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Bruce Hunter

Poesie scelte da  A Life in Poetry  I Quaderni del Bardo Edizioni Febbraio 2022
Traduzione di Angela D’Ambra

STRONG WOMEN
 
 
In this family
the men are romancers
of whiskey and lies.
The drinking tales that have us
leaving Scotland for stealing sheep,
Ireland as potato thieves.
What is not said,
is because of the women
we are men.
Strong men
any men at all.
This poem is for the women.
 
Auntie, a name with the irony
that a big man is named Tiny,
riding west from New Brunswick
by wagon before the railway
in response to a newspaper advertisement:
Wife Wanted
reply Hiram G. Worden Esq.
 
She came with muslin bags
of shinplasters, gold pieces
a trunkful of whalebone hoop skirts
a sidesaddle, Colt revolver
just in case, and savvy.
The latter two of which
she would use some years later
on a burglar entering her bedroom window
comforting him while police arrived
that the bullseye in her mind
was the top button of his shirt.
Never missed yet, wouldn’t now.
 
Hiram G. came home one night
drunk (often it is said).
She crowned him with a cast iron kettle.
He was never quite the same
nor was her stature among his friends.
 
Grandmother, 1929, spun ’round town
flapper in a rumble-seat sportster, hers.
Dancing the Charleston
playing poker Sunday nights.
Monday morning back at the office
pert secretary to the deacon of the diocese.
Lived four doors down
from Nellie McClung.
Never understood all the fuss
about that woman –
in the West all women are strong.
When her man died in ’38
she never remarried
became her own man.
 
A friend points her out
in the family album.
The face is familiar
she plays his tables at the casino
blackjack, high and fast.
Sometimes two tables
talking of her grandchildren,
who hearing of this
would be aghast.
 
Mother in the 1970’s
when the father leaves
it comes to this:
you can’t ride sidesaddle,
poker face or shoot your way out
with seven children.
There is no romance in this.
Play it straight
and they’ve got a jacket for you.
You’re tied to a table
the doctor from California
is into electricity
that lights up the last frontier
within your skull
like a Christmas tree
that will never be in season again.
Yours is the story
they do not tell.
 
 
 
 
DONNE FORTI
 
 
In questa famiglia
gli uomini sono autori
di whisky e di fandonie.
Le fole da taverna secondo cui
lasciammo la Scozia per furto d’ovini,
l’Irlanda perché ladri di patate.
Ciò che non si dice,
è che è grazie alle donne che
siamo uomini.
Uomini forti
uomini e basta.
Questa poesia è per le donne.
 
Zietta, nome che ha l’ironia
d’un omone il cui nome è Minuzzolo,
cha va a ovest da New Brunswick
su un carro, prima della ferrovia
in risposta a un annuncio di giornale:
Cercasi Moglie
contattare l’esimio sig. Hiram G. Worden.
 
Lei arrivò insieme a borse di mussola
con banconote in piccolo taglio, monetine d’oro
un baule di gonne con guardinfanti di fanone
una sella da donna, una pistola colt,
per prudenza, e buonsenso.
Le ultime due cose
le avrebbe usate anni dopo, quando
un ladro dalla finestra le entrò in camera 
e lei lo tenne a bada finché arrivò la polizia, 
dicendogli: “Il bersaglio nel mio mirino
è il primo bottone della tua camicia.
Mai mancato finora, non mancherei ora”.
 
Hiram G. una notte tornò a casa
sbronzo (si dice capitasse spesso).
Lei gli diede una botta in testa con un bricco in ghisa.
Non fu mai più lo stesso
né lo fu lei agli occhi degli amici di lui.
 
Nonna, 1929, sfrecciava per la città
spregiudicata su una rombante auto sportiva: sua.
Ballava il charleston
giocava a poker ogni domenica sera.
Il lunedì mattina, di nuovo in ufficio
segretaria sbarazzina del diacono della diocesi.
Abitava a poca distanza
da Nellie McClung.
Non capii mai perché tanto parapiglia
per quella donna:
a Ovest tutte le donne sono forti.
Quando il suo uomo nel ’38 morì
non si risposò
e divenne l’uomo di se stessa.
 
Un amico la indica
nell’album di famiglia.
Il viso gli risulta familiare  
gioca ai tavoli del suo casinò
blackjack, scommesse forti.
A volte, due tavoli
intanto parla dei nipoti,
che se lo sapessero
ne sarebbero allibiti.
 
Mamma negli anni ’70
quando papà se ne va
c’è poco da fare:
non puoi cavalcare all’amazzone,
bluffare a poker o uscirne a colpi di pistola
se hai sette figli.
Non è un romanzo questo.
Dì ciò che pensi
e ti mettono la camicia di forza.
ti ritrovi legata a un tavolo
il medico dalla California
si intende di corrente:
quella che accende l’ultima frontiera
nel tuo cranio
come un albero di Natale
che non funziona più nel tempo giusto.
La tua è la storia che
loro non raccontano.
  
 
 
 
CONCRETE VISIONS OF CHILD
 
 
An old
old sun pokes through
fat-fisted clusters of nimbostratus.
 
Through fences picketed
around the treewalled yard
with its tin tubs floating
armadas of black-backed snappers.
 
The red Massey rusty bedded in corn,
a soup can hat on its standpipe,
attended by sunflower nuns bowing head high
over hidden shrines of bricks and boards.
Once this was all that heaven could be.
 
The old man across the street
all the God we’d ever need
rising sometimes from the planting of lobelia
long enough to be child again
to join the worrying of clouds
and angels with April’s kites.
 
  
 
 
VISIONI CONCRETE DI BIMBO
 
 
Un vecchio,
vecchio sole spunta fra
ammassi di pingui nembostrati.
 
Fra recinti con paletti
intorno al cortile tappezzato d’alberi
con le sue vasche di lamiera in cui
nuotano armate di dentici dal dorso nero.
 
Il rosso Massey che fa la ruggine nel mais,
latta di zuppa a mo’ di basco sul tubo,
curato da suore girasole, teste alte chine
su santuari segreti di mattoni e d’assi.
Un tempo, questo era tutto il paradiso possibile.
 
Il vecchio della casa di fronte
l’unico Dio cui ci rivolgevamo
sorgeva, talvolta, dal campo di lobelia
quanto basta per tornare bambino
e unirsi all’inquietudine di nubi
e d’angeli con aquiloni di aprile.
 
  
 
  
IMAGES OF WAR
 
 
Dyked by white painted shiplap
Billy’s father’s plot of Holland
at the end of the small street.
His austere garden grew no flowers
only his family’s food.
 
This ironic immigration
from blitzkrieg memory,
for on the street’s opposite end
Klaus’s father, former S.S. sergeant.
His flower garden precise and clipped.
His similar accent
drove away the neighbourhood children.
 
While Klaus circled the street one day
in his father’s black helmet
Billy retrieved revenge
from under his parents’ bed.
The shoebox full of old photographs:
one more curled and fingerworn than the rest.
A man in the leather jacket of the Dutch Resistance
belted under a sash of bullets.
 
Finger set on the trigger of a machine gun.
Black barrel lowered on a storm trooper
kneeling hands over helmet against the wall.
Under the lean eye of Billy’s father
who ate tulips during the war.
Their bulbs boiled into bitter soup.
 
  
 
  
FOTO DI GUERRA
 
 
Cinto da perlinato bianco
l’angolo d’Olanda del padre di Billy
in fondo alla stradina.
Quell’orto austero non dava fiori
solo cibo per la famiglia.
 
Ironica immigrazione, questa,
da ricordi di guerra lampo,
ché al capo opposto della via
c’è il padre di Klaus, ex-sergente SS.
Il suo orto di fiori preciso e ben curato
L’accento, dello stesso tipo,
respingeva i bambini del vicinato.
 
Mentre Klaus, un giorno, gironzolava per la via
con l’elmetto nero del padre addosso
Billy si prese la rivincita
da sotto il letto dei suoi genitori.
La scatola da scarpe piena di vecchie foto:
una più gualcita dell’altra e lisa dalle dita.
Un uomo della Resistenza Olandese in giacca di pelle
allacciata sotto una fascia di proiettili.
 
Dito fermo sul grilletto d’una mitragliatrice.
Canna nera puntata in basso su un assaltatore
in ginocchio, mani sul casco, contro il muro.
Sotto l’occhio smunto del padre di Billy
che durante la guerra mangiava tulipani.
Ne bolliva i bulbi per una zuppa amara.
 
 
 
  
LIGHT AGAINST LIGHT
 
 
I want again to believe   
that when we love  
we remain   
passing always from this light   
into the next.
 
To remember   
those x-rays of my lungs   
I was shown as a child   
whose gauzy shadows  
I thought were hidden wings.   
You could feel the hot fist of the heart   
but where was the soul?
 
And that his shoulder blades   
when Billy stripped by the river   
were more than bones  
and that we would someday lift our arms.
We had seen the gleaned skeletons  
of birds drying on the salt flats.
On each wing, a thumb and four bird fingers.
 
How we lost faith  
and knew that the minister’s collar  
was a halo that had slipped,  
a noose that reddened his face  
and made it difficult  
for him to look down.
 
Billy believed 
that the 13 loops of the hangman’s noose  
made a hoop into the next life.
Me, I practiced that knot over and over.
 
But now there’s no way back  
and at night I ingest the room   
and into the room, the building  
and into that, the city and the lake,  
until I am pulling in    
all those edgeless places   
where this galaxy becomes another.
 
Where the mind  
is a sail full of light   
and the body a vessel.
 
One day I will keep on going,   
borrowed  
for a lifetime,
sent spinning back.
 
That light I was:
all we are  
luminous bodies,
particles, one against another
– light against light.
 
 
 
  
LUCE CONTRO LUCE
 
 
Voglio ancora credere
che quando amiamo
noi restiamo
passando sempre da questa luce
alla seguente.
 
Ricordare
i raggi-x dei miei polmoni
che mi mostrarono da bimbo,
le cui ombre velate
credevo ali segrete.
Il pugno caldo del cuore lo sentivi,
ma l’anima dov’era?
 
E che le sue scapole
quando, al fiume, Billy si spogliava
fossero più che ossa,
e che un dì, le braccia in volo avremmo alzato.
Avevamo visto scarti di scheletri
d’uccelli seccare su distese di sale.
Su ogni ala, un pollice e quattro artigli d’uccello.
 
Come perdemmo la fede
e capimmo che il solino del prete
era un’aureola sdrucciolata,
un cappio che gli arrossava il volto
rendendogli difficile
abbassare lo sguardo.
 
Billy credeva
che i 13 anelli del cappio del boia
formassero un cerchio nella vita seguente.
Quanto a me, m’allenavo di continuo con quel nodo.
 
Ma ora non si torna indietro
e di notte assorbo la stanza
e dentro la stanza, l’edificio
e dentro quello, la città e il lago,
finché attraggo
tutti i luoghi senza bordi
dove questa galassia un’altra diventa.
 
Dove la mente
è una vela ricolma di luce
e il corpo è un vascello.
 
Un giorno proseguirò,
mutuato
per una vita,
rispedito vorticando indietro.
 
Quella luce ero io:
tutti noi siamo
corpi luminosi,
particelle, una contro l’altra
‒ luce contro luce.
Nota biografica
Nato a Calgary, Alberta, Bruce Hunter, primo di sette figli, ha perso l’udito da bambino. È cresciuto nell’area degli Ogden Shop della Canadian Pacific Railway, ora dismessi. Suo padre era un ‘tinbanger’, cioè operaio metallurgico impiegato nell’edilizia. Sua madre era una casalinga e, più tardi, una studentessa d’arte e un’artista. Il bisnonno di Bruce fu uno dei primi allevatori dell’Alberta.Dopo il liceo, Bruce ha svolto molti lavori: operaio, operatore di attrezzature, prima di frequentare il Malaspina College dove ha studiato con Ron Smith che lo ha incoraggiato a scrivere. Completato il suo apprendistato orticulturale, Bruce ha lavorato per vari anni come giardiniere nell’Alberta e nel sud dell’Ontario. Mentre svolgeva questi lavori, ha pubblicato poesie in diverse riviste, ottenendo così una borsa di studio alla Banff School of Fine Arts dove ha studiato con W.O. Mitchell, Irving Layton, Sid Marty ed Eli Mandel. All’età di 28 anni, ha frequentato la York University (cinema e letteratura), mentre seguiva corsi di scrittura con Don Coles, BP Nichol e Miriam Waddington. Il primo libro di poesie di Bruce, Benchmark è stato pubblicato nel 1982 ed è stato trasmesso a livello nazionale nel programma Anthology di Radio CBC. Dopo la laurea, Bruce ha insegnato scrittura creativa alla York University, alla Banff School of Fine Arts, prima di entrare a far parte del Seneca College di Toronto nel 1986, dove si occupa di seminari di poesia.Nel 1986 ha pubblicato la seconda raccolta di poesie, The Beekeeper's Daughter, seguita nel 1996 da una breve raccolta fiction, Country Music Country, trasmessa da programmi nazionali nel 1999 e nel 2000 su Between the Covers di radio CBC. Nel 2000 ha pubblicato la terza raccolta di poesie, Coming Home from Home. Nel 2007 è stato scrittore in sede per la Richmond Hill Public Library. Nel 2009 è uscito il suo romanzo In the Bear’s House che ha vinto il premio Canadian Rockies 2009 del Banff Mountain Book Festival. Two O’clock Creek è la poesia “seme” che ha portato alla scrittura del romanzo. Negli ultimi 30 anni, Bruce ha vissuto in varie parti dell'Ontario meridionale tra cui Jordan Station, Stratford e Toronto. Attualmente, risiede a Thornhill

Gente di Colognom

Prenarratorio  1982

di Ennio Abate

1.

La vecchia e i bambini

Il cortile era un rettangolo di prato verdastro chiuso dal muro basso dei box per le auto. La luce del caldo pomeriggio era intensa e, tranne il gatto nero acquattato sotto l’ombra del roseto, lì c’era solo quel gruppo di cinque bambini e bambine. Trasportavano dei vecchi mattoni, forati, sporchi di calcina e depositati giorni prima accanto al muro del condominio in attesa d’essere trasportati in discarica. Volevano costruire un loro immaginario fortilizio. Ci avevano lavorato da un bel po’, quando dal retro della panetteria che dava sul cortile spuntò d’un tratto la prestinaia. Era una anziana bassa, con le labbra piccole e lo sguardo maligno. I bambini l’osservarono. Dapprima allarmati. Videro che avanzava armata di una zappa. Poi, raggiunto il muretto di mattoni che avevano appena messo su, glielo distrusse, sbraitando. Ed era rientrata nel suo negozio, ancora chiuso al pubblico per l’intervallo di mezza giornata, acquattandosi su una sedia, affannata ma forse pronta a tornare all’attacco. Non voleva che i bambini costruissero qualcosa in quel cortile. Non voleva che vi scendessero di pomeriggio dai vari appartamenti. Non voleva che esistessero.

I bambini s’erano dispersi. Poi i più grandi e tenaci avevano deciso di continuare. Ripararono il danno e ripresero il lavoro di prima. La donna allora era risalita in ascensore nel suo appartamento al sesto piano del condominio e dopo qualche minuto aveva buttato due secchiate d’acqua dal balconcino del ballatoio. In risposta sberleffi .

Persino alcune ore dopo, quando avevano smesso quel gioco e si divertivano a tirar calci a un pallone, era rispuntata con in mano una scopa e aveva cercato di colpire di sorpresa il biondino che le voltava le spalle.

2.

La madre e la bambina

La bambina in cortile.  Era un riquadro di prato. La madre alla finestra della cucina al primo piano. Ogni tanto s’affacciava e la sorvegliava. In un modo asfissiante. Come una che, a sua volta, si sente continuamente sorvegliata e deve dar conto. E per questo, la bambina in mezzo al gruppo era impacciata. Occhi più spauriti di quelli delle altre e la voce così fievole da rimanere soffocata. La madre era riapparsa varie volte col suo faccione apprensivo. La bambina percepiva il disprezzo delle amiche. E queste avevano colto il viscido filo che la tratteneva alla madre. Dopo un po’ cominciarono a canzonarla. Allora sua madre s’affacciò ancora e inveì contro di loro, rabbiosa e isterica. Afferrò dal cestino dell’immondizia una buccia di banana e la gettò con forza contro le bambine. Quella colpita reagì e ributtò la buccia di banana contro la donna. La colpì in pieno viso e tutte si misero a ridere. Allora la donna gridò: maleducate! E richiamò la figlia costringendola a rientrare in casa. La bambina salì di corsa le scale. Piangeva, mentre da fuori si sentiva un crudele canto di vittoria. La donna tirò giù la tapparella e sgridò la figlia appena se la vide davanti. Di tanto in tanto raggiungeva la finestra e di nascosto spiava tra le fessure della tapparella le bambine che continuavano indifferenti a giocare.

3.

I bambini parlavano del cortile come di un territorio che dovevano continuamente difendere dagli adulti invasori. I nemici più insidiosi erano i negozianti al pianoterra del condominio: la barista, che si lamentava per i danni alle sue piante; il fruttivendolo, che voleva tenere sempre pulito il pavimento dell’ingresso di servizio del suo negozio; la prestinaia, che nell’intervallo pomeridiano dormiva e non voleva sentire schiamazzi o urla. E pure un nugolo di mamme, sorelle, nonne – e a volte padri – era spesso in agguato da finestre e balconi. Per sorvegliare, sgridare, intervenire pro o contro qualcuno, richiamare.

4.

In un solo anno s’era indurita. E aveva fatto in successione scelte che nella opacità di quelle esistenze di periferia apparvero drastiche. Finché durante l’occupazione delle case aveva tentato il suicidio. Eppure mesi prima sembrava stesse sbocciando. Impiegatuccia al suo primo lavoro e studentessa in una scuola serale di Milano, era arrivata nella nostra sede per farsi aiutare a preparare il suo primo volantino. E s’era fermata ad ascoltare – in piedi, in un angolo – quella gente strana che, seduta, ammucchiata attorno a un tavolo, fumava e criticava padroni e sindacati. Per farla partecipare a qualche riunione serale, la coppia dei compagni già con figli avevano dovuto parlamentare con sua madre – una donnina piccola, vestita di scuro, tutta dolore, frastornamento e diffidenza. Poi s’era isolata. O l’avevano isolata. E mai si seppe come fosse arrivata al tentativo di uccidersi. Ne parlarono tutti nel giro. Vagamente e sottovoce. Qualche ragione, chi la sapeva se la tenne in segreto. Schizzata fuori dal giro dei compagni di Colognom, la si vide alle manifestazioni delle femministe. Era con le più accese e separatiste. – Me ne vado, mi licenzio, vado in Brasile. Me lo disse all’uscita della metropolitana in Duomo. Una volta che accettò di fermarsi quando la riconobbi e la chiamai. S’era trascinata con sé anche la sorella più piccola. E circolarono notizie brevi, raccontate frettolosamente. Su viaggi in gruppo di donne attraverso paesi sudamericani; e storie di droga e di violenza in cui erano finite. La ritrovai, anni dopo, una sera. Benzinaia a un distributore sulla tangenziale. Il volto sotto il berretto era ancora più affilato e duro. Avrebbe messo da parte un po’ di risparmi e sarebbe ancora ripartita. Poi – ma quando? – qualcuno disse che era morta. Per un po’ vidi ancora passeggiare – separati – per alcune strade di Colognom suo padre e sua madre. Lui fumava e guardava nel vuoto a quell’incrocio di strade, dove c’era un semaforo e le auto si fermavano una decina di secondi e poteva osservare i volti degli automobilisti. La madre girava tra passanti e auto e il vuoto neppure lo guardava.

5.

Il capogruppo consiliare del PCI

Adesso era il capogruppo consiliare del PCI. Occhialuto. Incanutito. Un figlio. Abitava in un appartamento di sua proprietà. Viveva come prima. in fondo in una condizione di modesto benessere impiegatizio. Non dissimile dal suo.  Eppure  rimaneva una tensione  sotterranea tra loro, quando s’incontravano. Negli ultimi  anni  il sudario della sconfitta aveva aveva avvolto  i compagni del  prof: gli estremisti, i mau mau. Così li chiamava la gente che voleva  invecchiare tranquilla. O nel sopore mite delle cene in famiglia o nel frastuono  dei televisori con il volume a palla. Subito dopo, però, dallo stesso sudario erano stati  fasciati stretti  anche loro:  i compagni delle sezioni, i consiglieri, i funzionari mummificati del Partito. Se in uno dei loro casuali e rari incontri per strada avessero accennato a certi argomenti – la Polonia di Walesa, le declinanti Brigate Rosse, i sindacati avviliti, i giovani piegati e piagati dal ritorno al già provato e alla ripetizione – quelle  due loro esistenze,  dall’esterno così simili e ormai opacizzate, sarebbero state di nuovo squarciate. Come da un cono di luce  irritante, insopportabile. E  quali parole avrebbero cercato per dire quel magma che si sedimentava giorno dopo giorno nei riti ombrosi di una quotidianità che per tutti si era   caricata di equivoci, complicità, stanchezze, tolleranze, non detti? Se smossa,  la polvere sottile di una storia bloccata, divenuta quasi sopportabile in assenza ormai dei venti impetuosi  da cui si erano lasciati  sfiorare o trascinare solo una decina d’anni prima –  avrebbe mostrato ad entrambi sempre quelle stesse parole. E, se le avessero pronunciate – ma ora col fiato in gola quasi strozzato – si sarebbero ancora aspramente  divisi e contrapposti.

 6

Una casalinga

La giovane aveva da accompagnare le bambine alla scuola materna. Per la nevicata inattesa l’auto  – una Renault vecchiotta – aveva difficoltà nel partire. L’aria invernale era gelida. E lei, innervosita, avrebbe voluto  rivolgersi al meccanico, che aveva proprio lì a pochi metri l’officina già aperta. Ma quello dalla soglia la guardava indifferente, come se non s’accorgesse della  pena di lei che cresceva. Allora aveva fatto scendere le bambine, aveva chiuso con rabbia le portiere e con la più piccola in braccio e le altre due che la seguivano calme s’era diretta sullo stradone con gli alberelli spogli ai lati. Faticava a non scivolare.

Rientrando trovò le stanze in subbuglio. I letti sfatti avevano le lenzuola consunte  e macchie di sporco. Bambole, libretti  illustrati e altri giocattoli sul pavimento. In cucina sul tavolino di marmo c’erano i resti della colazione da sparecchiare. Si sentì improvvisamente stanca e addolorata. Il marito era partito per uno dei suoi soliti viaggi. Accanto al letto sul comodino aveva lasciato un portacenere pieno  mozziconi e una bottiglia di vermouth quasi vuota. C’erano i soldi  per la droga che dovevano cercare. Si stese sul letto con il cappotto ancora addosso e s’accese una sigaretta. Dall’esterno i vetri delle finestre filtravano i rumori del traffico. Pensò ai due giovani mormoni americani che sarebbero venuti al pomeriggio per proseguire con lei i colloqui religiosi iniziati da qualche mese.

7.

 L’autoscuola

Se ne stava seduta dietro la scrivania bassa, strappata da qualche vecchia casa d’impiegati e che lì sfigurava tant’era  fuori posto rispetto al resto dell’arredo. Teneva sempre addosso il suo cappotto marrone. E aveva capelli spettinati. Il suo faccione grasso pareva una molle prigione per i suoi  piccoli occhi. Nell’autoscuola c’era solo lei.  Di fronte alle sedie plastificate e ben allineate. Sul muro in fondo grandi tavole illustravano la sezione interna di un’auto con le sue parti meccaniche evidenziate da colori diversi. Sull’altro muro il manifesto pubblicitario enorme con un’auto del primo Novecento  e una donna sorridente accanto. E, ancora più sproporzionato per la vicinanza al manifesto, un calendario con le immaginette dei santi. Quando vide che il marito   posteggiava l’auto dei praticanti con dentro, sui sedili posteriori, altri due clienti che dovevano esercitarsi per la patente, si alzò e con furia si accostò alla portiera che quello stava aprendo urlando: – Porco! Sei un porco! Lo devo dire a tutti. Il marito scese e  rimase quieto e silenzioso. Come se da tempo fosse abituato alla scenata. Alcuni studenti della media si erano fermati a guardare la donna che ancora  lo minacciava.

8.

 Un vecchio

Entrò nel bar per comprare  una bottiglia di vino. La solita che suggellava i momenti di accordo con lei. Un segnale di scherzosa solennità per entrambi. E subito restò imbarazzato. A un tavolino era seduto P. Aveva davanti a sé un bicchiere di whisky e guardava,  assente, due adolescenti che macchinavano attorno al jukebox. Lo salutò ma restò catturato da pensieri contraddittori. In quei pochi attimi sentì come rantolava opaca l’esistenza dell’ex compagno. Omosessuale mascherato e ora alcolizzato e disprezzato da parenti e vicini, nella oscura  deriva dei suoi ultimi anni, era stato spinto adesso  proprio in quel bar.  Finì per non ricordare più la marca di vino che aveva tante volte comprato. L’aiutò,  elencando e andando per esclusione, il barista. Dopo aver pagato, prima di uscire, tornò a salutare P che rispose con voce fredda e lontanissima. Quando riferì dell’incontro, lei gli disse che l’avevano cacciato dalla cooperativa che  amministrava e che sempre più spesso se ne restava a casa. In malattia.

9.

Lui, in tuta da meccanico, ordinò due caffè. Lei, biondastra e invecchiata, gli stava dietro, ma poi si staccò e in disparte prese a parlare con la barista. Anche lui, mentre gli preparavano i caffè, si rivolse ad alcuni  seduti ai tavoli del bar che lo conoscevano. Con una voce dura, rauca, lenta, dialettale.  Quando se ne andarono, quelli che  l’avevano ascoltato fingendo attenzione, ridacchiarono sornioni. Era uno che in modi oscuri e quasi mai puliti s’era arricchito.  Proprietario adesso di una villetta che pareva una fortezza.  La sua autorimessa aveva adesso anche un’officina per le riparazioni  e il forno per la verniciatura. Spesso i carabinieri venivano a fargli visita e lui li accoglieva con familiarità ossequiosa. Era arrogante e pronto a menare le mani. Di lei dicevano che  era stata  battona.

10.

Immobile per ore sul marciapiedi vicino al semaforo dove c’era la vecchia  biblioteca. Guarda fisso  la successione dei rossi, dei gialli, dei verdi? Com’è ingrassato! Per medicinali penso. Gli occhi scrutano assorti. Quando gli passo accanto è come se si risvegliasse. Un attimo di leggera sorpresa. E di allarme. Dai bui metafisici della sua mente in disordine ha intravisto il mio volto? E l’ha riconosciuto? Abbozza un sorriso, ma troppo meccanico. Non  so  se mi riconosce al presente. Un passante che ha visto altre volte. O gli si riaffaccia il volto che avevo quando  – lui studente al biennio –  feci da supplente per una settimana nella classe che frequentava al VII ITIS? O  mi vide in qualche riunione politica al Centro studi di Viale Lombardia?

Tre poesie da “Il lato destro dell’armadio”

di Canio Mancuso


Piccole manovre dell’abbandono

Le prime a cadere sono state le piante
non per volontà del tempo o del destino
ma del finto giardiniere
che le aveva ficcate nella terra. Continua la lettura di Tre poesie da “Il lato destro dell’armadio”