RIPENSARE COLOGNO MONZESE NEL 2022 (5)
di Ennio Abate
Note
[iii] Io non ricordo un periodico con questo titolo. Se altri ne sanno qualcosa, me lo facciano sapere.
* Foto di E. A.
RIPENSARE COLOGNO MONZESE NEL 2022 (5)
di Ennio Abate
[iii] Io non ricordo un periodico con questo titolo. Se altri ne sanno qualcosa, me lo facciano sapere.
* Foto di E. A.
da Poliscritture 3 su Facebook
di Samizdat
“Le sindromi del professore e del passatista possono essere curate, ma esiste un residuo di sofferenza che il mondo impone comunque. È l’idea che sia il mondo a dover essere corretto che è folle – l’idea che la vera cultura debba essere per forza di tutti. In fondo possiamo starcene per i fatti nostri, non credete, signori? Siamo forse molesti? La nostra attività si svolge quasi completamente in ombra, e non c’è ragione di esporsi al ridicolo e all’incomprensione.” (da QUASI UN CONGEDO (SULLA DECADENZA DELLA VERA CULTURA di Giulio Savelli su Le parole e le cose)
No, con la scusa che esiste e sempre esisterà “un residuo di sofferenza”, lasciamola aumentare, non correggiamo “il mondo”, teniamoci ben stretto al petto questo schifo di “vera cultura” (dimenticando quanto essa è ANCHE “documento di barbarie”, secondo W. Benjamin) e lasciamo trascinare ancora una volta i “tutti” alla solita guerra (per procura stavolta; o per ora…) Suvvia, un reazionario , che parla a bassa voce, suadente e dimesso , sempre reazionario resta.
P. s.
Ma il Giulio Savelli che firma questo lungo sproloquio è lo stesso di cui in Wikipedia si dice: “È stata la prima casa editrice italiana della sinistra antagonista ed extraparlamentare. Fondata a Roma nel 1963[1] da Giuseppe Paolo Samonà e Giulio Savelli, ha pubblicato centinaia di titoli legati all’approfondimento della filosofia marxista, alla lotta di classe, al marxismo-leninismo e al pensiero socialista rivoluzionario.”?
Sì, è proprio lui. Ignoravo la sua evoluzione politica (“Nel 1996 Savelli è stato eletto alla Camera nelle liste di Forza Italia”) e non mi era arrivata la notizia della sua morte nel maggio 2020 (qui).
di Umberto Di Donato
Prima dei versi, qualche considerazione in via preliminare-.
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Usciamo da un equivoco: si afferma che chi scrive vuole farsi leggere. È vero, ma dipende da chi. Per quel che mi riguarda, condivido totalmente ciò che Mandel’štam dice benissimo nelle poche pagine del saggio Sull’Interlocutore. Completando il quadro, aggiungo soltanto che alcuni profeti, spirituali, maestri da strapazzo, riconoscono alla poesia doti universalmente salvifiche, qualità magiche, terapeutiche, curative, basta mettersi all’ascolto. Io non ci credo, l’universale puzza di complotto, ed in più dico che il poeta non è la poesia, ma compone poesie, ripeto, non è la poesia, così come una fonte non è l’acqua. È quest’ultima che noi dovremmo bere, non la cannella. I poeti che profetizzano, che salvificano, che fanno sermoni, in realtà vogliono essere bevuti; e possiamo noi lettori in verità non soddisfarli!? Ora, ponendoci dal punto di vista dei singoli testi, gli unici a dare qualche minima certezza, si può sostenere che se non vengono letti non hanno vita? Non lo so, ma comunque è un loro problema, non il mio, ed in definitiva non di chi le scrive.
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Il gesto, l’azione senza frutto, un interlocutore ipotetico, un altro me. Lotta serrata alle piccole vanità.
Mi preoccuperebbe molto sapere che un mio testo possa emozionare chi frequenta i teatri, i cinema, i festival, gli eventi, i luoghi deputati alla cultura. Anche il libro è un luogo deputato. Il libro non è l’opera, è un supporto, e la possibilità della fruizione attraverso il supporto influenza la collocazione, la distribuzione, induce ad organizzare i singoli testi nello spazio del commercio. Io stesso ho commerciato nella mia preistoria testuale, soggiogato dal libro/supporto e pensandolo nelle mani di qualcuno. Ho recintato, secondo una logica indotta dall’esterno, dodici anni di esperimenti in quattro libri che materialmente non esistono ancora: Motore a combustione interna (1993-2002), Fossa comune (lugliosettembre 2001), Per fortuna non lavoro (2003), Reo confesso (2003-2005). Ormai il danno è fatto.
Vigliacco!
Poi ho capito. Niente più organizzazione, sequenza esclusivamente cronologica. Massima concessione: titolo alla sequenza per connotare l’arco temporale, per connotarlo a me (ma non ne sono ancora certo). Ridurre al minimo la schiavitù.
Nel 2004 scrissi questo testo:
“In verità è il poeta che ammazza la poesia, la violenta, la percuote, è la sua voglia di piedistallo. Quando il poeta contemporaneo va in televisione, ed aspira ad andarci, viene schiacciato nei ritmi serrati della distruzione scientifica, della telecamera crematoria. Poi la pubblicità, che rappresenta il momento in cui l’immagine si sposta dalla piramide dei cadaveri al fumo delle ciminiere di Auschwitz.
Anche nel libro vive lo spirito del gulag, del lager: l’ordine, la disciplina, la sequenzialità degli atti, le sezioni, multipli e sottomultipli; la morte. Ma è una morte che ha in potenzialità la sua resurrezione. Per me il libro, cioè quel tanto d’ordine che si cerca di dare al naturale spirito da fuggiasco del poetare, è il box con recinzione morbida in cui si mettono i bambini. Essi stanno lì, giocano, piangono, si aggrappano alla rete, ma siamo certi che cresceranno, che supereranno il varco. E poi il filo spinato/copertina non è attraversato dall’elettricità. Toccandolo non si corre il rischio di essere folgorati.”.
Adesso lo integro e lo supero nella direzione sopra esposta.
1 Il mio è un lavoro di concetto, ma so che alcuni lavori manuali sono davvero tremendi per cui penso che tutti vogliono andare in ufficio. Invece no: «mai otto ore in galera, meglio spargere col caldo nero catrame». Il problema non è il concetto oppure il manuale, ma quell'otto,10,12, così come sei ore a scuola [e che strazio fu per me la scuola!]. Riformare: competenze, competizione, i migliori, che nove volte su dieci non sono figli di poveri o quasi poveri. Sburocratizzare: che vuol dire sostanzialmente tagliare senza risolvere il problema perché i tempi lunghi sono nelle procedure. Io ho risolto in questo modo: ho un impiego, ma non lavoro, o comunque lavoro poco -e per piacere non si sparga troppo in giro la voce-. Desiderare un lavoro. Incredibile! «Che lavoro vuoi fare da grande?». Così comincia presto la rovina. Io volevo fare il terrorista, ma poi ho ripiegato sul pubblico impiego. Chiedo comunque aiuto. Bisaccia, 02.04.2021, ore 09.00-09.30, stanzetta, in tv si parla di lavoro e di riforme. 2 I versi che scendono troppo nel presente hanno di certo vita breve. Ma non importa, nun me ne fréca pròbbie niénde. Morire violentemente mentre si lavora! Io sto lavorando, seduto, senza gocce di sudore sulla fronte. Si lavora non più solo per mangiare, ma per tanti piccoli bisogni singolari. Ipocrita! Eppure la mia colpevolezza è poca cosa rispetto a chi dirige/arricchisce/imprende, governa o vuole governare [poca cosa ho detto, si badi, e il poco è un essere comunque]. Amministrare il contingente, va bene, è giusto, ma un po' si può pensare -dico un po', un nonnulla- a come lavorare tutti meno, ad alternarci tra fabbrica e concetto, a costruire guardandoci negli occhi quel futuro che a me non appartiene? Non ci serve più governo, ma un governo amorevole che dica: «non avete bisogno di me». Non capisco, non avviene nulla. Io ho un programma, minimo, di annientamento, velleitario forse, ma sincero. Al momento ho convinto solo tre persone. Il suo nome ha origini polinesiane e significa godersi il tempo libero. Incredibile la beffa! Grosseto, 06.05.2021, ufficio, ore 11.30-12.00 circa, pensando a Luana morta sul lavoro, e pure a quiru pòveriéddo re Peppino. 3 Vedo vari gruppi, coppie, famiglie, amici. Il tempo libero, il che significa che la rimanente parte del tempo libera non è. Giusto? Cosa si fa nel tempo libero? Niente di libero ovviamente: centri commerciali con acquisti pilotati, bevute e cene in cui si è delle comparse, relazioni con sceneggiatura sottostante. Non si tratta neanche più di massa -e stiamo parlando di una massa grassa-, o di società del consumo; melma, melma, melma. Non è la cultura che manca, o le buone letture -esiste anche la melma colta-, manca l'uomo, l'uomo dignitoso, lo schiavo che sa di essere tale per merito delle bastonate. Schiavo anch'io, ma voglio andare in miniera, che siano torture tutti i giorni. Non so cosa farmene di questa schiavitù con l'aperitivo, con visita guidata nei musei, della promozione fasulla dei diritti, del patrocinio di ministri ed aguzzini. Anche la banca, che già ruba l'altro tempo, vuole il mio tempo libero e mi scrive: «Ciao, hai pensato alle prossime vacanze?», (ma io e la banca da quando siamo amici? -memorandum: prosciugare il conto-). Ma dove sono finito? L'unico tempo libero che mi aspetta inizia sulla soglia del cimitero, ... e meno male. Grosseto, centro, 13.05.2021, ore 19.00-19.30 circa. 4 Pose il comune in memoria dei caduti del quindicidiciotto: sei persone "che con sacrificio onorarono la patria". Chissà se lo rifarebbero, se pensano ancora di aver onorato! Anche questa è una radiosa giornata di maggio, e si dice che siamo in guerra contro un nemico invisibile. I miei nemici al contrario sono onnipresenti e mi guardano storto. Mi considero in una fase da categorie del politico, e devo difendermi purtroppo -anche da questo cane, da questi gatti, da questi uccelli provinciali. In linea d'aria il mare è vicino, vedo il Giglio, qualche vela, la città sfavillante nella piana. Il borgo medievale naturalmente è tutto pietre, archi, vicoli e mattoni. Silenzio! Il paese vive prepotentemente in me. In realtà dovrei fare l'asceta, dovrei compiere il passo decisivo come già feci mille anni fa; sono caduto tante volte, ma non in guerra, e tante volte ancora cadrò. Non posso credere che oggi lanciano bombe invece di abbracciarsi felici e fare un picnic. Cosa trattiene tutta quella gente? Anch'essi vogliono onorare? Terra santa? Dite? Mi rendo conto solo adesso di essere seduto in Vicolo della Saggezza, 2 ... -ed io pensavo che fosse cieco-. Bene, bevo, riempio le borracce e riprendo a pedalare. Il ritorno è quasi tutto in salita. Montorsaio, 15.05.2021 ore 10.00-10.30, panchina, notizia bombardamenti in Palestina. 5 Un clima, un momento, un'aria che anticipa e che presuppone; intorno a me, meglio: su di me come una muta. E quindi un ritmo, interno, sereno, serrato, da qualche parte, emerge e pian piano s'impone. Scelgo di dare o di non dare corso. Poi sarei figlio del mio tempo, della mia epoca. Ma lei di chi è figlia? Ha vita propria oppure è un congegno creato per sfinire? Cosa vuole da me? E se la misura della mia vita fossero i millenni a quale epoca apparterrei? Schiavo di tutto, ... se già nelle strutture del linguaggio si annidano il potere, la gabbia e la prigione; quindi si consiglia di sabotare la sintassi, di attaccare dall'interno ma per molti interno significa cravatta. Sabotare il linguaggio a mio avviso non si può. Neanche col silenzio. Già che ci siamo perché non ai ceppi? Così è la muta -non la musa- che mi viene in soccorso, che mi affranca, che mi aiuta. "Con potete culo quelle pulirvi il bandiere". Non sono riuscito a dargli torto -pur nella la normalità della sintassi-. Bisaccia, 02.06.2021, festa della repubblica, stanzetta, poi la voce di un contestatore, ore 12.30-13.00 circa. 6 Seduto sotto il tiglio sto pensando, rimuginando, ma non dovrei. Non renderò quest'albero sacro, e credo che oggi non m'illuminerò -nel senso del Buddha intendo-. Non illuminato, ma comunque tranquillo. Estendere questo stato, isolarmi, stare solo. Devo risolvere il problema del sostentamento: occupazione, reddito, stipendio. Se mi licenziassi domani, pur riducendo al minimo i bisogni -un tetto, mangiare e bere- non ce la farei. Non so rubare, scassinare, investire in borsa, non so ingannare. E allora? E allora una bestemmia ci starebbe bene, ma non Antonio però, il santo patrono al cui cospetto tutto questo accade. Non posso nemmeno farmi monaco, prete perché dovrei battezzarmi e tutto il resto (e tutto il resto è in ogni confessione). Pietrificarmi? Magari! Il mio futuro, tolto lo svanire degli affetti, è nel suicidio o nell'ascesi -in ufficio infatti ho iniziato a meditare, concentrazione su un solo punto-. ... ... Ma cosa c'è? Sembra che il vento adesso stia parlando: «Perché non aspetti la pensione?». Maledetto, vuoi provocarmi, vuoi litigare? Calmo. Un solo punto, un solo punto. Bisaccia, 18.07.2021, Convento, ore 10.30-10.45, più o meno. 7 Insomma ho provato, letto, riletto, analizzato, pensato. E allora anch'io nel mio parlar voglio esser aspro[1]: mi stanno con dolcezza inculando, ma non ancora del tutto violato ad un'azione cruenta sto pensando. Se Dante il sommo celebrato in parlamento, nelle chiese e nei bordelli, ha condannato decine di persone, perché non posso io desiderare che qualcuno bruci vivo nelle fiamme di un talk show televisivo? «Bastardo, ti vaccineremo». Povero me. No pax. Mi disturba tutto, dico sempre le stesse cose -ma le dico bene-, ho raffinato le mie capacità di analisi, di sintesi e la mia forma non è poi così meschina. L'amore non mi basta, i miracoli, la gioia, gli appelli alla bellezza che si fa puttana, consolazione e propaganda. Non parlerò più con nessuno, ho deciso, neppure con gli uccelli. Io mi svago al tavolino e lavoro in società[2]. Visto che non sopporto più il lavoro è tempo di tagliarlo nella parte che non mi dà sostentamento. Si, l'uomo è un essere sociale, ma io credo non essenzialmente. Non mi interessa cos'è nella sua essenza, non ho voglia adesso di filosofare. Mi basta evitare per il momento il fango. ... Inizia così il mio mediocre medio evo. Grosseto, 12.08.2021, sul letto, ore 20.00-20.30 circa, rielaborando registrazione vocale. 8 Mio caro parliamone, ma sii chiaro, diretto, schietto. Desidero un milione di euro -anche il porcospino lo voleva, ma io coscientemente-. La realtà mi assale, e la realtà sono anche gli altri. Poeti, filosofi e scienziati non mi servono più a nulla. Dove un po' di pace? Forse in un bosco percorrendo un bel sentiero. I sostenitori della realpolitik non rompessero oltremodo. Non sono confuso, o frustrato; spesso i realisti affermano che posizioni e posture tali sono una forma di disturbo, ... o meglio: una forma d'impotenza. Come se dovessi per forza dire che la vita è vita ed è così com'è. No, non lo dico e preferisco subire, incassare, prendere legnate. Quante parole, è un turbinio di bocche aperte, un ammasso di coglionerie. I giornalisti andrebbero tutti imbavagliati, mi avvelenano il sangue. Non lo posso permettere. -Sessanta secondi di pubblicità-. Monopolio della forza legittima. Gira e rigira sempre questo è il punto. Ma si, maledico tutti i miei contemporanei, oggi mi è presa così; e per non dimenticare che questa è una poesia faccio presente che la pineta di fronte è come il colle, l'orizzonte -neutrale- è mio compagno, e il naufragar m'è dolce in questo stagno [zampilli d'acqua, tre papere, un ranocchio]. Vai, adesso mi sento meglio, lo sfogo è servito. Ritratto la parte non lirica. Grosseto, Parco Giotto, 23.08.2021, ore 19.00-19.30, più o meno. 9 Perché un essere umano, un buon cittadino non dovrebbe provare odio? Dicono che odiare sia dannoso, che questo sentimento è brutto, peccaminoso. Stupidaggini! Io di questi tempi odio, ed anche tanto. Il treno è in ritardo, niente coincidenza, sono mascherato, controllato, divise ovunque e poi transenne, obliterazioni, tornelli. È chiaro che non la finiranno più. Oggi non farò colpi di testa (domani chissà), ma fatemi almeno odiare. Così, banalmente, prevedibilmente, da intelligenza mediocre e luogo comunista, mi vedo solo con un mitra in mano, e di fronte a me tanti governi in fila, sindacati, imprenditori, intellettuali. Sono questi maniaci dell'apparire, dell'emergere, gestire, questi cultori della norma, dementi seriali, democratici per finta, animali, vermi, a tenerci adesso tutti sotto scacco. Su, via, sono inerme, dal punto di vista della prassi innocuo, ma lasciatemi almeno sognare, vagheggiare il clic creativo di un grilletto. Tanto sparirò da questa vita senza colpo ferire. Allora dite quello che vi pare, già conosco l'apparato retorico che mi si potrebbe di certo contrapporre. Detto questo, io non mi rodo il fegato, né ho del fegato. Dopo tutto resto un moderato. Roma, stazione Termini, 27.08.2021, ore 10.15-10.45, più o meno. 10 In certi momenti esprimersi è fatica, e vorrei cedere il passo. Ma non devo, ma non posso. Non sono irresponsabile come un dio, ed ogni giorno è una piccola conquista. Mi disturba la mia mortalità, dover lavorare per nutrirmi e per poter lavorare domani. Edificare esige tempo. Sono tormentato, di giorno e di notte, ma non si tratta del tormento ridicolo dell'artista. Sacrificherei tutta l'arte del mondo per un attimo di chiarezza, per uno sguardo diretto sull'abisso, sull'oscuro, sull'orrido e il melmoso. Non ho risposte all'assurdo che c'è nell'esistenza, e il volere non è potere in questo campo. Formalizzare una volontà, abbattere il mostro, quello che ci opprime dall'esterno, e quello che ci schiaccia dall'interno -che poi è lo stesso mentre si diverte ad una festa di carnevale-. Io non rivendico per me cose speciali, quello che voglio lo voglio per tutti: poche/nulle pene per il sostentamento, e poi tempo, tempo, tempo. Se un giorno si arrivasse a risolvere definitivamente il problema delle necessità materiali, a risolverlo urbi et orbi, resterebbe comunque quello della mortalità. E qui saranno guai! Si sarebbe tentati di dire che le esperienze sublunari sono un argine in qualche modo (ed infatti non mi lasciano disperare di certo a tempo pieno). [ ] A proposito di disperazione: oggi si va a votare; ma io no, così da tempo ho deciso. «Allora devi stare zitto, non ti puoi lamentare». E chi si lamenta. Io affermo, io asserisco, io subisco l'ordine parlamentargovernativo. Io sono incudine! La rappresentanza non mi interessa, e non voglio rappresentare. Bocciato il pensiero liberale, se considero il linguaggio di molti autori marxisti mi manca il respiro. Potrei anche condividere molte cose, ma l'aria è tutto. Così preferisco le soleggiate scampagnate fuori porta delle dolci correnti libertarie. Adesso posso dirlo caro Errico, e non si tratta di una semplice opinione: tra una mite utopia e la cruda certezza dei macelli scelgo la prima e incasso. Concludendo, noto che in tv stanno da tempo sibilando i draghi; io non sono (ahi me) l'arcangelo Michele, ma dico amichevolmente ai miei nemici: tenetevi il PIL, scopatevi il PIL, impiccatevi al PIL. Grosseto, 03.10.2021, sul divano, ore 21.00-22.00. [1] Dante, Commedia. [2] K. Kraus, Detti e Contraddetti.
NEI DINTORNI DI FRANCO FORTINI 1989
Nel 1989 esisteva a Cologno Monzese l’associazione culturale ipsilon e invitammo Franco Fortini, uno scrittore che per tutta la vita si è occupato di cultura. Tenne una conferenza in Villa Casati che registrammo e pubblicammo in LABORATORIO SAMIZDAT, IV, n. 7, novembre 1989, col titolo da lui scelto: “Contro lo snobismo di massa”. Il testo è stato antologizzato anche in “Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994” a cura di Velio Abati, Bollati Boringhieri, Torino 2003. [E. A.]
Si parla molto di cultura di massa, quella che si presenta attraverso i cosiddetti mass-media. Non stiamo a discutere stasera sul significato delculturla parola «cultura». Sarebbe però interessante notare che cosa è accaduto nell’uso, nell’accezione comune di questo termine. Per esempio, una volta – mi riferisco a molti anni fa – la parola «cultura» aveva un significato che conserva ancora ma solo per certe ricerche di tipo sociologico o antropologico. Esso indicava il complesso delle forme con le quali gli uomini producono.
Questa nozione di cultura aveva a che fare certamente con la tradizione marxista, anche se non coincideva necessariamente e del tutto con essa. È una nozione che abbiamo usato normalmente, così come si parlava della cultura di determinati popoli o della cultura della filosofia tedesca o dell’Illuminismo. O si parlava della cultura del metalmeccanico, intendendo alcuni specifici sistemi, modi, forme, entro i quali costui lavorava e, in definitiva, viveva. Oggi noi vediamo che, mentre questo significato continua ad essere usato a livello della ricerca e delle specialità, nell’ accezione corrente – quella che ci viene trasmessa dalla stampa, dai giornali e dalla televisione – cultura sta ad indicare soltanto un certo settore della comunicazione e delle forme, che ha a che fare soprattutto con le arti e con la letteratura. Nel gergo delle emittenti televisive un programma «culturale» è un programma dove, invece di avere i balletti oppure un concorso a premi, si parla di letteratura o si discorre sull’ultima grande esposizione di pittura fiamminga a Parigi o a Roma.
D’altra parte non è che possiamo inventare in questo momento per nostro uso una definizione migliore. Non è questo il punto. E semplicemente necessario tener presente questa forma di impoverimento della nostra cultura e capire che non è innocente. Non per caso è avvenuto così. È avvenuto perché rientrava in un disegno, che si propone due cose apparentemente contraddittorie, ma che non lo sono affatto: per un verso omogeneizzare i linguaggi, il sapere, le ideologie della gente; dall’altro, il processo, simultaneo e solo apparentemente opposto, è quello della valorizzazione o estremizzazione dell’individuo.
La tendenza di quello che conviene chiamare «tardo capitalismo» è oggi rivolta a queste due mete solo apparentemente contraddittorie. Per un verso, dunque, ci vogliono tutti simili o uguali: consumiamo gli stessi prodotti, tendiamo a leggere gli stessi libri (o a non leggerli) consumiamo gli stessi elaborati. È quella che chiamiamo «cultura di massa», al suo livello inferiore. Ma, per un altro verso – e basta guardare la pubblicità dei prodotti che riempiono i settimanali e le trasmissioni televisive – si tende a proporre un modello di individuazione estrema: non essere come gli altri, sii diverso, più bello, più forte ecc.; mettiti nella condizione di gestire il tuo tempo libero in modo originale, fatti una «cultura» …
Questo doppio movimento rientra perfettamente negli interessi del modo di produrre, di vendere, di consumare del mercato capitalistico. I risultati li vediamo. Sono – come è stato ricordato -1′ allargamento di un’ area di deprivazione, di neoalfabetismo o di analfabetismo di ritorno; e non solo qui in Italia, ma anche negli stessi Stati Uniti. È un fenomeno che riguarda, quindi, un allontanamento dalla stessa cultura di massa; esso interessa una frangia della popolazione, i cosiddetti esclusi, i marginali. Abbiamo invece una estesissima parte del corpo sociale, alla quale sono destinati saperi, forme artistiche o di intrattenimento, forme di realizzazione di se stessi.
E qui viene un punto molto importante.
Se ci riportiamo al passato – diciamo a venti anni fa o anche solo a dieci – il mio discorso potrebbe finire qui. Avevamo i grandi meccanismi che formavano prodotti di seconda qualità; e quella era la «cultura di massa», qualcosa che stava tra la divulgazione e i fascicoli della storia della letteratura universale, della religione o della geografia venduti nelle edicole. Il discorso allora sembrava abbastanza facile, tant’è vero che, se uno come me tendeva a dire: stiamo attenti, dobbiamo lottare contro la falsa ricchezza dell’informazione o della cultura e dell’arte «per tutti», veniva immediatamente bloccato da quelli che replicavano: ma tu sei un aristocratico della cultura e vuoi che determinate opere siano precluse a coloro che ne hanno fame e sete. Nel corso di un convegno, tenutosi a Venezia non troppi anni fa sul tema del rapporto tra letteratura e masse, rammento che nel corso della discussione mi accadde di buttare lì una battuta, che scandalizzò orrendamente i progressisti seduti accanto a me. Dissi: «non esiste il “Petrarca per tutti” ». Vale a dire: il tentativo di rendere accessibili alcune opere, che sono state create in un certo contesto storico e che hanno una definibile funzione non può valere per tutti. Concludevo cosi una discussione che andava avanti da venti anni. Venni immediatamente aggredito. Qualcuno mi chiese: «E allora, tu al popolo che cosa faresti leggere?». lo evitai di polemizzare sull’uso della parola «popolo» (che mi faceva venire i brividi, considerando che l’interlocutore aveva in tasca la tessera di un partito dalle origini marxiste) e risposi, in modo ancora più scandaloso: «lI Vangelo». Poi spiegai (anche se sono certo di non essere stato capito) che cosa volessi dire riferendomi al Vangelo. Indicavo, cioè, un libro che – indipendentemente dall’essere credenti o meno – ha le caratteristiche di non essere (o almeno di non essere facilmente) riconducibile all’ordine di un genere letterario. Non è di storia, non è cronaca, non è poesia. È molto difficile dire che cosa sia tutto quell’insieme che noi chiamiamo Vangelo e il tipo di rapporto che richiede al lettore è molto diverso da quello richiesto dalla lettura di Guerra e pace oppure da un’opera filosofica. È un rapporto completamente diverso, perché tende a chiedere in modo prepotente un certo tipo di adesione o di risposta alle domande che pone e che hanno molto a che fare con quelle domande e quei problemi di fondo, di cui abbiamo sentito giustamente lamentare la scomparsa nel corso dei nostri anni. Ma tutto ciò che vi ho detto fino ad adesso e tutto ciò che si riferisce a questo aneddoto ha a che fare con una situazione che non è più quella reale che abbiamo di fronte.
Oggi, cioè, non si tratta più di polemizzare contro una cosiddetta «cultura di massa», contro una volgarizzazione, una riduzione dell’alta cultura per i poveri. Stiamo attenti. La situazione non è più questa, ma è assai peggiorata.
In che senso?
Non posso qui dimostrarvelo. Posso soltanto enunciare quella che è una mia opinione. Sebbene non solo mia. Nella società avanzata, che è la nostra (ma potrei riferirmi soprattutto a certi paesi dell’Europa e agli Stati Uniti), abbiamo – per utilizzare una parola molto approssimativa – la «zona» delle istituzioni accademiche e degli istituti di ricerca al più alto livello (culturale o letteraria, artistica e scientifica … ).
Ora mentre una volta da parte di coloro che producevano a questi livelli c’era un atteggiamento di mediazione e distribuzione verso gli altri (così è stato certamente il secolo scorso e così è stato per una parte del nostro secolo), quando si è avuto il precipitoso allargarsi di una cultura di massa, che è diventata essa stessa nel suo complesso un argomento di tale potenza e articolazione da non aver più bisogno, per sopravvivere, del contatto diretto con la cultura che potremmo chiamare creativa – la cosiddetta alta cultura universitaria – si è imposto il divorzio, la separazione.
Nella pratica, per un verso cresce il numero dei ricercatori ad altissimo livello, che sempre meno forniti di cravatta e di boria accademica si dispongono quotidianamente a farsi intervistare, sull’ultimo avvenimento del giorno (e li vediamo alla TV questi scienziati, padri della fisica, della medicina, della chimica contemporanea, rispondere – in modo estremamente democratico – con delle banalità alle banalissime domande che vengono loro poste); mentre, per un altro verso, sappiamo benissimo che la distanza tra la vera ricerca ed il resto degli umani non solo è diventata, ma è mantenuta, enorme, astronomica.
Al di fuori di questa «zona» c’è l’immensa massa, l’immensa produzione, che veniva chiamata «cultura di massa» e che oggi si articola e si gestisce in modo separato, ricreando naturalmente al proprio interno delle gerarchie. Facciamo un esempio banale. Stiamo per avere le trasmissioni via satellite. Se si guarda il primo elenco che è già proposto al consumatore, ci accorgiamo che, pagando ovviamente una certa tassa (ma non è questo il punto importante), noi possiamo fruire del programma A, invece che B o C, e che tra questi programmi ci sono delle differenze fortissime di livello e di orientamento culturale. La discriminazione, quindi, avviene ed è fortissima all’interno della stessa cultura di massa.
Questa è, dunque, la premessa del mio discorso: non esiste la cultura di massa, esistono delle forme molto differenziate all’interno di strumenti che sono, quelli sì, veramente di massa. E tali strumenti sono quelli che vanno, a rigore, dalla scuola, che è uno strumento di acculturazione – diciamo così – di massa, fino all’ editoria (libraria, giornalistica, periodica ecc.), alla pubblicità, che è un grande fenomeno di cultura di massa, e naturalmente a tutte le forme degli audiovisivi.
Diventa inevitabile a questo punto dire che viviamo un particolare momento, destinato a durare, di concentrazione economicofinanziaria di tale complesso di mezzi; e diventa, quindi, sempre più difficile una fuoriuscita dal sistema attuale, che si fondi su quelle forme ascetiche, che io stesso una decina d’anni fa sono venuto proponendo. Quando parlavo di una riduzione della molteplicità, chiamando questo «ecologia della cultura» (o della letteratura), conservavo, non voglio dire delle illusioni, ma avevo ancora molto viva per delle ragioni biografiche la memoria di una possibile riduzione della varietà inutile, appunto.
Alcuni degli autori qui nominati, quelli della Scuola di Francoforte (ma potrei aggiungere autori come Brecht oppure Simone Weil. .. ) avevano proposto un simile ascetismo nei confronti della cultura, persuasi (giustamente) che vi fosse più cultura nella capacità di fabbricare una sedia che non nella lettura della Critica della ragion pura. Avevano assolutamente ragione; ma i fatti, cioè l’evoluzione del capitale mondiale nel tardocapitalismo, hanno dato loro radicalmente torto. E, nel frattempo, non si legge più (se non per un esame universitario) La critica della ragion pura e nessuno sa più fabbricare una sedia, fatta eccezione per pochissimi artigiani.
La via della rinuncia ascetica continua a sembrarmi valida soltanto come itinerario individuale, per così dire, al bene. Come ci sono delle persone, che la mattina fanno un certo tipo di ginnastica piuttosto che un altro o che consumano solo certi prodotti dietetici, perché pensano che faccia bene alla salute, così certamente fa molto bene rinunciare alla molteplicità inutile, non passare troppe ore davanti alla TV oppure non rincorrere tutte le novità librarie o non mettersi in coda con migliaia di persone per vedere sette quadri di impressionisti, cosa che avviene in questo momento un po’ dovunque in Europa.
Questo possiamo farlo, ma in questi termini, la cosa non va al di là della pia pratica individuale. Appena uno osasse spostarsi al di là e proporla come linea di gruppo, immediatamente saremmo assaliti da dieci filosofi accademici arruolati dai principali quotidiani, che ci accuserebbero – non sto inventando, sono cose reali che si possono vedere ogni giorno – di essere persone che – attraverso la linea dell’ascetismo, la drammatizzazione della storia, l’ostacolare il godimento dei consumi – vogliono in realtà l’oppressione, la tirannia, il gulag.
Forse non hanno tutti i torti. Non perché chi vuole queste cose desideri il gulag, l’oppressione o la tirannia, ma perché volere quei processi ecologici (che non riguardano soltanto l’industria inquinante, il buco di ozono o la foresta amazzonica, ma la testa della gente) significa – per me certamente – scatenare un certo tipo di conflitti, che possono avere, oltre a quelle positive, anche delle conseguenze estremamente negative, cioè quelle che noi chiamiamo le tirannie o le tragedie storiche.
Non siamo affatto garantiti (come vogliono farci credere i nostri governanti e i loro portaspada o portavoce o portacroce) dalla democrazia. No, non siamo protetti. La democrazia è un complesso di tecniche per l’accertamento delle volontà, per la guida politica di un gruppo, di un popolo, di una nazione, ma non si applica ai valori. Per dirla molto sinteticamente, come diceva un mio amico, il poeta Giacomo Noventa, «l’esistenza di Dio non si vota a maggioranza». Ma neanche si votano a maggioranza infinite altre cose, che hanno a che fare, appunto, con i valori, cioè con le ragioni che – come si diceva una volta – ha l’uomo di vivere e di morire. La democrazia in queste cose non funziona: i più non hanno ragione sui meno. In tutte le questioni veramente essenziali della nostra esistenza appunto: la vita, la morte, la malattia, l’amore – non vale la regola della maggioranza. Ed ecco perché, allora, sono assolutamente persuaso che una lotta per una «ecologia» della cultura, del sapere, ossia per una riduzione del superfluo, qualora fosse portata avanti (cominciando innanzitutto dalla lotta per stabilire cosa è superfluo e cosa non lo è … ) porterebbe a tali conseguenze e così dirompenti che l’ipotesi di una possibile susseguente oppressione (tirannia o violenza) va presa in considerazione. Non per approvarla, ma per sapere che ad ogni sforzo verso una verità e una vita superiore o migliore corrisponde la possibilità del suo contrario. Detto altrimenti: chi vuole evitare la tragedia, come condizione della vita umana, può farlo. Ma, a questo punto, apra il televisore e se lo guardi fino al momento della morte.
Chi sono – mi chiedo ora, avviando mi alla conclusione – i padri della lotta contro la massificazione? Si può andare molto in là nel tempo, risalire al Romanticismo; ma quelli che hanno visto questi fenomeni nella loro ampiezza e complessità drammatica sono certamente i filosofi della Scuola di Francoforte. I fenomeni, che Adorno, Marcuse ed altri avevano già intravisto nella Germania degli anni di Weimar, essi li verificarono in modo drammatico negli Stati Uniti, durante il periodo della loro emigrazione. I libri che ci hanno formato sono stati scritti negli anni quaranta. Hanno ormai mezzo secolo di vita. Rimangono fondamentali – mi guarderei bene dal negarlo – ma le situazioni sono cambiate. Allora il «mostro» della massificazione si presentava come volgarizzazione e come volgarità. Adesso non è più contro i programmi Tv particolarmente volgari o la letteratura da edicola che dobbiamo lottare. Dobbiamo lottare, invece, contro quella che si presenta come la Cultura con la C maiuscola. È quella che veramente, in modo profondo, ci distrugge, perché uno dei suoi dogmi è lo sviluppo della «corsa dei topi» culturale, cioè la creazione di uno snobismo di massa. Vogliono fare di noi, di tutti, degli snob, ossia delle persone che tendono continuamente a fingersi quelle che non sono. Da qui la necessità di creare continuamente mode e modelli dietro i quali farci correre. Oggi la «cultura di massa» – usiamo le virgolette – somiglia straordinariamente a quella vera, quasi come certi prodotti surgelati somigliano a quelli non surgelati.
Ma, allora, quali armi abbiamo? C’è almeno l’ombra di una proposta in quanto ho detto?
Mi pare che le conseguenze siano queste: fintanto che pensiamo di contrapporre un sapere ad un altro, un libro ad un altro, un film ad un altro – starei per dire: un’emittente Tv ad un’altra – possiamo arrivare nella migliore delle ipotesi a quella che è la situazione in cui già viviamo, visto che siamo in un paese democratico, dove già abbiamo un’opinione non maggioritaria e una certa tradizione di «sinistra».
Che cos’è, invece, che ci pone al di fuori?
E l’azione politica, intesa come scelta di comportamenti non individuali, i cui motivi non vanno cercati e neanche verificati esclusivamente sul sapere o sulla cultura, ma si fondano – almeno inizialmente – sul già saputo, su quello che sta dentro di noi – come si dice – o anche fuori (per me è lo stesso). E questo «qualche cosa», che già sappiamo, ci viene dalla nostra esperienza vitale. E un «qualche cosa» nel quale la sofferenza per 1’ingiustizia e 1’oppressione subita il giorno prima si mescola al ricordo di ciò che abbiamo imparato e saputo da quando avevamo cinque anni. Questo «insieme» è il nostro sapere, non quello che sta «dopo e fuori», che si aggiunge in seguito e può essere consumato o appreso, può diventare «carne e sangue» a condizione che vi sia quel momento iniziale.
E che cos’è l’operazione politica per eccellenza? Trovare i propri compagni, riconoscersi, unirsi, decidere di fare alcunché, fosse anche una conversazione come quella di stasera o una iniziativa come quella che qui è stata proposta.
Ed è veramente il caso di dire in questa occasione che da cosa nasce cosa e che qui siamo, per il momento, ancora fuori dai problemi della cultura, di massa o non di massa.
Infatti i problemi dei libri, del sapere, si pongono immediatamente dopo quelli che Mao chiama dell’inchiesta, cioè della ricerca per capire com’ è fatto il mondo nel quale vogliamo muoverci e che vogliamo in qualche modo modificare.
Ripeto la mia conclusione: mentre nel decennio in cui, in Italia con notevole ritardo, si sono sviluppate le forme della cultura di massa si è pensato soprattutto a controbattere la degradazione culturale, oggi credo che si tratti di lottare prevalentemente più a monte, in termini di accumulazione di forza politica. Basta pensare alla corporazione giornalistica, e soprattutto ai giornalisti della TV, a quelle migliaia di persone che la RAI paga molto spesso per non far nulla (e si parla di dieci-ventimila persone … ). Sarebbe interessante che si studiasse il contratto nazionale dei giornalisti e si vedesse la condizione di privilegio incredibile che essi hanno nei confronti di altre categorie. Si scoprirebbe, forse, che nel nostro paese vi sono settori, nei quali esistono fasce di privilegio cultural-politico non molto diverse da quelle del mandarinato cinese o della nomenklatura sovietica.
È mia convinzione profonda che proprio nell’ambito di quella che Gramsci chiamava, con parole dimenticate, «l’organizzazione della cultura» la lotta politica oggi può dare risultati, che non poteva dare trenta o quarant’anni fa.
Fino a quando esisteva una classe operaia nel senso marxiano e leniniano della parola, depositaria (o ritenuta tale) di valori universali, sì che, se essa non li affermava, l’intera società deperiva, si poteva avere dell’organizzazione della cultura l’idea che ne ebbero Lenin e Gramsci, e cioè l’idea di un qualche cosa di sostanzialmente subordinato al potere economico-politico. Ma oggi, non possiamo più usare i termini con i quali Lenin e Gramsci descrissero gli intellettuali. Oggi gli intellettuali non sono più quelli del tempo di Lenin e Gramsci. Sono invece quegli intellettuali «di massa» o intellettuali-massa, di cui il ’68, con eccessivo anticipo, dichiarò l’esistenza, quando non c’erano ancora; mentre oggi ci sono e nessuno più ne dichiara l’esistenza. Intendo riferirmi a tutti i docenti, i tecnici, gli addetti alla riproduzione del sapere, al giornalismo, alla TV, alla pubblicità. È una fascia straordinariamente importante del «nuovo terziario», senza la quale non si fa nulla.
Nella guerra civile – se vogliamo chiamarla così – o lotta di classe la «linea del fuoco» passa oggi attraverso le scuole, le redazioni, gli uffici dove si elabora un sapere che – ripeto – è «di massa», ma non ha più le caratteristiche di trenta-quaranta anni fa.
Ho pensato anni fa che i primi «caduti» di questa lotta si sarebbero avuti nelle redazioni al momento in cui – così come gli operai di centocinquanta anni fa, affrontando lo sciopero, affrontarono non solo i fucili dei carabinieri ma il licenziamento e, quindi, la fame loro e delle loro famiglie – uno di quei mezzi busti della TV prenderà la parola alle ore tredici e dirà una verità non prevista dal copione. Sarà immediatamente cacciato. Quel giorno si potrà dire non che ci sarà stato un singolo eroe, ma che sarà avvenuto qualcosa capace di rompere la profondissima omertà nel campo dell’informazione di massa. E la stessa cosa vale per molti altri settori della comunicazione e del sapere. Il mio è quindi un messaggio di speranza abbastanza ironica e – come potrei dire – autosorvegliata. Perché conosco l’estrema difficoltà di questa strada e, tuttavia, credo che essa esista.
di Ennio Abate
Nel dicembre 2013 ebbi modo di leggere questo saggio: L. Tolstoj Le memorie di un folle, nel frattempo comparso sulla Rivista di psicologia analitica (qui). Me l’inviò, chiedendomi un parere, l’autore, un certo Baio della Porta, pseudonimo di uno studioso che preferiva non rivelare la sua identità anagrafica. La mia reazione fu di sconcerto, tanto trovai esasperata e ipersoggettivistica la sua dissacrazione del narratore russo. E risposi con questa lettera polemica di cui non mi pento neppure oggi. Non sono in grado di riportare direttamente il saggio su Poliscritture; e, per farsi un’idea precisa delle critiche a Tolstoj di Baio della Porta, il lettore dovrà andare al link che ho indicato. [E. A.]
Continua la lettura di Riordinadiario 2013. Una polemica su Tolstoj
Il senso formale e sostanziale di una poesia civile oggi
di Amilcare Bronchielli
Il tema della poesia civile, pur con le sue ambiguità e a volte equivocità, è stato presente in passato su Poliscritture (Cfr. almeno qui e qui ) ma, forse perché la discussione ha svelato difficoltà o stanchezza, è stato abbandonato. Lo riprende adesso un giovane studioso, che propone questo suo saggio. E’ possibile riparlarne? Proviamo. [E. A.]
Ci sono questioni nella poesia che non hanno il problema di essere ancora aperte, attuali, forse trite e ritrite, ma che al contrario rischiano di non essere più trattate con la dovuta perizia. La distinzione, solo apparentemente un po’ pretestuosa, fra una poesia popolare o d’intrattenimento e una più colta e impegnata è una di queste. Ce ne sono altre riferite ad altre definizioni e la faccenda, per come qui vuol essere trattata, non è tanto di carattere filologico quanto antropologico. E non è questione di etichette: alla poesia non servono.
Continua la lettura di L’alfabeto della crisidi Rita Simonitto
“Aspettare e non venire, stare a letto e non dormire, ben servire e non gradire, son tre cose da morire.” (da La serva padrona – Intermezzo di G.B. Pergolesi)
La spiaggia, ovvero quel fazzoletto di spiaggia, era incassata tra due propaggini di costa alta che scivolavano giù al mare e la cui vegetazione era variegata,frammista di rocce aguzze, ginestre, lentischi e corbezzoli e, più in alto, a svettare disordinate, piante di orniello dalle tremule foglie.
Ci si arrivava attraverso un accidentato sentiero, ombroso al punto giusto per non far demordere il viaggiatore nel suo tragitto verso la caletta.
Continua la lettura di Aspettare e non veniredi Samizdat Colognom
“PROBABILMENTE NON HO DETTO TUTTO”. EH, SI’!
Angelo Rocchi ha presentato il programma elettorale – #avantiinsieme.
Cari cittadini di Cologno, ma ascoltatelo questo sindaco uscente di Cologno, di nome Angelo Rocchi! Visitate la sua pagina Facebook. Non vi lasciate impressionare dai 70 commenti di tifosi/e e dalla oltre tremila visualizzazioni. Andate al sodo, misurate le parole, i gesti di questa sua PRESENTAZIONE DEL PROGRAMMA ELETTORALE – #AVANTIINSIEME. Ragionate! Quanti punti ha elencato e trattato – ahi noi – troppo velocemente! Come un ladro furtivo, che non ha tempo, non dimostra, non porta dati. Pare un piazzista! Voilà, signore e signori di Cologno Monzese! Noi faremo una nuova piazza. Noi faremo la digitalizzazione. Noi riqualificheremo Villa Citterio. Noi riutilizzeremo la struttura ASL destinata finora ai malati di Aids.Beh, anche a non voler fare i pignoli, sono progetti, sono buone intenzioni. E solo il futuro ci dirà se tali opere – ammesso che siano tutte utili e necessarie – verranno realizzate. Ed eccolo che beve un bicchier d’acqua e riattacca con l’elenco delle “politiche” verso le famiglie, i giovani, gli anziani, le scuole; e delle iniziative lavorative, culturali, sportive; e ancora verso le associazioni, il commercio locale, l’ambiente, la viabilità.
Continua la lettura di Lettera aperta ai cittadini di Cologno Monzesedi Samizdat Colognom
Con la modernità, in cui non smettiamo di accumulare, di aggiungere, di rilanciare, abbiamo disimparato che è la sottrazione a dare la forza, che dall’assenza nasce la potenza. E per il fatto di non essere più capaci di affrontare la padronanza simbolica dell’assenza, oggi siamo immersi nell’illusione inversa, quella, disincantata, della proliferazione degli schermi e delle immagini. Jean Baudrillard, "Il Patto di lucidità o l'intelligenza del Male" (Raffaello Cortina)
Lettera aperta ad Alessandra Roman e alla sua coalizione
Continua la lettura di Oggi parliamo di CulturaRiordinadiario / In margine ad un convegno su Elvio Fachinelli del 1998
di Ennio Abate
Ripubblico questo mio resoconto ragionato di un convegno su Elvio Fachinelli tenutosi a Milano nel 1998 dopo aver letto su LE PAROLE E LE COSE un ricordo di lui nel trentennale della sua morte scritto da Sergio Benvenuto (qui). Ho letto varie opere di Fachinelli e ho spesso citato il suo scritto “Gruppo chiuso e gruppo aperto” (ad es. nel 2011 qui) . Non l’ho mai conosciuto di persona (l’intravvidi solo una volta, attorno al 1988, in mezzo al pubblico alla Casa della Cultura di Milano) ma ho sentito parlare spesso di lui da Giancarlo Majorino. E mi hanno sempre particolarmente colpito il suo scontro con Franco Fortini e l’autocritica postuma di quest’ultimo nei suoi confronti. (Il «diverbio» con Fachinelli Fortini lo rievoca in una nota di «Psicoanalisi e lotte sociali», pag. 229 di Non solo oggi). L’attenzione e lo scrupolo da cronista, con cui allora segui quel convegno privilegiando ancora in un’ottica da insegnante (sarei andato in pensione in quell’anno), dimostra il mio interesse per i problemi sollevati da Fachinelli ma anche la mia diffidenza per la piega impolitica/apolitica con la quale i suoi amici e colleghi psicanalisti lo ricordarono in quel convegno, esaltando – proprio come oggi fa in maniera definitiva Sergio Benvenuto – il lato amicale e liberal-libertario del suo pensiero fin quasi a far scomparire la sua permeabilità e sensibilità alle inquietudini sociali e politiche di quegli anni. Non condividevo né condivido il ripiegamento di tanti intellettuali nei “culti amicali, cultural-editoriali e professional-corporativi ” e neppure il nuovo dogma della leggerezza antideologica oggi di moda. E trovo fiacca, puerile e sospetta l’apologia del Fachinelli “dionisiaco” di Benvenuto e il suo viscerale antimarxismo. Tanto più che lui stesso è costretto a chiedersi: ” Ma allora, come accade che, puntualmente, questa carica creativa dell’inconscio si congeli in quella che chiamò “la freccia ferma”, nei marmi rigidi delle istituzioni, della burocrazia, del gelido rigore ossessivo? “. E deve ammettere che ” la contrapposizione tra pulsione di vita e pulsione di morte è un modo di descrivere – certo eloquentemente – il problema, non di risolverlo”. E allora? Confermo pienamente quanto scrivevo da isolato in quel lontano 1998: “Il limite astorico dell’inconscio o del desiderio dissidente è problema enorme e irrisolto per qualsiasi progetto, sia esso di spostamento o di rinnovamento o di rivoluzione. Allora [nel ’68] la contraddizione era visibile; e Fachinelli e Fortini polemizzavano fecondamente. Oggi, ridotte politica e gestione psicanalitica dell’inconscio a professioni ipocritamente rispettose del proprio specialismo, la contraddizione non si sa se c’è o non c’è più. E, così restando, indisturbate, non ci sarà possibilità reale né di politica innovativa né di desiderio costruttivo”. [E. A.]