Archivi tag: Boris Pasternàk

Qualche accenno alla “cucineria” secondo Boris Pasternàk

Casa museo di Boris Pasternak, Mosca, Russia

di Antonio Sagredo

Il lilla
 
Supponiamo, - il ronzio di un alveare,
e un giardino che affoga nelle faccende.
E le spalliere delle seggiole di paglia,
ed i neri chicchi dei tafani.
 
E all’improvviso s’annunzia il riposo,
e dovunque abbandonano il lavoro:
la giovinezza lontana è nei favi,
il lilla biancastro è sbocciato!
 
Già in qualche luogo sono i barocci e l’estate,
e un tuono disserra i cespugli;
e l’acquazzone invade le cellette
della bellezza già tutta costruita.
  
E appena riempie il suo carro
d’aria fragorosa il firmamento, -
un edificio di cera gridellina,
galleggia, levatosi alle nuvole.
  
E le nubi giocano a rincorrersi     
e si sente il discorso del più anziano,
che il lilla deve in un piatto
decantarsi per bene e sgocciolare.
 
1927
  
(poesia Il lilla di Boris Pasternàk tradotta da A. M. Ripellino) 

Commento di A. M. Ripellino

“La poesia di Pasternàk è poesia dell’ingorgo, non della distensione. Questo tipo di immagine domestica e coloritamente cucineria, questo negozio di alimentari che è la sua poesia, la ritroviamo di continuo.  Per esempio, una poesia del Salvacondotto, dice: 

                                                               All’uscita del vicolo G.
la Nikitskaja era un uovo col cognac
nel sonoro baratro del crocicchio.

   La via era un uovo col cognac, perché c’era il disgelo, c’era la luce solare. È per questo che la cattiva e perfida signora Berberova (340) che non amava Pasternàk, lo chiama rococò sovietico (che poi questo non ha niente a che vedere col rococò

È una delle poesie in cui Pasternàk si associa a quella tendenza della casalinghità, così frequente nella letteratura russa; che va dal tempo di Puškin il quale, nel suo Evgenij Oneghin è uno dei primi poeti casalinghi russ.i Tutti i suoi discorsi sulla marmellata e sui cibi dei Làrini (soprattutto nella festa di Tatjana, quando Tatjana invita Oneghin). E Pasternàk è davvero un grande affiliato di questa linea.

Anche in poeti che sembrano lontani da questo, come Mandel’štam, per esempio, già in apertura di pagina troviamo dei versi di questo genere:

                                                         ma è eterno il gusto della panna montata
                                                          e l’odore della scorza d’arancia

  Cioè, il gusto del particolare casalingo, che oggi diremo cezannesco; ancora in Mandel’štam troviamo:

                                                           E tu cerchi di frullare un giallo
                                                           d’uovo con un cucchiaio arrabbiato

   C’è un lieve odore di scorza d’arancia, e decine di questi elementi.  È una strada ben precisa; non studiata ancora; la linea domestico-casalinga, nella letteratura russa è importantissima e corrisponde, tra l’altro, ad un’idea di patriarcalismo inconscio (341).  

Rozanov, per esempio, l’ha colto molto bene quando dice che: …dei suoi taccuini, sono più importanti quelli di cucina, che le lettere di Turgenev a Paolina Viardot…”

Note 340 e 341 di Antonio Sagredo

340 Già con Deržavin (quasi di certo il primo poeta russo ad elevare la cucineria a oggetto di poesia alta) si era iniziato questo gusto per le pietanze e le bevande: i colori, le forme dei cibi, gli odori e i sapori e i significati simbolici nascosti dietro ogni cibaria. Majakovskij, p.e., che dall’ode di Deržavin discende direttamente, ne cantò le lodi per la frutteria, specie, p.e., l’ananasso e la pernice assurgono in lui a simbolo di vita agiata, grassa, filistea e borghese. Ma sono tanti i poeti russi, dai simbolisti ai tardo futuristi, dell’inizio del secolo XX°  ad attingere alla cucina; Igor Severjanìn , p.e., canta lo champagne in un giglio. Quanto a discendenze e “etichette storiche”  (qui Majakovskij da Deržavin) Jurij Tynjanov dice che “si paragona Majakovskij a Nekrasov” mettendo tutti in guardia, poi che egli “stesso dice ha commesso un peccato ancora più grande paragonandolo [Majakovskij] a Deržavin, e Chlebnikov a Lomonosov”, poi chiama in causa Pasternàk citando alcuni suoi versi  dove si ammonisce chiunque a profetizzare; in Jurij Tynjanov, Avanguardia e tradizione, Dedalo libri, bari, 1968, p.264.

341  Parrebbe più facile e più naturale pensare a un matriarcato, giacché la donna è “regina” nella sua casa, specie nella cucina dove dovrebbe regnare indisturbata, e invece… raro, p.e., nei versi della Cvetaeva e della Achmatova, trovare una celebrazione delle cibarie; più facile delle bevande nella Achmatova, la quale spesso si trovò in situazioni così precarie “che nel maggio del 1926 Majakovskij e Pasternàk organizzarono una lettura pubblica delle loro poesie per devolvere a lei tutto il ricavo, anche se nei manifesti che annunciavano l’evento ciò non veniva specificato”, in E. Feinstein, Anna di Tutte le Russie, op. cit., p 164.  Per la Cvetaeva, poi, parlare di cibo è un affronto ed una offesa, gravi, a lei stessa, perché ricordiamo che era tanta la penuria di cibo che la sua figlia minore, Irina, morì di denutrizione: la ricerca di cibo per i suoi figli la tormentò quotidianamente e in maniera profonda, eppure, vedete, quale grandissima poesia geniale è riuscita a creare! Per lei, come per l’Achmatova, non esisteva affatto nessun alibi che la potesse distogliere dal far versi. Ma mentre l’Achmatova era assolutamente priva di senso pratico, almeno così raccontano le numerosissime testimonianze di chi le fu vicino, la Cvetaeva, al contrario, ne era satura, come dire sapeva far di tutto nell’operare quotidiano che la condannava.\\\\\\\\\\\\ Primo verso dell’ultima strofa va bene anche: “E le nubi giocano [s’intende] a rimpiattino”.

A proposito di questi versi
 
Sui marciapiedi li sminuzzerò
in un miscuglio di vetro e di sole.
D’inverno li rivelerò al soffitto
e li farò leggere agli angoli umidi.
 
Comincerà a declamare il solaio
con un inchino alle imposte e all’inverno.
Verso i cornicioni balzerà un salincervo [1]
di stramberie, sventure e annotazioni.
 
Non un mese soffierà la tormenta,
cancellerà  le fini e i principi.
D’improvviso mi ricorderò: c’è il sole.
Vedrò: la luce da tempo non è più quella.
  
Come un piccolo corvo Natale darà un’occhiata,
e il dolce giorno rasserenato
rivelerà molto di ciò,
che a me e alla mia amata non venne in mente.
  
Nella sciarpa, proteggendomi col palmo,
attraverso lo sportello griderò ai bambini:
“miei cari, qual millennio,
è adesso nel nostro cortile?”
 
Chi ha scavato un sentiero verso la porta,
verso il buco intasato di neve,
mentre io fumavo con Byron,
mentre bevevo con Edgard Poe?
  
Mentre accolto nel Dar’jal, come presso un amico,
come in un inferno, come in un deposito e in un arsenale
io la vita, come brivido di Lermontov,
come labbra nel vermut immergevo.

(poesia A proposito di questi versi di Boris Pasternàk tradotta da A. M. Ripellino
  
1917 

[1] salincèrvo 
sa|lin|cèr|vo
pronuncia: /salinˈʧɛrvo/
sostantivo maschile

giochi arcaico gioco di ragazzi che si fa mettendo uno dei giocatori chino, col viso nascosto nel grembo di un altro, mentre un terzo gli sale sul dorso a cavalcioni e gli domanda quante dita delle mani abbia aperte: soltanto quando abbia indovinato, il primo giocatore è libero dalla sua incomoda posizione

Commento di A. M. Ripellino

( “…bisogna tener presente la casalinghità (169) delle immagini pasternàkiane: “Il Caucaso era tutto come un letto disfatto”, “Le gocciole (della pioggia) hanno il peso dei bottoni”, “Come un vecchio grembiule una nube si secca e si strizza”, “Sulle grondaie, come maniche di vecchie camicie, languivano i rami”, “Il silenzio era bagnato come un cappotto”, “La pioggerella pestava i piedi accanto alla porta e c’era odore di sughero di vino” : la più folta serie delle metafore pasternàkiane ha un secondo termine sempre domestico. Per questo è stato chiamato dačnyj. Pasternàk vive sempre all’interno di una villa, anche nelle poesie cosmiche, con un guardaroba e un arsenale di cose domestiche.

   Il gusto dell’immagine vestimentaria e dell’immagine casalinga è stato introdotto nella poesia russa moderna (ma c’era già in Gogol’) dagli immaginisti (Šeršenevic, Kusikov, Esenin). Tutto questo poi non è che l’attuazione di un principio messo in moto dal filosofo Vasilij Rozanov (primo novecento) nell’opera Le foglie cadute, dove si incontrano continuamente esaltazioni delle cose familiari, di tutto ciò che è domestico. (170)

  Gli oggetti piccoli della nostra vita divengono oggetti supremi. Dice Rozanov:

Il mio libricino delle spese di cucina (con le entrate e le uscite), vale altrettanto quanto le “lettere di Turgenev a Paolina Viardot”. È qualcosa di diverso, ma non è meno asse del mondo né, in sostanza, meno poesia. (171)

Si immette qui tutta una tradizione che va da Puškin a Gogol’, Aksakov, e Mandel’štam. Tutto ciò che è cuciniero, tutto ciò che è domestico, tutta la casalinghità è un termine supremo di poesia”).

Note 169, 170, 171 di Antonio Sagredo

nota 169

Egli [Pasternàk] propende  a spiegarsi senza ricercatezze a proposito dei temi più elevati, in maniera casalinga, e a rendere l’emozionata grandezza del Caucaso alla buona, nel tono d’una conversazione famigliare di tutti i giorni: e – non nel suo piatto- . oppure – il Caucaso era tutto come sul palmo della mano e tutto come un letto gualcito. – La sua originalità sta in questo, che egli poetizza il mondo con l’aiuto dei prosaismi che iniettano nel verso la verità della vita e perciò la trasferiscono dalla sfera dell’invenzione ricercata alla categoria della poesia autentica”. Così Andrej Siniavskij in Boris Pasternak – Poesie inedite , Rizzoli 1966, p.29.  Ma con queste parole Siniavskij mette, più d’ogni altro critico, una parola esatta e definitiva sulla condizione della domesticità della poesia pasternàkiana, e con questo suo giudizio ribalta il principio di incomprensibilità che ha accompagnato la poesia di Pasternàk per decenni.

(nota 170)

È paradossale come questa fede in un quotidiano attivo, non filisteo, abbia vinto la rivoluzione d’ottobre e non solo; questa superata da quelle aspettative che solo l’amore domestico può dare: per le piccole cose,  per i tepori intimi, per quelle atmosfere minime ma essenziali, e che concorrono alla creazione della grande poesia; e qui azzarderei una sorta di Biedermeier sovietico. Insomma non è necessario incidere l’epoca con lo strumento di un bisturi, basta solo la visione, lo sguardo di un poeta a modificarla

(nota 171)

Vasìlij Ròzanov, Foglie cadute, Adelphi 1976, p. 185. (a cura di Alberto Pescetto con un saggio di A. M.Ripellino).

Boris Pasternàk, Otto poesie

                  dal romanzo   “Il dottor   Živàgo” e   da precedenti rivisitazioni TRADUZIONI LIBERE  E  “LIBERATE” DI ANTONIO SAGREDO (da 2 dicembre 2020 a 9 gennaio 2021)

di Antonio Sagredo

Delle 25 poesie che Mario Socrate tradusse per pubblicarle nel novembre del 1957 in prima edizione mondiale dall’editore Feltrinelli, scrive che sono “Poesie di Jurij  Živago”; mentre  A. M. Ripellino, che ne tradusse 8, scrive: “Dal romanzo Il dottor Živàgo” (1959), marcando una distinzione tra il personaggio e l’autore. Di queste 25  ne scelsi 17, quasi 40 anni fa, che tradussi e che dopo  alcune rivisitazioni abbandonai  perché distratto e pressato da altri studi e impegni della quotidianità.

Continua la lettura di Boris Pasternàk, Otto poesie