
di Franco Nova
Continua la lettura di Su desiderare, amore inutile e sognodi Daniele Barni
Vorrei condividere con voi questa poesia che Daniele Barni mi ha inviato proprio ieri. È fresca fresca di scrittura. DONNE E UOMINI, a volte mi domando se mai torneremo ad essere parte di uno stesso corpo? [Angelo Australi]
Ventimila dollari – storie d’amore e di soldi
di Angelo Australi
In questi giorni ho riletto la raccolta di racconti della scrittrice americana di origini armene Rebecca Curtis, pubblicato in Italia nel 2008 dalla Casa Editrice palermitana Gea Schirò con il titolo Ventimila dollari – storie di amore e soldi (Twenty Grand and Other Tales of Love and Money), nella traduzione di Chiara Stangalino. Per quello che possono contare le classifiche, a cui invece negli Stati Uniti sembrano tenere in modo particolare, questo libro di esordio della scrittrice nata nel New Hampshire nel 1974, è stato inserito dal The New York Times tra i migliori 50 libri di narrativa usciti in America nel 2007. Continua la lettura di Rebecca Curtis
Poesie scelte da A Life in Poetry I Quaderni del Bardo Edizioni Febbraio 2022
Traduzione di Angela D’Ambra
STRONG WOMEN In this family the men are romancers of whiskey and lies. The drinking tales that have us leaving Scotland for stealing sheep, Ireland as potato thieves. What is not said, is because of the women we are men. Strong men any men at all. This poem is for the women. Auntie, a name with the irony that a big man is named Tiny, riding west from New Brunswick by wagon before the railway in response to a newspaper advertisement: Wife Wanted reply Hiram G. Worden Esq. She came with muslin bags of shinplasters, gold pieces a trunkful of whalebone hoop skirts a sidesaddle, Colt revolver just in case, and savvy. The latter two of which she would use some years later on a burglar entering her bedroom window comforting him while police arrived that the bullseye in her mind was the top button of his shirt. Never missed yet, wouldn’t now. Hiram G. came home one night drunk (often it is said). She crowned him with a cast iron kettle. He was never quite the same nor was her stature among his friends. Grandmother, 1929, spun ’round town flapper in a rumble-seat sportster, hers. Dancing the Charleston playing poker Sunday nights. Monday morning back at the office pert secretary to the deacon of the diocese. Lived four doors down from Nellie McClung. Never understood all the fuss about that woman – in the West all women are strong. When her man died in ’38 she never remarried became her own man. A friend points her out in the family album. The face is familiar she plays his tables at the casino blackjack, high and fast. Sometimes two tables talking of her grandchildren, who hearing of this would be aghast. Mother in the 1970’s when the father leaves it comes to this: you can’t ride sidesaddle, poker face or shoot your way out with seven children. There is no romance in this. Play it straight and they’ve got a jacket for you. You’re tied to a table the doctor from California is into electricity that lights up the last frontier within your skull like a Christmas tree that will never be in season again. Yours is the story they do not tell. DONNE FORTI In questa famiglia gli uomini sono autori di whisky e di fandonie. Le fole da taverna secondo cui lasciammo la Scozia per furto d’ovini, l’Irlanda perché ladri di patate. Ciò che non si dice, è che è grazie alle donne che siamo uomini. Uomini forti uomini e basta. Questa poesia è per le donne. Zietta, nome che ha l’ironia d’un omone il cui nome è Minuzzolo, cha va a ovest da New Brunswick su un carro, prima della ferrovia in risposta a un annuncio di giornale: Cercasi Moglie contattare l’esimio sig. Hiram G. Worden. Lei arrivò insieme a borse di mussola con banconote in piccolo taglio, monetine d’oro un baule di gonne con guardinfanti di fanone una sella da donna, una pistola colt, per prudenza, e buonsenso. Le ultime due cose le avrebbe usate anni dopo, quando un ladro dalla finestra le entrò in camera e lei lo tenne a bada finché arrivò la polizia, dicendogli: “Il bersaglio nel mio mirino è il primo bottone della tua camicia. Mai mancato finora, non mancherei ora”. Hiram G. una notte tornò a casa sbronzo (si dice capitasse spesso). Lei gli diede una botta in testa con un bricco in ghisa. Non fu mai più lo stesso né lo fu lei agli occhi degli amici di lui. Nonna, 1929, sfrecciava per la città spregiudicata su una rombante auto sportiva: sua. Ballava il charleston giocava a poker ogni domenica sera. Il lunedì mattina, di nuovo in ufficio segretaria sbarazzina del diacono della diocesi. Abitava a poca distanza da Nellie McClung. Non capii mai perché tanto parapiglia per quella donna: a Ovest tutte le donne sono forti. Quando il suo uomo nel ’38 morì non si risposò e divenne l’uomo di se stessa. Un amico la indica nell’album di famiglia. Il viso gli risulta familiare gioca ai tavoli del suo casinò blackjack, scommesse forti. A volte, due tavoli intanto parla dei nipoti, che se lo sapessero ne sarebbero allibiti. Mamma negli anni ’70 quando papà se ne va c’è poco da fare: non puoi cavalcare all’amazzone, bluffare a poker o uscirne a colpi di pistola se hai sette figli. Non è un romanzo questo. Dì ciò che pensi e ti mettono la camicia di forza. ti ritrovi legata a un tavolo il medico dalla California si intende di corrente: quella che accende l’ultima frontiera nel tuo cranio come un albero di Natale che non funziona più nel tempo giusto. La tua è la storia che loro non raccontano. CONCRETE VISIONS OF CHILD An old old sun pokes through fat-fisted clusters of nimbostratus. Through fences picketed around the treewalled yard with its tin tubs floating armadas of black-backed snappers. The red Massey rusty bedded in corn, a soup can hat on its standpipe, attended by sunflower nuns bowing head high over hidden shrines of bricks and boards. Once this was all that heaven could be. The old man across the street all the God we’d ever need rising sometimes from the planting of lobelia long enough to be child again to join the worrying of clouds and angels with April’s kites. VISIONI CONCRETE DI BIMBO Un vecchio, vecchio sole spunta fra ammassi di pingui nembostrati. Fra recinti con paletti intorno al cortile tappezzato d’alberi con le sue vasche di lamiera in cui nuotano armate di dentici dal dorso nero. Il rosso Massey che fa la ruggine nel mais, latta di zuppa a mo’ di basco sul tubo, curato da suore girasole, teste alte chine su santuari segreti di mattoni e d’assi. Un tempo, questo era tutto il paradiso possibile. Il vecchio della casa di fronte l’unico Dio cui ci rivolgevamo sorgeva, talvolta, dal campo di lobelia quanto basta per tornare bambino e unirsi all’inquietudine di nubi e d’angeli con aquiloni di aprile. IMAGES OF WAR Dyked by white painted shiplap Billy’s father’s plot of Holland at the end of the small street. His austere garden grew no flowers only his family’s food. This ironic immigration from blitzkrieg memory, for on the street’s opposite end Klaus’s father, former S.S. sergeant. His flower garden precise and clipped. His similar accent drove away the neighbourhood children. While Klaus circled the street one day in his father’s black helmet Billy retrieved revenge from under his parents’ bed. The shoebox full of old photographs: one more curled and fingerworn than the rest. A man in the leather jacket of the Dutch Resistance belted under a sash of bullets. Finger set on the trigger of a machine gun. Black barrel lowered on a storm trooper kneeling hands over helmet against the wall. Under the lean eye of Billy’s father who ate tulips during the war. Their bulbs boiled into bitter soup. FOTO DI GUERRA Cinto da perlinato bianco l’angolo d’Olanda del padre di Billy in fondo alla stradina. Quell’orto austero non dava fiori solo cibo per la famiglia. Ironica immigrazione, questa, da ricordi di guerra lampo, ché al capo opposto della via c’è il padre di Klaus, ex-sergente SS. Il suo orto di fiori preciso e ben curato L’accento, dello stesso tipo, respingeva i bambini del vicinato. Mentre Klaus, un giorno, gironzolava per la via con l’elmetto nero del padre addosso Billy si prese la rivincita da sotto il letto dei suoi genitori. La scatola da scarpe piena di vecchie foto: una più gualcita dell’altra e lisa dalle dita. Un uomo della Resistenza Olandese in giacca di pelle allacciata sotto una fascia di proiettili. Dito fermo sul grilletto d’una mitragliatrice. Canna nera puntata in basso su un assaltatore in ginocchio, mani sul casco, contro il muro. Sotto l’occhio smunto del padre di Billy che durante la guerra mangiava tulipani. Ne bolliva i bulbi per una zuppa amara. LIGHT AGAINST LIGHT I want again to believe that when we love we remain passing always from this light into the next. To remember those x-rays of my lungs I was shown as a child whose gauzy shadows I thought were hidden wings. You could feel the hot fist of the heart but where was the soul? And that his shoulder blades when Billy stripped by the river were more than bones and that we would someday lift our arms. We had seen the gleaned skeletons of birds drying on the salt flats. On each wing, a thumb and four bird fingers. How we lost faith and knew that the minister’s collar was a halo that had slipped, a noose that reddened his face and made it difficult for him to look down. Billy believed that the 13 loops of the hangman’s noose made a hoop into the next life. Me, I practiced that knot over and over. But now there’s no way back and at night I ingest the room and into the room, the building and into that, the city and the lake, until I am pulling in all those edgeless places where this galaxy becomes another. Where the mind is a sail full of light and the body a vessel. One day I will keep on going, borrowed for a lifetime, sent spinning back. That light I was: all we are luminous bodies, particles, one against another – light against light. LUCE CONTRO LUCE Voglio ancora credere che quando amiamo noi restiamo passando sempre da questa luce alla seguente. Ricordare i raggi-x dei miei polmoni che mi mostrarono da bimbo, le cui ombre velate credevo ali segrete. Il pugno caldo del cuore lo sentivi, ma l’anima dov’era? E che le sue scapole quando, al fiume, Billy si spogliava fossero più che ossa, e che un dì, le braccia in volo avremmo alzato. Avevamo visto scarti di scheletri d’uccelli seccare su distese di sale. Su ogni ala, un pollice e quattro artigli d’uccello. Come perdemmo la fede e capimmo che il solino del prete era un’aureola sdrucciolata, un cappio che gli arrossava il volto rendendogli difficile abbassare lo sguardo. Billy credeva che i 13 anelli del cappio del boia formassero un cerchio nella vita seguente. Quanto a me, m’allenavo di continuo con quel nodo. Ma ora non si torna indietro e di notte assorbo la stanza e dentro la stanza, l’edificio e dentro quello, la città e il lago, finché attraggo tutti i luoghi senza bordi dove questa galassia un’altra diventa. Dove la mente è una vela ricolma di luce e il corpo è un vascello. Un giorno proseguirò, mutuato per una vita, rispedito vorticando indietro. Quella luce ero io: tutti noi siamo corpi luminosi, particelle, una contro l’altra ‒ luce contro luce.
Nota biografica Nato a Calgary, Alberta, Bruce Hunter, primo di sette figli, ha perso l’udito da bambino. È cresciuto nell’area degli Ogden Shop della Canadian Pacific Railway, ora dismessi. Suo padre era un ‘tinbanger’, cioè operaio metallurgico impiegato nell’edilizia. Sua madre era una casalinga e, più tardi, una studentessa d’arte e un’artista. Il bisnonno di Bruce fu uno dei primi allevatori dell’Alberta.Dopo il liceo, Bruce ha svolto molti lavori: operaio, operatore di attrezzature, prima di frequentare il Malaspina College dove ha studiato con Ron Smith che lo ha incoraggiato a scrivere. Completato il suo apprendistato orticulturale, Bruce ha lavorato per vari anni come giardiniere nell’Alberta e nel sud dell’Ontario. Mentre svolgeva questi lavori, ha pubblicato poesie in diverse riviste, ottenendo così una borsa di studio alla Banff School of Fine Arts dove ha studiato con W.O. Mitchell, Irving Layton, Sid Marty ed Eli Mandel. All’età di 28 anni, ha frequentato la York University (cinema e letteratura), mentre seguiva corsi di scrittura con Don Coles, BP Nichol e Miriam Waddington. Il primo libro di poesie di Bruce, Benchmark è stato pubblicato nel 1982 ed è stato trasmesso a livello nazionale nel programma Anthology di Radio CBC. Dopo la laurea, Bruce ha insegnato scrittura creativa alla York University, alla Banff School of Fine Arts, prima di entrare a far parte del Seneca College di Toronto nel 1986, dove si occupa di seminari di poesia.Nel 1986 ha pubblicato la seconda raccolta di poesie, The Beekeeper's Daughter, seguita nel 1996 da una breve raccolta fiction, Country Music Country, trasmessa da programmi nazionali nel 1999 e nel 2000 su Between the Covers di radio CBC. Nel 2000 ha pubblicato la terza raccolta di poesie, Coming Home from Home. Nel 2007 è stato scrittore in sede per la Richmond Hill Public Library. Nel 2009 è uscito il suo romanzo In the Bear’s House che ha vinto il premio Canadian Rockies 2009 del Banff Mountain Book Festival. Two O’clock Creek è la poesia “seme” che ha portato alla scrittura del romanzo. Negli ultimi 30 anni, Bruce ha vissuto in varie parti dell'Ontario meridionale tra cui Jordan Station, Stratford e Toronto. Attualmente, risiede a Thornhill.
Prenarratorio 1982
di Ennio Abate
1.
La vecchia e i bambini
Il cortile era un rettangolo di prato verdastro chiuso dal muro basso dei box per le auto. La luce del caldo pomeriggio era intensa e, tranne il gatto nero acquattato sotto l’ombra del roseto, lì c’era solo quel gruppo di cinque bambini e bambine. Trasportavano dei vecchi mattoni, forati, sporchi di calcina e depositati giorni prima accanto al muro del condominio in attesa d’essere trasportati in discarica. Volevano costruire un loro immaginario fortilizio. Ci avevano lavorato da un bel po’, quando dal retro della panetteria che dava sul cortile spuntò d’un tratto la prestinaia. Era una anziana bassa, con le labbra piccole e lo sguardo maligno. I bambini l’osservarono. Dapprima allarmati. Videro che avanzava armata di una zappa. Poi, raggiunto il muretto di mattoni che avevano appena messo su, glielo distrusse, sbraitando. Ed era rientrata nel suo negozio, ancora chiuso al pubblico per l’intervallo di mezza giornata, acquattandosi su una sedia, affannata ma forse pronta a tornare all’attacco. Non voleva che i bambini costruissero qualcosa in quel cortile. Non voleva che vi scendessero di pomeriggio dai vari appartamenti. Non voleva che esistessero.
I bambini s’erano dispersi. Poi i più grandi e tenaci avevano deciso di continuare. Ripararono il danno e ripresero il lavoro di prima. La donna allora era risalita in ascensore nel suo appartamento al sesto piano del condominio e dopo qualche minuto aveva buttato due secchiate d’acqua dal balconcino del ballatoio. In risposta sberleffi .
Persino alcune ore dopo, quando avevano smesso quel gioco e si divertivano a tirar calci a un pallone, era rispuntata con in mano una scopa e aveva cercato di colpire di sorpresa il biondino che le voltava le spalle.
2.
La madre e la bambina
La bambina in cortile. Era un riquadro di prato. La madre alla finestra della cucina al primo piano. Ogni tanto s’affacciava e la sorvegliava. In un modo asfissiante. Come una che, a sua volta, si sente continuamente sorvegliata e deve dar conto. E per questo, la bambina in mezzo al gruppo era impacciata. Occhi più spauriti di quelli delle altre e la voce così fievole da rimanere soffocata. La madre era riapparsa varie volte col suo faccione apprensivo. La bambina percepiva il disprezzo delle amiche. E queste avevano colto il viscido filo che la tratteneva alla madre. Dopo un po’ cominciarono a canzonarla. Allora sua madre s’affacciò ancora e inveì contro di loro, rabbiosa e isterica. Afferrò dal cestino dell’immondizia una buccia di banana e la gettò con forza contro le bambine. Quella colpita reagì e ributtò la buccia di banana contro la donna. La colpì in pieno viso e tutte si misero a ridere. Allora la donna gridò: maleducate! E richiamò la figlia costringendola a rientrare in casa. La bambina salì di corsa le scale. Piangeva, mentre da fuori si sentiva un crudele canto di vittoria. La donna tirò giù la tapparella e sgridò la figlia appena se la vide davanti. Di tanto in tanto raggiungeva la finestra e di nascosto spiava tra le fessure della tapparella le bambine che continuavano indifferenti a giocare.
3.
I bambini parlavano del cortile come di un territorio che dovevano continuamente difendere dagli adulti invasori. I nemici più insidiosi erano i negozianti al pianoterra del condominio: la barista, che si lamentava per i danni alle sue piante; il fruttivendolo, che voleva tenere sempre pulito il pavimento dell’ingresso di servizio del suo negozio; la prestinaia, che nell’intervallo pomeridiano dormiva e non voleva sentire schiamazzi o urla. E pure un nugolo di mamme, sorelle, nonne – e a volte padri – era spesso in agguato da finestre e balconi. Per sorvegliare, sgridare, intervenire pro o contro qualcuno, richiamare.
4.
In un solo anno s’era indurita. E aveva fatto in successione scelte che nella opacità di quelle esistenze di periferia apparvero drastiche. Finché durante l’occupazione delle case aveva tentato il suicidio. Eppure mesi prima sembrava stesse sbocciando. Impiegatuccia al suo primo lavoro e studentessa in una scuola serale di Milano, era arrivata nella nostra sede per farsi aiutare a preparare il suo primo volantino. E s’era fermata ad ascoltare – in piedi, in un angolo – quella gente strana che, seduta, ammucchiata attorno a un tavolo, fumava e criticava padroni e sindacati. Per farla partecipare a qualche riunione serale, la coppia dei compagni già con figli avevano dovuto parlamentare con sua madre – una donnina piccola, vestita di scuro, tutta dolore, frastornamento e diffidenza. Poi s’era isolata. O l’avevano isolata. E mai si seppe come fosse arrivata al tentativo di uccidersi. Ne parlarono tutti nel giro. Vagamente e sottovoce. Qualche ragione, chi la sapeva se la tenne in segreto. Schizzata fuori dal giro dei compagni di Colognom, la si vide alle manifestazioni delle femministe. Era con le più accese e separatiste. – Me ne vado, mi licenzio, vado in Brasile. Me lo disse all’uscita della metropolitana in Duomo. Una volta che accettò di fermarsi quando la riconobbi e la chiamai. S’era trascinata con sé anche la sorella più piccola. E circolarono notizie brevi, raccontate frettolosamente. Su viaggi in gruppo di donne attraverso paesi sudamericani; e storie di droga e di violenza in cui erano finite. La ritrovai, anni dopo, una sera. Benzinaia a un distributore sulla tangenziale. Il volto sotto il berretto era ancora più affilato e duro. Avrebbe messo da parte un po’ di risparmi e sarebbe ancora ripartita. Poi – ma quando? – qualcuno disse che era morta. Per un po’ vidi ancora passeggiare – separati – per alcune strade di Colognom suo padre e sua madre. Lui fumava e guardava nel vuoto a quell’incrocio di strade, dove c’era un semaforo e le auto si fermavano una decina di secondi e poteva osservare i volti degli automobilisti. La madre girava tra passanti e auto e il vuoto neppure lo guardava.
5.
Il capogruppo consiliare del PCI
Adesso era il capogruppo consiliare del PCI. Occhialuto. Incanutito. Un figlio. Abitava in un appartamento di sua proprietà. Viveva come prima. in fondo in una condizione di modesto benessere impiegatizio. Non dissimile dal suo. Eppure rimaneva una tensione sotterranea tra loro, quando s’incontravano. Negli ultimi anni il sudario della sconfitta aveva aveva avvolto i compagni del prof: gli estremisti, i mau mau. Così li chiamava la gente che voleva invecchiare tranquilla. O nel sopore mite delle cene in famiglia o nel frastuono dei televisori con il volume a palla. Subito dopo, però, dallo stesso sudario erano stati fasciati stretti anche loro: i compagni delle sezioni, i consiglieri, i funzionari mummificati del Partito. Se in uno dei loro casuali e rari incontri per strada avessero accennato a certi argomenti – la Polonia di Walesa, le declinanti Brigate Rosse, i sindacati avviliti, i giovani piegati e piagati dal ritorno al già provato e alla ripetizione – quelle due loro esistenze, dall’esterno così simili e ormai opacizzate, sarebbero state di nuovo squarciate. Come da un cono di luce irritante, insopportabile. E quali parole avrebbero cercato per dire quel magma che si sedimentava giorno dopo giorno nei riti ombrosi di una quotidianità che per tutti si era caricata di equivoci, complicità, stanchezze, tolleranze, non detti? Se smossa, la polvere sottile di una storia bloccata, divenuta quasi sopportabile in assenza ormai dei venti impetuosi da cui si erano lasciati sfiorare o trascinare solo una decina d’anni prima – avrebbe mostrato ad entrambi sempre quelle stesse parole. E, se le avessero pronunciate – ma ora col fiato in gola quasi strozzato – si sarebbero ancora aspramente divisi e contrapposti.
6
Una casalinga
La giovane aveva da accompagnare le bambine alla scuola materna. Per la nevicata inattesa l’auto – una Renault vecchiotta – aveva difficoltà nel partire. L’aria invernale era gelida. E lei, innervosita, avrebbe voluto rivolgersi al meccanico, che aveva proprio lì a pochi metri l’officina già aperta. Ma quello dalla soglia la guardava indifferente, come se non s’accorgesse della pena di lei che cresceva. Allora aveva fatto scendere le bambine, aveva chiuso con rabbia le portiere e con la più piccola in braccio e le altre due che la seguivano calme s’era diretta sullo stradone con gli alberelli spogli ai lati. Faticava a non scivolare.
Rientrando trovò le stanze in subbuglio. I letti sfatti avevano le lenzuola consunte e macchie di sporco. Bambole, libretti illustrati e altri giocattoli sul pavimento. In cucina sul tavolino di marmo c’erano i resti della colazione da sparecchiare. Si sentì improvvisamente stanca e addolorata. Il marito era partito per uno dei suoi soliti viaggi. Accanto al letto sul comodino aveva lasciato un portacenere pieno mozziconi e una bottiglia di vermouth quasi vuota. C’erano i soldi per la droga che dovevano cercare. Si stese sul letto con il cappotto ancora addosso e s’accese una sigaretta. Dall’esterno i vetri delle finestre filtravano i rumori del traffico. Pensò ai due giovani mormoni americani che sarebbero venuti al pomeriggio per proseguire con lei i colloqui religiosi iniziati da qualche mese.
7.
L’autoscuola
Se ne stava seduta dietro la scrivania bassa, strappata da qualche vecchia casa d’impiegati e che lì sfigurava tant’era fuori posto rispetto al resto dell’arredo. Teneva sempre addosso il suo cappotto marrone. E aveva capelli spettinati. Il suo faccione grasso pareva una molle prigione per i suoi piccoli occhi. Nell’autoscuola c’era solo lei. Di fronte alle sedie plastificate e ben allineate. Sul muro in fondo grandi tavole illustravano la sezione interna di un’auto con le sue parti meccaniche evidenziate da colori diversi. Sull’altro muro il manifesto pubblicitario enorme con un’auto del primo Novecento e una donna sorridente accanto. E, ancora più sproporzionato per la vicinanza al manifesto, un calendario con le immaginette dei santi. Quando vide che il marito posteggiava l’auto dei praticanti con dentro, sui sedili posteriori, altri due clienti che dovevano esercitarsi per la patente, si alzò e con furia si accostò alla portiera che quello stava aprendo urlando: – Porco! Sei un porco! Lo devo dire a tutti. Il marito scese e rimase quieto e silenzioso. Come se da tempo fosse abituato alla scenata. Alcuni studenti della media si erano fermati a guardare la donna che ancora lo minacciava.
8.
Un vecchio
Entrò nel bar per comprare una bottiglia di vino. La solita che suggellava i momenti di accordo con lei. Un segnale di scherzosa solennità per entrambi. E subito restò imbarazzato. A un tavolino era seduto P. Aveva davanti a sé un bicchiere di whisky e guardava, assente, due adolescenti che macchinavano attorno al jukebox. Lo salutò ma restò catturato da pensieri contraddittori. In quei pochi attimi sentì come rantolava opaca l’esistenza dell’ex compagno. Omosessuale mascherato e ora alcolizzato e disprezzato da parenti e vicini, nella oscura deriva dei suoi ultimi anni, era stato spinto adesso proprio in quel bar. Finì per non ricordare più la marca di vino che aveva tante volte comprato. L’aiutò, elencando e andando per esclusione, il barista. Dopo aver pagato, prima di uscire, tornò a salutare P che rispose con voce fredda e lontanissima. Quando riferì dell’incontro, lei gli disse che l’avevano cacciato dalla cooperativa che amministrava e che sempre più spesso se ne restava a casa. In malattia.
9.
Lui, in tuta da meccanico, ordinò due caffè. Lei, biondastra e invecchiata, gli stava dietro, ma poi si staccò e in disparte prese a parlare con la barista. Anche lui, mentre gli preparavano i caffè, si rivolse ad alcuni seduti ai tavoli del bar che lo conoscevano. Con una voce dura, rauca, lenta, dialettale. Quando se ne andarono, quelli che l’avevano ascoltato fingendo attenzione, ridacchiarono sornioni. Era uno che in modi oscuri e quasi mai puliti s’era arricchito. Proprietario adesso di una villetta che pareva una fortezza. La sua autorimessa aveva adesso anche un’officina per le riparazioni e il forno per la verniciatura. Spesso i carabinieri venivano a fargli visita e lui li accoglieva con familiarità ossequiosa. Era arrogante e pronto a menare le mani. Di lei dicevano che era stata battona.
10.
Immobile per ore sul marciapiedi vicino al semaforo dove c’era la vecchia biblioteca. Guarda fisso la successione dei rossi, dei gialli, dei verdi? Com’è ingrassato! Per medicinali penso. Gli occhi scrutano assorti. Quando gli passo accanto è come se si risvegliasse. Un attimo di leggera sorpresa. E di allarme. Dai bui metafisici della sua mente in disordine ha intravisto il mio volto? E l’ha riconosciuto? Abbozza un sorriso, ma troppo meccanico. Non so se mi riconosce al presente. Un passante che ha visto altre volte. O gli si riaffaccia il volto che avevo quando – lui studente al biennio – feci da supplente per una settimana nella classe che frequentava al VII ITIS? O mi vide in qualche riunione politica al Centro studi di Viale Lombardia?
di Cristiana Fischer
Perché donne spesso abbiamo, e abbiamo avuto, dei nemici (ma anche certe “nemiche” non scherzano) soprattutto quando ci organizziamo per rinforzarci, riferendoci alle esperienze delle madri di tutte, e con la cura di trasmettere sapere e idee del mondo alle più giovani.
Continua la lettura di Un confrontodi Marcella Corsi
A via Pomponazzi* i piccoli gruppi di autocoscienza erano formati da 8-10 donne appena entrate e da una compagna veterana del collettivo, che faceva da tutor alle nuove. Nel nostro la “vecchia” era Biancamaria: ventinove anni, alcuni di militanza femminista (d’altronde il movimento non aveva più di quattro o cinque anni di vita). Noi nuove tutte intorno alla ventina, ma delle più disparate provenienze. Io addirittura con un padre che riceveva telefonate da Giorgio Almirante. Cosa che provocava non solo a me qualche scompenso, ma dentro il gruppo sembrava non interessare più di tanto. Continua la lettura di Io sono mia
di Franco Casati
Si dice, a volte, che la speranza muove i tuoi passi. Tutte le persone anonime che vengono incontro a Livia lungo il marciapiede altro non sono che ombre da scartare al più presto, brevi ostacoli fra l’idea che la anima e la realizzazione di un desiderio urgente affidato al gesto di alzare la cornetta del telefono e di comporre un numero, non appena giunta al proprio domicilio. Continua la lettura di La confessione
SAMIZDAT
Ragazzi, me ne sto a casa perché il coronavirus è un pericolo reale ma la fiducia in questo Stato e in questa Scienza, che non hanno predisposto le necessarie difese da una tale minaccia, è scesa a zero. Teniamone conto. Siamo uomini (e donne), non caporali.
P.s.
Scava, vecchia talpa, scava!