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Io cerco parole

di Paola Del Punta

Un solo albero sta in mezzo a un verde prato eppure nessuno lo vede



Scendo le scale
Nere da te lucidate
Dal lucernaio sopra
La porta la luce
Illumina i tuoi passi
Uno a destra e
poi uno a sinistra
Migliaia di volte hai salito
E sceso queste scale
ripeto le tue orme
la tua presenza
Nell’assenza


 
Malinconica
mente si attarda
nel frastuon di luci e grida di gabbiani
Nell’aria della sera
Un altro porto straniero
Appare e volti e voci
Si confondono
Qui ora e allora
Gira senza sosta
La ruota del tempo
 


Dalle maglie
Della tua rete
Scivolano via
Granelli di senso
Della vita altrui
Ora i miei raccolgo
E in una grande tela
Li compongo a formare
un paesaggio colorato
Vedo passare vecchi increspati
Che il tempo abbandona
Mi rifugio
in una nicchia
Di tepore
Mangio cioccolata.
 

 
E’ scritto best
Sul dorso della ciabatta
sotto consunta
sfilacciata in mille fili
trascina i tuoi affanni .
Mi chiedi una magia
Silenziose lacrime
E il ricordo gioioso di bambina
Premono e ammutolisco.
 


Siamo a un filo legati
Come panni stesi
Da finestra a finestra
Ci scaldiamo ai raggi del sole
E ritornano parole
Segni di lunghi silenzi
Sulla pelle incisi
 
 

Se ne va un uomo
Col suo sacchetto
Lungo un viale
Di alberi di luce
In lontananza lo raggiunge
La rosa del tramonto
 

Addii

di Cristiana Fischer

Ci si innamora del corpo della figura della voce del brillio degli occhi e delle pieghe del sorriso prima di tutto, dei colori, del tessuto muscolare, dello scatto degli arti, dell’andatura e delle posture di riposo. Attira il corpo che traspare dalla maschera sociale.

Non è vero che lei mescoli tutto nella piazza memoriale, che non attribuisca a ognuno il suo incarnato specifico. Piccola e calda, anche il suo ultimo frutto è perfetta. Si ferma a  osservarla ancora un poco. La ha nutrita per l’ultima volta prima di affidarla alla sorella,  (matertera, l’altra madre) per la festa. Pare che la piccola sorrida, un “sorriso del latte”che manifesta il suo benessere. Esplora il colore e la consistenza della pelle, la sfumatura cupa che si alleggerisce in un tenue rosato sulle tempie. Altre volte, per i figli precedenti, è stata la voce che la ha riportata indietro con un balzo, a un fratello proprio e a quaranta anni in precedenza.
Come discriminare le differenze nella eredità dei doppi patrimoni genetici che ogni volta producono la creatura unica?
– Ti ho portato la bambina in tempo per la festa. [1]
– Verrà con me anche la tua prima figlia. Porterà il figlio del proprio fratello, il ragazzo che hai partorito tre anni dopo di lei.
“Moltiplicherò la tua discendenza come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare” [2] le ha detto la dea e la ha colmata di figli e benedizioni in abbondanza. Come se l’umanità femminile dovesse insegnare la creaturalità prima di tutto, con la sua fragilità mortale. E quindi, in quella bellezza musicale e armonica, trovare una pace che tutti ci conforti.
– Non ricordo più niente di lei né dei figli successivi.
Ora dimenticherà anche questo ultimo corpicino caldo di femmina, che sa destinata a partorire generazioni successive.

Stamattina la valle era colma di nebbia ed emergevano solo i cocuzzoli e qualche cresta con la doppia fila di case sui bordi della vecchia mulattiera. L’isolamento era cominciato dalla strada che saliva verso le valli interne. Successe dopo le piogge di novembre, era franato un pezzo di monte sulla strada che collegava il paese a quello dopo, che rimase collegato alla costa solo attraverso un percorso più lungo, tra due valloni infestati di canne e ginestre, che ogni estate prendevano fuoco.
La strada ostruita si inerpicava tra un antico rimboschimento e arrivava a un altopiano di piccoli colli verso rilievi più alti, che man mano si spogliavano di vegetazione fin che si restava davanti a una ritta parete di roccia, con alcune creste isolate. La frana era consistente, ragione per cui occorrevano mezzi e numerosi uomini, prima per spostarla e poi per imbragare con reti di acciaio il fianco a spuntoni del monte, addossando intanto in basso cassoni di pietre.
Arrivò presto la neve e l’anno finì con le notizie precise arrivate dalla Provincia. Dopo Capodanno si cominciarono a cercare le coperture per finanziare i lavori dato che le province, cui spettava l’esecuzione, erano state abolite ma gli uffici per sostituirle non erano ancora stati incardinati. La primavera successiva non iniziarono i lavori perché non si doveva turbare la nidificazione dei nibbi che allevavano la loro prole. Intanto i finanziamenti erano stati dirottati su impegni più urgenti. Poi si smise di pensarci.
Quando si fonderanno i ghiacci dei poli e si alzerà anche di poco il livello dei mari i paesi arroccati emergeranno come isole in un lago, e il medico di base, che si sta attrezzando per raggiungere le sue località di servizio con un cavallo, dovrà ricorrere a una barca sperando che intanto abbia imparato a destreggiarsi.

Tutto precipitò quando furono proclamate, dopo molti anni, finalmente le elezioni. Già allora i circa mille abitanti di ciascun paese si erano abituati alla immobilità. Erano ormai quasi tutti vecchi, i pochi giovani si muovevano improvvisando percorsi erratici con i trattori lungo i costoni o sulle banchine naturali di pietre deposte dalle piene lungo i torrenti.
I vecchi erano divisi, molti erano ridiventati come l’avaro di Molière o sior Todaro di Goldoni: padroni avari e comandoni, non accettavano niente del nuovo mondo che sfilava in TV davanti ai loro occhi catarattici, in tutto era peggiore di quello che avevano combattuto o sfruttato da giovani. Disprezzo apocalittico verso il presente.
Le donne vecchie e giovani lavoravano con le mani, il cibo le vesti gli oggetti utili ogni giorno, e chiacchieravano insieme. Alla stupidità dei mariti appena se ne accennava, per condividere qualche risata che era amarezza in quella solitudine.
Ai partiti nuovi e vecchi non parve vero di avere circoscrizioni di vecchi immobilizzati da visitare con l’elicottero, rapidamente e con parsimonia. Promettere qualche sollievo: una futura riparazione del ponte, il riempimento di una voragine, una deviazione per la strada crollata.

Il medico arriva a cavallo attraverso le frane e i boschi. Quando il corpo attivo e sano comincia a presentare qualche smagliatura allora si corrono seri rischi. Non di ammalarsi (precipitando lungo un tobòga di crescenti infermità di debolezze e inabilità a provvedere a sostenersi in proprio) ma il rischio di entrare in un cannocchiale che si snoda in differenti stadi successivi di osservazioni esami accertamenti approfonditi e in cui la vita sarà istradata tra sponde estranee ai percorsi scelti fino ad allora. Come rispose  Socrate al tribunale che gli chiedeva come si autovalutasse? “Che cosa merito di patire perché sono così? Qualcosa di buono, cittadini ateniesi, se in verità si deve ricompensare secondo il merito; e qualcosa di buono che mi si addica. Che cosa si addice a un uomo povero che vi ha fatto del bene e che ha bisogno di tempo libero per la vostra istruzione? Non c’è nulla che si addica di più, cittadini ateniesi, di una pensione nel Pritaneo”.[3]
Nel grande ciclo della vegetazione che risorge dal fuoco solare solo i semi sopravvivono nella terra scura. Bruciano le erbe secche, le foglie appassiscono e diventano una grigia rete di polvere.
La dea assicura alla sterilità raggiunta una natura rocciosa e consistente come nodi vegetali millenari e sepolti. Lontani rifioriranno germogli tenerissimi e lucenti. Altra vita bagnata, anche immersa in acque scure e profonde, incurante delle vigili attenzioni predatorie dei nostri discendenti, ondeggerà sinuosa come il fresco spirito leggero saprà ristorarla o saprà nutrirsi del minuscolo plancton.


NOTE

[1] “Il rito de I Matralia, celebrato nell’antica Roma l’11 giugno, era riservato alle donne libere, sposate una sola volta, le matrone, che in processione si recavano al tempio della Mater Matuta, portando in braccio i figli dei fratelli e delle sorelle. In tal modo, assicuravano ai nipoti tutela e affetto nel caso di dipartita dei loro genitori.” http://www.capuanova.it/adottaunamadre/matralia/
In Lucrezio, che è la fonte più antica,  Matuta è dea dell’aurora. Dei Matralia scrivono anche Ovidio e Plutarco.
Nella cultura matrilineare dei Mosuo, gli uomini sono responsabili dei figli delle sorelle, zie e nipoti, e gli viene assegnato un ruolo che devono svolgere con grande responsabilità.

[2] Genesi, 22, 17.

[3]Platone, Apologia di Socrate, 26
Treccani, Pritaneo  “Cuore della città, penetrale urbis, il pritaneo dovette esistere in ogni città greca e custodire fra le sue mura il focolare comune e il fuoco sacro divinizzato sotto il nome della dea Estia […] in esso sono nutriti a spese pubbliche quanti Atene reputi degni di tanto onore.”

Birillo e la lucertola. Fiabe d’amore e di vita.

 

di Rita Simonitto

[Era l’agosto del 2020, quando, pur dubitandone, sembrava che la morsa delle restrizioni pandemiche si allentasse permettendo agli animi di aprirsi verso una maggiore riflessività dando valore alla socialità ritrovata. Oggi, dicembre 2021, reiterato l’inganno, si è squarciato il velo di Maya mostrando una umanità incattivita, organizzata per bande, incentrata sulla concretezza delle risposte più che sulla molteplicità delle domande e dei dubbi. E, tragedia nella tragedia, anche la parte sognante dell’infanzia ne viene coinvolta: piccoli Balilla obbedienti crescono… Così mi chiedo se anche la leggerezza delle fiabe (non scevre, comunque da insegnamenti) potrà trovare cittadinanza]. Continua la lettura di Birillo e la lucertola. Fiabe d’amore e di vita.

Fiori di zucca

di Marcella Corsi

         Era una fioraia piccola piccola. La vedevo ogni giorno andando al lavoro. Anche quando le nacque una figlia non arrivava alla spalla di una persona normale. Aveva un viso un po’ buffo, che sembrava allegro anche quando non rideva. Mi ricordava quello di un’amica che scriveva versi. Continua la lettura di Fiori di zucca

Da “Percorrenze”

di Anna Leone

 RIDATEMI QUEI GIORNI
 
 
 
 Ridatemi quei giorni in cui bambina aspettavo una  
 carezza che non venne.
  
 Rimanga intatta la memoria della mia prima età
 con voci e vite che mi appartengono come pelle alle ossa.
  
Continua la lettura di Da “Percorrenze”

Apulia

di  Arnaldo Éderle

 

(Raccontino suggerito)

A Nella-Tommasina

(La mia terra perduta: Apulia, la casa:
un lungo viale, svolta a destra dopo
le carceri, la strada a metà delle palazzine
gemelle a due piani, numeri 48 e 50
un grande atrio: mio nonno Felice usciva
col tabarro sulla strada non asfaltata.
Mia madre andava in città a trovare la sorella,
noi le correvamo dietro disperati) Continua la lettura di Apulia

In memoria di Carmencita

 

di Arnaldo Éderle

 

Il suo rosso cuore

Pettinatela bene
la barese del mare,
che lei ci teneva
ai suoi capelli ricci
di permanente,
ricci e rossi, il suo ultimo
perpetuo colore: rosso
come il suo dolce forte
cuore.

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Processo in cielo

diavoelssa

di Franco Nova

Un vecchio Messo del Cielo si è ubriacato. L’alcol ha avuto un effetto strano: il vecchio spirito ha smesso d’essere soltanto tale, si è dotato di una strana materialità, con caratteristiche tutte particolari, ed è precipitato sulla Terra. Ha subito cercato un’osteria per continuare l’opera già iniziata in Cielo, dove il vino è dotato di molto spirito ma non “ha corpo”. E’ entrato nella prima bettola incontrata, si è seduto e ha ordinato un bottiglione da due litri di rosso: accidenti, questa volta il “corpo” c’era, eccome! A un certo punto, la sbornia ha voltato verso la malinconia ed egli ha raccontato una vecchia storia, di cui era stato protagonista in quanto Messo proprio nei posti in cui era caduto in Terra. Molti anni prima, alla nascita di una bambina molto bella, il Cielo aveva inviato come d’abitudine un suo rappresentante (e fu scelto appunto lui) a soffiarle le varie virtù: intelligenza, amore (e capacità di odiare i cretini e gli infami), pietà (e vendetta), ecc. Mentre stava instillando la dolcezza, ebbe un colpo di tosse e ciò danneggiò un po’ questa virtù. Continua la lettura di Processo in cielo