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Da”Pleasantville”

di Antonio Pizzol

Di questo giovane poeta, già affacciatosi su Poliscritture con suoi versi (qui), pubblico volentieri alcune poesie in dialetto veneto da una sua recente raccolta. Vi si coglie un realismo mantenuto su un pedale emotivo basso (ironico e autoironico), un’attenzione alle minuzie del quotidiano, un lavorio su sentimenti veri (e a volte anche umorali). [E. A.]

 1.
 Xe proprio in quel momento lì che sto ben,
 
 
 coe man che ‘e vedo già nere
 sensa neanca aver ‘l cofano verto
 che so che xe a bateria
 o qualche cavo distaca’,
 che basta un toco, na streta,
 e tuto se giusta e va…
 prima de aver le mani nere
 e i dei scusai, prima
 de sudar incastrà drio del filtro
 coe ciavi che ‘e casca e se sbrega ‘l manual,
 tanto prima de no saver niente
 e de sentir da n’altro le parole
 alternator e bobina.
 
 
 È proprio in quel momento lì che sto bene// con le mani che già
 le vedo nere/ senza avere ancora aperto il cofano/ che so che può
 essere la batteria/ o qualche cavo scollegato/ che è sufficiente un
 contatto, una stretta,/ e tutto si aggiusta e funziona…/ prima di
 avere le mani sporche di grasso/ e le dita rovinate, prima/ di sudare
 incastrato dietro al filtro/ con le chiavi che cascano e si strappa il
 manuale,/ molto prima di non sapere niente/ e sentire da un altro le
 parole/ alternatore e bobina. 
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25 poesie da “Disamorarsi d’essere”

di Eugenio Grandinetti

 Eugenio Grandinetti ha pubblicato, raccolte in quattro sezioni (Equilibri di penombre, Zooteca, Storie,  Et cetera),  un altro  libro di sue poesie. Ne propongo qui, facendo una scelta del tutto personale, alcune che meglio dicono  alcuni tratti tipici della sua ricerca: uno sguardo minuzioso ma interiormente partecipe sugli animali, esseri in preda a sentimenti (fossero di paura, come nell’immagine della lucertola, o di aggressività feroce, come in quella del falco) che indirettamente sono stati o sono anche suoi; una tendenza ad immobilizzare  in una “statica interiore” non solo il movimento delle cose (si veda «Mulinelli»), ma della memoria («Degli altri è bene /si perda ogni memoria, che non resti/ cattiva maestra al mondo della storia /di cui fummo pure parte»)  e, dunque, della storia dimostratasi inesorabilmente insensata e senza più scopo («Gli eventi/ che potevano esserci non furono»; « storia/ continua, senza capitoli e senza epilogo») ; una a-modernità baudelairiana  ma  più secca e quasi scorbutica della sua visione della città metropolitana, ridotta a «muro davanti ad altri muri», a vita monotona,  a «un ripetersi», a «ingranaggio», nel quale   il singolo – guardato o non guardato dagli altri – resta bloccato in una irrimediabile incomunicabilità; un esistenzialismo  che ora,  di fronte alla sua e all’altrui vecchiaia (si veda in particolare «Senescenza», «Un vecchio» ma anche «La mela marcia»),  si è fatto spietato e nulla abbellisce.  E tuttavia  questi versi – pacati, disincantati, dal tono mai muscolare ma sempre basso e riflessivo, che parrebbero monotoni ma sono dolcissimi – «sono tarli che scavano, che lasciano / vuoti profondi». Perché alludono ad una assenza incolmabile. Come nella bellissima evocazione  delle figure del nonno e del padre ne «L’asino di Pietrantonio», tanto più imponenti e leggendarie, malgrado le  minime  «orme» ( o ombre?) che hanno potuto lasciare sulla terra e  nel suo animo.  [E. A.] Continua la lettura di 25 poesie da “Disamorarsi d’essere”