirsi delle cose in modo nuovo, per scuotere e cambiare l’asservimento dei sensi.»

Certo, tutto questo non era facile. Ma avere queste motivazioni nella pratica della propria scrittura, allora, era più che comprensibile e condivisibile. Probabilmente lo è ancora adesso. Togliersi di dosso la cappa del “sistema simbolico” cresciuto sul mercato unico e globale, la nuvola di piombo della lingua post-moderna e post-fordista non è auspicabile?… L’ultima delle dieci ragioni era questa. Scrivo, diceva il grande saggista francese:

«per eludere l’idea, l’idolo, il feticcio della Determinazione Unica, della Causa (causalità e “buona causa”) e accreditare così il valore superiore di un’attività pluralista, senza causalità, finalità né generalità, com’è appunto il testo.»

Abbastanza chiaro. Le ragioni per scrivere sono molteplici e, spesso, contraddittorie tra di loro. Non c’è una causa unica. Il testo può tradire le buone o cattive intenzioni dell’autore.

Con questo elenco in testa, ricopiato sulla prima pagina di un mio quaderno e imparato quasi a memoria, comincio a sfogliare l’ultimo libro di Duccio Demetrio: Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione. È una delle tante occasioni per confrontare ragioni e verificarle. Metterle alla prova.

Innanzitutto, perché l’ho comprato? Perché ho letto altri libri dell’autore e apprezzo il suo lavoro. Indimenticabile la sua Autoanalisi per non pazienti. Inquietudine e scrittura di sé (Raffaello Cortina, 2003). Letto e riletto, l’ho consigliato e regalato ad amiche ed amici.

Duccio Demetrio è professore di filosofia dell’educazione all’Università degli Studi di Milano Bicocca. Ha lavorato per anni nel campo della formazione degli adulti (e non solo); partendo dall’ipotesi bruneriana della “mente narrativa”, utilizza gli strumenti narrativi, il raccontarsi e l’autobiografia come cura di sé, crescita educativa, potenziamento delle proprie facoltà. Insieme ad altri ha fondato la Libera Università di Autobiografia di Anghiari, di cui è direttore scientifico, proprio riconoscendo la grande importanza delle scritture “senza lettori”: diari, racconti o romanzi autobiografici, epistolari, agende, appunti; scritture prodotte da «chiunque in condizioni difficili o per nulla tali abbia trovato nello scrivere un sollievo, un’ancora di salvezza per rispondere alla disumanizzazione, all’affievolirsi della coscienza» (pag. 26-27).

Comincio, come al solito, dalla bibliografia. Ogni libro è anello di una catena di libri. É raccolta ed eco. Isola di un vasto arcipelago temporale e spaziale. Qui il più antico è Omero, citato per la sua Odissea da cui si evoca Circe. I suoi sortilegi, stratagemmi e inganni sembrano avere qualcosa a che vedere con la scrittura, in certi momenti, arte magica. E poi c’è Ovidio, quello delle Metamorfosi. I suoi racconti servono all’autore per introdurre molti capitoli: ecco all’inizio la triste storia di Eco, ninfa boschiva e delle sorgenti, costretta a ripetere all’infinito soltanto le ultime sillabe delle parole pronunciate da una persona. «Da allora, ogniqualvolta le parole ci manchino, ricorrere alla penna ne dischiude il compiuto senso.» (pag. 35); e poi la storia di Eros e Psiche, di Ermes, di Pandora, di Flora e Persefone, di Apollo, di Poro e Penia, di Arianna, di Orfeo e Euridice, di Piramo e Tisbe, di Filemone e Bauci, di Narciso, Sisifo, Atteone, Asclepio, Chirone, Ila…

I miti greci e i loro personaggi ci sono quasi tutti. Demetrio attinge ad una lunga tradizione bibliografica. Il suo intento è di ascoltare il mito, di metterlo in rapporto con la pratica della scrittura. Tanto per esemplificare: scrivere è memoria e oblio, suggeriscono Mnemosine e Lete; per Apollo è luce e ombra; ricchezza e povertà per i genitori di Eros; impazienza e lentezza per Orfeo e Euridice; ingratitudine e riconoscenza per Filemone e Bauci.

Oltre che occasione per un sintetico ripasso, gli amanti dei miti greci, potranno reinterrogarsi sulla loro natura e funzione. Citando Agamben, per Demetrio i miti occupano il

«vuoto che si spalanca fra la sensazione e il pensiero, fra la molteplicità degli individui e l’unicità dell’intelletto […] Circoscrive uno spazio in cui non pensiamo ancora, in cui il pensiero diventa possibile.» (pag. 76).

L’Agamben chiamato in causa è quello di Ninfe e lo spazio che si delinea per i miti è quello dell’immaginario. Frutto prevalentemente della tradizione orale, quando comparve la scrittura, la decima Musa, non provvide soltanto ad inventariarli e classificarli, ma aggiunse immaginario ad immaginario. Così oggi per noi non è «il linguaggio orale a risvegliare la presenza mitica, bensì la scrittura che più dell’oralità si spinge nei recessi del nostro essere, ci mette in contatto con l’inconscio.» (pag. 79).

Andando avanti, la qualità della scrittura di Demetrio appare sempre più chiara: è saggistica, ma si abbandona volentieri all’anafora, all’analogia, alla sentenza evocatrice, spiazzante, alla pronuncia aforistica. Avendo a che fare con un prisma sociale dalle molte facce (le ragioni di Barthes riappaiono tutte), la linea concettuale, argomentativa si addensa su tre costellazioni: il perché si scrive, la filosofia dello scrivere, i miti che possono entrare in relazione con questa pratica. Molte sono le perle che si possono ricavare da queste pagine.

Scrivere è un balsamo sospetto, una ferita inguaribile, un commiato. «Inutile affanno è una vita senza scrittura.» I non-scrittori, pochi o tanti che siano, sono avvertiti.

dicembre 2011

Riordinadiario sul finire del 2020. Michele Ranchetti

Nel novembre 1995 all’università di Siena  per la commemorazione di Franco Fortini, morto l’anno prima (28 novembre 1994) seguii gli interventi tenuti da suoi amici e discepoli sulla sua figura e la sua opera.  Tra tutti fui  colpito da quello di Michele Ranchetti, tanto che scrissi una poesia (Abbiamo amato un poeta “fragile”). Nel 1996, dopo averlo incontrato in alcune riunioni del Centro Franco Fortini, gli scrissi una lettera, che andò dispersa. Gliela rimandai nell’aprile del 1997, dopo una sua  amichevole telefonata e da allora iniziò tra noi un saldo legame. Leggendo i suoi “Scritti diversi”, che mi donò, e gli articoli che andava pubblicando  su “il manifesto”, mi accorsi  di quanto fosse forte la sua personalità, ben distinta e per certi versi in contrasto con quella di Fortini, che io seguivo da tempo e sentivo più vicino a me per la sua scelta marxista. E capii pure che la sua riflessione così radicale e critica sulla storia della Chiesa Cattolica e sulla psicanalisi mi aiutava a ridiscutere nodi irrisolti della mia esperienza sentimentale ed  intellettuale stretta tra due crisi: quella della formazione giovanile cattolica meridionale   e quella della militanza marxista degli anni ’70 al Nord. Il materiale che pubblico (appunti  di diario, sunti di letture + alcune lettere) è abbondante e  per alcuni sarà  di gravosa lettura.  Ciascuno scelga liberamente  se e cosa leggere.  Pubblicarlo per me è un atto di gratitudine alla sua figura non più prorogabile; e ho voluto – non so bene perché – renderlo noto entro la fine di questo terribile 2020.  Se  stimolerà  altri a Rileggere Ranchetti, come non ho smesso di fare io anche dopo la sua morte, tanto meglio. [E. A.]   Continua la lettura di Riordinadiario sul finire del 2020. Michele Ranchetti

Ancora nella gabbia del lockdown

Mail a un amico insofferente

di Ennio Abate
Caro XY,
anche la nostra città è in “zona rossa” da domani fino al 3 dicembre e questi sono i miei pensieri all’annuncio delle nuove restrizioni:

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Coronavirus ed esperti

  «Questo virus ci fa capire cose che in tempi normali
  si fatica a far capire.» Giuseppe Remuzzi                  

di Donato Salzarulo

1.- La delega alla scienza che deve farla “da padrona”. La parola agli esperti.

Il 22 febbraio 2020, all’indomani della scoperta dei “focolai” di Codogno e di Vo’, Luigi Ripamonti, giornalista scientifico del Corriere della Sera, pubblica un editoriale pieno di buon senso. Tra l’altro, scrive: «È il momento in cui la scienza dev’essere “padrona”. Ed è il momento in cui l’informazione ufficiale, e non, dev’essere trasparente e seguire le regole fondamentali della comunicazione del rischio, la prima delle quali è di non negare, nascondere, o sminuire mai i pericoli, perché mentire è il modo più semplice per perdere la fiducia, e senza fiducia qualsiasi messaggio sarà poi ignorato o respinto, con grave danno per la sicurezza pubblica. E la seconda regola è ammettere limiti e incertezze del sapere disponibile, che è, certo, in continua evoluzione, ma che è anche l’unico patrimonio sul quale contare per agire in modo razionale.»

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