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Eugenio

di Angelo Australi

Con Eugenio Centini sono in debito per tanti motivi. Ne citerò solo alcuni che reputo importanti. Mi ha stimolato a scrivere quando ancora non avevo le idee chiare, mettendomi in contatto con uno scrittore al quale far leggere i miei primi racconti, ma soprattutto mi ha fatto capire che esistevano infiniti punti di convergenza tra il vivere in una città o al paese, che non è importante il numero delle occasioni si presentano quanto il trovare il tuo bisogno in uno spazio da immaginare infinito anche se piccolo, da esplorare con quel poco sei riuscito a seminare come uomo. Il trucco è trovare se stessi nel perché si ha una voglia matta di scrivere, e non sono tante le occasioni che possono rivelarti questa urgenza. Fare lo scrittore non è come indossare un nuovo vestito, cambi pelle, trovi lì, intrecciato alle parole, una tua chiave di lettura del mondo, e si tratta sempre di un coraggio da spendere senza una finalità concreta, grazie alla predisposizione di un temperamento del carattere che richiede un naturale istinto di coerenza. Scoprire nello spazio il tuo tempo naturale è un po’ come sentirsi liberi di pregare intorno a un’idea per renderla concreta. Diventa una sorta di rivelazione, alla quale non puoi opporti. Se consideriamo questo il punto di partenza, la scrittura non diventa qualcosa di faticoso, semmai è un modo di giocare che ti avvicina agli altri. La fatica la incontriamo strada facendo, qui come in ogni mestiere che facciamo per vivere, però mai al punto di partenza. Può essere problematico trovarla, raggiungerla, ma quando ci sei arrivato senti di far parte di una forma dalla leggerezza espansiva. Eugenio non mi ha mai dato indicazioni sul come scrivere, sul come strutturare delle storie, sul tono da usare per creare un equilibrio armonico al ritmo del racconto, con la sua volontà di reagire alle avversità cercando la poesia anche nel più banale dei luoghi è diventato piuttosto un esempio nei comportamenti, ed è stato un vero maestro nel farmi cercare la sensibilità di un essere umano anche nel più scontato dei gesti. Di questo, soprattutto ora che sto invecchiando, con lui sono e sarò sempre debitore.

I nostri primi incontri risalgono al 1972, quando frequentavo il bar dove lui si affacciava a farsi qualche bicchierino di vin santo. Uscito dal lavoro bazzicavo lì ogni pomeriggio perché c’era un flipper che giocandoci potevi strattonarlo violentemente e non andava mai in tilt. Avevo diciotto anni, vivere al paese mi stava stretto, così le poche persone che si proponevano fuori dagli stereotipi di una provincia ingessata in delle abitudini ferme a chissà quando, finivo per trasformarle in una via di fuga idealizzata. Eugenio si ammalò di poliomielite negli anni dell’infanzia. Soffriva molto a camminare, aiutandosi con la giannetta sosteneva tutto il peso del corpo con la gamba ancora sana. Quando si presentava al bar Spiaggia aveva già bevuto qualche bicchiere alla bottega dei generi alimentari dove si fermava a fare merenda con degli amici. Mangiavano cotechino, aringa, acciughe, una spuntino ipercalorico, che invitava a bere e a fumarsi quintali di sigarette. Proprietario del negozio era un suo amico d’infanzia, anche lui anarchico. A queste merende partecipava qualche glorioso vecchio che nonostante le purghe si vantava di non aver mai preso la tessera del Fascio, e un medico, ma lui solo nei giorni che non faceva ambulatorio. Quando nel negozio arrivava la clientela a fare la spesa il gruppo, ormai eccitato dal vino, si disperdeva per il paese. Gli anziani formavano dei capannelli a ridosso dei loggiati della piazza, sostando nelle vicinanze delle bacheche dove i partiti esponevano i loro commenti politici su qualche seduta del Consiglio Comunale, invece Eugenio, prima di recarsi alla Casa del Popolo, si fermava al bar Spiaggia. Beveva un vin santo, poi un altro e un altro ancora, e argomentava delle sue teorie con chi gli dava spago, eccitato e pieno di discorsi contro un certo conformismo di provincia che sentivo anche mie. Fu il barista a dirmi che scriveva poesie, e che aveva militato fin dal dopo guerra prima nella FGCI e poi nel PCI. Lo ascoltavo incantato, perché nei suoi ragionamenti trovavo un approccio che sembrava libero da ogni condizionamento, e poi riusciva sempre a tenere sullo stesso piano la vita concreta di ogni giorno con le idee più astratte, capaci di aprire lo spazio all’infinito. Non avevo ancora letto le poesie, ma nei suoi ragionamenti trovavo un legame con la musica rock che mi faceva sentire diverso non solo dai miei genitori, ma anche da molti della mia generazione. La musica che sentivo come per liberarmi di un peso ero sicuro che Eugenio non l’avrebbe mai capita, per questo, piuttosto che parlarne, preferivo ascoltare le sue critiche alla politica del partito Comunista, fatte in un bar dove tutti lo lasciavano parlare. In quei suoi ragionamenti ispirati dalle bevute il paese diventava diverso dal come lo avevo sempre guardato, si trasformava in un qualcosa di strano dove almeno con la testa realizzavo il mio bisogno di fuggire. In quell’oretta che stavo al bar, mentre gli amici cercavano d’imbroccare una ragazza passeggiando sotto i loggiati della piazza, provavo davvero l’impressione di essermi trasferito a vivere altrove. Lo ascoltavo portare quei suoi esempi che sfidavano le convenzioni, poi s’infilava in un vortice di spiegazioni su strategie e programmi troppo articolati per la mia età, distanti anni luce da quei messaggi scorgevo nei linguaggi del rock che cercavo di trasmettere con Musica in Piazza, un giornale autoprodotto in forma ciclostilata che distribuivo in occasione di qualche concerto. Ancora non avevo la ben che minima idea di mettermi a scrivere dei racconti, mi bastava ascoltare musica e fare quel foglio di cultura alternativa con alcuni amici pittori che collaboravano per la parte grafica.

Ci siamo persi di vista per circa un anno e mezzo perché avevo seguito la transumanza degli amici che dopo un certo periodo scelsero un altro bar dove incontrarsi. Si usava fare così nel mio giro di conoscenze, ogni tot mesi cambiare luogo di ritrovo, quasi fosse una reazione naturale contro le abitudini. Non ero convinto di questa cosa, ma li seguivo per il bisogno di stare a parlare anche con gente della mia età.

Lo ritrovai all’ospedale del mio paese, nel 1974, durante il periodo che facevo il servizio militare presso la caserma del Genio Pionieri, alla Cecchignola. Verso la fine di settembre, tornando a casa con un permesso di 48 ore, mi ero fatto ricoverare sperando in una convalescenza. La città militare della Cecchignola si trovava nella campagna romana e durante la libera uscita prendevo la metropolitana e raggiungevo il centro di Roma dove frequentavo il Folk Studio e altri locali alternativi di Trastevere che per entrare era obbligatorio iscriversi. In quel periodo mi sono preso anche un’ubriacatura di concerti rock. Memorabile è stato quello di Frank Zappa, e poi dal 20 al 24 settembre, prima di ottenere il permesso di 48 ore, avevo partecipato al Festival Pop di Villa Pamphili, dove suonavano dei gruppi di cui possedevo i dischi ma che non avevo ancora ascoltato dal vivo: il Banco del Mutuo Soccorso, i Perigeo, gli Amazing Blondel, i Soft Machine. Stavo vivendo delle esperienze bellissime, però c’era la vita di caserma, le sue regole mi mandavano fuori di testa, non le sopportavo proprio. Per reagire compravo dei libri alle bancherelle dell’usato che si trovavano tra la Stazione Termini e Piazza Esedra. Li leggevo in caserma, aspettando il momento della libera uscita, per oppormi in qualche modo all’ossessione di quelle giornate oziose che non passavano mai. È qui che ho trovato una vecchia edizione de Il Sempione strizza l’occhio al Fréjus di Elio Vittorini e ho capito che potevo scrivere. Ricordo che lessi il libro almeno tre volte, che poi, non contento, trascrissi tutto il romanzo su di un paio di quaderni. Quel lasciare fuori campo l’azione e privilegiare il dialogo mi sembrava uno strano modo di mettere il lettore in condizione di capire cosa c’era dietro, cosa muovesse il tutto. Ero rimasto talmente affascinato che volevo quel libro mi entrasse dentro. Un po’ come accadeva con il lavoro di decoratore che avevo imparato alla bottega di un artigiano prima di partire per il militare, che consisteva nel rifare sempre le stesse operazioni per raggiungere l’armonia di un certo automatismo anche con il tuo corpo. Ho iniziato così a scrivere le mie prime cose, partendo da dei dialoghi che si limitavano a parlare senza seguire una trama, come se fossero stati fermati nella sospensione di uno scatto fotografico.

Per giustificare il ricovero in ospedale avevo dichiarato una forte infiammazione gastrica che influiva sul sistema nervoso, ormai vicino a collassare. L’obiettivo era farsi trasferire da qui al reparto neurologico dell’ospedale militare San Gallo di Firenze, per cercare di essere riformato con l’articolo ventinove, un tentativo che l’anno prima aveva sperimentato con successo un amico pittore. Quando fui ricoverato d’urgenza in ospedale, da alcune settimane Eugenio aveva subito il taglio della gamba buona che a forza di bere e fumare era andata in cancrena. Vivendo da solo adesso stava trascorrendo la convalescenza in ospedale, aspettando che si liberasse un posto per essere trasferito alla Casa di Riposo. In quei dieci giorni di degenza abbiamo parlato molto. Gli ho confessato che mi era presa una voglia matta di scrivere delle storie e lui mi ha fatto leggere alcune poesie scritte dopo l’operazione. Fui sincero, per me forse era solo un modo per combattere lo sconforto del servizio militare, ma intanto ci trovavo gusto. Lui mi guardava ridendo seduto sul letto, con il moncone di gamba nascosta sotto il lenzuolo e l’altra, poliomielitica, fragile come quella di un bambino, esposta all’aria. “Fai bene”, mi disse, “se ti aiuta a sbarcare il lunario”. Per lui almeno era stato così, passato il momento in cui rischiava di morire, aveva trovato la forza di volontà per reagire tornando a scrivere in versi come faceva da giovane. Nella sua vita aveva composto poesie a periodi alterni, seguendo il bisogno di sincerità che gli nasceva dentro. Il suo silenzio poetico si protraeva dal 1954, e adesso lo interrompeva con una dozzina di liriche battute a macchina che mi regalò in fogli sciolti. Ne riproduco qui un paio.

DOLORE E SOGNO
Come in un rito Maja
mi posaste
su un verde letto di pietra
verdi le vesti
verde il grembiule
verde, verde, verde.
Bisturi: - non sentii una parola.
Scesi in un sonno
che fu dolore e sogno,
pensieri
mi portarono lontano
un quaderno chiazzato di sangue
mi trovai fra le mani
una dietro l’altra
voltavo pagine di dolore.
Da una mi apparve un volto di donna;
il tuo Emma.
L’arcobaleno dei tuoi occhi
rideva al mio volto;
la tua mano strinse la mia
storpie
le mie gambe camminarono
al vento
i tuoi capelli cotonati
mi portavano leggero
così
senza stampelle
senza giannetta
libero come mai
sudando
di stupore e di gioia ti seguii
creatura Eva
su passi nuovi e campi sconfinati.
Era il tempo dei maggesi
segnò
i miei ultimi passi
il frinire della cicala.
La tua mano Emma
asciugò il sudore
di questo sogno impossibile.
Mi tornò tra le mani
il quaderno chiazzato di sangue,
tu evanescente uscisti
come luna all’alba;
io sfogliai ancora
pagine di dolore.
Riposto il bisturi – era
compiuto il rito
abbandonai
il verde letto di pietra
svegliando me stesso
in una camera d’ospedale
rientrai in questo mondo;
ci sarà anche per me
un posto per amare.
Sul letto bianco d’ospedale – rividi
il primo sorriso di un infermiere,
alzai le lenzuola e sottrassi
due meno uno: - uno
mi mancava una gamba.
Ma la vita continua.
Se è necessario
la scaleremo con le mani.
 
LA MORTE
È stata la sentenza
in camice bianco
- metastasi!
Su questo letto
mi danza intorno
un cancro galoppante
dalle mille teste
cavallo di lutto
si srotola nel sangue
a spaccarmi la cellula.
– CANCRO – dilagante
vicinissima nebbia
mi saturi l’anima
al palato
mi leghi la lingua
per non dire
una parola;
di questa terra
non saranno gli occhi
a guardare
l’alba più lunga.
Cancro
– io ti vinco!
mi impicco e ti uccido
di me
qualche parola
resterà
sulla bocca dei figli.

Quelle dodici poesie le leggevo ogni giorno, anche declamandole agli amici che venivano a trovarmi, che poi chiedevano di conoscerlo. Intorno al suo letto era un via vai di persone anche lontano dagli orari delle visite, perché quei versi ormai circolavano tra i medici e gli infermieri dei vari reparti ospedalieri, che quando avevano un momento libero si fermavano a parlare. Se non leggevo stavo sempre a discutere con lui di qualche argomento che mi premeva conoscere la sua opinione. Nonostante l’aria del reparto sapesse sempre di chiuso, stranamente non sentivo nessun disturbo alla testa. Sembrava di essere in villeggiatura.

Dopo quei dieci giorni fui dimesso con una cartella clinica con la quale dovevo presentarmi all’ospedale militare per avere la convalescenza. Me ne andai in un modo molto triste, nella notte tra il sabato e la domenica fummo svegliati dalle sirene dell’ambulanza acutizzate dall’eco che si creava nel cortile dove si trovava il pronto soccorso. Le infermiere e i medici del turno di notte erano agitati perché l’ambulanza aveva trasportato d’urgenza un bambino di dieci anni che giocando con il fucile da caccia del padre era stato colpito al volto e adesso in sala operatoria stavano tentando di salvarlo. Passammo tutti una notte agitata, pazienti, medici, infermieri. Io giravo nel corridoio del reparto, a volte andavo da Eugenio, a volte parlavo con gli altri pazienti, a volte mi fermavo nella stanza dove gli infermieri di altri reparti si affacciavano per avere o dare gli ultimi aggiornamenti. Il bambino non ce l’ha fatta, è morto all’alba, dopo che i chirurghi avevano fatto l’impossibile per salvarlo. Mi ricordo che alcune infermiere essendo mamme piangevano come se fosse stato il loro figlio. Nel reparto c’era una cappa di angosciante tristezza, adesso nessuno aveva più voglia di parlare. Io che non avevo nessun malanno vivevo una forte tensione a trovarmi lì, mi sentivo in colpa per stare insieme a chi stava male per davvero e che spesso moriva. Cominciai a pensare che le mie preoccupazioni mentali, rispetto a quanto era accaduto quella notte, fossero assurde. Che diritto avevo di fingermi malato? Nessuno. Così finii per sentirmi come uno stronzo che si preoccupa di trovare solo al modo di star meglio nella vita, e ci prova con qualsiasi mezzo. Mi convinsi che ero un privilegiato di merda, anche se i miei scopi non avevano influito sull’atroce morte di un bambino. Quando il lunedì mattina fui dimesso provai davvero un forte sollievo.

 Dopo il militare ho mantenuto i contatti con Eugenio, anche perché era l’unica persona che conoscevo in paese che amava scrivere. La maggior parte dei miei amici ascoltava musica rock e alcuni dipingevano, alcuni si spacciavano per fotografi, ma nessuno di loro sembrava appassionarsi alla letteratura, nonostante insistessi a parlarne continuamente. Eugenio ha avuto per me un ruolo importante, anche se non voleva sentirsi definire poeta, oltre alle poesie scriveva lettere di denuncia molto interessanti, che inviava ai vari giornali di sinistra, di cui mi faceva partecipe informandomi sui motivi e la finalità. Le poesie le faceva circolare in fotocopie tra gli amici che andavano a fargli una visita alla Casa di Riposo per anziani dove lo avevano trasferito nella primavera del 1976, spesso le stampava componendo dei collage con i ritagli di giornale, dove sovrapponeva al suo testo foto, titoli di articoli, riuscendo così a creare una certa armonia, impattante anche a livello visivo. Forse non ne era consapevole, ma quei volantini rispondevano a un bisogno eversivo di condizionare la mente del lettore sul significato stesso che per lui aveva la poesia.

Solo con lui riuscivo a parlare delle mie ambizioni di scrittore. Era amico di Davide Lajolo, allora direttore di Giorni, che anch’io sapevo chi era perché avevo letto la sua biografia di Cesare Pavese. Eugenio era in contatto con lui dai tempi della FGCI, quando aveva partecipato giovanissimo a un concorso con lui membro della giuria, risultando vincitore nella sezione poesia, mentre Renzo Vespignani in quella di pittura. Negli ultimi anni aveva cominciato una fitta corrispondenza perché Davide Lajolo era stato colpito da infarto. Su questa esperienza scrisse anche il libro Veder la vita dalla parte delle radici, con il quale ha vinto il Premio Viareggio del 1977. Dopo la mutilazione della gamba incancrenita Eugenio era entrato in una profonda crisi, dalla quale voleva uscire a tutti i costi. Sotto Natale, prima di scrivere a Lajolo, mi chiese se avevo un racconto pronto da allegare alla lettera, così avremmo sentito anche la sua opinione. Gli diedi il racconto. A gennaio del 1977, una sera telefonò a casa per informarmi che Lajolo gli aveva risposto scrivendo anche del mio racconto. La sera stessa sono andato con Sabrina alla Casa di Riposo e lui, ridendo, con il fiasco di vino già mezzo vuoto sopra il comodino, mi passò una fotocopia della lettera.
– Leggi qua, amico mio… Cara Sabrina, qui si fa sul serio… Abbiamo per le mani un talento di razza! – disse ridendo, prima di servirsi da bere.
Sabrina sorrideva divertita, mentre leggevo la lettera che poi le passai.

Milano, 11 gennaio 1977
Caro Centini,
ho ricevuto la tua lettera con il racconto di Angelo Australi.
Prima di tutto voglio congratularmi con te per i successi che ottieni per la tua salute. I momenti neri sono passati ed è molto importante. Mi rendo benissimo conto delle tue sofferenze perché ho provato sulla mia pelle i segni dell’infarto e lentamente con molta fatica sono riuscito a vincere e ti assicuro che non è stato facile.
Angelo Australi scrive bene. I pensieri sono veloci e il racconto è fresco e divertente. Per la copia arretrata o la fotocopia della tua poesia dovresti inoltrare la richiesta all’Unione Donne Italiane (Via Bagutta, 12 – Milano). Noi come giornale non abbiamo molti contatti con Noi Donne.
Aspetto le tue poesie.
Per ora tanti auguri e tanti saluti,
                                                                              Davide Lajolo

Mi convinse ad inviare anche qualcosa direttamente, per prenderci contatto. Insieme alla lettera ho allegato un altro racconto, ad aprile lui rispose.

Milano, 6 aprile 1977
Caro Australi,
ho letto il tuo racconto e per quanto mi riguarda, posso dirti che è veramente interessante.
Ti consiglio di continuare. Quando ne hai scritti un po’, magari relativi alla vita, alla gente del tuo paese, mandameli e cercherò di farteli pubblicare.
“Qualcosa come una storia di Ernesto” dovrebbe essere un po’ corretto. Ci sono alcune ripetizioni, alcuni periodi troppo lunghi.
Il titolo va benissimo.
Appena sei pronto fammi sapere qualcosa.
Cari saluti,
                                                                              Davide Lajolo

La prima conferma sul mio lavoro di scrittore era venuta grazie a Eugenio Centini. Quello del 1977 fu un aprile magico prima di tutto perché io e Sabrina ci siamo sposati, e poi quel Qualcosa come una storia di Ernesto si è trasformato in un libro che nel 1980 sono riuscito a pubblicare con il titolo di Roscio, grazie all’interessamento di Vincenzo Guerrazzi.

Da allora all’anno in cui è morto, il 1988, sono sempre stato in contatto con lui e posso dire che non ha mai smesso di meravigliarci. Un paio di volte l’anno organizzavo dei pranzi per gli amici a casa mia, con lui a capotavola, con accanto la bottiglia del vino. Negli anni ‘Ottanta, in una serie di strutture annesse alla Casa di Riposo, si era inventato una piccolo laboratorio dove produceva in modo artigianale profumi, sciampi, bagno schiuma. Noi amici siamo stati le sue cavie, ma l’assurdo è che quei prodotti erano di ottima qualità e riusciva a venderne alcuni anche per corrispondenza. Sembrava qualcosa di folle eppure c’era riuscito, a scalare la sua vita con le mani, realizzando proprio quel desiderio che aveva in testa da molti anni. Non so dove trovasse tutta quella forza di volontà. Nel 1980, per un po’ di anni aveva frequentato l’officina INAIL di Vigorso di Budrio per adattarsi a comminare con la gamba artificiale che gli era stata costruita. Ricordo che per perdere peso aveva smesso di fumare e di bere. Prima di fumare, poi di bere. Ma l’esperimento della gamba non aveva funzionato, malgrado il nostro incoraggiamento ad insistere e la sua grande forza di volontà, dopo un annetto la protesi cominciai a vederla appoggiata in un angolo della sua cameretta, nascosta dietro il comodino. Nonostante la passione del fare cosmetici scriveva ancora delle poesie, alcune le passai a Giovanni Garancini perché le pubblicasse sulla rivista Abiti-Lavoro, dove usciranno nell’autunno inverno 1983-1984.

Negli ultimi tempi si era procurato una carrozzina elettrica, con la quale si recava in paese a incontrare i suoi vecchi amici. Uscendo sotto le feste di Natale lo aveva sorpreso un forte temporale, l’acqua gelida e la rigidità della temperatura invernale lo fecero ammalare di una polmonite che lo distrusse in poco più di una settimana. Il giorno della sua morte, il 18 gennaio 1988, saputo che gli avrebbero fatto il funerale religioso, contattai subito due amici ai quali ero molto legato e che lo frequentavano. Giuliano Bisuschi e Pier Giovanni Decembri. Anche se nell’ultimo anno alla Casa di Riposo stava frequentando molte persone impegnate in associazioni del volontariato cattolico, mi dispiaceva non fare almeno un tentativo per convincerli sul funerale civile, perché credevo fosse questo che lui avrebbe preferito come ultimo gesto di saluto. Andammo insieme a parlare con alcuni di loro, che furono irremovibili sulla forma di cerimonia.
– Ma Eugenio è ateo da una vita! – gli urlai in faccia, non riuscendo a controllare il disappunto.
– Sì, è vero – mi risposero, – ma di recente si era anche avvicinato alla fede. Facciamo passare un po’ di tempo, così prepariamo un’iniziativa in suo ricordo, tutti insieme.
Uscimmo da quell’incontro decisi di non partecipare al suo funerale. Eravamo arrabbiati, io più di tutti. Ci fermammo in un bar per il caffè, e con la calma ritrovata presi una decisione di cui informai gli amici.
– Io non mi rassegno – dissi in modo concitato. – Va bene, domani vado al funerale perché è giusto andare a salutare Eugenio, ma ho intenzione di fare un libro con tutte le sue poesie, se mi aiutate sono sicuro di farcela. Questo sarà il nostro modo di ringraziarlo un’ultima volta.

A maggio usciva Dolore e sogno, una raccolta con tutte le poesie di Eugenio Centini. Me le aveva procurate Giuliano Bisuschi, che in mancanza di parenti prossimi si stava prendendo cura dei suoi beni, almeno in un primo momento. Le poesie si trovavano in alcune cartelline apparentemente suddivise per periodi, ma con all’interno di ognuna tanto materiale da studiare, per dare un senso cronologicamente corretto al suo lavoro.
Presi i contatti con la tipografia Sartimagi per avere dei preventivi su come realizzare il libro partendo da un’idea che avevo in testa. Conoscevo bene il proprietario, dal quale andavo ogni volta che dovevo rilegare le pagine dattiloscritte dei miei racconti. Insieme alle poesie avrei inserito delle fotografie recuperate dal suo archivio. Ci lavoravo di notte, dopo che Egle e Sabrina se ne andavano a dormire distribuivo tutto il materiale sul tavolo di cucina cominciando a fare tanti mucchietti affiancati a foto dello stesso periodo. Allora abitavo in un palazzo che si trovava sulla circonvallazione del paese, mi ricordo che alle quattro, dopo l’ultimo movimento dei turnisti alla Pirelli, c’era un’oretta in cui la notte sembrava raggiungere il suo culmine, in giro non si sentiva un’auto e il silenzio sembrava sprofondare in un sospeso nulla che anticipava l’alba. Io ero stanco, a volte preoccupato di essermi messo a fare una cosa che non stava nelle mie possibilità. Presto il paese si sarebbe svegliato, ma per il momento c’era solo la luce della mia cucina accesa sulla notte, mentre la luna riversava il suo bagliore in una striscia dietro la fila di villette a schiera che aveva finito per modificare il profilo di alcune colline che si trovavano a ridosso del centro storico. Una luce più forte di quella del lampione seminascosto tra gli alberi. Scrissi una breve premessa che condivisi con Pier Giovanni Decembri e Giuliano Bisuschi, e la firmammo con gli amici.
A maggio il libro era già stampato, in una tiratura di cinquecento copie numerate che esaurimmo nel giro di pochi mesi. Ne vendemmo più di un centinaio durante la presentazione che con il Circolo Letterario Semmelweis organizzammo presso la Biblioteca Marsilio Ficino di Figline Valdarno, in una sala stracolma di persone ricordammo il nostro amico insieme ad Alberta Bigagli e Giovanni Garancini. Rimasi impressionato dal numero di persone, nell’immensa sala che aveva una capienza di oltre un centinaio di posti, molte di loro erano in piedi, appoggiate alle pareti colme di libri. Era una cosa che faceva commuovere, perché mi rendevo finalmente conto di quante fossero le persone con le quali Eugenio fosse entrato in contatto. Dopo aver pagato la tipografia avanzarono dei soldi che in parte utilizzammo per fare una cena in suo onore, in parte devolvemmo in beneficienza a quelle stesse associazioni che avevano contrastato la nostra volontà di celebrare il suo funerale in forma civile.

                                                                                   dicembre 2021

APPARATI

BREVE NOTA BIOGRAFICA

Eugenio Centini, 1928 – 1988, è una pagina della storia di Figline Valdarno, la pagina di quella storia fatta da gente comune che trova nei contatti affettivi la forza di andare avanti. Malato di poliomielite fin dall’infanzia, perde il padre all’età di undici anni. Lo scontro con la crudezza della vita sembra inevitabile già da quel trapasso così critico dall’infanzia all’adolescenza. Nel 1946 si iscrive al PCI. Il periodo che va dal 1946 al 1966 lo vede direttamente impegnato in politica. Nel 1966 esce dal PCI, e nel 1967 muore sua madre. Da qui all’amputazione della gamba destra, nel 1974, causata da disturbi di circolazione che hanno portato alla cancrena, Eugenio Centini attraverserà un periodo in discesa verso il precipizio dell’annullamento. Il 1974, anno dell’operazione, è il punto di massima disperazione, ma anche di rinascita, lo testimoniano le poesie scritte all’Ospedale Serristori di Figline Valdarno. Nel 1976 Eugenio si trasferisce alla casa di Riposo L. Martelli di Figline Valdarno, dove resterà fino al giorno della sua morte. Dalla casa di riposo scriverà ancora poesie, ma soprattutto inizierà una nuova attività dedicandosi alla produzione di cosmetici, che era stato un suo desiderio da sempre.

Le 47 poesie che compongono Dolore e sogno sono state trovate nell’archivio di Eugenio Centini, in una busta di cellofan legata con degli elastici. Tranne alcune parole aggiunte a mano, le poesie originali sono dattiloscritte e appaiono in quella versione definitiva che lui stesso fotocopiava per farle circolare.

Oltre ad un volumetto con dodici poesie dall’ospedale, stampato in copia unica per farne dono all’infermiera dell’Ospedale Serristori Daniela Grigioni e illustrato dai disegni di Lorenzo Bonechi (il libro è stato riprodotto in una tiratura di 50 esemplari numerati da Gabriele Bonechi nel 2018, in occasione del trentennale della sua morte), l’unico libro di poesie di Eugenio Centini è Dolore e sogno, pubblicato nel maggio del 1988 dagli amici del Circolo Letterario Semmelweis, nella collana La parola come segno di identità. Le sue poesie sono apparse su molti giornali e riviste, che è corretto citare: Pattuglia, La Voce Aretina, Noi donne. Figline Democratica, Abiti e Lavoro, La voce dell’anziano, l’Unità.

POST SCRIPTUM

Ci sono un paio di poesie scritte da Eugenio Centini nel 1980, quando si trovava all’Officina INAIL di Vigorso di Budrio, che io sento molto diverse dalle altre. Poesie che si muovono con pensieri singoli, trattenuti da spaziature che fanno pensare ad un ritmo musicale. Non so se questo fosse il suo modo di lavorare prima di raggiungere una certa forma lirica tipicamente poetica, una specie di brogliaccio dove fissare le immagini. Anzi, forse è proprio così, anche se a me piace credere che in questi appunti lui avvertisse il bisogno di trovare un nuovo modo di scrivere, forse più libero. Questo è consolidato dal fatto che ne esistono sono due, raccolte sotto il titolo di – Momenti scritti alla poesia, pensieri –

I
Avete stuprato questa terra e le nostre anime – ci fate pagare il sole – un grappolo di sole – sono i tempi dell’impossibile – sei l’universo e mi hai incantato, sei il cielo e la terra, l’acqua e il fuoco – io cammino con loro – sennò dopo l’amore non ha volo, non morire dentro, la riva ci attende – sul piatto del colonialismo – i riflussi storici –sei tenera come il pane di primo forno – nascere, vivere, crescere: morire – non piangere sul domani – sei la mia isola – la morte di un bambino l’ultimo fiore del mondo – non è più l’antilope di un tempo – il mio corpo è stato territorio di conquista – si era seccato la rosa – accendiamo delle lampade spente per far luce su un passato già morto – eri un fiume e la sua riva – coperto di una pietra profumata – bastava un bacio – c’era una vita da vivere – in vasi d’argilla si mantiene la speranza – odoravi d’amore e d’erba – alari per caminetti – treppiede – pentolo di coccio – orcio – dal giardino di gesso della mia solitudine filtravo calda la tua parola, camminavo dentro i tuoi passi.

II
Innocenti giocavamo nel vicolo fra carretti e la sala per fiaschi – in un piatto immaginario – a tavola c’è già posto per il figlio che attendiamo tutti i giorni – tessuto di ricordi, come l’albratos, fisso, in permanenza nel cielo meravigliato ti guardo, tessuto di ricordi – urlo in silenzio per non sentirmi – meravigliato lascio la prima orma sul tuo cuore – ti fiorivano i seni, fra gli aromi densi di cucina quieto sbocciava un sorriso sul rinascimento del tuo volto – cara balia ti penso in paradiso assieme a mia madre – volevamo inventare il futuro, si accartoccia la foglia sulla vite, cade a marcire per rinascere – transumanza, trattura – aiutami a sognare – sembrava l’eternità fu soltanto un attimo – infuocati struggenti tramonti profumano del tuo corpo di donna – la bellezza non è che un poema alla felicità – commosso uditore la catena del rosario legava la famiglia – e poi un giorno ci accorgemmo che eravamo cresciuti – fiducioso esilarò le meraviglie della vita – il grande cielo non è uguale per tutti – siamo figli dell’arco e della freccia – fermentava come il pane la sua pancia – le rivoluzioni si fanno nascere ma non si fanno vivere – resta solo una calda sera ovattata di sogni – negli itinerari segnati dall’uomo – cavalcando 

Gente di Colognom

Prenarratorio  1982

di Ennio Abate

1.

La vecchia e i bambini

Il cortile era un rettangolo di prato verdastro chiuso dal muro basso dei box per le auto. La luce del caldo pomeriggio era intensa e, tranne il gatto nero acquattato sotto l’ombra del roseto, lì c’era solo quel gruppo di cinque bambini e bambine. Trasportavano dei vecchi mattoni, forati, sporchi di calcina e depositati giorni prima accanto al muro del condominio in attesa d’essere trasportati in discarica. Volevano costruire un loro immaginario fortilizio. Ci avevano lavorato da un bel po’, quando dal retro della panetteria che dava sul cortile spuntò d’un tratto la prestinaia. Era una anziana bassa, con le labbra piccole e lo sguardo maligno. I bambini l’osservarono. Dapprima allarmati. Videro che avanzava armata di una zappa. Poi, raggiunto il muretto di mattoni che avevano appena messo su, glielo distrusse, sbraitando. Ed era rientrata nel suo negozio, ancora chiuso al pubblico per l’intervallo di mezza giornata, acquattandosi su una sedia, affannata ma forse pronta a tornare all’attacco. Non voleva che i bambini costruissero qualcosa in quel cortile. Non voleva che vi scendessero di pomeriggio dai vari appartamenti. Non voleva che esistessero.

I bambini s’erano dispersi. Poi i più grandi e tenaci avevano deciso di continuare. Ripararono il danno e ripresero il lavoro di prima. La donna allora era risalita in ascensore nel suo appartamento al sesto piano del condominio e dopo qualche minuto aveva buttato due secchiate d’acqua dal balconcino del ballatoio. In risposta sberleffi .

Persino alcune ore dopo, quando avevano smesso quel gioco e si divertivano a tirar calci a un pallone, era rispuntata con in mano una scopa e aveva cercato di colpire di sorpresa il biondino che le voltava le spalle.

2.

La madre e la bambina

La bambina in cortile.  Era un riquadro di prato. La madre alla finestra della cucina al primo piano. Ogni tanto s’affacciava e la sorvegliava. In un modo asfissiante. Come una che, a sua volta, si sente continuamente sorvegliata e deve dar conto. E per questo, la bambina in mezzo al gruppo era impacciata. Occhi più spauriti di quelli delle altre e la voce così fievole da rimanere soffocata. La madre era riapparsa varie volte col suo faccione apprensivo. La bambina percepiva il disprezzo delle amiche. E queste avevano colto il viscido filo che la tratteneva alla madre. Dopo un po’ cominciarono a canzonarla. Allora sua madre s’affacciò ancora e inveì contro di loro, rabbiosa e isterica. Afferrò dal cestino dell’immondizia una buccia di banana e la gettò con forza contro le bambine. Quella colpita reagì e ributtò la buccia di banana contro la donna. La colpì in pieno viso e tutte si misero a ridere. Allora la donna gridò: maleducate! E richiamò la figlia costringendola a rientrare in casa. La bambina salì di corsa le scale. Piangeva, mentre da fuori si sentiva un crudele canto di vittoria. La donna tirò giù la tapparella e sgridò la figlia appena se la vide davanti. Di tanto in tanto raggiungeva la finestra e di nascosto spiava tra le fessure della tapparella le bambine che continuavano indifferenti a giocare.

3.

I bambini parlavano del cortile come di un territorio che dovevano continuamente difendere dagli adulti invasori. I nemici più insidiosi erano i negozianti al pianoterra del condominio: la barista, che si lamentava per i danni alle sue piante; il fruttivendolo, che voleva tenere sempre pulito il pavimento dell’ingresso di servizio del suo negozio; la prestinaia, che nell’intervallo pomeridiano dormiva e non voleva sentire schiamazzi o urla. E pure un nugolo di mamme, sorelle, nonne – e a volte padri – era spesso in agguato da finestre e balconi. Per sorvegliare, sgridare, intervenire pro o contro qualcuno, richiamare.

4.

In un solo anno s’era indurita. E aveva fatto in successione scelte che nella opacità di quelle esistenze di periferia apparvero drastiche. Finché durante l’occupazione delle case aveva tentato il suicidio. Eppure mesi prima sembrava stesse sbocciando. Impiegatuccia al suo primo lavoro e studentessa in una scuola serale di Milano, era arrivata nella nostra sede per farsi aiutare a preparare il suo primo volantino. E s’era fermata ad ascoltare – in piedi, in un angolo – quella gente strana che, seduta, ammucchiata attorno a un tavolo, fumava e criticava padroni e sindacati. Per farla partecipare a qualche riunione serale, la coppia dei compagni già con figli avevano dovuto parlamentare con sua madre – una donnina piccola, vestita di scuro, tutta dolore, frastornamento e diffidenza. Poi s’era isolata. O l’avevano isolata. E mai si seppe come fosse arrivata al tentativo di uccidersi. Ne parlarono tutti nel giro. Vagamente e sottovoce. Qualche ragione, chi la sapeva se la tenne in segreto. Schizzata fuori dal giro dei compagni di Colognom, la si vide alle manifestazioni delle femministe. Era con le più accese e separatiste. – Me ne vado, mi licenzio, vado in Brasile. Me lo disse all’uscita della metropolitana in Duomo. Una volta che accettò di fermarsi quando la riconobbi e la chiamai. S’era trascinata con sé anche la sorella più piccola. E circolarono notizie brevi, raccontate frettolosamente. Su viaggi in gruppo di donne attraverso paesi sudamericani; e storie di droga e di violenza in cui erano finite. La ritrovai, anni dopo, una sera. Benzinaia a un distributore sulla tangenziale. Il volto sotto il berretto era ancora più affilato e duro. Avrebbe messo da parte un po’ di risparmi e sarebbe ancora ripartita. Poi – ma quando? – qualcuno disse che era morta. Per un po’ vidi ancora passeggiare – separati – per alcune strade di Colognom suo padre e sua madre. Lui fumava e guardava nel vuoto a quell’incrocio di strade, dove c’era un semaforo e le auto si fermavano una decina di secondi e poteva osservare i volti degli automobilisti. La madre girava tra passanti e auto e il vuoto neppure lo guardava.

5.

Il capogruppo consiliare del PCI

Adesso era il capogruppo consiliare del PCI. Occhialuto. Incanutito. Un figlio. Abitava in un appartamento di sua proprietà. Viveva come prima. in fondo in una condizione di modesto benessere impiegatizio. Non dissimile dal suo.  Eppure  rimaneva una tensione  sotterranea tra loro, quando s’incontravano. Negli ultimi  anni  il sudario della sconfitta aveva aveva avvolto  i compagni del  prof: gli estremisti, i mau mau. Così li chiamava la gente che voleva  invecchiare tranquilla. O nel sopore mite delle cene in famiglia o nel frastuono  dei televisori con il volume a palla. Subito dopo, però, dallo stesso sudario erano stati  fasciati stretti  anche loro:  i compagni delle sezioni, i consiglieri, i funzionari mummificati del Partito. Se in uno dei loro casuali e rari incontri per strada avessero accennato a certi argomenti – la Polonia di Walesa, le declinanti Brigate Rosse, i sindacati avviliti, i giovani piegati e piagati dal ritorno al già provato e alla ripetizione – quelle  due loro esistenze,  dall’esterno così simili e ormai opacizzate, sarebbero state di nuovo squarciate. Come da un cono di luce  irritante, insopportabile. E  quali parole avrebbero cercato per dire quel magma che si sedimentava giorno dopo giorno nei riti ombrosi di una quotidianità che per tutti si era   caricata di equivoci, complicità, stanchezze, tolleranze, non detti? Se smossa,  la polvere sottile di una storia bloccata, divenuta quasi sopportabile in assenza ormai dei venti impetuosi  da cui si erano lasciati  sfiorare o trascinare solo una decina d’anni prima –  avrebbe mostrato ad entrambi sempre quelle stesse parole. E, se le avessero pronunciate – ma ora col fiato in gola quasi strozzato – si sarebbero ancora aspramente  divisi e contrapposti.

 6

Una casalinga

La giovane aveva da accompagnare le bambine alla scuola materna. Per la nevicata inattesa l’auto  – una Renault vecchiotta – aveva difficoltà nel partire. L’aria invernale era gelida. E lei, innervosita, avrebbe voluto  rivolgersi al meccanico, che aveva proprio lì a pochi metri l’officina già aperta. Ma quello dalla soglia la guardava indifferente, come se non s’accorgesse della  pena di lei che cresceva. Allora aveva fatto scendere le bambine, aveva chiuso con rabbia le portiere e con la più piccola in braccio e le altre due che la seguivano calme s’era diretta sullo stradone con gli alberelli spogli ai lati. Faticava a non scivolare.

Rientrando trovò le stanze in subbuglio. I letti sfatti avevano le lenzuola consunte  e macchie di sporco. Bambole, libretti  illustrati e altri giocattoli sul pavimento. In cucina sul tavolino di marmo c’erano i resti della colazione da sparecchiare. Si sentì improvvisamente stanca e addolorata. Il marito era partito per uno dei suoi soliti viaggi. Accanto al letto sul comodino aveva lasciato un portacenere pieno  mozziconi e una bottiglia di vermouth quasi vuota. C’erano i soldi  per la droga che dovevano cercare. Si stese sul letto con il cappotto ancora addosso e s’accese una sigaretta. Dall’esterno i vetri delle finestre filtravano i rumori del traffico. Pensò ai due giovani mormoni americani che sarebbero venuti al pomeriggio per proseguire con lei i colloqui religiosi iniziati da qualche mese.

7.

 L’autoscuola

Se ne stava seduta dietro la scrivania bassa, strappata da qualche vecchia casa d’impiegati e che lì sfigurava tant’era  fuori posto rispetto al resto dell’arredo. Teneva sempre addosso il suo cappotto marrone. E aveva capelli spettinati. Il suo faccione grasso pareva una molle prigione per i suoi  piccoli occhi. Nell’autoscuola c’era solo lei.  Di fronte alle sedie plastificate e ben allineate. Sul muro in fondo grandi tavole illustravano la sezione interna di un’auto con le sue parti meccaniche evidenziate da colori diversi. Sull’altro muro il manifesto pubblicitario enorme con un’auto del primo Novecento  e una donna sorridente accanto. E, ancora più sproporzionato per la vicinanza al manifesto, un calendario con le immaginette dei santi. Quando vide che il marito   posteggiava l’auto dei praticanti con dentro, sui sedili posteriori, altri due clienti che dovevano esercitarsi per la patente, si alzò e con furia si accostò alla portiera che quello stava aprendo urlando: – Porco! Sei un porco! Lo devo dire a tutti. Il marito scese e  rimase quieto e silenzioso. Come se da tempo fosse abituato alla scenata. Alcuni studenti della media si erano fermati a guardare la donna che ancora  lo minacciava.

8.

 Un vecchio

Entrò nel bar per comprare  una bottiglia di vino. La solita che suggellava i momenti di accordo con lei. Un segnale di scherzosa solennità per entrambi. E subito restò imbarazzato. A un tavolino era seduto P. Aveva davanti a sé un bicchiere di whisky e guardava,  assente, due adolescenti che macchinavano attorno al jukebox. Lo salutò ma restò catturato da pensieri contraddittori. In quei pochi attimi sentì come rantolava opaca l’esistenza dell’ex compagno. Omosessuale mascherato e ora alcolizzato e disprezzato da parenti e vicini, nella oscura  deriva dei suoi ultimi anni, era stato spinto adesso  proprio in quel bar.  Finì per non ricordare più la marca di vino che aveva tante volte comprato. L’aiutò,  elencando e andando per esclusione, il barista. Dopo aver pagato, prima di uscire, tornò a salutare P che rispose con voce fredda e lontanissima. Quando riferì dell’incontro, lei gli disse che l’avevano cacciato dalla cooperativa che  amministrava e che sempre più spesso se ne restava a casa. In malattia.

9.

Lui, in tuta da meccanico, ordinò due caffè. Lei, biondastra e invecchiata, gli stava dietro, ma poi si staccò e in disparte prese a parlare con la barista. Anche lui, mentre gli preparavano i caffè, si rivolse ad alcuni  seduti ai tavoli del bar che lo conoscevano. Con una voce dura, rauca, lenta, dialettale.  Quando se ne andarono, quelli che  l’avevano ascoltato fingendo attenzione, ridacchiarono sornioni. Era uno che in modi oscuri e quasi mai puliti s’era arricchito.  Proprietario adesso di una villetta che pareva una fortezza.  La sua autorimessa aveva adesso anche un’officina per le riparazioni  e il forno per la verniciatura. Spesso i carabinieri venivano a fargli visita e lui li accoglieva con familiarità ossequiosa. Era arrogante e pronto a menare le mani. Di lei dicevano che  era stata  battona.

10.

Immobile per ore sul marciapiedi vicino al semaforo dove c’era la vecchia  biblioteca. Guarda fisso  la successione dei rossi, dei gialli, dei verdi? Com’è ingrassato! Per medicinali penso. Gli occhi scrutano assorti. Quando gli passo accanto è come se si risvegliasse. Un attimo di leggera sorpresa. E di allarme. Dai bui metafisici della sua mente in disordine ha intravisto il mio volto? E l’ha riconosciuto? Abbozza un sorriso, ma troppo meccanico. Non  so  se mi riconosce al presente. Un passante che ha visto altre volte. O gli si riaffaccia il volto che avevo quando  – lui studente al biennio –  feci da supplente per una settimana nella classe che frequentava al VII ITIS? O  mi vide in qualche riunione politica al Centro studi di Viale Lombardia?

Punti di vista

di Donatella Fabbri

 Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand'ella altrui saluta,
ch'ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l'ardiscon di guardare. 

Beatrice, detta Bea, sospira, leggendo per l’ennesima volta i meravigliosi versi dedicati da Dante a una donna che portava il suo stesso nome ma che, di sicuro, non era infelice come lei. Se non altro, perché a un grande poeta del suo tempo bastava guardarla da lontano per trovare l’ispirazione. Continua la lettura di Punti di vista

Aspettando Marion

di Rita Simonitto

Mi presento subito.

Mi chiamo Aldo e mia moglie, Ada.

Gli amici ci chiamano i coniugi AA, dalle nostre iniziali. Abbiamo una figlia, Cristina, iscritta a Lingue e che adesso si trova a New York per un corso di perfezionamento.

Quanto a me, ho fatto il panificatore per dare una mano a mio padre sia prima che dopo la mia Laurea in Scienze Economiche, non riuscendo a trovare, con quel titolo, subito una occupazione che mi potesse dare una certa autonomia finanziaria.

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“C’era una volta un Re….”

di Rita Simonitto

Dopo ” Jamaica Rum” (qui) e “Straocio” (qui) questo è il terzo racconto del trittico che Rita Simonitto ha dedicato ai “disagi socio/familiari che si riflettono sui giovani”. [E. A.]

C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia.

La serva incominciò: “C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia…”

“La serva incominciò: “C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia…”.

Chi non ha mai sentito questa filastrocca da bambino! Pur sapendo che si sarebbe ripetuta all’infinito, pur tuttavia si continuava a stare lì, nell’attesa che forse qualche cosa sarebbe cambiato…

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Viaggio negli anfratti di Morpheus

di Luciano De Feo

 

Non credevo che fosse già tanto tardi. Ero uscito per respirare aria salmastra, e lungo il sentiero pietroso avevo incrociato la signora Benneth.
– Giorno, – dissi. Non ebbi risposta.
Qualcosa del suo viso mi aveva particolarmente impressionato.
Era pallida come le altre volte, gli angoli della bocca, piegati verso il basso, le conferivano un aspetto quasi disperato.
I suoi occhi non mentivano: aveva pianto! Continua la lettura di Viaggio negli anfratti di Morpheus

Che pensieri

di Franco Nova

Era uscito senza portarsi l’ombrello e aveva cominciato a piovigginare, poco ma con insistenza e regolarità; e così scelse di camminare rasente il muro delle case in modo da essere parzialmente coperto dal loro tetto sporgente, tanto più che nemmeno si era messo in testa la sua coppola. Erano in molti ad aver dimenticato l’ombrello; quando si trattava di donne, era ben lieto di cedere loro il passo e di scostarsi dal muro, bagnandosi un po’, in specie i capelli, cosa che in effetti gli dava un certo fastidio. Con gli uomini era più restio, ma alla fine lasciava il lato coperto pure a loro. Si fermò davanti alla vetrina dell’armaiolo e guardò un bel fucile a ripetizione che vi era esposto. Ritenne imprudente quel negoziante poiché qualche malintenzionato avrebbe potuto abbastanza facilmente infrangere il vetro ed impossessarsi dell’arma; ben presto, però, si rese conto che era finta, pur se fabbricata senza dubbio a regola d’arte, e tuttavia inutilizzabile per sparare. Continua la lettura di Che pensieri

Che pensieri

scivolare

di Franco Nova

Era uscito senza portarsi l’ombrello e aveva cominciato a piovigginare, poco ma con insistenza e regolarità; e così scelse di camminare rasente il muro delle case in modo da essere parzialmente coperto dal loro tetto sporgente, tanto più che nemmeno si era messo in testa la sua coppola. Continua la lettura di Che pensieri