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Poeti pavoni di tutto il mondo, frammentatevi!

di Ennio Abate 

«Oggi la sua [della poesia ] complessità crescente e le sue criptiche, imprevedibili e disseminate tradizioni, ne fanno una straordinaria e incomprensibile coda di pavone che sempre meno esperti riescono a apprezzare, perché la tradizione non è più unica e condivisa, ma segmentata sempre più» (Tommaso Di Dio)

Ma perché, dai! Se è dagli anni 70 –
quando Berardinelli vide «l’astro esploso»
cadde da cavallo e si pentì passando poi al Foglio –
che si ciancia di «tradizioni moltiplicate
esponenzialmente, multimedializzate e ibridate,
in modo talmente vertiginoso e acritico che
nessuno può più pretendere di avere la Poesia»,

perché, perché
i poeti dovrebbero « compiere uno sforzo
di ritorno al testo, di stare sui testi»?

Che s’intestardiscano invece
nella «implacabile lotta per la vita».
Che abbandonino gli ermi colli
(se ci sono mai stati) e bivacchino tutti i giorni
«su social network, YouTube, smartphone ecc.».

Gettino la «carne umana e sociale»
della tramortita Poesia, se ancora respira
in questo Pozzo Nero di Liquami Mondiali.

Che i pavoni del cortile A
soddisfatti come assassini inconsapevoli
ruotino «la fenomenale bellezza delle loro ampie code»
e gridino ai pavoni del cortile B: narcisisti!
E quelli dal cortile B echeggino insistenti: narcisisti !
a quelli del cortile D. E via seguitando …

Che ciascuno sia frammento e continui a frammentarsi,
fondi clan, idioletti e micro-comunità.

Così, morta la Poesia, se ne farà finalmente un’altra.

Nota

Mio commento a Il fraintendimento del reale (QUI)

 

 

 

Il Palazzo. Ah, quale simbolo!

Su Il palazzo dei vecchi guerrieri di Franco Tagliafierro

di Ennio Abate

Questa mia lettura del romanzo di Franco Tagliafierro porta la data del 12 dicembre 2010. La ripubblico oggi, dopo la sua morte e mentre riordino  il carteggio avuto con lui, perché, comparsa allora sul  sito di Poliscritture dismesso, non è più recuperabile on line.    Continua la lettura di Il Palazzo. Ah, quale simbolo!

“la moglie di Fortini”

di Ennio Abate

Un problema rimane: quale è stata l'influenza di Gemma su Dante, di Helena su Cartesio, per non dire delle tantissime altre mogli di cui la storia tace?
E se tutte le opere di Aristotele le avesse scritte in realtà Erpillide? Non lo sapremo mai. La Storia, scritta dai mariti, ha condannato le mogli all'anonimato.”

(MARITI DI MOGLI IGNOTE Bustina di minerva” pubblicata su l’ Espresso il 20 agosto 2010 di Umberto Eco)

Chi era Ruth Leiser? Per chi non ne avesse mai sentito parlare è facile recuperare alcune notizie elementari per cominciare ad inquadrarne la figura. E’ nata a Bienne (Svizzera) nel 1923. E’ vissuta in Italia dal secondo dopoguerra. E’ stata la moglie dello scrittore, poeta e marxista critico Franco Fortini. In più di cinquant’anni di matrimonio con lui ha collaborato al suo lavoro letterario e soprattutto alle sue traduzioni dal tedesco, lingua madre per lei. Dopo la morte del marito (1994), ha curato che il suo lascito – libri (circa seimila), lettere, inediti, disegni, pitture, foto, ritagli, registrazioni – fosse conservato presso il Centro Studi Fortini di Siena,  evitandone la dispersione. E’ morta a Milano nel 2003.
Io non posso dire di averla veramente conosciuta. L’ho vista una prima volta, intorno al 1988, mentre ero in visita a Fortini nella loro casa di Via Legnano 28 a Milano. E ho scambiato qualche parola con lei a Fiesole, dove arrivò con dei quadri del marito (era in preparazione la mostra dei suoi disegni e dipinti che si tenne poi a Siena nel novembre 2001). Nel 2003, subito dopo la sua morte, cercai di capire qualcosa in più di lei e della sua vita, delle sue competenze, del suo lavoro, del suo carattere e delle qualità che la distinguevano dal marito in un lungo colloquio con Franca Gianoli Grandinetti, un’amica sia di Ruth Leiser che di Franco Fortini (
qui).
Altri, commentando più o meno gli stessi episodi toccati nel colloquio tra me e Franca Gianoli, l’hanno poi ricordata in un primo libretto di testimonianze,  “Per Ruth” (Quodilibet, 2005). E, di recente, a 20 anni dalla sua scomparsa, hanno preparato – sempre in edizione fuori commercio – un altro libretto, “Ruth” (AWAK Studio di Arianna Del Ministro, 2023). Le 170 pagine di questo secondo rispetto alle 93 del primo, contengono molte belle foto, una più ampia antologia delle poesie dedicate da Fortini alla moglie. i disegni di Ruth fatti da Fortini e nuove testimonianze, arrivate a 48 dalle 32  presenti nell’edizione 2005.
Il nuovo omaggio alla sua memoria dà l’occasione per riflettere ancora su di lei, su Fortini e su un’epoca ormai conclusa.
I tratti principali che hanno in comune le testimonianze – brevi o lunghe,  emotivamente partecipi e argomentate ma qualche volta anche distratte e sbrigative – sono l’eterogeneità aneddotica e il ripiegamento mesto verso un culto affettuoso, amicale e ormai quasi impolitico delle figure di Ruth Leiser e di Franco Fortini.
Vi ho scorto, perciò, soprattutto i  segni della sconfitta politica e culturale del “mondo della sinistra”, a cui Ruth Leiser e Franco Fortini parteciparono intensamente e criticamente. E ho notato anche, qua e là, qualche consolatorio cedimento a una sorta di retorica mitizzante della fase “eroica” della coppia Leiser-Fortini nell’Italia povera e dura del dopoguerra. Non ho trovato, insomma, una sintesi critica delle loro figure, un discorso nuovo, capace di ricomporre questi frammenti delle loro vite, anche preziosi, sottraendoli alla cornice oggi egemone  dell’individualismo e del narcisismo postmoderno.
Spero, tuttavia, che queste testimonianze torneranno utili in futuro, se  si scriverà quella storia-biografia di Ruth Leiser e Franco Fortini, che ora manca ma che nella Lettera del 24 marzo 1992, riportata in entrambi i libretti, Fortini stesso auspicava.i O che, perché no, qualcuna – una sorta di “ragazza del secolo futuro”? –  scriverà la storia di Ruth Leiser – “la moglie di Fortini”, un’altra “ragazza del secolo scorso, come Rossana Rossanda – adoperando “i libri di Ruth (in più lingue: russo, francese, tedesco)”, e “il suo archivio privato, con le lettere da lei ricevute da Franco quando era in viaggio da solo (una cinquantina), ma anche di numerosi suoi corrispondenti, come Elio Vittorini, Rossana Rossanda, Andrea Zanzotto, Cesare Cases o Paul Lawton; e insieme i diari di viaggio (in Turchia, in Thailandia, Cina, Russia…), i ritagli delle traduzioni per “l’Avanti!” (da Roland Barthes tra queste), le testimonianze raccolte in Germania nel 1949 dai rifugiati dell’Est, il dossiere sulla Palestina” (dalla testimonianza di Luca Lenzini, pag.115 del secondo libretto).
A me piacerebbe che eventuali e possibili ricerche su Ruth Leiser o sulla coppia Leiser-Fortini fossero il più complete  e problematiche possibili e che affrontassero almeno tre temi che considero essenziali ma che affiorano in modi incerti o vengono solo accennati nei ricordi e nelle testimonianze:

1. Il tema dello scarto tra due epoche o – meglio –  tra la giovinezza e l’età adulta di Ruth Leiser e Franco Fortini,  per entrambi così carica di speranze e impegnata a favore di un marxismo militante o comunismo critico e le loro vecchiaie segnate dall’isolamento e dalla sconfitta. Basti pensare a quel finale, allarmato e  quasi disperato ”proteggete le nostre verità” di Composita solvantur del 1994, venuto dopo le Insistenze del 1985,  la voce Comunismo  del 1989 (qui) , le Note per un buon uso delle rovine di Extrema ratio del 1990. E alle dichiarazioni cupe e nichiliste degli ultimi anni di  lei, Ruth Leiser,  registrate da alcuni di questi testimoni;  e non certo dovute soltanto alla caduta nel “buco” dopo la morte del marito, ma ribadite nel giudizio drastico che diede sul Novecento, riportato da Edoarda Masi: “un’epoca orribile, di sangue e di massacri insensati.” (Che, tra l’altro, tuttora proseguono e si moltiplicano).

2. La questione del “riserbo” sulla vita privata di entrambi. Ne aveva parlato Michele Ranchetti nel 2008 (Sul riserbo di Fortini) con nettezza quasi spietata ma non denigratoria, toccando esplicitamente un argomento controverso e delicato,ii che, per convenzione o pigrizia o ipocrisia, non viene di solito indagato nelle trattazioni accademiche e, in queste testimonianze, è aggirato in modi reticenti ed elusivi. (Mi viene in mente, invece, come possibile modello d’indagine, La Famiglia Manzoni di Natalia Ginzburg, 1983).

3. La questione dell’autonomia di Ruth rispetto al marito. Da interrogare, secondo me, anche attraverso il filtro in apparenza scandaloso del femminismo,  forse una sorta di temuto  convitato di pietra in queste testimonianze e che fa appena capolino, ad esempio, nell’ intervento del giovane Luca Mozzachiodi.iii
Ruth Leiser è per molti aspetti l’antitesi dei modelli canonici (e
a volte stereotipati) di donna femminista o parafemminista, quella di successo, indipendente, che sta in carriera senza marito o con il marito al seguito o come appendice. E fece bene Edoarda Masi a ricordare “la sua formazione di donna libera e spregiudicata: lontanissima dal provincialismo di tante donne italiane di sfera colta e magari femminista, vera cittadina del mondo, capace di parlare e scrivere cinque lingue, ha saputo coltivare pura una propria sfera indipendente di rapporti e di conoscenze e ha inventato un proprio lavoro di terapeuta, oltre quello di  traduttrice in collaborazione col marito” (il manifesto, 15 marzo 2003).
Né, peraltro, potrebbe essere incasellata nel cliché della figura “accessoria” all’ingombrante marito, della segretaria o “aiutante” nei lavori di traduzione dal tedesco”.iv Semmai la sua autonomia rientra nello schema di parità comunista col compagno. (Si vedano, in proposito, anche i miei Appunti politici (12):Kraus, Fortini, il dibattito sulle “molestie sessuali”, qui).
Anche se oggi ad interrogarsi e a confrontarsi con Ruth Leiser e Franco Fortini fossero gli appartenenti alle generazioni successive, che hanno con tutta probabilità fatto esperienza della crisi o della “morte della famiglia” (David Cooper, 1971), uno scavo più a fondo sulla realtà di questa coppia “all’antica” permetterebbe loro non solo di riconoscere in che misura la parità sia stata veramente praticata  in questa coppia e  di intendere più a fondo quella loro sintonia profonda (ricordava Franca Gianoli Grandinetti: “Una volta mi disse: «Mi sarei fatta ammazzare per lui…»”) e la qualità dell’autonomia di lei, sottolineata da quasi tutti i testimoni, ma anche di confrontare i mutamenti  e le nuove crepe nella vita amorosa d’oggi.

Note

i
” è proprio dei biografi che ci sarebbe bisogno; di gente che ricostruisse quel che siamo stati, con una voce diversa dalla nostra. Di storici insomma, La nostra spiegazione è nella storia del mondo” (Ruth, pag. 35).

ii
Delle sue sofferenze sappiamo da altri, dei suoi mesi di ospedale vissuti da povero per non voler accedere a un trattamento più umano grazie alla corruzione di qualche mancia. Così della sua vita difficile per l’apparente disastro della sua pedagogia familiare. Dei suoi affetti, in generale, nel senso delle sue affezioni, degli affectus; che pure lo avranno colpito, come si percepisce da qualche ragazza di troppo nelle sue prose narrative della giovinezza: che appare, fra le righe della riflessione, quasi a distrarre chi scrive e chi legge con una apparizione non prevista di brevissima durata. Un riserbo, dunque, quasi assoluto” (Michele Ranchetti, Sul riserbo di Fortini).

iii
Luca Mozzachiodi si chiede: “Chissà se piacerebbe al femminismo di oggi Ruth Leiser?” (Ruth, pag. 129). Sarebbe da chiedersi, piuttosto, perché una coppia come questa ha potuto  durare,  anche con le sue contraddizioni. O se, sotto il manto del “riserbo” (Ranchetti)  o persino grazie ad esso, il loro rapporto di coppia sia stato davvero positivo e nente affatto sacrificato ad una morale ipocrita.

iv
Fortini stesso nella Lettera del  24 marzo1992  ironizzava e respingeva “la figurina della donna devota e in penombra, che copia i manoscritti del coniuge barbuto e geniale”  e parlava di condivisione piena con lei: “Non c’è stato passaggio dell’accordo o disaccordo col mondo che non sia stato vissuto da tutti e due…tutto è stato condiviso” (Ruth, pag. 35). 

Purtroppo…


da Poliscritture su FB

di Ennio Abate

Purtroppo anche la sua, Adriano Sofri, è retorica. Perché copre una contraddizione ormai conclamata. Tra la sua convinzione/speranza che Israele sia ancora “fino a prova contraria, un paese democratico” e, perciò, “interlocutore dei pensieri e dei sentimenti della gente del mondo” e i fatti di queste settimane che dimostrano – lo scrive lei pure – che “Nethanyahu ha fatto e sta facendo di tutto, oltre ogni misura, per mostrare di non essere un interlocutore”. Continua la lettura di Purtroppo…

Riordinadiario su Michele Ranchetti (1)

 appunto 1 (1995-1997)

di Ennio Abate

Michele Ranchetti, dopo Franco Fortini, è stato per me un altro dei “padri impossibili”. (Poi ci sono stati anche i “fratelli impossibili”, di cui qualcosa ho detto e dirò altrove). Ma anche in questo rapporto con Michele – tardivo, saltuario, forse intiepiditosi dopo la prima fase del “riconoscimento” da parte sua con l’ Introduzione alla mia “Salernitudine” (Ripostes 2003) di un pezzo della mia ricerca poetica e troncato d’improvviso dalla sua morte nel 2008 – ho imparato che si può volere bene anche ai “padri impossibili” e continuare la propria strada. [E. A.] Continua la lettura di Riordinadiario su Michele Ranchetti (1)

Sfratellanza

frammento per Prof Samizdat

di Ennio Abate

Mi telefonano. Ictus. Ricovero in una clinica. Visite solo dai parenti. Da mesi non ti sentivo, o voce telefonica elusiva, corrosa d’amarezza, violenta a tratti. Mi richiamavi solo dopo qualche giorno dal mio solito «come va? fatti sentire» che lasciavo nella segreteria telefonica. Dicevi che saresti passato ancora in questo mio altro accampamento di tenaci indagini sul nulla degli sconfitti. Ma sapevo che non saresti più passato. Non era facile per te, mitizzatore feroce della mia e tua giovinezza, sopportarne la perdita e trovare buchi nelle nostre stanchezze scostanti.

Ah, il tuo desiderio folle! Ricordi quella sera? A a forza di discorsi volevi sottomettermi al tuo delirio eroico e protervo. Li respinsi, protervo io pure per l’occasione. Potevo solo assisterti. Come si fa con un malato che ti vuole inchiodato al suo letto. E per l’intera notte accettai di esserlo. Ti lamentasti, ti disperasti, scaricasti il tuo odio. Poi non ci vedemmo più per mesi. Né mi occupai più di te. controllando nella mia rubrica telefonica i nomi di amici e conoscenti, il tuo mancava. Avevi bussato forte alle porte del mio cuore, non a quelle della mente. E ti avevo aperto lo stesso. Mi lasciasti il tuo vuoto accanto al mio.

Dopo la luttuosa telefonata annunciatrice dell’ictus, i medici ti hanno trovato una brutta neoplasia. Mi informano che sei semicosciente. Vai avanti con antidolorifici. I tuoi stanno pensando di farti morire fuori dall’ospedale. Ma in quale casa? La tua ultima – mi avevi detto – era un buco, una tana.

E allora sono arrivato a rivederti. Ho preso il metró. Sono uscito in un quartiere mai visto prima. Mi sono fatto indicare da due passanti la direzione da seguire per arrivare alla clinica. Ho chiesto ancora conferma a un anziano dai capelli bianchi come i miei. L’ho rivisto di nuovo all’ingresso della clinica. Sono salito al quarto piano. Stanza 314. Porta socchiusa.

Sei disteso con lo schienale molto sollevato. Il tuo volto è più affilato e scavato di quanto ricordassi. Una figura di El Greco. Occhi vitrei, uno più spalancato dell’altro. Un braccio scheletrico col polso fasciato appoggiato dietro il cranio. Accanto al tuo letto una donna. Si alza dalla sedia e mi viene incontro. Alzando la voce, provo a dirti il mio nome. Poi quello di amici comuni di quei tempi diventati così improvvisamente lontanissimi. E di alcune città in cui ci eravamo incontrati. Non reagisci. In silenzio, dunque, accanto a te.

Inaspettatamente suona il mio cellulare. È nella tasca del cappotto che avevo appoggiato su una sedia. Afferro il cappotto e scappo innervosito fuori dalla stanza. È C, che vuole parlarmi. Lo blocco. Gli dico che sto in ospedale da un amico che sta male. Che lo richiamerò. Perché non gli dico che stai morendo?

Nel corridoio c’è la signora di prima. Parla, parla. Dice: Terribile Milano. Che disumanità. Come si fa a viverci. Ti ha visto anche nel camerone della clinica dov’eri ricoverato prima che scoprissero il male incurabile. Non eri da solo come adesso, ma assieme ad altri malati. Dice che lei non aveva sopportato l’indifferenza degli infermieri. Guardavano la TV. Trascurando i malati. Dice pure che ora vive in campagna. Lei e un amico fanno gli artigiani. Ricavano dal legno oggetti per bambini. Continua. Dice che sei stato un uomo straordinario. Che è colpita dalla dignità con cui stai affrontando la morte. 

Rientro con lei nella stanza. Ti guardo. Ogni tanto ti agiti, sembri guardare dalla mia parte. M’illudo che tu abbia un momento di lucidità. Mi avvicino di più al tuo volto. Ti ripeto ancora il mio nome. Spalanchi gli occhi. Apri anche un po’ la bocca. Sembri stupefatto e impaurito. Poi abbassi le palpebre e volgi il viso dall’altra parte, appoggiandolo al cuscino.

Riordinadiario 1989 (2)

di Ennio Abate

quella torsione violenta
del bulbo oculare e dell’intera testa

come in una marionetta!

fu il padre-prete
a condurre il suo sguardo
all'occhio tremendo di Dio
nel triangolo della stampa appesa al muro
nella stanza 

così  fu interrotta la visione
del seno materno
e il bimbo diventò uno strabico spione
che guardava di soppiatto e di traverso
il corpo desiderato
e se lo fingeva altrove

lontano sull’orizzonte del mare
invadeva la finestra assolata

l'esperienza recisa l'inseguì
nelle scaglie di pesce morto
o - più tardi - sul foglio bianco


(16 ottobre 1989)

Riordinadiario 1989 (1)

di Ennio Abate

OCCHETTO: “SIAMO UNA FORZA SOCIALISTA”

e sei servito/
nell’isolamento/
assieme a vecchi elefanti moribondi/
notte nera/ buio nel cuore/
coi morti /
e non c’è più tempo d’imparare/
quello che sai/ ti resta
i giovani compagni/
presto saranno/
soltanto amici irriverenti/ e distanti/
nel discorso che scrivi e rileggi/
conteranno i vuoti/ i silenzi/
da cui ripartiranno loro/
per dove, non sai più/

(4 novembre 1985)

No alla Giornata della memoria calata dall’alto

di Ennio Abate

Sulla pagina FB di Sei di Cologno Monzese se… sotto questo post:

avevo lasciato il seguente commento:

Ennio Abate
Lo storico Claudio Vercelli a proposito di Giornate della Memoria imposte dall’alto:
"Ha riscontrato al riguardo lo storico e filosofo Enzo Traverso che l’ossessione commemorativa dei nostri giorni costituisce allora il prodotto del declino dell’esperienza trasmessa, in una società che ha perso i propri punti di riferimento, spesso accompagnata da una violenza insensata, senza altro oggetto che non sia il bersaglio occasionale del capro espiatorio, e da un sistema sociale che tende a cancellare le tradizioni (ovvero, il convincimento che il presupposto per dotarsi di un domani riposi nella consapevolezza del passato) così come frantuma le esistenze riconducendole a molecole di un sistema invece complesso, come tale al limite dell’incomprensibile per i più. Se ci si vuole risparmiare le pedanti e inette pedagogie dell’obbligo, allora forse bisognerebbe liberare il nostro bisogno di memoria (e di storie) dal vincolo della sua mera istituzionalizzazione. Poiché quest’ultima rischia invece di svuotarne i contenuti dall’interno. Il problema, in fondo, non è il pronunciarsi sulla maggiore o minore pertinenza di una ricorrenza civile ma sul modo, gli strumenti, i criteri con i quali diciamo di volere ricordare. Il resto, in fondo, rimane un campo aperto ad opportunità ed esperienze.
Dalla pagina FB di Claudio Vercelli del 27 gennaio 2022)

Ne è seguito questo scambio:

Cosimo Vincenzo Sansalone
 non si capisce perchè i richiami storici istituzionalizzati o meno debbano svuotare di significato le ricorrenze.E ancora meno si capisce cosa propone come alternativa Enzo Traverso alla “banale” ricorrenza.

Ennio Abate
Non si capisce? Ma basta guardare i fatti. A te sembra che le annuali ricorrenze del 25 aprile abbiano prodotto una crescita politica e un maggior rispetto della Costituzione antifascista? E allora come ti spieghi Acca Larenzia di qualche giorno fa, Casa Pound, etc.? O che le Giornate della memoria abbiano diminuito l’antisemitismo (palese o mascherato)?
Cosa propone Claudio Vercelli (non Enzo Traverso che egli cita all’inizio del suo scritto) mi pare chiaro: non contesta la “ricorrenza civile” ma il “modo, gli strumenti, i criteri con i quali diciamo di volere ricordare”. Per me in soldoni dice che la Giornata della Memoria non può essere un precetto imposto dall’alto, il racconto spesso retorico di una tragedia che viene usata come esorcismo per convalidare la “democrazia”: quella stessa che fa e sostiene le guerre. Ora in Ucraina. O tace e appoggia il massacro a Gaza in risposta al “pogrom di Hamas”da parte dello Stato di Israele, che lo giustifica in buona parte anche in nome dello sterminio subito dagli ebrei durante il nazismo.

P.s.
Dietro la Giornata della Memoria c’è un problema enorme che viene banalizzato a rito propagandistico. E’ questo che non va. Per dartene un’idea ti riporto qui lo stralcio di un altro scritto (del 2015) di Stefano Levi Della Torre, che tra l’altro parteciperà a Cologno all’incontro del 19 gennaio all’Auditorium di Via Petrarca proprio sul conflitto a Gaza:
«Ora, il dibattito sull’ “unicità” ha via via acquisito un forte connotato politico. La tesi dell’ “unicità” esclusiva della Shoà è diventata prerogativa della destra nazionalista israeliana ed ebraica: in quanto proclama l’unicità esclusiva degli ebrei come vittime dell’estremo, è piegata a giustificare ogni azione dei governi di Israele come “legittima difesa” preventiva, come diritto di prevaricare, in nome della sicurezza, i diritti del popolo palestinese e il diritto internazionale, che pure si è andato formando ispirandosi in gran parte a principi desunti dall’esperienza della Shoà. In nome di questa interpretazione esclusiva dell’“unicità”, ogni ostilità palestinese verso l’occupazione israeliana viene equiparata alla minaccia estrema nazista. E con ciò si vuol tacitare ogni critica politica e morale alla colonizzazione israeliana dei territori occupati, e al sistematico contrasto a ogni occasione di trattativa e di compromesso di pace. Di contro, coloro che considerano la memoria della Shoà come permanente allarme sulle atrocità di massa contro ogni gruppo umano da chiunque messe in atto, rifiutano questo sfregio strumentale della memoria esclusiva della Shoà: memoria inclusiva contro memoria esclusiva, universalismo e diritti umani contro la degenerazione nazionalistica della memoria».