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Riordinadiario 1975

Tabea Nineo, disegno anni ’80

 Stesura del dicembre 2020

di Ennio Abate

Riapro la cartella 1973-1975.  I fogli sono dattiloscritti. Alcuni sono di carta velina. (Allora si usava ancora per ricavare una o più copie di un  documento dattiloscritto, mettendo tra i fogli la carta carbone[i] Continua la lettura di Riordinadiario 1975

Su l’«Io» (senza il noi) di Massimo Parizzi

di Ennio Abate

                           «Io sono “io” (esisto) solo se posso dire noi»
                                                        (Jean-Luc Nancy)

«ciò che diviene sempre più visibile è l’avvenuta dissoluzione di quel We. L’esplosione, dispersione e dileguamento di quel Noi reticolare che, seppure non ha sconfitto il capitalismo, quantomeno era apparso potesse essere la base a partire dalla quale «vivere e lottare». È quella dissoluzione e le sue conseguenze la verità difficile da accettare, poiché alla fine del We mondiale ha poi corrisposto, a cascata nel tempo, la decomposizione di tutti i piccoli noi che attorno a quello erano fioriti».
                                   (We Are Winning di Marcello Tarì, qui)

 Lettore  Allora, dopo tutti questi appunti, ti sei deciso a scriverla  la recensione su «Io»?

Samizdat  Sì, ma è venuta troppo lunga, preferisco parlarne con te.

Lettore  Attacca pure.

Samizdat Parto da un sunto del libro.[1] Un bambino abita in una casa popolare, s’innamora di una bambina, Roberta, che abita di fronte a lui; e desidera salire con lei sulla «spianata» che si trova sul tetto di un garage, ma lei rifiuta. Della vita di famiglia veniamo a sapere che: padre e madre si amano poco o niente e danno al figlio un’educazione cattolica; intorno agli undici dodici anni il bimbo si fa l’idea che la madre soffre e suo padre è cattivo e si sente in colpa per questo;  ha una sorella, con la quale divide la camera, gioca e impara a leggere e a scrivere; va in vacanza dai parenti di sua madre, che è nata a Brindisi; un giorno con la chiave che il padre ha dimenticato apre un cassetto,  di solito chiuso, e scopre «i ricordi di suo padre del fascismo» (teste di Mussolini, la tessera della repubblica di Salò», ecc.). Il ragazzo, diventato giovane, abbandona  la “casa del grande garage” e  va a vivere da solo in una casa di ringhiera. Ha una fidanzata. Ha degli amici: Adriano, di vent’anni più grande, che ha avuto il padre torturato dai tedeschi; Johnny, che  ama le novità, a cui piace vivere  in città  e la gira con una radiolina transistor all’orecchio; un pittore astrattista, Milo, e sua moglie, che dopo la morte di Milo, si uccide. Al liceo s’avvicina all’associazione cattolica Gioventù Studentesca; vota con scarso entusiasmo l’occupazione della scuola; distribuisce volantini e partecipa ad assemblee e manifestazioni, s’innamora di una compagna di Lotta Continua. Lavora come intervistatore e traduttore.  Vive con Bianca, con altri amici e il «padre buono» di Bianca. Fa dei viaggi da turista in Vietnam, Messico e Laos. Partecipa alla  carovana  per la pace a Sarajevo. In breve, il libro narra di come è diventato adulto un bambino nato in Italia nel 1950, vissuto tra Milano, Reggio Emilia e Brindisi. E  frantuma questa vicenda in 14 capitoli.

Lettore  Come? Frantuma?

Samizdat  Sì, Parizzi ha scelto una forma, che richiama le scritture sperimentali degli anni ’60-’70 del Novecento. Non narra  i fatti in modo cronologico e lineare, non «segue il calendario», ma  procede per salti temporali e spaziali, a zapping.[2] È una frantumazione ordinata,  ben pensata, solo in  apparenza neoavanguardista. È facile, infatti, cogliere il senso dei singoli frammenti e dell’insieme. L’autore non vuole scandalizzare o sfidare il lettore, ma spiazzarlo appena un poco e sedurlo affabilmente.

Lettore  Ti è parso che la forma non aiuti a capire meglio la storia, il contenuto?

Samizdat La vedo un po’ in contrasto con la vicenda stessa. La formazione di questo «lui» è  quasi banale: innamoramento fanciullesco; vita familiare e parentale chiusa in sé,  da ceto medio  e senza scossoni;  rottura non traumatica con il padre fascista; ribellione al mondo cattolico che non lo porta a posizioni “estremistiche”. L’umanità intravista nei viaggi, da turista, è e resta opaca e lontana. C’è ben poco di romanzesco e molto autobiografismo appena velato. C’è un saggismo che accenna a problemi enormi ma non risponde. Le domande “metanarrative” sono troppo secche e le risposte elusive[3] o rimandate. Sono perplesso.  Parizzi avvicina la mano a molti fuochi, ma non si scotta mai. Forse ci gioca con grande abilità e leggerezza postmoderna.

Lettore Mah, concedo che la vicenda del protagonista sia normale  e somiglia a quella di tanti suoi coetanei o quasi. Ma questo a me pare un vantaggio: così sono tanti  quelli che possono  seguire i ricordi e i pensieri,  sinceri o appena velati, che Parizzi ha disseminato  in più di 200 pagine. E confrontarli coi propri. I suoi destinatari sono quelli come me, gente cresciuta in ambienti cattolici tradizionali, conservatori e forse reazionari e che si  è formata nella scuola di massa democratica.  Non sono certo gli “estremisti”, i nostalgici del ’68 o gli incontentabili come te. Scherzo, eh!

Samizdat Scherza pure, ma considera il titolo. Lo trovo sfacciatamente seduttivo nella sua adesione al narcisismo dei mass media e dei social.  È come se dicesse: non ho nessuna esitazione a parlare di io. Basta con i noi (cattolici, socialisti, comunisti, anarchici, patriottici, sovranisti, ecc.). E basta pure con la psicanalisi che, da Freud a Lacan, ha spaccato il capello in quattro sulla crisi dell’io.  Io il mio io me lo tengo ben stretto.

 Lettore  Parizzi, a differenza di te, si è riposizionato da tempo sul presente. Ti ricordi la sua rivista? Si chiamava «Qui. Appunti dal presente».  Non si può rimanere a rovistare il passato o le «buone rovine» fino ai  nostri ultimi anni di vita, orsù!  Lui il suo passato l’ha digerito. Ed è falso che si sia  appiattito sulle mode o sul  vocio di massa. Anzi, io ho interpretato il titolo come un segnale di sincerità,  modestia e onestà. Piuttosto,  è come se avesse detto: vi parlo di quello che ho vissuto, pensato e immaginato; e solo di quello; e a modo mio. E poi scrivere il romanzo di formazione di un ragazzo “normale” in tempi di spettacolarizzare e di esaltazione a tutti i costi dei bordeline, non guasta.

Samizdat Vedi che con questo io così in primo piano – in fondo un io “liberale” perché il presupposto del libro è che «tutti sono io»[4] soltanto o soprattutto io – Parizzi sottovaluta non solo il noi d’allora, della nostra giovinezza, ma il problema del  noi di oggi. Che manca e si sentono le  pesanti conseguenze.

Lettore  Un io “liberale” quello di Parizzi? Esagerato! Tendi sempre a politicizzare troppo e tutto. A me pare bello anche se non originale che il protagonista sia un io bambino stupefatto, incantato, curioso di fronte al mondo, attento alle sensazioni. Non vedi come intuisce e soffre dei drammi familiari e parentali? In mezzo a  quella piccola borghesia o ceto medio urbanizzato  di una Italia avviata al boom economico matura e si autonomizza dagli adulti. E lo fa  con quieta dissimulazione, senza scenate. Allo stesso modo attraversa i turbamenti sessuali dell’adolescenza. Infine a me piace davvero – particolare storico e più che generazionale oggi non trascurabile – una grande passione per la lettura, che in quegli anni era quasi l’unico sfogo concesso a bambini solitari.

Samizdat  Anche a me questa parte di «Io» ha fatto  simpatia.  Ho pensato al fanciullino, a Peter Pan, al puer aeternus.

Lettore   Ma no! In «Io» non c’è  mai abbandono alla pura immaginazione o al fiabesco o alle oscurità misteriche. Parizzi procede per supposizioni ben meditate. Sui ricordi non ci ricama, li riporta con oggettività e realismo. Ed usa un linguaggio preciso, colloquiale, sciolto, secco, vicino al parlato e senza ideologismi.  E le sue sono sempre annotazioni sintetiche.  È lontanissimo dalle descrizioni sociologiche strabordanti della «Scuola cattolica» di Edoardo Albinati o dagli amarcord sentimentalistici.

Samizdat Ma che tipo di maturazione  ha questo io bambino? A me pare che passi  dall’educazione cattolica ad un generico progressismo utopistico. E a dirla tutta, da ex di quegli anni, tra  Gioventù studentesca e Lotta continua non c’erano poi grosse differenze. Populismo – religioso e laico – in fondo. C’è un pregiudizio in «Io» (mai esplicitato o teorizzato, anzi direi occultato proprio dalla mimesi seducente del parlato): che un bambino sia  più naturale e autentico dei “grandi”. In fondo Parizzi si rifà a Rousseau e a Schiller. Da lì trae l’ideale etico ed estetico di rapporti umani dignitosi per sé e per tutti; dell’amicizia;  di un fare sì, ma mai ben definito, che dovrebbe migliorare le condizioni di vita dell’intera umanità che abita la terra.  Belle parole. Questo ideale etico-estetico e magari oggi anche ecologico è senza base politica e sociale, senza noi (mi ripeto). Nel frattempo i conflitti, le guerre crescono.

Lettore Sempre dove  il dente ti duole torni, eh! Ogni sentimento o pensiero per  te, se non si traduce in politica, è vano. E poi dici  di non essere inchiodato a quel passato, quando vi  illudevate che  il noi politico dovesse essere “al posto di comando”!

Samizdat –  Stiamo  al libro. A un certo punto in «Io» si dice che «al mondo c’è da proteggere i bambini».[5] L’autore e il narratore, però, non si chiedono mai chi li può proteggere e se sia possibile proteggerli, se permangono e si acutizzano   guerre e conflitti sociali. Come fanno i bambini a crescere bene in una macelleria mondiale del genere? Mi accusi di nostalgia della nostra giovinezza, ma si può  anche restare ancorati al desiderio infantile dell’ «io non voglio diventare grande» e farne un principio.[6] 

Lettore  quando Parizzi narra del bambino irakeno che, alla caduta di Saddam, si ritrova in  «un gruppo di uomini che, tutti insieme, uscivano dalla piazza gridando» e corre e li raggiunge e si toglie una scarpa e inizia a «picchiare in testa  Saddam», costruisce una immagine potente che  spinge all’utopia.

 Samizdat  Quanti equivoci contiene quell’immagine! Estratta dalla storia tremenda della dissoluzione dell’Irak, è pura estetica, spettacolo. Tranquillizza la buona coscienza degli europei. I bambini non fanno la storia e anzi ne sono di continuo le vittime. La storia la fanno gli adulti; e in modi sempre terribili e a volte orrendi.   E quella è una statua, non Saddam! E l’hanno buttata giù proprio i “grandi” (i “Grandi della terra”) imbastendo una guerra sanguinosa e turpe nelle sue false motivazioni.

Lettore Ma Parizzi non sostiene che il bambino, picchiando il pezzo di statua con la scarpa, partecipa alla storia dei grandi. E, comunque, siamo un po’ noi quel bambino e l’immagine fa riflettere, scalda i nostri cuori.

Samizdat  Ma non ci aiuta a ragionare. Non so cosa pensasse il bambino reale, ma è certo che confondeva realtà e immaginazione. Or un travisamento del genere in lui posso sopportarlo. Ma perché l’autore o il narratore non riprende né commenta  né interpreta la scena da adulto e ci fa sapere cosa ne pensa lui?  Forse lui pure  si  è  lasciato attrarre dal lato estetico dell’episodio trasmesso  alla TV.   E poi – lo si capisce da  altri  brani saggistici di «Io» – legge i fatti soltanto sul piano morale. E ricorre alle categorie pre-machiavelliche di innocenza e di male.

Lettore Ma  è un romanzo. Non vedi il sottotitolo di «Io»?

Samizdat  Lo è? Fino a che punto?  Io riconosco che Parizzi, pur lavorando su frammenti eterogenei nel tempo e nello spazio, non ha rinunciato alla ricerca di una visione unitaria. Da romanzo, appunto. E trovo i vari brani collegati tra loro. Mi chiedo, però, perché così brevi le domande e spesso così elusive le telegrafiche risposte della parte “metanarrativa”, che dovrebbero funzionare da commento.

Lettore  Io, invece, ho trovate molto belle anche queste parti. Specie dal punto di vista della forma.  Mi paiono antifone o intervalli riflessivi ironici e spiazzanti. O quasi ipnotici refrain. O contrappunti a quanto appena detto dal narratore. O domande incalzanti da intervistatore. E in questo inseguirsi e riallacciarsi e ripetersi delle interrogazioni, oltre alla volontà di tener  desta l’attenzione del lettore, ci trovo proprio la ricerca di ricomposizione dei frammenti e di una  continuità tra tempi e spazi diversi. Da romanzo, dunque. Nella stessa direzione vanno anche le analogie che Parizzi  suggerisce in modi sempre allusivi. Ad esempio, tra una casa povera di  Napoli e  una casa di legno su palafitte in Thailandia. O tra il pittore Adriano e un anonimo pittore vietnamita. O tra l’elemosina negata al bambino a un semaforo di Milano e la vendita contrattata delle noccioline a Hué in Vietnam.

Samizdat Prevale troppo la quotidianità della vita familiare e parentale. Spesso la più delicata o persino edulcorata. Il quotidiano  rappacifica e incoraggia però la frantumazione di un discorso; e vela i punti drammatici dell’esistenza,  le falle, a volte le tragedie.

Lettore  E dalli con la frantumazione! Eppure hai detto tu stesso che è controllata.  Nessun flusso disordinato di coscienza o incoscienza, cavolo! Ti ricordi il punto in cui Parizzi parla di un sarto  bresciano, che ama e sa fare bene il suo lavoro, perché lo conosce bene? Ecco, secondo me questo sarto raffigura emblematicamente la sua scrittura. Che ha un’artigianalità ammirevole e non si lascia turbare dalla concorrenza della odierna e invadente comunicazione  massificata, ma con sapienza, anche monocorde,  cuce insieme e bene per tutte le 200 pagine i vari brani-pezzi di stoffa.

Samizdat  C’è ancora un’altra cosa che non mi ha convinto: la storia più vasta  entra soltanto nelle poche tracce  depositatesi nella vita dei familiari o  nella memoria, per forza di cose confusa e mitizzante, del protagonista-bimbo. Capisco che è nel mito che il bambino vive i primi  conflitti tra i suoi desideri (emblematico il salire sulla spianata)  e la realtà (Roberta che si rifiuta di seguirlo). Ma quando Parizzi deve passare dal noi ristretto e concreto – familiare o parentale o strettamente amicale –   al noi dei più, degli “estranei” o a un noi più astratto e universale (diciamo pure:  con ambigue pretese di universalità), esita e si arresta. Proprio nel punto, dunque, in cui il narratore  dovrebbe calarsi nel romanzo. E cioè dar conto dei conflitti maggiori del noi storico collettivo,  al quale per un po’ la sua generazione attorno al ’68  pur partecipò. Ti pare poco non rendere conto di quel tentativo  di re-immaginare addirittura  una “rivoluzione”, una rottura coi noi preesistenti e soffocanti?

Lettore   Mi vuoi dire che, quando si scrive un romanzo, l’autore è obbligato a occuparsi  di universale o di storia “vasta”? E chi lo dice?

 Samizdat  Nessun obbligo. Noto, però, che in «Io»  quel noi del ’68 è rappresentato in maniera sfocata. Cosa dicono, infatti, quei noi che fummo? Cose vaghe, che l’io/lui narrante (e in fondo l’autore, Parizzi) non capisce e poi neppure più ha tentato di capire. Prima avevamo un bambino,  poi abbiamo avuto un giovane. Entrambi  non si sono resi conto di cosa succedeva o vivevano. D’accordo. Chi può dire di avere  il faro della coscienza a disposizione in ogni  periodo della sua esistenza? Nessuno. Ora nel ’68  noi vediamo questo «lui» che distribuisce volantini, anche se «non ha molta voglia»; fa con altri studenti ripetizioni private ai figli degli operai; ha la spinta  a fondare una rivista che richiederebbe un lavoro in gruppo; è attratto da una  ragazza di Lotta Continua che gli piace. Poi va in vacanza e tutto sembra svanire nel nulla. Ancora d’accordo. Ma nella scrittura, a distanza di tanto tempo,  cosa dobbiamo pretendere dallo scrittore,  non più bambino  né più  giovane?

Lettore E che vorresti? Un bel poema alla Majakóvskij che esalti il coraggio dei militanti rivoluzionari di professione? Svegliati! Tanta gente ha vissuto quegli anni   con leggerezza, divertendosi. Erano pochi i seriosi o i fanatici.

Samizdat  Ma vuoi capire che  in «Io» non c’è una interrogazione sulle dottrine politiche o sulle ideologie che appassionarono o avvelenarono la mente di migliaia di operai, impiegati, studenti? E che il narratore guardava (per me scandalosamente!) a Proudhon non a Marx.? E che della politica marxista riecheggia slogan stereotipati? E che resta bloccato alle soglie del ’68, alle primissime manifestazioni, evitando di accennare al seguito, quasi a gustare, in coerenza con la sua visione roussoviana, l’alba “innocente” di quella storia?

Lettore-  Dai,  fra poco loaccuserai di rimozione o di tradimento piccolo borghese!

Samizdat – No, questo no.[11] Sono fesserie. E non  pretendo neppure che arrivasse a parlare delle tragedie degli anni Settanta fino all’assassinio di Moro. Ma mi delude in «Io» l’insistenza sull’infanzia.  Mi pare una scelta fondamentale, ma difensiva ed elusiva. Ordina tutta la narrazione, selezionando gli episodi in modo che alla fine tanto spazio  viene dato al familiare e parentale  e meno al pubblico-politico. Questo è il messaggio di fondo del libro per me.

 Lettore  Non condivido la tua opinione. E alla tua età dovresti aver chiaro anche tu cosa resta delle vostre biografie; e cosa di esse debba o possa farsi libro o romanzo. Parizzi con «Io» ha dato la sua risposta. Per lui resta un io che si sente in relazione con altri io, ipotizzati come a sé simili (o quasi).

Samizdat  Sì, ma è una relazione in forma emotiva o nella «forma oceanica»,  di cui parlarono Freud e Rolland agli inizi del Novecento.

Lettore  Per me invece dice una grossa verità: «i bambini, quello che è accaduto prima che nascessero lo sentono vero, magari, ma non proprio reale come quello che possono vedere, udire, toccare.[…]. Alla verità ci si potrà arrivare con la mente, ma per la realtà ci vuole il corpo».[12]    Ma, tanto per capirci fino in fondo, a te di quella storia cosa resta?

Samizdat Resta un io-noi sconfitto, forse dilaniato da fantasmi (gli  spettri di Marx?).  Questo io-noi sa che la polis non c’è (o non c’è mai stata) e che in questa epoca un altro noi non è definibile. Né la possibilità di una sua costruzione  è dimostrabile. Resta però che un altro noi è comunque necessario.

Lettore E cosa  ha di  tanto diverso il tuo io-noi dall’io di Parizzi? In entrambi i casi il noi di allora non c’è più e non lo puoi resuscitare!

Samizdat  In «Io» c’è una rinuncia per sempre a ogni possibile noi, perché il noi è sostituito da tanti io, che non faranno mai  più un noi.  Vanno in altra direzione.

Lettore E sarebbe una prospettiva così grave?

Samizdat Sì. Questi io non  sono pieni, maturi, adulti. Restano degli io-bambini, troppo bambini. Pochi giorni fa leggevo un’intervista a Nancy, morto di recente. Concordo con lui: un io si realizza solo in relazione al noi. Dev’essere un io-noi. Deve riconoscersi in una relazione reale e conflittuale con altri noi (o, forse, con altri  io-noi) avversari o nemici.  Solo così potrà partecipare responsabilmente ai conflitti della storia. Se questo noi oggi manca, è mancante anche l’io. (E la vecchia psicanalisi fa ancora bene a ricordarci che tutti questi io non sono più  “padroni in casa propria”, cioè pieni, maturi, adulti).

Lettore Quella di Parizzi sarà una visione “liberale”, ma nel suo empirismo è più realistica della tua. E poi non  è neppure così sicuro che Parizzi  abbia rinunciato a  pensare e a costruire un altro  noi. Il finale di «Io» resta indefinito e aperto: «che cosa ci sarà, dopo quei campi, fra le colline, al mare, da entusiasmarsi tanto?».[13] Lo  sai forse tu?

Samizdat No.  Senza campi e colline e mari di fronte, ma davanti a questi palazzoni di periferia, non so dire o mostrare cosa  ci sarà.  Ma, dopo il composita solvatur che la nostra generazione ha vissuto, tengo fermo all’esigenza del noi: «contrariamente a quanto asserisce un senso comune deforme, la vita di gruppo è l’occasione di una ulteriore e più complessa individuazione. Lungi dal regredire, la singolarità si affina e tocca il suo acme nell’agire di concerto, nella pluralità delle voci, insomma nella sfera pubblica».[14]

Lettore-  Ah, sì?  Hai scommesso su un altro noi? Fa’ pure, ma a me sembri fuori epoca. Basta vedere  cosa accade del noi nel tuo gruppo di Poliscritture! Buona fortuna, comunque.

[1] SUNTO VELOCE DEI CAPITOLI

1.
Casa popolare. Piedi che camminano, corrono, saltellano. Gambe che scalano il Pizzo Nero. Malghe, temporale. Rachele e Edoardo scendono prima che piova. Pioggia, nuvole. A tavola con Rachele. Claude e Claire si lasciano. Gambe che pedalano a Reggio Emilia. Sui pattini. Gambe di ragazze. La terra calpestata da miliardi di piedi di donne e uomini. Ancora Claude e Claire. Parla la ragazza Roberta e dice io. Fidanzatina. Tu sei io? Ci saliresti sul tetto del garage (17). Il cielo (17, poi ripreso a pag. 182-183). Roberta va nel palazzo dei ricchi. Il bambino che si vuol far vedere. Il fiocco azzurro per il figlio che nasce, Leandro.

2.
Appartamenti di famiglie della piccola borghesia. La “casa” povera di un vecchio in qualche vicolo di Napoli. Casa su palafitte in Thailandia. Quello accasciato e magro che in Messico abita una casa senza porta. Cosa si fa in una casa. Johnny e la sua casa di single. Lui vive da solo in una casa di ringhiera. La casa dei ricchi col marmo. La casa del grande garage (dei genitori). Nella casa fotografato coi suoi al momento della cresima. La mendicante che vorrebbe ballare. Gli amici del padre e il paese (a Samboseto di Parma). Mona, attivista egiziana, in piazza Tahrir al Cairo. Ricordi del padre e del suo amico Adamo: da bambini facevano la cacca nei campi. Freddezza dei rapporti tra  sua madre e  suo padre. [Verità e menzogna]. L’amico che lo ospita a Napoli lo porta a dormire in una casa di Bagnoli con una parete dipinta e un motto:”Quando l’uomo sarà un amico per l’uomo?”.

3.
La casa di Zita l’attrice. Adriano. Ada. Bianca con Leandro, il bambino, nel quartiere che sta cambiando (sedi di multinazionali, moda, digitale).  Ada, una sua ex fidanzata. Adriano è un amico di vent’anni più di lui, un narratore, un chiacchierone, e ha avuto il padre torturato dai tedeschi. [Un pittore a Hanoi]. Riflessioni sulla pietà e la crudeltà delle cose. Sul passato. Sulla leggerezza. Sulla malinconia. Camminare fino a stancarsi. In bicicletta per Crema. Con la carta stradale del Touring. [Che cosa ci sarà… (pag, 44) ripreso poi in altre pagine]. Johnny che gira per la città con la radiolina a transistor. Uno che studia nell’appartamento vicino. Johnny gira per la città ed è entusiasta delle novità e del presente (46) e non vuole “litigare” con il presente. Amare tutto anche la pubblicità. Tornando in bici da Crema è colto da un acquazzone. “Che cos’è il passato, Non lo so”.

4.
La sera da bambino con padre e madre e la preghiera serale. [Riflessione su innocenza e male].  Da bambino s’allaccia le scarpe al mattino e s’incanta. [Riflessioni sull’animo che non sa di storia e di politica a partire da una scena dei miliziani di Hamas che demoliscono un muro e ancora “s’incanta”]. Gioca con la sorella a fare il commerciante. [Riflessione sul contenuto di classe dei nomi: signora, donna di servizio]. Notizie su sua sorella Federica. Separazione  dei maschi dalle femmine. [Thailandia: il turista americano e la giovane thai]. Essere accolto nel gruppo dei maschi. Notizie sul fratello che si è sposato in chiesa. [Coppie che ballano, anche il vecchio balla].  Il trenino dei ballerini. [Lo scirocco]. La camera che divide con la sorella. Impara a scrivere. Impara a leggere. [il bambino che al semaforo chiede l’elemosina. Sconcerto. Rifiuto di fargli l’elemosina]. [A Hue il bambino che vende noccioline e abbassa il prezzo] [Riflessioni sui “rapporti umani”: essere guardato in faccia]. Quando si allontanerà dai genitori, parenti, dalla “casa  del grande garage”,  è per andare in strada e guardare il balcone di Roberta. Che vuol vedere senza essere visto. Immagine di lui che gattona. La prima casa di ringhiera in cui va ad abitare da solo. Vicini di casa: Nino e Cecilia da Livorno. Annotazioni su lui che esce di casa, traffico ingorgato, e lui si mette ad osservare passanti e donne ed è attirato da quella donna che incontra tutti i giovedì. Chi sono gli altri?  Uomini, donne bambini.  

5.
Parla di un Natale di quando lui era neonato e elenca i parenti. Lui che esplora il vano di una cristalliera con gli specchi dove sono conservate bottiglie di liquore.  Il mobile con il cassetto chiuso conserva i ricordi del padre fascista (teste di Mussolini, la tessera della repubblica di Salò, un libro di fotografie) (63). L’anno in cui era nato lui nascono altri amici suoi. Leandro, il bambino che ride. Ricordo del padre preoccupato e di sua madre che guarda il marito infastidita. [In viaggio per Finale ligure. Recita di Tanto gentile e tanto onesta pare]. Cena di famiglia da bambino: “Ma la focaccia col pomodoro”. Il padre in pensione e la medaglia della banca. Il padre gli ricorda che i comunisti hanno fatto morire il nonno. [Tradire.. ormai si è incamminato sulla strada del tradimento … stacco dal padre]. In pensione a Collio in montagna. Domande sul comportamento degli adulti. [Lavoro di intervistatore. Intervista a una donna]. Una casalinga (sua madre) gli prepara il sugo di pomodoro e la merenda del pomeriggio prima di guardare alla TV Rin Tin Tin. A undici- dodici anni si fa l’idea che la madre soffre e il padre è cattivo.  E lui si sente in colpa. Suoi coetanei quattordicenni ispirati dai film di James Bond fondano un’associazione: “Dall’Italia con amore”. Riunione. Un giornalista della radio registra. E lo riaccompagna a casa. Suo padre l’aggredisce, lanciandogli addosso la cesta di vimini coi giornali. Le paure della madre, quelle del padre. Taglio del soffitto di compensato di un mobile per rubare al padre le sigarette. Al liceo l’associazione cattolica Gioventù Studentesca. Il padre buono di Bianca, Giuse, che si è trasferito nello stesso palazzo dove abitano lui e Bianca. Giuse racconta del suo viaggio in Senegal e dei bambini denutriti. Sottoscrivono a loro favore. Il padrino di cresima, Adamo, buono a differenza di suo padre. E altri padri buoni di cui vorrebbe essere figlio. La prima volta che può acquistare dei mobili. Il fratello che ha fatto un viaggio in Bielorussia gli porta delle matriosche. Bambini  di Cernobyl  ospitati per qualche mese: “si dovrebbe far qualcosa al mondo, per renderlo più bello” (73). Nella casa dove vive da solo ascolta il giradischi e la Quinta di Beethoven. Un usignolo. [Laos. Canto dei galli]. Il Giuse, il padre buono, ora malato, dal medico. Ancora il ricordo del Natale da neonato: sorriso amorevole della madre, storto del padre. Si sente invaso da questa “sarabanda” di parenti. Altro che Natale: desiderio di evadere: di essere “irraggiungibile, sulla spianata del grande garage” (77). Perché quando taglia lo scomparto  chiuso che “è venuto a simboleggiare per lui la paura di suo padre e di sua madre”  sfida la paura (77). Lavavetri sulla circumvallazione a Milano, che risale la fila delle auto e dice con risentimento qualcosa. Assemblea al liceo per votare l’occupazione della scuola. Scarso entusiasmo.

6.
A Brindisi in casa dei parenti.[la domanda «Che cosa ci sarà dopo quei campi 79.., 100, 181, 195]. Nella chiesa prima di andare a messa. Il professore comunista sfoglia il libretto di preghiere che gli ha sequestrato. Roberta non lo caga. Desiderio di salire con Roberta sulla spianata. Il nonno di Brindisi: “quando si mangia si combatte con la morte”. L’elenco degli io da pag.86 a pag. 92: e la conclusione: «Ma  allora, tutti sono io? Sembra proprio di sì». Samboseto, funerali del nonno. Esita poi si mette nel gruppo dei maschi, orgoglioso di esservi ammesso. Litigi in famiglia, non dire ad “estranei”. La divisione dei ruoli: uomini al lavoro e donne casalinghe. [Altra intervista a un consulente di banca]. Messaggi di Roberta dal balcone.

7.
Buttarsi nel lavoro. Il sarto bresciano. Una contadina nella Bassa. Un giovane in tuta. Il nonno squadrista di Busseto che scappa dai partigiani(101). Ricordi sfuocati. [La memoria è il cassetto dei morti]. Discorso con amici sui nazisti terribili. «Di quelle cose non sente la realtà sino in fondo. Sono accadute prima della sua nascita, e spesso, specialmente per i bambini, quello che è accaduto prima che nascessero non lo sentono davvero… Alla verità ci si potrà arrivare con la mente, ma per la realtà ci vuole il corpo» (103) Il Vietnam dopo la guerra]. Sradicamento  dal paese, sorriso storto in città del padre. [L’uomo che guarda di sbieco]. [Al mondo c’è da raddrizzare i sorrisi]. Anche la panettiera ha il sorriso storto. La tabaccaia col sorriso. Considerazioni ed esempi sulla spontaneità. Suo nonno ha ucciso? Il padre e il consuocero ricordano la caduta delle bombe durante la guerra. [Hue Vietnam] Quelli che non hanno fatto niente di male.

8.
I miliardi che vivono nel mondo. Per l’unica volta (110). Accenni agli abitanti di varie città nel mondo. Ancora sui tanti che camminano sui marciapiedi. Ancora Roberta dal balcone. Immagina Roberta in cucina che apre il rubinetto o a tavola coi genitori.[Discorsi tra amici su Narciso]. Gli piace fissare il balcone di Roberta più che incontrarla. Il sarto e i suoi problemi col padrone. Roberta non ha risposto al suo invito a salire sulla spianata. Sale sul Duomo. «Che cosa c’è in alto…» (117, 129, 152, 182). Le ragazzine thailandesi gli regalano una cavalletta di bambù. Al freddo e il libro di Peguy che girava in Gioventù Studentesca. Alfredo è l’incaricato di Gioventù Studentesca che  fa da guida spirituale ai giessini di una scuola. Nella casa di Alfredo ci sono tanti libri. Su Roberta e il suo bicchier d’acqua.

9.
Suo padre a capotavola. Racconta un episodio: doveva andare al lavoro e al bar la cameriera non gli portava il cappuccino. Visita ai genitori e freddezza. Competizione tra padre e madre sulla scelta del liceo per il figlio. [Adilah marocchino e il dolore di  perdere un lavoro che piace]. Scende dalla scala a chiocciola del Duomo. L’invecchiamento dei genitori. La madre morente (126). La madre morta. Difficoltà di dialogo col padre, ora vedovo: crede che sua moglie morta sia ancora ricoverata in ospedale. Morte del padre. Mirco e il doposcuola all’oratorio. Una processione. Uno studente svogliato. Da grande pensa di fare l’insegnante. Ancora a scuola: l’associazione studentesca. Uno scaricatore di porto: una vita da cani. Il sarto parla e vorrebbe cucire un abito per questo scaricatore (133). Parla  un becchino. [Un incendio di isbe e Mitja  che parla dei poveri]. Turisti su un pullman in Vietnam: gli zaini strappati a lui e a Bianca per costringerli ad andare in un certo albergo. Rifiuto.

10.
Giornata di neve. Ricordo della madre in cucina. Da piccolo sotto il tavolo dove i grandi non vanno mai. Un capriolo sulla stradina. Tanti mondi  e in Messico  un vecchio calzolaio, ipotesi sulla sua vita da povero. Ragazze che dicono io. Da Cesare il professore di  arabo. La ragazza dell’Arci Bellezza. Bambini che giocano alla campana. [Traghetto ad Haiphong].  Viaggio sul fiume in Laos. Il ragazzo decide di voler fare il traduttore. Al convegno nazionale  del movimento studentesco a Ca Foscari. Nell’università occupata lui  è col pigiamone azzurro. Il pittore astrattista Milo. Che cosa c’è da fare al mondo? Piantare giardini (148). Roberta, segretaria in una ditta di export-import. Lucrezia l’ecologista contro lo spreco dell’acqua. Il volantino dopo che «Allende è morto» scritto per i contadini e gli operai del PCI di Calice. Roberta ha trovato la “soddisfazione” nel lavoro (152). Piera la moglie del pittore Milo si uccide (152).

11.
Brindisi la città di sua madre ai tempi della guerra. Cenni alla storia di sua madre ragazza e delle sue sorelle. La nonna che fa le orecchiette. La passeggiata nel corso di Brindisi: maschi da una parte e femmine dall’altra. Imitazione del cugino. Timidezza. I ragazzi insinuano che sia “ricchione”. Ruggero un suo amico che frequenta la biblioteca e scrive di filosofia. Specchiolla, paesino di BrIndisi [Spiaggia del Vietnam] [La casa degli zii a Specchiolla]. Ascolto della musica senza pensieri. Lui, Bianca e il bambino Leandro. A Brindisi  in giro nella periferia dove abitano braccianti e muratori.

12.
Studenti  inquieti nella scuola. “Milano Studenti”, giornale dei GS. L’amico di San Vito dei Normanni che frequenta l’università Cattolica ed entra in urto col padre.  La società è indietro rispetto all’uomo (168). La rivoluzione. [Thailandia: una donna anziana e una giovane cariche di cataste di legna sulle spalle e i turisti]. A distribuire volantini davanti ad un ITIS di Milano. Partecipa ad assemblea in piazza Leonardo. L’operaio di Lotta Continua della Pirelli Bicocca. Vorrebbe fermarsi nella chiesa di un prete giesse, ma poi prosegue e va alla manifestazione. Corteo: braccia e piedi. Liceo Parini di Milano e attacco dei poliziotti. Manifestazione bella seguita in bici. Un poliziotto dall’aria spaventata vicino alla Statale. Uno armato di pistola. Lui si butta dietro un’auto.  I discorsi che si fanno: reificazione, immaginazione al potere, vogliamo tutto. Il dovere di volantinare alla Brion Vega. Non ha voglia di entrare a fare le ripetizioni ai figli degli operai (174). Cosa vuol fare? Una rivista. Miriam la compagna di Lotta Continua che gli piace. Fine delle lezioni ai figli degli operai. Vacanze.

13.
Zia Rosaria che l’accompagna a scuola in prima elementare. [Prima lezione d’italiano agli immigrati a Baggio]. Su una ringhiera davanti alla scuola elementare da ragazzo. Il carretto del venditore di castagne. Le strisce pedonali: era obbligatorio passarci. L’edificio massiccio della scuola elementare. Cosa ci sarà dopo quei campi, fra le colline, al mare, da entusiasmarsi tanto? Descrizione di una folla: volti ossuti, etc. (181) [Hanoi]. Una festa ed esitazione a baciare una ragazza. Cosa c’è in alto e da lì cosa si vede: il bambino irakeno che picchia la scarpa sulla testa della statua di Saddam abbattuta e trascinata per strada. Parla il bambino. I mitra degli americani e il gioco da ragazzi di mitragliare [Huè, Vietnam: il figlio di un vietnamita che ha combattuto gli americani]. Ancora il bimbo  irakeno che racconta. Un amico d’infanzia figlio di un amico del padre. Timido lui e sfacciato l’altro. A confronto. Con l’amico sul terrazzo gioca a fare il processo di Perry Mason. Il padre mai andato in villeggiatura. Perché lascia la moglie e i figli in vacanze? La carovana  per la pace a Sarajevo. Il pullman coi partecipanti e gli olandesi  che  scambiano un funerale per una festa di matrimonio. Volevo vedere la guerra. Guido Puletti ucciso mentre consegnava aiuti ai profughi.

14.
Reggio Emilia scuola media. La lavagna verde. Spia con il binocolo e viene rimproverato.  “Non voglio diventare grande” dice Leandro. La foto della madre di lui in bici. In bici con gli amici e il vecchio che sbraita perché un figlio o nipote è stato investito da una bicicletta ed è morto. I vecchi di Reggio Emilia col garofano rosso. Con le maestre a teatro a vedere  «Canto di Natale» di Dickens. Maria Rosa malata di cancro dove i suoi vanno a mangiare a Natale. Greta che sciava ha un cancro ed è andata da lui e Bianca  in vacanza al mare.  Vito, il siciliano venuto dalle Madonie e che da ragazzo è stato morso da un’asina, cura capre e galline. [Il silenzio della montagna]. Una folla che si è riunita e gente incerta se andare e non andare “là oltre i campi, oltre la collina” (203). Una signora che spinge un passeggino e ancora un bimbo che dorme e succhia il ciuccio.

[2] Abati in una recensione su  “il manifesto”: ««L’opera si dispiega su tre piani, distinti anche graficamente. Il corpo centrale è costituito dalla narrazione in terza persona di frammenti di un «lui»; accanto ad esso frequenti fuori-campo in corsivo, in prima persona, che la nota d’autore dice «tratti per la maggior parte da miei diari e scritti, in molti casi pubblicati in Qui»; sopra di essi insistono brevissimi inserti di una riga, talvolta allineati a destra, sovente ripetuti a distanza, in funzione esplicitamente metanarrativa.» (qui)

[3] Pag. 47: «Che cos’è il passato? Non lo so.»

[4] Pag. 92.

[5] Pag. 183.

[6] Pag. 188 ripreso a pag. 194.

[7] Pag. 174.

[8]  Pag. 174.

[9] Pag. 175.

[10] Pag. 175.

[11] Anche se trovo sintomatico che l’unico cenno  a Fortini, che di quei “destini generali” sessantotteschi resta un simbolo, anche a Parizzi ben noto, in «Io» compaia solo per un episodio davvero minimo: «Ma lui, anche se lavora al computer tutto il giorno, il cellulare ce l’ha, e anche la smart tv eccetera, si annoia. Di più, si irrita. E, dopo averlo ascoltato un po’, finisce col rispondergli con la domanda che un poeta, un intellettuale che una volta andava ogni tanto a trovare, aveva scritto a matita sul margine di una rivista degli anni Sessanta che gli aveva prestato, accanto a un articolo che parlava entusiasta di autostrade e utilitarie: “In che senso un albero sarebbe più vecchio di una macchina?” (pag. 46).

[12] Pag. 103.

[13] Pag. 192.

[14] Mi aveva colpito la riflessione del filosofo francese Simondon, che non conoscevo e mi è arrivata attraverso la mediazione dell’articolo di  Paolo Virno apparso in «Derive Approdi» ( pag. 54, n.21,  primavera 2002). Da lì ho  preso questo stralcio.  Chiarisce ciò che a me pare  mancare in «Io» di Parizzi,  ma anche a me che ancora tento di una rivista-noi  malgrado “la polis che non c’e’”.

Intermezzo natalizio 1974

di Elena Grammann

[ “Gli anni settanta si muovono, ondeggiano e fluttuano, si aprono dappertutto a tentativi di uscire dalla famiglia, l’esecrata famiglia” (Elvio Fachinelli, citato da E.A. qui). Si muovono ondeggiano e fluttuano, ma l’uscita dalla famiglia non è stata una passeggiata.]

 

“Sembra un treno del Far West” commentò il ragazzo giovane straniero salendo sulla littorina con i sedili di legno che faceva servizio locale.

La ragazza giovane autoctona provò a guardare il treno con occhi diversi per vedere se poteva avere la stessa impressione. Ma aveva visto poche cose straniere e soprattutto era troppo tesa per riuscirci. Però forse sì, forse i sedili a listelli di legno erano antiquati, ammise a se stessa con un sorriso forzato.

Il ragazzo straniero era, in un senso non ufficiale ma non per questo meno sostanziale, il suo fidanzato. Si erano conosciuti da qualche parte in Europa, si erano scritti quasi giornalmente per cinque o sei mesi ed ora eccolo qui. Per tutta l’interminabile mattina in cui lo aveva aspettato alla stazione aveva sperato che non arrivasse.

Se la ragazza fosse capace di riflettere sarebbe sicuramente meno tesa. Non si sentirebbe responsabile per i sedili di legno, per le occhiate della gente sul trenino locale, per l’incontro, fra poco, con i suoi genitori e per ogni singolo istante che scocca. Se la ragazza fosse capace di riflettere magari gli avrebbe scritto, semplicemente, di non venire. Avrebbe fatto una bella lista dei motivi che sconsigliavano di continuare quel rapporto: troppo complicato, troppo pieno di problemi, soprattutto troppo inconsistente (ma che ne sa lei, di consistenza e inconsistenza), e gli avrebbe detto addio. Per lettera.

Ma forse, a pensarci bene, non è che non sia capace di riflettere; anche questo, sì, in un certo senso; ma soprattutto non riesce a immaginare il futuro, non riesce a immaginare che il presente possa diventare irrilevante, possa modificarsi; è prigioniera del presente, lo prende terribilmente sul serio, ad ogni stimolo una reazione: immediata, definitiva; e, per il rispetto che si deve, eterna.

È debole e orribilmente ricattabile. Basta farle pesare un po’ di sofferenza, un po’ di amore, un debito minimo, che lei si sente subito in colpa; insisti un po’ e farà esattamente quello che vuoi; insisti un po’ e vedrai che la leghi ben stretta; poi, quando non ce la fa più e scalpita, tutti trovano che è volubile e egoista.

Il ragazzo straniero le ha scritto tutti i giorni per sei mesi. Nelle lettere le diceva quanto stava male e che non riusciva a respirare e il medico aveva detto che era psicosomatico. Le diceva anche tutto quello che stava facendo per iscriverla all’università, trovare un appartamento eccetera. Ora lui è qua e lei è orrendamente a disagio ma non può assolutamente ammetterlo perché non è la reazione corretta.

Poi è anche vero che lei è giovane, malleabile, sventata, pronta a cavare dal presente quel che si può. Pian piano il disagio si allenta, diventa sopportabile, anzi a tratti non lo avverte nemmeno più.

La vigilia di Natale vanno a fare un giro in città. La città è bella: scura, illuminata, luccicante. Dove sta lui di città così belle non ce ne sono. Lui la prende un po’ come se gli fosse dovuta.

Per uno che non riusciva a respirare si è rimesso piuttosto bene: è deciso, sa quello che vuole, si incazza se non lo ottiene. Ad esempio ha deciso che offrirà ai genitori di lei un cesto natalizio e cesto natalizio dev’essere. Lei non capisce nemmeno bene cos’è. Loro non si fanno manco i regali per Natale, figuriamoci i cesti. Però bisogna andare dal cestaio e fare il giro dei negozi di alimentari del centro e cercare esattamente quel che vuole e fare una cosa proprio come lui se la immagina. Lui si prende ridicolmente sul serio – forse perché è uno che fa le cose sul serio; lei lo sfotte un po’ per questo – forse perché lei in fondo non fa mai niente sul serio. In seguito lui la odierà per le sfottiture e lei lo odierà perché lui gliele farà pagare care. Per il momento però lui ha abbastanza buon gioco perché sa con precisione quello che vuole: vuole portarsela là nel suo paese. Lei invece non sa affatto quello che vuole, è completamente disorientata, la realtà è una matassa che non riesce a districare, è perfino incapace di trovare una via e un numero civico, figuriamoci le linee direttrici di un’esistenza. A dir la verità c’è una cosa che vuole assolutamente e sa di volere, ed è scrivere un romanzo; ma lo rimanda a più in là nella vita perché non ha idea di cosa metterci dentro.

Fra Natale e Capodanno fanno i soliti giri, questi succedanei striminziti del Grand Tour: Bologna, Firenze, Venezia. Andata e ritorno in giornata. Quando vanno a Bologna il treno è talmente stipato che fino a Modena viaggiano in una specie di vagone spedizioni dove c’è anche un maiale in gabbia. A Venezia vanno al consolato del paese straniero a far vidimare dei documenti che serviranno alla sua inscrizione all’università straniera. Lui ha preso in mano la situazione; lei lascia fare, stupita che queste cose si facciano realmente, che siano fatte, che accadano. Allo stesso tempo ognuno di questi passi la porta più vicina all’università straniera, senza che lei abbia detto veramente di sì. Anzi sul momento, la prima volta che la cosa era saltata fuori, le era parsa un’enormità.

Di nuovo la fa ridere perché la cosa che gli sta veramente a cuore, a Venezia, è mangiare in un ristorante tipico. Non corrisponde alla sua idea di cultura, che è austera. Però ammira la naturalezza con cui lui entra nei ristoranti, ordina, consuma e paga. Lei al ristorante ci è andata pochissimo, e mai con la famiglia; i camerieri le fanno soggezione, quasi quasi si alzerebbe in piedi quando arrivano; inoltre fino all’ultimo ha il terrore di non avere abbastanza soldi.

Lei ha già la patente, lui no. Vanno un po’ in giro con la vecchia millecento di suo padre, il pomeriggio o la sera. Si vede che lui è abituato in un mondo in cui i figli fanno abbastanza quello che gli pare e nessuno gli chiede conto, molto diverso da qui. Però lui si intende che le cose debbano andare come è abituato lui e di nuovo lei è grandemente a disagio e ci sono alcune scene spiacevoli fra lei e i suoi genitori.

Una volta – sono in macchina per un giro panoramico sulle colline – litigano di brutto. Lui insiste perché lei si trasferisca su da lui, si iscriva all’università là eccetera. Ha preparato tutto e non vede alcun problema. Lei dice chiaramente che è una roba da matti e che non se la sente. Lui la mette come se lei si fosse rimangiata la parola e le ingiunge di portarlo immediatamente alla stazione. Lei lo prega di non partire; striscia quasi, finché lui magnanimamente rinuncia alla rottura e alla partenza. Subito dopo lei se ne pente. Si chiede perché non ce lo ha portato alla stazione, visto che voleva partire. Non sa se lo ha fatto perché tiene a lui o perché ha paura della figura che farebbe; perché ormai si sente tenuta a un certo comportamento. Comunque sospetta che non sarebbe partito, sospetta che fosse tutta una finta.

Se la ragazza fosse un po’ meno ingenua, un po’ più abituata a riflettere, un po’ più consapevole di certi meccanismi neanche tanto nascosti, fiuterebbe il ricatto, si farebbe diffidente e remerebbe al largo finché ha una possibilità di manovra. Perché più tardi, quando è andata a finire che lei è su nel paese straniero e lui ha il coltello dalla parte del manico, allora le fa vedere i sorci verdi col suo sistema del ricatto.

Alla fine delle vacanze di Natale, subito dopo Capodanno, il ragazzo riparte. Sono praticamente d’accordo che lei lo seguirà qualche giorno dopo.

Lei prova a dirlo in famiglia, prova a chiederlo. Sua madre non prende nemmeno in considerazione la possibilità, suo padre invece le fa una scenata tremenda in sala da pranzo. Si vede che finalmente è sbottato, si vede che finalmente dice la sua dopo essersi dovuto sopportare la presenza di quel tizio che non si capiva bene cosa ci facesse lì; si vede che se fosse stato per lui non lo avrebbe certo tollerato; si vede che il tizio ha potuto soggiornare nella casa soltanto in virtù di una certa eccentricità della madre, di una sua visione un po’ barocca delle convenienze, di un suo mettere il cuore prima delle regole – sempre che le regole vengano poi rispettate, si capisce. Suo padre la investe con una violenza che esplode raramente in lui, che esplode in lui quando non ne può più, quando ha l’impressione che le cose vadano veramente oltre. Lei sta in un angolo e piange come una vite tagliata, piange e singhiozza orribilmente, orribilmente consapevole che suo padre ha ragione, consapevole che tutto il tempo lo ha offeso e lo sta offendendo, consapevole della propria abiezione e in qualche oscuro modo consapevole della necessità di questa abiezione. “Cosa vuoi da noi?” urla suo padre, “Ma cosa vuoi da noi?” urla ancora. Giusto, giustissimo, corretto, non può che essere d’accordo. Cosa vuole da loro? Hanno accolto in casa questo tizio che viene da lontano e si scopa la loro figlia, cosa che loro non sanno ma potrebbero benissimo immaginare; cosa vuole ancora da loro? Niente, corretto, non può volere niente.

Così un pomeriggio parte di nascosto – senza autorizzazione, senza benedizione, e ovviamente senza soldi.

Durante quelle vacanze di Natale una volta vanno al cinema. Non sa proprio cosa ci siano andati a fare, dal momento che lui non sa la lingua e quindi non capisce niente. E infatti a metà film si stufa e vuole uscire, vuole che se ne vadano. A lei dispiace un po’ perché il film le piaceva, ma se lui vuole andare bisogna andare, non c’è niente da fare. Vanno in un locale in cui lei non è mai stata perché non va mai in città di sera. Effettivamente, nell’arretratezza generale della provincia bisogna dire che lei è particolarmente arretrata. Sono seduti uno di fianco all’altra su divanetti bassi e bevono qualcosa e lui dice c’è una cosa che mi piace moltissimo di te e sfiora col dito lo zigomo o meglio una specie di gonfiore dolce fra la palpebra e lo zigomo. Più avanti lei si guarda qualche volta nello specchio, di profilo, ed è vero, c’è questo gonfiore così dolce e lei prima non lo sapeva.

Le racconta che, da ragazzino, si era messo in testa che voleva sposare una giapponese. Lei crede che sia per questo che le piace: per la follia ragionata, pianificatrice; per il senso del possesso: ancora adesso non può che provare ammirazione per il modo in cui, mezza giornata dopo averla conosciuta, dichiara a quelli del suo gruppo che da questo momento lei viene con lui.

In un suo modo egoistico (ce n’è un altro?) lui l’ha amata e continuerà ad amarla sinceramente, profondamente. Ma cosa vuol dire? Soltanto che ha bisogno di lei, non vuol dire altro.

Quando nel paese straniero lei faticosamente si metterà sulle sue gambe, e sarà indipendente, e non sarà più ricattabile, quando sarà stufa di vedere i sorci verdi e finalmente lo pianterà, lui soffrirà moltissimo.

Il dolceforte dei sogni

di Lucia Bruni

Le stanze del collegio sono grandi e fredde, cara mamma. Da quando ci hai lasciati così all’improvviso, la nostra esistenza ha preso una piega triste e penosa.

Ricordo i tuoi ultimi giorni; lo sguardo spento e assente, il respiro affannoso,  la testa abbandonata sul guanciale e quei tuoi ricciolini castani, così belli quando erano mossi  dal vento, bagnati di sudore per la febbre che non ti lasciava mai. Il babbo non diceva nulla; aspettava, perché sapeva che per te non c’era più nulla da fare. L’infezione si stava portando via la tua giovane vita. Continua la lettura di Il dolceforte dei sogni

La Provvidenza

di Franco Casati

   Maria sarebbe stata contenta del ruolo di casalinga, diversamente da quello che è il luogo comune: del precedente lavoro aveva avuto abbastanza esperienza, anni di vita trascorsi a fare l’impiegata, chiusa in un ufficio con una sola finestra che si affacciava contro il muro scalcinato di una vecchia casa in demolizione, praticamente sottoposta ai voleri capricciosi di un datore di lavoro, strampalato e imprevedibile, spiando la luce del giorno che scemava contro quel vecchio muro sbrecciato, dove il cotto dei mattoni in vista si accendeva per alcune ore e si spegneva inesorabilmente prima che lei potesse ritrovare la libertà della strada. Continua la lettura di La Provvidenza

Tre prose da “Fughe”

 

di Velio Abati

 

Invito

Le prose qui raccolte lambiscono la gestazione del romanzo Domani e si dispiegano nel  secondo decennio, concluso dallo squarcio di verità di una sconosciuta frattaglia di men che vita. Con soffio leggerissimo ha traversato ogni confine biologico, nonché umano, a rammentare soprattutto a noi della parte di mondo che conta, i civili padroni, l’ordine delle cose, che nessuno può disfarsi della propria ombra, che la notte, mentre il giorno ancora affatica il sonno, alta nel cielo canta l’allodola.

Se scritti morali si uniscono ad altri narrativi fino a includere passi in versi che incrociano Questa notte, non è per sprezzo dei generi, perché anzi riconoscono il valore risignificante e la forza interdittiva di cui storicamente ciascuno si è incarnato, ma a imporlo è stato proprio il medesimo amore di verità.

Allo stesso modo, alla dispersione pulviscolare degli eventi dell’esistenza da cui le prose muovono, tenta di contrapporsi la spinta a un orizzonte di senso che genera sull’insieme effetti d’eco.

Giudicherà chi legge, se all’intento corrisponde il risultato, o se l’oscurità dei tempi ha meglio messo a nudo la mia debolezza.

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“C’era una volta un Re….”

di Rita Simonitto

Dopo ” Jamaica Rum” (qui) e “Straocio” (qui) questo è il terzo racconto del trittico che Rita Simonitto ha dedicato ai “disagi socio/familiari che si riflettono sui giovani”. [E. A.]

C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia.

La serva incominciò: “C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia…”

“La serva incominciò: “C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia…”.

Chi non ha mai sentito questa filastrocca da bambino! Pur sapendo che si sarebbe ripetuta all’infinito, pur tuttavia si continuava a stare lì, nell’attesa che forse qualche cosa sarebbe cambiato…

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Padri e figli: alla Pirelli di Figline Valdarno  

Due generazioni di operai a confronto sul lavoro 

Angelo Australi

Da molto avevo in mente di scrivere per Poliscritture qualcosa sul periodico culturale che tra il 1988 ed il 1990 ho ideato e diretto al mio paese. MICROmacro, questo il nome della testata che per oltre due anni, con i suoi dodici numeri (era un bimestrale), ha incoraggiato la ricerca di un’identità del territorio nel confronto con la città e i suoi centri di produzione. Continua la lettura di Padri e figli: alla Pirelli di Figline Valdarno