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L’orgoglio di Cardano

di Paolo Di Marco

L’ultimo periodo della sua vita avventurosa, dal 1570 al 1576, Gerolamo Cardano la passò a Roma, ospite di quello stesso papa che appena prima l’aveva fatto imprigionare per il suo eretico oroscopo di Cristo.
È abbastanza curioso che il medico miracoloso e giocatore incallito, matematico e ingegnere di enorme presunzione, si accomodasse tanto tranquillamente in quella situazione, col suo carattere superbo e i numerosi vizi.
Ma un quaderno di appunti recentemente ritrovato in una collezione vaticana getta ora luce su quel periodo (1), anche se…(2)
Aveva realizzato anni prima un ingegnoso meccanismo per realizzare operazioni geometriche complicate, e pensò di costruire per la corte papale un automa capace di svolgere tutti i tipi di calcolo; erano di moda in quel periodo delle bambole che, seppur semplicissime, estasiavano i nobili prelati e le loro amanti emettendo gridolini con diverse intonazioni, così pensò di aggiungere al suo automa la capacità di esprimere apprezzamento per i risultati.
Come spesso accade l’entusiasmo e il caso ampliarono il progetto, spinti dal perfezionismo del matematico. Deciso a dedicarvi tutto il tempo necessario acquistò una fattoria vicina a Rieti con annesso un vecchio mulino. Fornito di rovere della miglior qualità e di dovizia di arnesi -alcuni dei quali da lui stesso inventati- iniziò la costruzione.
Mentre il motore del calcolo era abbastanza semplice – un sistema di ingranaggi a ruote dentate e leve collegate tra loro da aste e giunti per le operazioni algebriche di base, delle slitte a profilo elicoidale variabile per le operazioni geometriche e non lineari – il vero pezzo di bravura fu per lui la realizzazione dell’uscita: i calcoli dovevano venir declamati a voce. Così un ingegnoso sistema di carillons venne organizzato in modo da riprodurre le sillabe fondamentali, sì che la combinazione apparisse voce.
Anche l’ingresso dei numeri e le operazioni da compiere erano realizzati in modo semplice: un insieme di regoli con tacche per i numeri e i decimali, un altro regolo con tacche per le operazioni fondamentali; più complicato il sistema per la loro sequenza, con un insieme di regoli in parallelo, ognuno collegato a una parte degli ingranaggi centrali.
Mentre all’inizio il sistema era mosso a mano da una ruota, ben presto Cardano lo collegò al mulino così da avere continuamente l’energia necessaria. La costruzione, che occupava l’intero granaio della fattoria, occupò quasi tre anni: fresando, alesando e scanalando accuratamente tutti i pezzi di robusto rovere, bilanciando con precisione le distanze e gli equilibri, tarando le aste e registrando la robustezza degli snodi.
Il quarto anno il sistema iniziò a funzionare in continuazione, provando e riprovando le combinazioni e la correttezza dei risultati; la parte più difficile fu tarare la voce in modo che codificasse esattamente i risultati presenti sui regoli di uscita, ma anche questa parte ambiziosa alla fine risultò soddisfacente.
Per continuare le prove della parte vocale Cardano organizzò un sistema di selezione causale dei dati di ingresso da parte della macchina, così da evitare di dover riattraversare ogni volta la stanza per riimmetterli.
Ma una volta che tutto fu messo a punto, che le operazioni più complicate dettero i risultati corretti, espressi con voce metallica ma cristallina e melodiosa, Cardano sentì che mancava qualcosa. Sì la macchina parlava, ma non dava quello che lui voleva: la soddisfazione per i risultati raggiunti, quell’imitazione stupida ma efficace di emozione che le bambole di corte fornivano.
In un attimo di presunzione o di follia decise di far sì che la macchina, insieme ai dati di ingresso, registrasse anche il proprio stato; dopo un mese di progetti aggiunse ad ogni unità di operazione un sistema di pulegge e corde, intrecciate e collegate fra loro in modo da generare insieme una torsione e un avvolgimento, la prima proporzionale alla velocità di esecuzione, la seconda al numero di operazioni. E ulteriori corde univano tra loro le diverse unità, messe in tensione lungo la sequenza delle operazioni secondo il logaritmo degli avvolgimenti.
Fu un lavoro mostruoso, e la taratura richiese un intero anno. Ma l’orgoglio di Cardano ebbe la meglio, ed alla fine il risultato di questa rete di funi venne collegato all’uscita della macchina, dove andò a comandare delle trombe aggiunte ai carillons per amplificarne la voce e modificarne il tono.
Fu così che la macchina iniziò ad enunciare i risultati in tono soddisfatto o triste, entusiasta o declamante. Cardano riposò, e per tutta la settimana stesse ad ascoltare l’apparato cantare i suoi calcoli.
Per dare il tocco finale a quella che ormai gli appariva la maggior meraviglia dell’epoca collegò l’ingresso all’uscita, in modo che la macchina potesse declamare tutta l’operazione: “l’area di una circonferenza di raggio 2 è… pausa di un minuto…12,56637” con voce rombante e suadente insieme.
E infine Cardano, dopo 6 anni di lavoro, poté contemplare orgoglioso i risultati e pensare di mostrare quella meraviglia alla corte papale e al mondo.
Ritornò quindi a Roma ad occuparsi degli affari rimasti in sospeso, a blandire il papa ancora bisognoso delle sue cure, a rifarsi della fatica giocando interminabili partite a scacchi; iniziando anche le mosse preliminari della presentazione pubblica.
Nella sua assenza la macchina continuò a lavorare ininterrottamente, mossa dal mulino, e a cantare melodiosamente i suoi conti;
ma un fattore imprevisto, forse inevitabile dato il lungo collaudo, iniziò ad operare: qualche ingranaggio e qualche snodo, pur costruiti di duro rovere, si consumò quasi impercettibilmente; e il sistema, prima perfettamente bilanciato dalla somma abilità di Cardano, iniziò a trasmettere torsioni impreviste da una parte all’altra: ogni parte della macchina si trovò così in comunicazione con tutto il resto e soprattutto con la parte finale dell’elaborazione; e l’uscita del sistema di apprezzamento si trovò collegata anche come parte dell’entrata, in un insieme di vibrazioni che si propagavano in continuazione attraverso gli ingranaggi; quelli che erano inizialmente sussulti si smorzavano, riprendevano, si combinavano fino a dar vita ad un’unica onda che pulsava per tutta la macchina. Stando all’uscita la si poteva sentire percorrere i contorni avanti e indietro.
Fu così che, quando Cardano ritornò, sentì uscire dalla macchina suoni strani e senza senso uniti a parole e numeri ben distinti ma senza nesso apparente; insieme ai cigolii del legno sottoposto a sforzi sempre più intensi e alle vibrazioni caotiche dei carillons. Ma, nel momento in cui Cardano arrivò all’uscita per controllare, la confusione cessò per un momento, e una voce insieme cristallina e rombante profferì : “io sono…” E in quel momento lo sforzo ruppe il delicato equilibrio e la macchina rovinò in pezzi ai piedi del suo artefice.

Una versione orale contemporanea ma non comprovata racconta che quando il giorno dopo un disperato Cardano andò a raccogliere quello che restava del suo meraviglioso progetto la prima cosa che gli cadde sotto gli occhi fu il regolo d’uscita, fisso sul numero 666. la ‘Macchina analitica’ di Babbage

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(1) Archivum Apostolicum Vaticanum/digitavaticana.org/Reg.lett.2023/Gregorius PP XIII recipiens

(2) Delegazione di Asti dell’Accademia Italiana della Cucina, in data 7 febbraio 2005, ha registrato una ricetta “da ritenersi la più affidabile e tramandabile”. Depositata a Costigliole d’Asti con registrazione sottoscritta dal notaio Marzia Krieg

Lea Melandri e Stefano Ciccone su ” Essere maschi”

Oggi su Facebook , capitato per caso sulla pagina di Lea Melandri, ho letto questo suo articolo del  30 aprile 2019 che mi era sfuggito e riproposto oggi (qui). Lo  riporto su Poliscritture assieme ad un commento dello stesso anno di Stefano Ciccone. Il tema è di quelli importanti e da ruminare a lungo accanto e assieme ad altre riflessioni. Indirettamente e chissà  quando, credo possa aiutare a spiegare, se non a sciogliere, anche certi nodi più o meno stretti o ingarbugliati che inceppano spesso le discussioni fra uomini e donne quando parlano d’altro. [E. A.]

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Io sono mia       

di Marcella Corsi

        A via Pomponazzi* i piccoli gruppi di autocoscienza erano formati da 8-10 donne appena entrate e da una compagna veterana del collettivo, che faceva da tutor alle nuove. Nel nostro la “vecchia” era Biancamaria: ventinove anni, alcuni di militanza femminista (d’altronde il movimento non aveva più di quattro o cinque anni di vita). Noi nuove tutte intorno alla ventina, ma delle più disparate provenienze. Io addirittura con un padre che riceveva telefonate da Giorgio Almirante. Cosa che provocava non solo a me qualche scompenso, ma dentro il gruppo sembrava non interessare più di tanto. Continua la lettura di Io sono mia