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La cartella di Fortini

Continuo il recupero degli articoli  dei vecchi siti di Poliscritture non più accessibili on line e ripubblico questo di Velio Abati comparso sul n. 9  cartaceo  del gennaio 2013. [E. A.]

di Velio Abati

Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ’l teschio misero co’ denti,
che furo all’osso, come d’un can, forti.

Il realismo furente di Dante ha incrinato per qualche terzina il silenzio glaciale della palude. L’orrore indicibile si squaderna ora in un esserci eterno. Il passato non muore e ha annientato di colpo il futuro. Tutto l’universo infernale è infatti un viaggio alle radici della selva dove ’l sol tace, al fermentare d’un passato che divora chi vive. La terzina conclusiva incardina l’incubo nella posa definitivamente animalesca della vittima-carnefice, “occhi torti”, e nella fissità d’una coazione senza fine: “riprese ’l teschio”.
Il lettore sa che l’emersione del rimosso, il vis à vis con il suo carico paralizzante d’angoscia è la costanza di ogni scena espiativa, offerta al pellegrino sotto la mediazione vigile del maestro. Così come pervasivo è l’assillo politico che l’accompagna e che l’artificio del viaggio collocato alla vigilia della catastrofe umana – cioè politica, etica, estetica, filosofica ed esistenziale – dell’esilio, rende incombente, ad ogni passo ravvivata da profezie ora stizzose, ora neutre, ora intenzionalmente consolatorie.
Ogni dannato ha la propria fissità e ognuno diversamente rifrange la biografia del pellegrino. Mille sono i modi con cui ciascuno, per dirla con Pirandello, rimane agganciato al proprio assillo.

          Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facea dinanzi alla risposta,
supin ricadde e più non parve fora.
——-Ma quell’altro magnanimo a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa.

Può, tra le mille, assumere la postura nobile quanto marmorea dell’assillo pubblico, oppure il patetismo trepido e cieco della passione familiare. Ma ciò che inficia alla radice e quindi scaraventa nella discarica infernale energie e sforzi vitali della miriade di dannati è stata l’incapacità di ciascuno di trascendere l’immediato, di allungare lo sguardo verso il futuro: dilettoso monte, da cui solo si può decifrare il passato e vedere il presente.
Fortini conosceva bene questo punto della nostra umana condizione, quando ripeteva: ogni immediatezza, ossia ogni rifiuto della mediazione, è intimamente reazionaria.
Credevo che la mia generazione, esclusi i cinismi e i rampolli dominanti, avesse scoperto per tempo –ai primi anni Ottanta, ricordo – la lezione eroica del prigioniero comunista Antonio Gramsci. Ma non ho mai immaginato che avrei dovuto insegnare la speranza ai miei alunni, che il mio compito sarebbe stato formare alla speranza. Fortini, a un giovane che nel 1993 lo interrogava su che cosa debba fare, come debba vivere la propria quotidianità chi s’affaccia alla vita adulta, rispondeva: “io domando ai giovani con cui lavoro, se vivono con i soldi di papà, se vivono con i propri, quanto guadagnano”. La risposta presuppone una condizione oggi lunare, vivendo i giovani la corrosione, di giorno in giorno maggiore, delle possibilità di lavoro, di sostentamento, di relazione. Nella selva non c’è luce, i sentieri sono false piste.

Gli alberi sembrano identici,
la specie pare fedele.
E sono invece portati via
molto lontano. Nemmeno un grido,
nemmeno un sibilo ne arriva.
Non è il caso di disperarsene,
figlia mia, ma di saperlo
mentre insieme guardiamo gli alberi.

È in tale immobilità che germina la disperazione. Non c’è, in se stessi, nell’hic et nunc circostanziale possibilità di lume. Questo è l’acheronte per chi si trovi oggi ad apprendere e a insegnare. Perché la speranza, se è una necessità primaria, non vive senza alimento. Il sapere di cui Fortini parla alla figlia, nelle circostanze date, viene solo da fuori; meglio: dai tempi lunghi.
Da questa béance, prima di tutto esistenziale, in cui insegnante e alunni sono presi, proprio da questa assenza d’ossigeno che grava nell’aula e nelle case, trova vita e scopo la potente lingua dantesca. Il piacere del testo è per il lettore la messa in esperienza dell’uscita da sé, quella che il pellegrino compie con lui. Il lettore, alunno-docente, passo dopo passo, impara a riconoscere con Dante che il male, con la paura che esso genera, non è assoluto, ma ha un’origine e ha una fine.
Ho detto esperienza, perché di essa vive la fatica del concetto, non della spiegazione astratta. Fortini aveva un amore sconfinato per il conversare, come sa chiunque l’abbia incontrato. Le sue lezioni pomeridiane a Lettere in via Fieravecchia si protraevano indefinitivamente. Arrivava con la cartella, elegante, sorridente, bello nella sua capigliatura candida e iniziava la lezione. Ho imparato dalla sua lettura perché un poeta va a capo prima della fine del rigo.
Non c’era un termine formale alla sua lezione, a un certo punto si trasformava in altro. Via via gli studenti si alzavano dalle sedie fino a che rimanevamo i soliti quattro o cinque. Oramai parlava del mondo. Solo quando l’anziano custode – si chiamava Dante, mi ricordava la figura d’un carraio della mia infanzia – suonava la sirena, egli si decideva ad alzarsi, prima che le luci spente ci chiudessero dentro. Nella mesta spensieratezza del Settantasette si leggeva nei muri di Via Fieravecchia una scritta; girava voce che ne fosse autore Gianni Scalia: Franco Fortini, il Lattes a lunga conversazione. Una volta – eravamo già al secondo anno – ci confidò perché non faceva precedere nessuna introduzione al suo corso. Solo la strada percorsa fino alla fine avrebbe potuto spiegare gl’inizi.
“Essere figlio” scrive l’Istat “di un avvocato (cioè avere un’origine borghese) oppure di un operaio non è affatto la stessa cosa: le probabilità di diventare un libero professionista, imprenditore o dirigente – ossia di accedere alle posizioni di vertice della gerarchia sociale – nel primo caso sono relativamente alte, mentre nel secondo sono decisamente più contenute. I figli della borghesia sono in netto vantaggio sui figli degli operai dell’industria e dei servizi anche nelle competizioni per l’accesso alla classe media impiegatizia. Ciò significa che le diseguaglianze di classe continuano a trasmettersi di padre in figlio”. Credo che pochi ragazzi conoscano questi dati che li riguardano. Anche Lettera a una professoressa suona inoffensiva come una carta medioevale; troppo grande è il velo sia dell’ideologia dominante, sia delle apparenze arcaiche di cui quel testo si veste. Credo anche che generalmente sfugga loro, per quanto rapido e imponente sia il fenomeno, il degrado dell’istruzione pubblica, cioè l’aggressione alla forza emancipativa della scolarizzazione di massa dei trenta gloriosi, breve tempo di cui ha beneficiato la mia generazione. Non lo sanno, perché il passaggio dalla condizione di fatto alla sua consapevolezza ha bisogno del rischiaramento della coscienza.
Non sfugge però loro una verità della propria condizione, ovvero la sostanziale impotenza dell’istruzione a modificare il destino già iscritto nella carne della loro famiglia. Solo che ne rimangono atterriti, proprio in conseguenza della loro cecità circa le cause e la natura storica, ossia mediata, di quel destino. Quando domando per quale motivo andare a scuola, mi si risponde “per socializzare”. Per socializzare è di sicuro la constatazione di un’azione positiva esistente. Per socializzare è però anche la verbalizzazione d’un bisogno autenticamente vissuto. È il grido di uno spavento, d’un vuoto: se parli è meno buio, invoca un certo paziente di Freud.
Sono partito militare il primo aprile del ’78, pochi giorni dopo il rapimento di Moro compiuto dalle Brigate Rosse. Ero laureato da qualche mese. Fortini, seppi poi, era corso via dall’Italia, per cercar scampo dall’oppressione. Dalla rabbia, immagino, e dall’impotenza insopportabili. I trenta gloriosi si chiudevano nella tragedia farsesca, nell’imbecillità.
Quando sono tornato dal congedo, ho seguito altre strade, da lontano. Ho incontrato Fortini a intervalli radi. Ogni volta, ricordo, con festoso slancio paterno, a Milano, a Montemarcello, al mio podere. La presenza del suo insegnamento è maturata lentamente, quasi inavvertita. So che se qui davanti avessi i miei primi alunni e quelli attuali farebbero fatica a riconoscere la stessa persona.

[…] Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi

Con altro orecchio leggo oggi, scartando la magniloquenza che da noi puzza da lontano di ridicolo, di fetidume nazionalista, scovando invece e invitando a una verità più mite, fraterna e semmai indomita. Lavorando con i ragazzi, ho scoperto quanto a lungo il ramingo bordeggi rive di morte, dai Sepolcri alle Ultime lettere, fino alla Sera e a In morte del fratello. C’è ben poco di eroico, molto di bisogno di fratellanza, entro cui cercare ostinatamente un orizzonte di senso comune per il quale vivere e soffrire.
Trascinato via dalla risacca – era solo gl’inizi – che scomponeva e ora travolge destini e istituzioni, persi tutti i contatti. Non fui ai funerali di Fortini.
Fu Ruth a ricordarsi di me, di noi, dopo che era rimasta sola. Venne a trovarci. Facevamo delle passeggiate non distratte, quasi serene. Le piaceva ascoltare i canti e la fisarmonica, si cercavano i profumi della macchia. Tornò più volte. Ricordo le giornate piene di sole.
Dice Sartre da qualche parte che se le rivoluzioni costituiscono i momenti in cui i gruppi sociali sono in fusione, l’immobilismo è delle società fredde. Ma la restaurazione capitalistica che è seguita dopo i Settanta e che oggi giunge forse al suo culmine – che è sempre marciume, pestilenza sociale, devastazione di corpi e di anime – è ancora diversa: non c’è alcuna fusione visibile, né staticità, piuttosto un precipitare disperato, perché impotente. La distanza tra ciò che è necessario e ciò che ciascuno di noi può è tale da atterrire le energie più agguerrite, le menti più lucide.
Non si tratta di disperarsene, ma di capirlo.

Oh dei giorni mie fatiche, oh sorrisi
muti scavate e fidi nell’ordito:
– Dov’è l’inferno? dove i paradisi?

Dentro tremo, se fuor v’appaio ardito
che forti e fragili son i cuori e i visi
ma ultima la risposta che v’addito.

Per questo, punto tutte le mie forze a scartare l’erudizione e a coltivare intensa la critica. Mi tornano in mente le riflessioni di Fortini, lo scopro e lo coltivo maestro: agire perché si trovi e si manifesti più verità politica (dico “politica” e subito sbalordisco per la spaventosa distanza dell’odierna pratica posticcia dal suo significato) in una poesia sulle rose che in un documento politico e viceversa. Attivo con pazienza le verità che ho imparato, filtro le antiche sapienze, le metto ogni volta alla prova con le domande mute dei miei alunni, con le loro fatiche, le loro rabbie.
Ruth, dopo che la sua malattia precipitò, non volle più che andassimo a trovarla. La voce ferma e amica al telefono ci ripeteva che avrebbe deciso il tempo.
Ci chiamò in autunno inoltrato, invitandoci per il febbraio. Teneva sotto controllo il dolore con la terapia. Nelle poche ore che stemmo in via Legnano, dalla finestra dove si scorgevano gli alberi, era come sempre energica e determinata. Il non detto non tradiva pressioni sulla sua voce. A metà visita, chiese solo di farle un’iniezione. Spiegò tranquilla il modo a mia moglie, che non osò dirle di non averlo mai fatto. Tutti i pacchetti erano stati preparati, con i foglietti e le istruzioni di chi trasloca.
Sarà per la fiducia nella vocazione dell’uomo al bene, di cui parlava Brecht, o forse per il necesse della speranza, che soprattutto mi capita di ricordare il Fortini ‘cinese’. In un luogo riferisce l’insegnamento del saggio taoista al giovane andato a chiedergli d’istruirlo. Vuoi scoprire il segreto di fabbricare l’oro?, gli risponde press’a poco, comincia a percorrere tutte le mattine dieci chilometri a piedi. Oggi comprendo che la cosa più difficile, ma quella decisiva, non è la meta, bensì la direzione. Oggi comprendo la conseguenza suprema dell’umana condizione: nemo enim nostrum sibi vivit, et nemo sibi moritur. So e scopro ad ogni passo e insegno e comprovo che il futuro è la nostra realtà, è la verità del nostro presente, il senso del nostro passato; che quel futuro è intimamente, appassionatamente di parte. Non qualunque parte. Solo quella degli sconfitti, solo la parte di noi debole e oppressa detiene la ragione e la forza del futuro comune:

“Oppressori e sfruttatori con la non-libertà di altri uomini si pagano l’illusione di poter scegliere e regolare la propria individuale esistenza. Quel che sta oltre la frontiera di tale loro ‘libertà’ non lo vivono essi come positivo confine della condizione umana, come limite da riconoscere e usare, ma come un nero. Nulla divoratore. Per dimenticarlo o per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di libertà, cioè di vita, altrui; e, indirettamente, di quella propria. Oppressi e sfruttati (e tutti, in qualche misura, lo siamo; differenziati solo dal grado di impotenza che ne deriviamo) vivono inguaribilità e miseria di una vita incontrollabile, dissolta ora nella precarietà e nella paura della morte ora nella insensatezza e non-libertà della produzione e dei consumi. Né gli oppressi e sfruttati sono migliori, fintanto che ingannano se stessi con la speranza di trasformarsi, a loro volta, in oppressori e sfruttatori di altri uomini”.

È un giornalista dell’“Unità” a raccogliere nell’agosto, a due mesi dalla morte, le ultime riflessioni, che il quotidiano titolava E se il marxismo fosse il futuro? Più il tempo della mia vita scema, più insegno la passione, la fatica e la forza dei tempi lunghi. In quella primavera Fortini aveva scritto che quanto di te rimane, di tutti rimane, non sono i libri, non sono nemmeno gli affetti, nemmeno l’insegnamento, ma ciò che la tua vita ha cambiato nel rapporto con gli altri uomini.
Quando, di rado, mi capita di andare a tenere qualche discorso pubblico, apro l’armadio. Prendo un morbido sacchetto celestino d’altri tempi, con una grande scritta in nero, Furla. Si chiude con una filza di cordino nero. Appena lo apri, si spande il profumo di cuoio. La cartella marrone sembra appena uscita dalle mani dell’artigiano. Ha un solo graffietto sotto la piega che la chiude. Non una cucitura è strappata. All’interno vi sono tre scomparti per pochi fogli, giusto di formato A4. Su quello anteriore è cucita, a reggipenne, una striscia di vacchetta. La cinghia che sorregge la cartella è lunga e comoda, può essere indossata senza impaccio anche con la giacca blu con cui arrivava a lezione fresco e furioso.
Ci dispongo il foglietto d’appunti, controllo che vi sia un lapis, ripasso a memoria la scaletta. Il borsellino di cuoio nero, fermato su tre lati con la cerniera, lo lascio invece chiuso nello scomparto. So che all’interno porta stampigliato in caratteri gialli una parola, “mundi”.

Ancora sugli anni ’70

Discussioni a spizzichi e bocconi
Riprendo un articolo comparso sulla pagina Facebook di Lanfranco Caminiti (qui) e una selezione dei  commenti, tra i quali due miei. [E. A.]

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Taccuino di un militante di AO. Quattro mesi del 1978

Domani 22 febbraio 2021 alle 17,30, collegandosi su Facebook ( qui) o su Yotube (qui), è possibile seguire la presentazione di “VOLEVAMO CAMBIARE IL MONDO. Storia di Avanguardia Operaia (1968-1977).

di Ennio Abate

Sono stato in Avanguardia Operaia dal 1968 al 1977, cioè fino alla sua scissione. Da allora, in tutti questi anni ho continuato a rimuginare e a scrivere su quella mia militanza politica e sulle vicende degli anni Settanta. Dei numerosi appunti (in forma di diario, di narratorio e di saggio) ho pubblicato finora pochi brani su Poliscritture ma ho sempre colto qualsiasi occasione per tornare su quella storia e confrontarmi con i miei ex compagni di AO. E’ accaduto in particolare nel 2016 sulla pagina FB “Via Vetere al 3”, dove per la prima volta  si affacciò l’idea di una Storia di AO. E quando uno di loro, Luca Visentini, ha pubblicato «Sognavamo cavalli selvaggi», una rielaborazione narrativa della sua esperienza in AO, che ho attentamente recensito (qui).

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Nei dintorni di F.F. – Frammento 1

 

Per un libro da scrivere

di Ennio Abate

Nel mio PC ho una cartella dal titolo “Fortini nei dintorni dal 2002”. Vi ho stipato negli anni appunti, scritti di Fortini o miei e di altri su Fortini, qualche disegno, saggi e resoconti delle iniziative fatte per ricordarne l’opera alla Libreria popolare di Via Tadino a Milano nel 2014 e altro ancora.  Nel 2017, anno del centenario della sua nascita, pensavo di sistemare in forma di libro questi materiali. Per varie ragioni non ci riuscii.  Ci riprovo pubblicando  su Poliscritture  i frammenti  numerati di quello che potrà forse diventare il libro. [E. A.]
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Sulla violenza nella storia

La questione della violenza nella storia, ora anche in una dimensione “gobalizzata” (in passato affrontata su Poliscritture almeno qui, qui, qui e qui), resta irrisolta . Meglio insistere a interrogarsi sul fenomeno. Da tutti i possibili punti di vista. Senza mai arrendersi all'”evidente” e finire per sublimarla o esorcizzarla. Va bene anche partire da materiale “datato” o “passato” o riflettendo a distanza di anni da questo o quell’evento traumatico. All’indomani della discussione scaturita dal post di Donato Salzarulo sugli anni ’70 (soprattutto nella sua seconda parte: qui) e per continuare ad approfondire, pubblico dal mio “Riordinadiario 2005” le ben meditate e ancora lucidissime e attuali “Sette tesi sul terrorismo nel Ventunesimo secolo” di Peppino Ortoleva. Apparvero il 5 agosto di quell’anno sul sito della LUHMI (Libera Università di Milano e del suo hinterland, promossa da Sergio Bologna) e vale la pena rileggerle e rifletterci. Aggiungo il mio intervento e le conclusioni dello stesso Ortoleva (purtroppo non più accessibili on line a quanto vedo, ma di cui avevo conservato una copia). Chi volesse conoscere il resto della discussione lo trova qui (andando in ‘Archivio’ > ‘Sul terrorismo’). Un’ultima precisazione. Ad Ortoleva, che nella sua replica scriveva: «La mia posizione sulla violenza politica implica un corollario, su cui credo Ennio non sia d’accordo. In materia di violenza politica l’etica della convinzione (per rifarci al binomio weberiano rimesso in circolazione da Bobbio) non serve a nulla: se si agisce sul terreno della storia è su questo che si deve essere giudicati; se si coinvolgono altre vite non si può pretendere di essere giudicati solo sulla propria coscienza», rispondo sia pur a distanza di anni di concordare invece in pieno con lui: no, per me pure non è la coscienza individuale (o soggettiva) a misurare da sola il valore di un’azione. Lo può essere (forse) un “io/noi” capace di proporre e attuare – fosse solo per poco tempo (nella storia le rivoluzioni sono lampi) – un progetto razionale e condiviso evitando sia i deliri incontrollati dell’”io” sia quelli standardizzati dei “noi” eterodiretti. [E. A.]

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I miei anni Settanta a Cologno (2)

di Donato Salzarulo

La seconda parte del racconto sui suoi anni ’70 di Donato Salzarulo. La prima si legge qui [E. A.]

7. – Dall’autunno del ’69 la mia partecipazione alla costituenda cellula di Avanguardia Operaia si fece assidua e sistematica. Non vivevo più in una stamberga o in una mansarda; la situazione economica della mia famiglia stava migliorando; mia sorella s’era iscritta al secondo anno dell’Istituto magistrale, al Virgilio di Milano; io continuavo a fare il doposcuola in Via Vespucci, avevo sistemato la valigia dei libri dalla casa di zio Peppe su uno scaffale di Via San Martino e, di tanto in tanto, sostenevo qualche esame all’Università. In verità, me la prendevo comoda e senza nessuna ansia di recuperare il ritardo accumulato. Sarei sicuramente finito fuori corso, ma non davo a questo fatto grande importanza. Avevo abbastanza introiettato la critica ai saperi borghesi, sebbene con la mia provenienza e la storia della mia famiglia alle spalle, continuassi a portare scolpita indelebilmente nel cervello la frase di «Lettera ad una professoressa», messa in bocca a Lucio, che aveva 36 mucche nella stalla: «La scuola sarà sempre meglio della merda». D’altronde, non avevo letto in una poesia di Bertolt Brecht la lode dell’imparare? Non avevo letto che l’uomo all’ospizio, il carcerato, la donna in cucina, il senzatetto, l’infreddolito, l’affamato dovevano afferrare il libro come un’arma? Brecht diceva che «dovevano sapere tutto» perché «dovevano prendere il potere». Forse era venuto il loro e il nostro tempo. Non ho mai pensato ad una rivoluzione dietro l’angolo, ma ad un grande fermento sociale contro i padroni, a delle grandi scosse anticapitalistiche questo sì. Questo l’avevo sotto gli occhi. Dopo la riluttanza iniziale, mi buttai allora convinto nel periodo di preparazione, in quella che, secondo me, sarebbe passata alla storia come la fase di costruzione del partito rivoluzionario italiano.

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20 anni in attesa di giustizia


Diario minimo di LuIgino Scricciolo, Edizioni MEMORi, Roma 2006

di Angelo Australi

Quando al mio paese è stata organizzata l’ultima conferenza sul tema, Il ’68 – fallimento di una rivoluzione, mi è venuta una gran voglia di rileggere il diario minimo di Luigino Scricciolo: “20 anni in attesa di giustizia”. Il libro è stato pubblicato a ottobre del 2006, dalla Società Cooperativa Editrice Memori di Roma. A Figline Valdarno siamo alla terza conferenza fatta nel giro di pochi mesi, Continua la lettura di 20 anni in attesa di giustizia

Tre riepiloghi sul ’68

di Ennio Abate, Paolo Rabissi e Franco Romanò

 

Partendo da un articolo di Abate, DA RENZO TRAMAGLINO (MERIDIONALE) A SAMIZDAT  del 19 febbraio 2018,  abbiamo intessuto ricordi  personali e politici  su un evento al quale ciascuno di noi ha partecipato a modo suo. Sono passati cinquant’anni. Sembriamo ancora accomunati da un giudizio sostanzialmente positivo sul significato storico e politico del ’68. Eppure diversi sono  gli accenti, le prospettive e i filtri di lettura che usiamo. Sperando di non aver opacizzato  ma reso nelle sue molteplici facce  alcune di quelle vicende e i problemi che affiorano nel ripensarle, pubblichiamo in un unico blocco il nostro lungo e  laborioso scambio di mail, avvertendo in anticipo che un po’ di fatica la chiediamo ai nostri convenzionali quattro lettori. [E.A., P.R., F. R.]

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Appunti politici (15): Sinceramente

 

di Ennio Abate

Ai miei interlocutori in questo scambio su POLISCRITTURE FACEBOOK (qui)
e in difesa della verità quando sembra (o è) detta «con le parole dell’errore»
[1].

Non mi travesto da geopolitico, da storico o da politologo, ma col senno di poi vi pongo due domande: – quale altra soluzione sarebbe stata possibile alla crisi vissuta dal movimento e dalle neo-organizzazioni politiche (“nuova sinistra”, “sinistra rivoluzionaria”, “neocomuniste”) che a partire dal ’68-‘69 agirono in Italia per tutti gli anni ‘70; – le spinte in quegli anni ad usare la violenza nella ricerca di una soluzione erano (almeno in parte) endogene ai soggetti sociali e a quelli statuali (e parastatuali) che allora si mossero o del tutto esterne e immaginarie? Continua la lettura di Appunti politici (15): Sinceramente

Da “Sognavamo cavalli selvaggi”

di Luca Visentini

Sette  brani + Appunti di lettura di Ennio Abate

L’11 marzo

L’aula A della facoltà di Fisica è stracolma di operai, di studenti medi e degli stessi universitari. Siamo lì preconcentrati in più di cinquecento. C’è il tempo per una breve discussione, già tesa. Le indicazioni sono comunque chiare, il corteo sarà pacifico e autodifeso, nel senso che non provocheremo per primi la polizia ma risponderemo a un suo eventuale attacco. Continua la lettura di Da “Sognavamo cavalli selvaggi”